ITALIA – Lamponi a Natale

Da tre anni i missionari della Consolata operano nella parrocchia di Platì (Reggio Calabria), paese alla ribalta di cronache giudiziarie e imprese mafiose. La gente è stufa di essere segnata a dito
a causa di una minoranza criminale: la voglia
di riscatto matura insieme a piccole imprese che producono fragole e lamponi.

Era il 4 ottobre 2001, quando Enrico Redaelli e Luigi Manco, missionari della Consolata, presero ufficialmente possesso della parrocchia di Platì, provincia di Reggio Calabria, diocesi di Locri-Gerace, nel cuore dell’Aspromonte.

Con tanto bisogno di missionari nel sud del mondo, perché finire in uno sperduto paese della punta estrema dello stivale? La domanda è naturale e la risposta doverosa. L’ultimo Capitolo generale dell’Istituto (1999) aveva lanciato un’urgenza profetica: «È giunta l’ora della missione ad gentes anche in Europa».

L’anno seguente, nella Conferenza regionale, i missionari della Consolata in Italia hanno accolto l’appello: fatte le dovute ricerche, la scelta del nuovo campo missionario è caduta sulla Locride, diocesi con forti sfide pastorali a livello ecclesiale e socio-ambientale.
Così i due missionari sono approdati a Platì e, data la scarsità di clero, servono altre due piccole parrocchie confinanti.

PAESE A «DUE PIANI»

Adagiato sul versante orientale dell’Aspromonte, Platì era un centro agricolo, commerciale e artigianale rinomato per creatività, laboriosità e ospitalità degli abitanti. Della grandezza passata rimangono solo le vestigia nei falegnami, veri maestri del legno, e nei foai, che foiscono il fragrante «pane di Platì» a una ventina di paesi della Locride.

Quarant’anni fa il paese contava oltre 7 mila persone; ora la popolazione è quasi dimezzata, nonostante vanti il più alto tasso di natalità in Italia. Molte case sono da anni in costruzione; altre sono chiuse e malandate: aprono i battenti una o due volte all’anno, quando i proprietari, emigrati in Nord Italia e in America, ritornano in paese per qualche giorno di vacanza.

Platì non ha una biblioteca, né campo di calcio, né cinema, né altro luogo di ritrovo. Chi può, manda i figli a studiare altrove. Gli insegnanti della scuola locale scappano appena suona la campanella; e perfino il sindaco, nativo di Platì: alle 13 chiude il municipio con imposte di ferro e si rifugia a Locri.

Gli stessi platiesi ammettono che, da qualche decennio a questa parte, il paese sta andando alla deriva. Platì è diventato tristemente famoso per alcuni episodi giudiziari, sequestri di persona, traffici illeciti, delitti di mafia e latitanti. Ma è inutile domandare chi sono i mafiosi. La gente sorride e risponde con un’altra domanda: «E chi lo sa? Noi vediamo solo padri di famiglia che si alzano all’alba e tornano al tramonto».
Ma non è tutta omertà. In realtà molte persone non sanno niente e non si accorgono di nulla. Tra queste ci sono spesso anche i familiari e le stesse mogli dei malavitosi. Il malaffare è gestito da una minoranza, composta da «manovali» e pochi «specialisti» che vivono nel paese, ma collegati con i vertici della malavita nazionale e internazionale.

Una pittoresca immagine lo definisce «paese a due piani», in senso metaforico e reale. L’11 dicembre 2001, l’arresto di un pregiudicato della ‘ndrangheta, da 11 anni latitante, soprannominato «l’imprendibile», ha portato alla scoperta di bunker sotterranei, collegati con alcune palazzine e le fogne del paese, dotati di marchingegni elettronici altamente sofisticati: porte scorrevoli, chiusure antiproiettile, scalette di granito, che scivolano senza il minimo fruscio, e camere dotate di tutte le comodità.

