CARI LETTORI

Come riconoscere il confine tra informazione e propaganda? Gli Stati Uniti di George W. Bush sono gli stessi dello sbarco in Normandia? L’Urss contribuì alla liberazione dal nazismo?

Stimato direttore, ho letto con cura le lettere (1) che le sono arrivate, alcune delle quali duramente critiche – uso un eufemismo, perché in qualche caso le definirei insultanti – nei miei confronti. Chi espone in pubblico le proprie opinioni si espone alla critica, ed è normale che sia così. Non c’è, in questo, alcuno scandalo. Ciò che mi fa pensare è il tono aggressivo, l’insofferenza nei confronti delle posizioni altrui, che alcune delle lettere manifestano. E devo dire subito che trovo sconcertante il tono «molto militante» e assai poco evangelico di alcuni che, come il signor Luigi Fressoia, da Perugia, sono molto contenti che «nel mondo c’è qualcuno che le suona ben bene ai fanatici dell’islam».
Immagino che il signore in questione abbia già fatto i conti con la propria coscienza, incluso quanto concee le affermazioni calunniose nei miei riguardi, in base alle quali io sarei «in cima alla lista Mitrokhin». Il signore in questione non sa neppure, evidentemente, cos’è la lista Mitrokhin. Nella quale, comunque io non sono presente, né in cima, né a metà, né in fondo. Resta da chiedersi chi siano coloro (giornali, riviste, canali televisivi) che informano così male il signor Fressoia. E, infine, cosa c’entra la lista Mitrokhin con quello che io ho scritto?

L’altra cosa che, a quanto pare, ha molto indignato, è la mia semplice constatazione che a vincere il nazismo è stata una «coalizione» di cui fecero parte Francia, Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti. Ma poiché la propaganda corrente ha stabilito un’identità tra sconfitta del nazismo e apporto degli Stati Uniti, ecco che una semplice constatazione storica appare alle vittime della propaganda come una bestemmia. Ho aggiunto che l’Unione Sovietica rovesciò le sorti del conflitto a Stalingrado, dopo avere sopportato, da sola, l’urto più potente delle divisioni naziste e quando la Francia era già stata occupata, mentre Churchill era sotto i bombardamenti della Luftwaffe.

Chiunque abbia letto una qualunque pagina di storia in materia lo dovrebbe sapere. Ma la propaganda pro-americana è diventata così ossessiva da far dimenticare perfino le ovvietà. Si possono definire «baggianate» queste constatazioni, ma la storia, volendo, la si può ancora studiare. Del resto io non ho scritto, e non penso, che l’Unione Sovietica ci ha portato la libertà. Non credo infatti che fosse questo il disegno di Stalin. Ma non credo che fosse nemmeno il disegno di Roosevelt.

Trovo inoltre un po’ strano negare l’evidenza del contributo dato dai sovietici, che sono morti a milioni, per difendere la loro terra (e che, indirettamente, hanno difeso anche la nostra) e la nostra libertà. Se Hitler avesse sconfitto l’Urss, lo sbarco in Normandia sarebbe stato semplicemente impossibile perché tutte le divisioni naziste, invece che essere schierate nel centro Europa, per fronteggiare l’offensiva sovietica, sarebbero state sulle rive della Manica, intatte e vittoriose.

Capisco che la propaganda abbia offuscato la realtà, ma non tutto si può occultare. Io credo sia molto ingenuo pensare che Roosevelt sia venuto in guerra per portare la libertà. Quando si motiva un’azione politica si cerca sempre una ragione nobile. Ma si sa che la maggioranza degli americani era contro l’intervento in Europa, e Roosevelt agì contro la maggioranza. E agì perché comprese che la vittoria del nazismo sarebbe stata molto pericolosa per gli Stati Uniti. E comprese che, al contrario, una vittoria degli Stati Uniti avrebbe consentito di impiegare immensi capitali e il loro potenziale economico nella ricostruzione dell’Europa. Infine tutti sanno che l’intervento americano fu fatto anche perché l’Urss faceva molta paura e occorreva impedirle di conquistare l’intera Europa. Negli Stati Uniti c’erano circoli influenti, all’epoca, che pensavano che sarebbe stato opportuno continuare subito la guerra contro l’Urss, una volta sconfitto Hitler. Così la pensava anche Churchill.

Il fatto che gli Stati Uniti vennero in Europa per conquistarsi una testa di ponte decisiva per difendere i loro interessi è infine dimostrato dal fatto (incontrovertibile) che lasciarono al potere, senza neppure sfiorarlo, il dittatore fascista della Spagna, Francisco Franco. Se la libertà fosse stato il motore delle loro azioni, si presume che avrebbero dovuto portarla dovunque. Invece si fermarono ai confini spagnoli e Franco divenne un loro grande amico. Una libertà, dunque, da interpretare a piacimento.

