INCHIESTA – Religioni strumento di pace

In un’epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una méta sempre più lontana e irraggiungibile.
Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico, fa pulizia etnica tra i palestinesi…
Ma Dio che c’entra con tutto ciò? E i sacri testi?
Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.
Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo… e non un fine.
Come trasformare l’odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell’individuo – il desiderio di comprendere qual è il posto dell’essere umano nell’universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all’inevitabilità della sofferenza e della perdita. (…) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una “corsa alla pace”, impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi – attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l’umanità; l’umanità non esiste per servire la religione» (1).
Con questo numero inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo: buddismo, ebraismo, cristianesimo, islam.

I SEGUACI DI SIDDHARTAI

I concetti di nonviolenza e pace sono profondamente radicati nella storia
del buddismo. Fin dal suo nascere esso
si è posto l’obiettivo dell’autoriforma interiore, un cambiamento che però coinvolge
pienamente anche l’ambito sociale e politico.

In lingua pali, il termine pace si dice santi, in sanscrito, shanti. Con queste parole s’intende la «pace interiore» e la totale assenza di aggressività, di desiderio e della sofferenza che da esso viene generata: il nirvana. «Nel buddismo e in altre religioni dell’India l’accento principale è sugli aspetti individuali della pace, mentre si considera che le sue conseguenze in ambito sociale derivino solo dalla psicologia dell’individuo» (2). Odio, illusione e avidità sono alla base delle azioni malvagie, della violenza, delle guerre: gli unici rimedi che possano contrastare questi sentimenti distruttivi sono la benevolenza, la generosità e la saggezza.

Uno degli elementi fondanti la dottrina propagata da Shakyamuni è il principio delle «quattro nobili verità»: l’esistenza nel nostro mondo è segnata dalla sofferenza; la sofferenza è generata dai desideri; sradicando i desideri, l’essere umano può liberarsi dalla sofferenza e raggiungere una condizione di pace e illuminazione (nirvana); per arrivare a questo traguardo è necessario seguire una disciplina. Essa viene definita anche «ottuplice sentirnero», un insieme di regole morali che incoraggiano a seguire una «retta visione», un «retto pensiero», «rette parole», «rette azioni», un «retto modo di vivere», «retti sforzi», «retta concentrazione» e «retta meditazione». L’obiettivo di questa pratica è quello di «risvegliare l’individuo alla vera essenza della realtà e aiutarlo a liberarsi dall’ignoranza e dalla sofferenza».

Dunque, sviluppare pensieri, sentimenti positivi e benevolenti nei confronti di se stessi e dell’umanità – quella che si incontra tutti i giorni e quella lontana – rappresenta una delle pratiche della nonviolenza buddista.

«Nel primo di una serie di esercizi chiamati “stati mentali” (brahma vihara), la benevolenza è accompagnata dalla pratica della compassione (karuna, “simpatia” verso coloro che soffrono), dalla gioia (mudita, apprezzamento per la buona fortuna degli altri) e dall’equanimità (upekkha, mantenere l’imparzialità nei momenti di guadagno e di perdita).
L’approccio buddista verso la nonviolenza, quindi, si fonda su una sistematica “regolazione dell’atteggiamento”, dove gli stati d’animo negativi e reattivi come l’odio, la brama e l’illusione vengono trasformati in orientamenti sociali positivi attraverso l’autoesercizio della meditazione» (3). Importantissima è la virtù, o la pratica, della compassione: «Il Buddha indicò nella “Via di mezzo” il cammino da seguire: non una vita dedita al piacere, ma neanche alla privazione (Via di mezzo significa anche eliminare ogni forma di dualità, ndr). (…) L’egoismo impedisce una visione chiara della vita: esso va sconfitto con la saggezza, la pratica e facendo scaturire la “compassione”.
Nell’Upasakasila-sutra si legge: “Se tu vedi esseri umani in disarmonia cerca di creare armonia. Parla dei pregi altrui e mai dei difetti. Coltiva buoni propositi anche verso il tuo nemico. Attieniti alla compassione e considera tutte le creature come se fossero i tuoi genitori”» (4).