VOGLIA DI RISCATTO

Una settantina di famiglie di Platì hanno un familiare in prigione o in latitanza. Madri e figli sono le prime vittime di tale situazione, sia perché devono portare da mangiare ai fuiùti (fuggitivi), sia, soprattutto, per le frequenti perquisizioni poliziesche: nel cuore della notte i militari sfondano la porta a calci, mettono a soq-quadro l’abitazione e la riempiono di terrore.
Quando un fuggiasco si consegna alla polizia, in famiglia c’è grande festa, perché finisce finalmente l’incubo di altre irruzioni delle forze dell’ordine.
Ma anche la gente del «piano superiore» è stufa di sentirsi segnata a dito per colpa di una minoranza sotterranea. «La maggioranza dei platiesi è gente normale e buona – afferma padre Emanuele Maggioni, parroco insieme a padre Enrico -. Alcuni mettono piede in chiesa in speciali circostanze, per onorare i morti, insieme ai rispettivi compari e comari; altri frequentano regolarmente, collaborano nelle attività comunitarie e si prodigano silenziosamente per aiutare malati, anziani, bisognosi».

A Platì c’è voglia di riscatto; ne è un segno la massiccia presenza della gente alla messa e fiaccolata del 15 dicembre del 2001, per manifestare solidarietà verso tante famiglie colpite dalla scomparsa dei loro congiunti: dal 1994 al novembre del 2001, ben 7 persone, dai 22 ai 40 anni, sono sparite nel nulla e non danno più notizie di sé.

All’omelia, mons. Giancarlo Bregantini, il vescovo di Locri-Gerace, ha letto i nomi degli scomparsi ed espresso il suo dolore verso i loro parenti, alcuni dei quali coraggiosamente presenti; poi ha raccomandato ai giovani il rispetto di sé e delle cose altrui, di studiare e formarsi una coscienza responsabile. Infine, alzando la voce perché arrivasse a chi di dovere, ha chiesto che, prima del ponte sullo Stretto, si provveda i centri dell’Aspromonte di strutture che li facciano uscire dall’isolamento e dal degrado.

Alla fine della messa, una giovane donna coraggiosa ha letto questo messaggio: «Popolo di Platì, svegliati; unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i nostri figli. Noi siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo; uniamoci per abolire questi misfatti. Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la testa con triste rassegnazione. Adesso è ora di far sentire la nostra voce. Un grido di pace, di perdono, contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il nostro paese per tutto quello che è successo nel passato e nel presente».

La manifestazione è proseguita con una fiaccolata per le vie di Platì, in cui hanno partecipato uno straordinario numero di giovani, sventolando uno striscione lungo 30 metri, con i colori dell’arcobaleno. La processione, frammista a preghiere, si è conclusa nel cortile della scuola, dove per la seconda volta sono stati letti i nomi degli scomparsi. Poi il vescovo ha invitato tutti a gridare: «Viva Platì! Coraggio Platì! Viva la pace!».
Erano presenti molti adulti, donne soprattutto, dal volto segnato dalla fatica. Illuminati dalle torce, i loro occhi esprimevano commozione, mista a rassegnazione, come se dicessero: «A Platì non cambia nulla!».

INSIEME SI PUÒ

A scuotere la Locride dal fatalismo è arrivato, 9 anni fa, il vescovo Giancarlo Bregantini, un trentino dalla tempra tenace e carismatica, visceralmente inculturato nei valori più nobili e forti dell’antichissima colonia della Magna Grecia.

«Appena entrato in diocesi – racconta padre Giancarlo, così si fa chiamare – ho capito che il dramma maggiore è la disoccupazione: un destino a cui i giovani sembravano condannati e che costituisce il pericolo maggiore per la Calabria; più ancora della mafia, perché è l’humus sul quale la mafia si alimenta».
Da qui è partita, nel 1995, l’idea di mettere in piedi un’impresa cornoperativa con alcuni coraggiosi. «Da piccolo facevo come tanti ragazzi trentini: portavo il latte al caseificio; la cooperazione per me è stata esperienza di vita» racconta il vescovo.