Per quanto concee gli «enormi aiuti» che Mosca avrebbe ricevuto dagli Stati Uniti, si tratta – questo sì! – di «baggianate», che non sono suffragate da nessun documento attendibile e sono invece smentite da tutta la documentazione disponibile. So bene che circolano, ogni volta, cifre sbalorditive, di aiuti americani alla Russia che avrebbero richiesto un ponte navale di dimensioni impressionanti. Ne hanno scritto sul Gioale, su Libero, e su altri fogli della destra, quel tipo di giornalisti che il papa ha duramente invitato a evitare di essere «agenti di propaganda e disinformazione» (2). Nulla di tutto questo è avvenuto: gli aiuti ci furono, ma furono molto marginali.

Dire infine che non si deve criticare gli Stati Uniti perché ci liberarono dal nazismo equivale ad affermare che gli Usa di oggi sono uguali a quelli di 50 anni fa. Io non lo penso. Io penso che gli stati mutano con il tempo e con gli uomini che li guidano. Gli Usa del 1945 erano altra cosa, e ben migliore, degli Usa di Bush.
Dire che un paese e un popolo rimangono identici sempre, in ogni circostanza, equivarrebbe a dire che l’Italia non potrà mai redimersi, per esempio, dalla colpa di essere stata fascista. Io penso invece che l’Italia di oggi sia ben migliore di quella delle leggi razziste e di quella del 1939.

Giulietto Chiesa




KENYA- Anche gli africani hanno il mal di denti


Questa è la storia dell’Apa, una piccola associazione di dentisti italiani, che, quando possono, fanno i volontari in Africa.

Il Kenya, uno degli stati più belli del continente nero, è spesso preso come immagine oleografica dell’Africa letteraria o turistica. A molti richiama alla memoria i romanzi di Hemingway o Karen Blixen, oppure le immagini viste nei documentari televisivi e nelle agenzie di viaggio: tribù quasi «primitive», grandiosi paesaggi naturali, savane e foreste abitate da animali feroci.
Anch’io, fino a qualche anno fa, così immaginavo il Kenya e quando, nel 1992, i missionari della Consolata mi invitarono a lavorare come dentista volontario nel loro Consolata Hospital di Nkubu, uno sperduto villaggio del Kenya equatoriale, non esitai a dare la mia disponibilità.
Gli immensi scenari erano un’attrattiva irresistibile e l’idea di offrire gratuitamente la mia professione a persone che avevano necessità di cure dentarie, ma impossibilità di ottenerle, mi appagava la coscienza. Certo non mi sarei mai immaginato di trovarmi immerso in una natura così fantastica, ma soprattutto di fronte a una miseria così diffusa e profonda, accettata dagli africani con stupefacente dignità.
In realtà, chiunque abbia visitato il Kenya, come del resto gran parte dell’Africa, al di fuori dei lussuosi villaggi turistici o lontano dalle classiche rotte turistiche, avrà constatato l’estrema povertà che colpisce la stragrande maggioranza della popolazione. Milioni e milioni di persone che vivono dimenticate nel loro tragico presente ed escluse da ogni benevolo futuro. Abitano villaggi sperduti, desolanti suburbi a ridosso delle grandi città o spaventose baraccopoli che non hanno nulla da offrire, se non povertà, fame, malattie.
Quando per la prima volta ho visto la miseria in cui versa l’Africa, i bambini affamati che cercano cibo fra i rifiuti delle discariche, la gente che muore come le mosche per l’Aids (700 al giorno solo in Kenya) o per malattie curabili (come la malaria o la tubercolosi), i giovani che non potranno mai imparare a leggere e scrivere per indisponibilità di mezzi e di scuole, la mia vita è un po’ cambiata e con i miei amici mi sono chiesto se noi non potevamo fare qualcosa.

POVERTÀ E INDIFFERENZA
Sì, la povertà, una parola scomoda, complessa nelle sue implicanze, che non definisce soltanto uno stato di indigenza materiale, ma una più tragica e vasta realtà che caratterizza gran parte della popolazione del nostro pianeta; in espansione anche nei paesi ricchi, ma nel Sud del mondo rappresenta un problema di vera e propria sopravvivenza.
Per quale ragione i media continuano ad ignorare la miseria africana che si consuma così nell’indifferenza generale? Perché la tragedia delle Torri gemelle di New York, ha riempito per mesi le pagine dei giornali e i programmi televisivi, ma nessuno parla mai dei 9.000 bambini (fonti Unicef) che ogni giorno in Africa muoiono per malattie da denutrizione? Forse esistono morti di serie A e morti di serie B? Forse bisogna produrre immagini shock, affinché i media parlino della piaga della fame?
Ormai mi sono reso conto che esistono almeno due modi di vedere l’Africa: il primo tristemente realistico; l’altro mediato dai sistemi informativi di massa che, quasi sempre per ragioni economico-politiche, dipingono il continente con toni erroneamente ottimistici. Ma poiché ho avuto la ventura di conoscere la prima Africa e la gente stupenda che la abita, con alcuni amici ho pensato che anche noi, nel nostro piccolo mondo di odontorniatri, potevamo fare qualcosa; senza pensare a progetti faraonici o a chissà quali grandi mete, ma così, in semplicità, e soprattutto senza quella fastidiosa ostentazione o senso di superiorità che caratterizza una parte del volontariato umanitario.
Perché interessarsi dei poveri dell’Africa, mi si chiede, quando sono tanti i poveri qui in Italia, alcuni dei quali provenienti proprio dal continente nero? È vero. Però da noi fortunatamente non si muore di fame e chiunque può accedere a un ospedale per farsi curare o può frequentare una scuola elementare per imparare a leggere e scrivere, a meno che non viva nella clandestinità.
È altresì vero che l’Africa è flagellata da malattie ben più gravi che non le malattie dentali, basti pensare alla lebbra, la malaria, la febbre gialla, la poliomielite e oggi l’Aids, la nuova malattia dei poveri che sta causando in questo continente la più devastante epidemia a memoria storica. Se però consideriamo che la patologia dentale è la più diffusa al mondo, in quanto ne colpisce il 95% della popolazione, viene da sé che il «mal di denti» è una pena aggiuntiva per persone già martoriate da fame, analfabetismo, siccità, penuria di mezzi, sfruttamento.