Fondamentale, nella dottrina buddista, è il concetto di karma («azione compiuta» (5), legge morale di causa-effetto), che è stata mutuata dal pensiero induista da cui il buddismo si sviluppò, e del samsara, il ciclo di reincarnazione che interessa esseri umani, animali, divinità e demoni. «Secondo questo principio (del karma, ndr) tutte le azioni morali compiute da una persona, sia buone sia cattive, producono nella sua vita determinati effetti che non si manifestano necessariamente nell’immediato ma possono richiedere un certo lasso di tempo. Secondo la visione indiana, gli esseri viventi passano attraverso un ciclo infinito di nascite e morti e gli effetti negativi di un’azione malvagia compiuta in una vita possono essere differiti a un’esistenza successiva, ma inevitabilmente si manifesteranno, prima o poi. Ne segue che solo sforzandosi di compiere azioni positive nell’esistenza presente si possono evitare sofferenze ancora maggiori nelle vite future» (6). Ricompensa e punizione sono dunque individuali, ogni persona riceve come mercede ciò che ha seminato. E questo dovrebbe rappresentare un deterrente nei confronti di comportamenti malvagi o scorretti e un incoraggiamento verso quelli eticamente e moralmente corretti.

Ma non ci sono solo il karma e il samsara a guidare verso la nonviolenza. Importante è anche il concetto di «origine dipendente», l’interdipendenza, cioè, di tutte le azioni e di tutti gli esseri viventi nel ciclo di nascita e morte, e la relazione causale tra ignoranza e sofferenza. La natura dei fenomeni, delle cose che permeano l’universo, si basa sui legami causali che li uniscono tra loro. Come a dire, nulla è per caso e a se stante. Questo significa che l’universo intero è permeato da una ricchezza, da un potenziale immenso, in continuo sviluppo e mutamento e pronto a manifestarsi. In questo sta l’intuizione illuminante del Buddha Shakyamuni (7). E la metafora della rete di Indra – una trama di giornielli dove le facce di ciascuno rispecchiano quelle di tutti gli altri – ben esprime il concetto dell’interdipendenza tra tutti gli esseri viventi.
Tutto ciò non rappresenta solo il tessuto di una concezione teorica «psico-cosmica» ma ha profonde conseguenze etico-morali sulle relazioni tra gli esseri umani e tra questi e l’ambiente. Implica rispetto, assoluto, di ogni espressione di vita, pena una pesante retribuzione karmica.

Ulteriori insegnamenti di pace e nonviolenza si svilupparono insieme alla corrente mahayana (si veda il box), dove un ruolo fondamentale viene rappresentato dalle figure dei bodhisattva (sattva, essere, bodhi, buddità). «Nel buddismo delle prime generazioni scopo fondamentale della pratica religiosa era raggiungere lo stato di arhat (“essere perfetto”), ovvero colui che “non ha più nulla da apprendere” ed è libero dal ciclo delle rinascite negli stati inferiori dell’esistenza. Ma anche per raggiungere questa condizione si riteneva che occorresse un impegno instancabile per molte esistenze. Il buddismo mahayana, invece, indirizzò immediatamente i suoi seguaci, uomini e donne, verso il supremo stadio di illuminazione, lo stato di buddità. In questo processo di crescita spirituale sarebbero stati di grande aiuto i cosiddetti bodhisattva, esseri dotati di immensa compassione che, oltre a coltivare la propria illuminazione, si sforzavano di aiutare gli altri a fare lo stesso. (…) Nei testi mahayana, come il Sutra del Loto, i bodhisattva sono rappresentati in numero illimitato, capaci di vedere e di aver cura di ognuno, sempre pronti a soccorrere senza esitazione coloro che si appellano a loro con fede sincera» (8).