All’entusiasmo iniziale sono seguiti momenti di stanca. «Una cornoperativa non è solo un soggetto economico; è soprattutto un passaggio culturale, una crescita sociale che non si svolge naturalmente. Bisogna sedersi, studiare, capire, pensare, uscire, confrontarsi, guardare oltre l’Aspromonte» scrive padre Giancarlo nella lettera: «La terra e la gente, la speranza in cui credo». Il confronto è iniziato nel 1996: per una settimana alcuni giovani di Platì hanno visitato le cornoperative che fioriscono in Trentino; sono rimasti impressionati da quella di Sant’Orsola, in Val dei Mòcheni, da dove, fino a 20 anni fa, la gente migrava per sfuggire a una vita di stenti e povertà, come avviene ancora oggi in Calabria. Nella mente dei ragazzi una convinzione è penetrata come un chiodo: «Se qui era così, vuol dire che anche a Platì si può cambiare».
«Cambiare si può» è diventato lo slogan di Platì. «Ma per volare occorrono le ali» continua padre Giancarlo. Le hanno foite due tecnici della Sant’Orsola, che si sono recati nella Locride, ne hanno studiato clima e terreno, foendo vari suggerimenti: «Avete terra, acqua e sole: perché non producete i lamponi a natale? Sì, durante l’inverno. Noi penseremo a inserire i vostri prodotti nella nostra catena commerciale». Sembrava una presa in giro. Ma, dati alla mano, la cosa parve possibile: a Platì i lamponi non vengono ad agosto, ma a dicembre, quando il Trentino è sotto il gelo. «Adottammo un secondo slogan, rubato a don Gelmini, ma che calza a pennello al nostro cammino di solidarietà: Solo tu puoi farcela; ma non puoi farcela da solo» continua la lettera del vescovo, sottolineando i legami di collaborazione tra trentini e calabresi.

Iniziata con 2 mila metri quadri di terreno, dopo cinque anni la cornoperativa «Valle del Bonamico» ne contava 200 mila; ad essa fanno capo 15 aziende, che danno lavoro a oltre 200 persone, soprattutto donne in difficoltà, come vedove e mogli di detenuti, e producono mille quintali di lamponi. Questi vengono immessi nel circuito della cornoperativa trentina, per finire sulle tavole dei tedeschi. E a prezzi altissimi, senza alcuna concorrenza, perché Platì è l’unico posto in tutta l’Europa in cui tali frutti maturano d’inverno.

Intanto la cornoperativa cresce: altri contadini chiedono di entrarvi; migliaia di lamponi, piantati in agosto, daranno frutti già a dicembre; la produzione si diversifica, estendendosi all’ortocultura biologica. In alcune zone sono stati piantati i ciliegi e sotto le serre di Platì stanno maturando una ventina di varietà di fragole, per studiare il tipo e le caratteristiche giuste per una nuova produzione.

LAMPONI… ANTIMAFIA

Al di là del significato economico, afferma padre Giancarlo, con la cornoperativa «sparisce il perbenismo e inizia a sgretolarsi l’invidia che, come annotava il grande scrittore calabrese Corrado Alvaro, “è il peccato mortale dei poveri”; si sono affrontati e superati tantissimi ostacoli, come la chiusura culturale e la diffidenza nell’uscire. Non è stato facile inviare al nord ragazze e spose, per apprendere il modo giusto di raccogliere i frutti…

La malavita finora ha osservato da lontano, ma potrebbe sempre infiltrarsi sottilmente. Queste e le mille difficoltà che ogni cornoperativa deve affrontare, ma che nella Locride si fanno cento volte più gravi, rendono quei frutti cento volte più saporiti».

«Il vescovo ci ha presi per mano e ci ha condotti fin qui – afferma Pasquale, uno dei primi protagonisti della cornoperativa -. Ci ha aiutati, lui così concreto, anche a minimizzare certi fatti, come quelli del giugno 2001, quando sono arrivate le minacce e poi la distruzione di 2 mila piante di lamponi, subito sostituite con quelle di pomidori. Forse alcuni balordi ben organizzati volevano che assumessimo determinati operai invece di altri». La Bonamico è diventata una scuola di maturazione sociale, dove s’impara il senso di solidarietà, reciprocità, partecipazione e responsabilità: ognuno deve dare il proprio contributo per migliorare le cose e la società. Insieme ai lamponi matura una nuova cultura, arma pacifica per combattere la mafia.
«La forza dello Spirito – conclude la lettera del vescovo – spinge sempre oltre; spinge a cambiare, distruggendo le barriere di una schiavitù culturale che obbedisce al “destino”. Nel vedere quelle serre, distese al sole d’inverno, ai piedi della suggestiva Pietra Cappa, nel misterioso Aspromonte, sento vera l’intuizione del papa: è la speranza a cambiare il mondo!».

Benedetto Bellesi