«AMICI PER L’AFRICA»
In questo contesto, nel 1999, dopo anni che già si lavorava in Kenya come dentisti volontari, noi colleghi medici, insieme ad amici di vecchia data, abbiamo pensato di fondare un gruppo di volontariato odontorniatrico, che abbiamo chiamato Apa.
Queste tre lettere sono l’acronimo di «Amici per l’Africa», ma «apa» è anche una parola che in lingua swahili significa «giuramento», una felice coincidenza suggeritaci da un missionario, che richiama un patto di amicizia tra noi e l’Africa. Un giuramento per un impegno di amicizia fra odontorniatri e professionisti del dentale, che ha l’ambizioso proposito di coniugare professione medica e volontariato, nel complesso mondo della povertà africana. Non un’associazione dalle idee grandiose (che poi magari non trovano realizzazione), bensì un gruppo agile e consolidato di colleghi e vecchi amici, ognuno con un proprio ruolo preciso, che non intende far l’elemosina agli africani, ma condividere tempo, mezzi, capacità professionali, con riguardo alle loro diversità e senza sensi di superiorità nei confronti di alcuno.
Mentre nel mondo occidentale vi è abbondanza di dentisti e di tutte le più sofisticate tecniche di cura, in quello che genericamente è ancora definito «Terzo mondo», il ridotto numero di professionisti, l’elevato costo delle apparecchiature e dei materiali odontorniatrici, rendono di fatto impossibile la cura dei denti alla maggioranza delle persone. Questo spiega perché la percentuale di dentisti ammonti, per esempio, a 1 su 1.000 abitanti in Italia, mentre in Kenya si riduca drasticamente a 1 su 200.000, in prevalenza concentrati nelle grandi città.
Oggi lavoriamo in 5 ambulatori, che sono ubicati alla periferia di Nairobi, a ridosso delle bidonville di Kahawa e di Embul Bul, e in zone rurali del Kenya centro-settentrionale (Nkubu, Sagana e Isiolo). Si trovano all’interno di strutture ospedaliere o di ambulatori missionari cattolici, e sono stati da noi allestiti ex novo, oppure erano già esistenti prima del nostro arrivo, ma di fatto non utilizzati per mancanza di operatori.
Il centro di Nkubu, dove iniziò la nostra attività nel lontano 1992, da cinque anni è stato ceduto all’ospedale missionario di sua pertinenza, il Consolata Hospital, sotto la direzione di un dentista keniano e di una suora del medesimo ospedale, che si è recata due anni nei nostri studi in Italia per acquisire le nozioni di odontorniatria di base, qual’è quella richiesta in quei luoghi. Non intendiamo infatti lavorare soltanto in prima persona, ma cerchiamo di istruire personale locale, che possa portare avanti l’attività anche in nostra assenza. Riteniamo infatti che l’africano a cui offriamo la nostra professionalità, debba essere motivato ad uscire dal circolo vizioso dell’aiuto fine a sé stesso, che gli addormenta la mente senza incentivarlo a migliorare, ma anzi lo rende dipendente dal donatore.
Daniele Comboni, fondatore dei missionari comboniani, più di un secolo fa, sosteneva che «bisogna aiutare l’Africa con gli africani».