Santi buddisti o saggi, i bodhisattva hanno in comune una determinazione che è anche una solenne promessa: aspettare di entrare nel nirvana (9) e rimanere nel samsara il tempo di salvare gli esseri umani dal male e portarli verso l’illuminazione.
«Questo è il mio pensiero costante. Come posso fare in modo che tutti gli esseri viventi possano conquistare l’accesso alla più alta Via e raggiungere rapidamente la buddità», questa è la preoccupazione fondamentale, di cui si fa cenno nel capitolo juryo del Sutra del Loto, del Buddha e di tutti coloro che a questo stato di illuminazione vogliono accedere. Questo Sutra (saddharma-pundarika-sutra, in sanscrito) è considerato da molti studiosi il testo sacro più importante della corrente mahayana. Esso contiene una raccolta di metafore e di racconti o eventi che fanno riferimento ad un mondo di dimensioni amplissime, che rispecchia, in un certo senso, la cosmologia indiana tradizionale. Si pensava infatti che tale mondo fosse formato da quattro continenti collocati attorno ad una montagna mastodontica, il monte Sumero. Oltre al nostro ce ne sarebbero molti altri, abitati da Buddha. Peculiarità di quello abitato dalle creature viventi «comuni» è l’esistenza di sei regni: inferno, avidità e desiderio incessante, animalità, violenza o dominio sugli altri (i cosiddetti cattivi sentirneri); umanità, divinità o estasi. A questi ultimi il buddismo mahayana aggiunge i «nobili mondi», rappresentanti l’esistenza illuminata: quello popolato dagli «ascoltatori della voce» o studiosi delle dottrine del buddismo; i «pratyekabuddha», coloro, cioè, «che raggiungono l’illuminazione da soli» e che hanno compreso la verità fondamentale della vita ma che non si preoccupano di insegnarla agli altri. Il nono mondo, o stato, è quello dei bodhisattva, caratterizzato dalla compassione verso tutti gli esseri viventi: l’individuo si dedica alla felicità altrui scegliendo di seguire la via della perfezione, e dunque l’ingresso nella buddità, attraverso lo sforzo di liberare le persone dalla sofferenza.

L’ultimo stadio è quello della buddità: saggezza, compassione, perfetto io eterno e totale purezza di vita ne sono le caratteristiche. Esso rappresenta una condizione ideale a cui tutti gli esseri, attraverso la pratica buddista, possono mirare di accedere, poiché fa parte del loro infinito potenziale. Ecco dunque la grande rivoluzione del buddismo mahayana contenuta nel Sutra del Loto (10): tutti possiedono intrinsecamente la natura di buddità e dunque possono raggiungere l’illuminazione; il Buddha non vive in un luogo particolare e non ha una natura soprannaturale; la vita, nella sua essenza più profonda, esiste incessantemente attraverso passato, presente e futuro; non esistono categorie di esseri viventi che non possono raggiungere la buddità, neanche le persone più malvagie. Bellissimo è, al riguardo, il capitolo «Devadatta»: qui si comprende che, come il cattivo Devadatta, reo di crimini terribili, o la giovane figlia del re dei naga, ovvero i draghi, anche le persone più cattive possono ambire alla salvezza, e che bene e male non sono due eterni opposti la cui sopravvivenza dell’uno escluda quella dell’altro, ma due facce della stessa medaglia – luce e tenebre -, continuamente in lotta fra di loro.

Attraverso le sue dottrine rivoluzionarie, il Sutra del Loto ci rivela che l’illuminazione travalica le distinzioni di sesso, specie, spazio, tempo e i limiti posti dalla mente umana, e con la sua promessa di liberare tutte le persone, soprattutto quelle collocate al fondo della scala sociale, anticipa, in un certo senso, l’odiea concezione dei diritti umani.

(prima parte, continua)

Angela Lano