PERCHÉ VOLONTARI?
Nel tragico scenario di povertà e sventure di questi popoli abbandonati, nell’ indifferenza del mondo, quale significato può avere il lavoro di noi dentisti volontari?
Più di una volta ce lo siamo chiesti. Ovviamente noi dell’Apa non ci siamo prefissati l’impossibile obiettivo di ribaltare la situazione; semplicemente non possiamo stare con le mani in mano ad assistere alla miseria di popoli e paesi, di cui abbiamo conosciuto l’inimmaginabile povertà e le continue privazioni.
Ciò non di meno, quando pensiamo alle migliaia di persone che abbiamo curato in tutti questi anni e a tutte quelle persone che beneficiano degli studi medici che abbiamo loro donato, oggi affidati a personale locale africano, allora diventa chiara la validità del nostro operato, dimostrata anche dalle parole e dai gesti di riconoscenza dei nostri pazienti.
Non sono incline alla retorica o all’esibizionismo e spero che nessuno di noi dell’Apa voglia ritenersi chissà quale campione della causa dei poveri o aspiri ad arrivare primo a una qualche fiera delle vanità, ma al di là del mio credo religioso, penso (e continuo a pensarlo da 11 anni, di là dalle mode e dai sentimentalismi passeggeri) che per quanto poco importanti, anche piccole e volontarie azioni solidaristiche di singole persone o di piccoli gruppi come il nostro, possano avere una loro utilità.
Forse serviranno più a noi che agli africani, ma non penso sia un gran male; forse serviranno per una gratificazione personale, ma anche questo ritengo sia umano e non mi dispiace che un’«umana debolezza» in questo frangente si rilevi utile e preziosa. Martin Luther King diceva: «Non mi fa paura la cattiveria dei malvagi, ma il silenzio degli onesti».
Come si racconta nelle pagine di Pole Pole, da questa nostra lunga e mai conclusa esperienza, noi se non altro impariamo quanto piccoli siano in verità i nostri problemi davanti a chi non ha cibo per cibarsi, acqua per gli usi quotidiani, farmaci e ospedali per curarsi, scuole per imparare a leggere e scrivere e non possa confidare sull’aiuto di nessuno. Persone tuttavia che accettano queste sventure con un’incredibile e toccante dignità, che lungi da un’inutile retorica, dovrebbe esserci di insegnamento.

Andrea Moiraghi




INDIA – Il vaccino di Sabin arriva a domicilio


In India, Pakistan, Afghanistan, Nigeria, Niger, Egitto e Somalia, la malattia è ancora endemica. Ma…

È partita all’inizio dell’anno una delle più grandi campagne di vaccinazione della storia: il nemico è il virus della poliomielite. Quest’anno il vasto territorio indiano, e soprattutto lo stato dell’Uttar Pradesh, epicentro dell’epidemia del 2002, verrà percorso in lungo e in largo da migliaia tra volontari e operatori sanitari che andranno porta a porta a trovare e vaccinare tutti i bambini con meno di cinque anni: ben 165 milioni.
Già nel mese di gennaio e di febbraio oltre 33 milioni di bimbi hanno inghiottito le famose goccine del vaccino orale, il Sabin (vedi box). Un’altra massiccia spedizione è partita ad aprile, per raggiungee altri 98 milioni in 10 stati indiani, un’altra a giugno e altre due sono previste per i mesi di settembre e ottobre. Sei giorni dunque, chiamati National Immunisation Days, giornate nazionali di immunizzazione, nel corso del 2003, in cui i genitori hanno la possibilità di portare i loro figli in luoghi predisposti per sottoporli alla vaccinazione, seguiti nelle settimane successive da visite a casa delle famiglie che non si sono presentate.
Saranno raggiunti villaggi sperduti e affollate periferie urbane, né verranno dimenticati aeroporti, ferrovie e stazioni di pullman. Altrettante giornate sono previste per il 2004, il tutto per interrompere la diffusione del temibile virus responsabile della malattia (vedi box).
Nei primi mesi di quest’anno anche in Iraq, sulla bocca di tutti purtroppo per ben altri motivi, è partita una campagna di vaccinazione contro la poliomielite, che ha coinvolto oltre 14.000 operatori sanitari impegnati nel raggiungere 4 milioni di piccoli iracheni. L’Iraq ha avuto il maggior numero di casi di malattia nel 1999, riportati a zero l’anno successivo grazie agli sforzi dell’Unicef e dell’Oms.

«POLIO FREE»?
Una imponente organizzazione di uomini e di mezzi era l’unica risposta possibile di fronte ai numeri sconcertanti che hanno segnato l’anno passato e messo in allarme tutte le strutture sanitarie di controllo a livello mondiale. L’India infatti, contrariamente al resto del mondo e soprattutto a realtà come l’Europa (dichiarata l’estate scorsa polio free, libera cioè dalla malattia), ha visto impennarsi il numero di casi sul suo territorio, passati da 268 nel 2001 a sei volte tanto nel 2002; ad aprile di quest’anno se ne contavano già 55. Ma pur coprendo oltre l’80 per cento dei nuovi casi di poliomielite nel mondo, ha al suo fianco altri sei paesi dove la malattia non è ancora sotto controllo: con l’India, Pakistan, Afghanistan e Nigeria coprono oltre il 95 per cento dei casi mondiali, ma i restanti si dividono tra Niger, Egitto e Somalia. Non è ancora il momento dunque di cantare vittoria, e l’esperienza indiana ne è la triste prova.
L’Uttar Pradesh, che conta una popolazione di 170 milioni di abitanti, rappresenta la zona cruciale, da cui l’epidemia di poliomielite si è diffusa alle altre parti del paese e a cui è stato attribuito circa il 65 per cento dei nuovi casi di poliomielite del 2002. In questo stato del nord dell’India nascono ogni mese 300.000 bambini, ma solo il 23 per cento veniva regolarmente vaccinato, per il gran numero di parti avvenuti a domicilio e quindi sfuggiti al controllo sanitario.

VACCINAZIONE DI MASSA
La sfida alla poliomielite, per relegarla a malattia del passato come è successo per il vaiolo dopo il 1979, è stata lanciata nel 1988 con la partenza della Global Polio Eradication Iniziative (Gpei). L’iniziativa procede grazie all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), al Rotary Inteational, all’Unicef e ai Centers for Disease Control statunitensi insieme con i ministri della salute degli stati membri dell’Oms, donazioni governative, fondazioni, Banca mondiale, Unione europea, donazioni private, altre agenzie delle Nazioni Unite e Organizzazioni non governative. L’obiettivo finale, da raggiungere entro il 2005, è la scomparsa della malattia, e quindi la protezione di tutti i bambini dalle conseguenze invalidanti e talora mortali dell’infezione (vedi box). Per meglio capire le dimensioni dell’intervento, basti pensare che nel 2001 circa 10 milioni di volontari hanno aiutato a vaccinare 575 milioni di bambini.
Rispetto alla partenza dell’iniziativa, nel 1988, i paesi dove la poliomielite è endemica sono passati da 125 a 7, come si è detto prima, mentre tre delle sei regioni dell’Oms (America, Europa e Pacifico occidentale) sono state certificate come libere dalla malattia.
È decisamente un buon risultato, ma non basta. Non è pensabile che nel 2002, con la disponibilità ormai da svariati anni di un vaccino efficace che ha permesso la scomparsa della poliomielite nella maggior parte del mondo, circa 1.900 persone siano state infettate, con il possibile corteo di disturbi permanenti: paralisi di gambe o braccia, atrofia di diversi muscoli e così via finanche alla morte. Sono ancora troppi i bambini vaccinati in modo incompleto (cioè con tre dosi o meno, quando ne sono necessarie quattro). La causa più importante di questo aumento di casi indiani registrato lo scorso anno è dunque da imputare a un fallimento delle politiche vaccinali, che non hanno portato a una vaccinazione completa della popolazione a rischio, primi fra tutti i più piccini, che non sono stati protetti in modo adeguato dal virus.
Ma la situazione non è semplice, soprattutto in Uttar Pradesh, e il gruppo di vaccinatori potrà incontrare diversi ostacoli sul suo cammino: non solo la dispersione dei bimbi indiani sul territorio, da cercare fin nei più piccoli villaggi o nelle grandi città, ma anche l’idea presente nelle comunità musulmane che il vaccino possa essere pericoloso per la salute dei loro piccoli, che possa renderli sterili o impotenti. Si era infatti diffuso il timore che il vaccino facesse parte di un piano del governo, di una sorta di programma di controllo delle nascite per limitare la popolazione musulmana in una nazione a maggioranza indù. Questo sembra aver portato ad avere in Uttar Pradesh ben il 60 per cento di nuovi casi di poliomielite proprio fra le comunità musulmane, nonostante rappresentino solo il 17 per cento della popolazione di questo stato indiano. Ma vi sono esempi positivi nel mondo che, pur di fronte a innegabili difficoltà, fanno ben sperare (vedi box).

IL DILEMMA
DEI LABORATORI
La Commissione Globale per la Certificazione dell’eradicazione della poliomielite (Global Commission for the Certification of the Eradication of Poliomyelitis) dichiarerà il mondo «polio free», libero dalla polio, quando non saranno registrati nuovi casi di malattia per almeno tre anni consecutivi in tutte le parti della Terra e quando i laboratori in possesso dell’agente infettivo responsabile della malattia avranno predisposto misure di protezione appropriate.
Allora il virus selvaggio (da tenere ben distinto da quello attenuato utilizzato per la preparazione del vaccino orale tipo Sabin), cioè capace di dare la poliomielite con tutto il suo terribile corteo di disturbi e menomazioni, dovrà essere presente solo in laboratorio. E seguirà, forse, la storia già percorsa e non ancora conclusa, anzi da poco tornata alla ribalta, dal virus del vaiolo, per il quale ci siamo tutti posti diversi interrogativi: siamo di fronte a un microrganismo da eliminare completamente dalla faccia della terra o da conservare almeno in laboratorio per un aspetto culturale, di conservazione di una forma di vita, o magari di sicurezza mondiale nel caso sia necessario nuovamente il vaccino. Non vi è certezza infatti su quali e quanti siano i laboratori che possiedono questi ceppi virali, e quindi in quali mani possano eventualmente cadere.

UN TUFFO NEL PASSATO

Benché già su una stele egizia vi fosse una testimonianza degli effetti dell’infezione poliomielitica, la prima descrizione clinica ufficiale della malattia risale al 1789, ad opera del medico britannico Michael Underwood. Dovranno però passare altri cinquant’anni prima che venga formulata una teoria sulla contagiosità del morbo, e quindi sulla sua trasmissione da una persona all’altra; addirittura un secolo perché negli Stati Uniti venga documentata la prima comparsa significativa di “paralisi infantile”, poi identificata come poliomielite.
Nel 1908 due medici austriaci ipotizzarono l’origine virale dell’infezione, ma bisognerà aspettare Jonas Salk, nel 1955, per avere il primo vaccino, utilizzando il virus della poliomielite ucciso, da somministrare con un’iniezione intramuscolare. Sei anni dopo Albert Sabin propose il vaccino orale in gocce, preparato con virus vivi attenuati, diventato rapidamente quello di scelta per i programmi nazionali di immunizzazione.
Va.Co.
LA VITTORIA È POSSIBILE

Una speranza di fronte a numeri che non vorremmo leggere e a situazioni che ci fanno scuotere la testa con una sensazione di impotenza c’è, e viene dalla Repubblica Democratica del Congo. È infatti lì che tutti coloro che si stanno impegnando nella battaglia contro la poliomielite in India (e negli altri sei Pesi in cui la malattia è ancora presente) possono guardare con fiducia. La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il prolungato stato di guerra che si spera concluso con l’accordo di pace firmato il 2 aprile di quest’anno, sta infatti percorrendo la strada verso la dichiarazione di paese libero dall’incubo della poliomielite; l’ultimo caso risale al 29 dicembre del 2000 ed è quindi passato da poco il secondo anno senza malattia.
Questa vittoria è importante perché ottenuta in uno stato che, seppur con difficoltà e povertà diverse dall’India, presenta certo più affinità di un qualsiasi paese occidentale. Non solo. La positiva esperienza percorsa per l’eradicazione della poliomielite viene adesso sfruttata per una nuova campagna di vaccinazione contro il morbillo, tuttora causa di decessi prevenibili col vaccino, sostenuta dall’Unicef e dall’Organizzazione mondiale della sanità, che sembra aver già raggiunto oltre tre milioni di bambini (che si stima rappresentino il 96% di quelli da proteggere).

NESSUNA TERAPIA, SOLO PREVENZIONE

La poliomielite è una malattia molto infettiva causata da un virus che invade il sistema nervoso. Viene trasmessa per via fecale-orale: il virus viene eliminato con le feci della persona infetta e può così infettare altri soggetti, soprattutto in condizioni di scarsa igiene e di sovraffollamento, certamente comuni in India. Può essere trasmessa anche per via respiratoria o dalla mamma al figlio subito dopo la nascita.
Non esistono terapie e gli effetti invalidanti della malattia sono irreversibili; è possibile soltanto prevenirla con la vaccinazione, che stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi specifici contro il virus che proteggono dall’infezione.
Il poliovirus attacca in particolare le cellule nervose che controllano il movimento dei muscoli. In un caso ogni 200-250 la malattia porta a una paralisi, più spesso alle gambe, con perdita della possibilità di movimento volontario. Quando vengono colpiti i muscoli che controllano la respirazione, l’infezione può causare la morte o costringere il paziente in un polmone d’acciaio per tutta la vita per poter respirare (condizione certo improbabile nei paesi in via di sviluppo).

Valeria Confalonieri



AMBIENTE Acqua delle mie brame

ACQUA DELLE MIE BRAME

Il problema della scarsità d’acqua
si sta rapidamente aggravando,
come dimostrano le sempre
più frequenti guerre per
l’«oro blu» (in Medio Oriente,
regione nilotica,
subcontinente indiano).
Intanto, in Italia il consumo
giornaliero medio pro capite
è di 213 litri e negli Stati Uniti
raggiunge la stratosferica
cifra di 600 litri. È questo
lo «stile di vita»
che vogliamo difendere?

SPRECHI INACCETTABILI

Nel 2000, i paesi afflitti da problemi idrici o da scarsità d’acqua erano 31; secondo le previsioni, entro il 2025 la cifra salirà a 48, compresi India e Cina. Anche se il problema della scarsità d’acqua riguarda tutti i paesi del mondo, i più pregiudicati sono quelli del Sud.
È il Kuwait, con i suoi 10 metri cubi pro capite, il fanalino di coda della classifica sulla disponibilità d’acqua, inserita nel rapporto dell’Unesco. Lo seguono la Striscia di Gaza (52 metri cubi) e gli Emirati Arabi (58 metri cubi). I paesi più ricchi d’acqua sono invece la Guyana Francese con oltre 800 mila metri cubi e l’Islanda (circa 60.000 metri cubi). L’Italia non è esente da questi problemi: a causa della cattiva gestione delle acque, al Sud il 18% della popolazione soffre di carenza idrica.
Si parla di grave crisi idrica quando la disponibilità di acqua pro capite è inferiore a 1.000 metri cubi di acqua all’anno. Al di sotto di tale quantità sono fortemente ostacolati la salute e il benessere economico del paese, mentre sotto i 500 metri cubi è la sopravvivenza stessa ad essere compromessa.
Di fronte a queste cifre, risultano contrastanti i dati sul consumo di acqua nei paesi del Nord: molte famiglie dei paesi ricchi arrivano a consumare oltre 2 mila litri al giorno di acqua di buona qualità (secondo l’Oms la quantità ottimale sarebbe di 150 litri al giorno).
In Italia il consumo giornaliero medio pro capite è di 213 litri, negli Stati Uniti è di 600 litri. Nella seconda metà del secolo scorso la domanda di acqua si è triplicata rispetto all’inizio del secolo, e si stima che, d’ora in poi, raddoppierà ogni vent’anni.
Il contrasto diventa inaccettabile se si analizzano gli sprechi d’acqua, enormi in tutto il mondo:
– il 40% dell’acqua usata per l’irrigazione si perde per evaporazione
– le perdite negli acquedotti oscillano in media fra il 30 ed il 50% (anche nei paesi sviluppati)
– una lavatrice standard consuma mediamente 140 litri a ciclo; lo sciacquone 10-20 litri alla volta; una lavastoviglie 60 litri.
È facile prevedere che l’aumento della popolazione mondiale determinerà un’ulteriore crescita della domanda di acqua, ma intanto è necessario essere consapevoli di chi oggi ne consuma eccessivamente.

POCA ACQUA, POCA SALUTE

La scarsità d’acqua si ripercuote direttamente sulla salute dei suoi abitanti: si stima che l’80% di tutte le malattie ed il 33% delle morti nei paesi del Sud del mondo siano legate alla mancanza d’acqua, alla sua cattiva qualità, all’assenza di impianti di depurazione.
Trentamila persone al giorno muoiono per:
– malattie trasmesse dall’acqua (tifo, colera, dissenteria, gastroenteriti, epatiti)
– infezioni della pelle e degli occhi
– parassitosi
– malattie dovute ad insetti vettori (ad es. mosche e zanzare)
– infezioni da mancanza di igiene.
Il paradosso tra Nord e Sud ritorna anche in tema sanitario: il convegno medico internazionale sulle malattie infiammatorie, tenutosi a Capri il 14 aprile 2003, mette in guardia contro i rischi di un’igiene e pulizia eccessiva (legata inevitabilmente a spreco di acqua potabile), responsabili della distruzione e dell’indebolimento di batteri che difendono l’intestino dalle infiammazioni.
Scarsità d’acqua significa inoltre diminuzione della produzione alimentare e quindi aumento della fame. In questa drammatica situazione, è evidente che troppi uomini si vedono negato il proprio diritto all’acqua, ossia alla vita stessa.

L’ACQUA,
DA DIRITTO A MERCE

Se la risorsa acqua è stata finora considerata un «diritto inalienabile» dell’umanità, al 2° Forum mondiale dell’acqua all’Aia ( 2000) il termine diritto è stato sostituito da «bisogno». Però, mentre «diritto» obbliga le istituzioni ad assicurare a tutti quel diritto fondamentale, «bisogno» attenua i toni e trasforma l’acqua in un bene economico, una merce come qualsiasi altra, sottoponibile a concorrenza, da quotare in borsa, da privatizzare.
Tre sono i principi fondatori della politica promossa dai fautori dell’economia di mercato applicata anche all’acqua: considerandola un bene economico, l’acqua può essere venduta, comprata, scambiata; essendo un bisogno, e non più diritto, gli uomini diventano consumatori/clienti di un bene/servizio da rendere accessibile secondo le logiche di mercato; deve essere trattata come una risorsa preziosa (l’oro blu), destinata ad essere sempre più rara e quindi anche strategicamente importante.
Da ciò conseguono la liberalizzazione, la deregolamentazione e la privatizzazione dei servizi idrici, e quindi la priorità all’investimento privato. Tuttavia, la privatizzazione dei servizi d’acqua non si è tradotta necessariamente e dappertutto in un miglioramento dei servizi o in una riduzione dei prezzi, né in una diminuzione della corruzione o nella creazione di un circolo virtuoso di investimenti.
Nella maggior parte dei casi e specialmente nei Paesi del Sud, i prezzi sono saliti alle stelle (basti pensare al caso di Cochabamba in Bolivia, di Manila nelle Filippine, di Santa Fé in Argentina…), la corruzione si è manifestata nelle concessioni ai privati, l’indebitamento dei paesi poveri è aumentato, il miglioramento dei servizi ha paradossalmente avvantaggiato i gruppi sociali più abbienti. La decisione in materia di gestione delle risorse idriche passa quindi dai soggetti pubblici ai privati: è la mercificazione della vita stessa (vedi Dichiarazione conclusiva del 1° Forum alternativo mondiale dell’acqua, Firenze 21-22 marzo 2003). Affinché l’acqua rimanga un bene comune dell’umanità, è nato un movimento internazionale d’opinione che opera per un «Contratto mondiale per l’acqua».
Uno dei prossimi boom economici sembra inoltre essere legato all’acqua in bottiglia: secondo uno studio preliminare commissionato dal Wwf, in tutto il mondo i consumatori pagano dalle 500 alle 1000 volte di più per una bottiglia d’acqua che, almeno nel 50% dei casi, ha le stesse caratteristiche dell’acqua di rubinetto, con solo un po’ di sali e minerali aggiunti. Intanto i fiumi, che dovrebbero rappresentare la fonte della maggior parte dell’acqua potabile, sono sempre più minacciati dall’inquinamento. Disinquinare le risorse di acqua pubblica, piuttosto che affidarsi ciecamente all’acqua imbottigliata, diminuirebbe invece l’entità di due problemi ambientali: il trasporto delle bottiglie e l’elevata produzione di rifiuti di plastica.

GUERRE E CATASTROFI

In alcuni paesi le tensioni politiche per l’accesso all’acqua potabile sono cresciute a livelli allarmanti. Secondo alcuni le «guerre per l’acqua» potrebbero essere alle porte, se non già sotto i nostri occhi; secondo altri rappresentano già la causa di oltre 50 conflitti nel mondo, tra i quali la stessa guerra contro l’Iraq.
La metà dei villaggi palestinesi non ha acqua corrente, mentre tutte le colonie israeliane ne sono provviste. In Brasile sono presenti l’11% delle risorse idriche dolci del pianeta, ma 45 milioni di brasiliani non hanno accesso all’acqua potabile. Entro il 2025 è previsto che le popolazioni delle 5 regioni considerate punti caldi del conflitto idrico (regione del Lago d’Aral, bacini del Gange, del Giordano, del Nilo, del Tigri-Eufrate) aumenteranno tra il 32% e il 71% (vedi box).
Secondo Vandana Shiva, le guerre dell’acqua non sono un’eventualità futura: ne siamo già circondati, anche se non sempre sono immediatamente riconoscibili come tali. Possono presentarsi come guerre tradizionali, oppure come conflitti fra culture, su come si percepisce e si vive l’esperienza dell’acqua. Conflitti tra la cultura della mercificazione e quella opposta del dare, ricevere acqua come dono gratuito. «Immaginate un miliardo di indiani che, abbandonata la pratica dell’offerta dell’acqua presso i piyao, ricorrono a quella in bottiglie di plastica per placare la sete. Quante montagne di rifiuti di plastica ne deriverebbero? Quanta acqua sarà distrutta dalla plastica buttata via?» (Vandana Shiva, Le guerre dell’acqua, 2003).
C’è ancora un ulteriore insospettabile aspetto legato al problema acqua. Come si è visto in MC marzo 2003, spesso catastrofi come alluvioni, cicloni o siccità sono tutt’altro che naturali. Al contrario, a causa dell’effetto serra ed al conseguente riscaldamento del pianeta, questi fenomeni estremi sono destinati ad aumentare.
La quantità totale dell’acqua rimane la stessa, ma i tempi impiegati a precipitare sottoforma di pioggia possono essere molto più rapidi che in passato, causando ad esempio fenomeni alluvionali devastanti. Ogni giorno, una quantità di acqua poco maggiore di quella contenuta nel Mar Caspio (il lago più grande del mondo) evapora dalla superficie del pianeta per ricadere sottoforma di pioggia, grandine e neve. Al contrario, fenomeni di siccità prolungata e di progressiva desertificazione potranno rendere sempre più critica la già grave situazione legata alla disponibilità di acqua.

E NOI, NEL NOSTRO PICCOLO?

Nonostante lo sforzo di distinguere le varie problematiche legate all’acqua nelle implicazioni ambientali, sociali ed economiche, è evidente come tutte le sfaccettature della questione siano strettamente legate fra loro e come non sia possibile cercare di risolvere un aspetto del problema tralasciandone gli altri.
Anche se a prima vista pare impensabile, anche in questo caso una parte importante della responsabilità ricade su tutti noi, singoli cittadini:
– dal punto di vista del nostro comportamento quotidiano
– come attenzione e senso critico che dovremmo manifestare nei confronti delle politiche perseguite dai governi e dagli organismi inteazionali
– dal punto di vista delle capacità e voglia di formarsi ed informare.
Capire allora che l’acqua può essere considerata rinnovabile soltanto:
– se il suo prelievo non è più veloce della formazione delle riserve d’acqua (ad esempio delle acque sotterranee) e
– se il livello di inquinamento dell’acqua restituita all’ambiente dopo il suo uso non ne pregiudichi il suo riutilizzo.
Noi beviamo la stessa acqua che bevevano gli antichi romani, i nostri pronipoti berranno la stessa acqua che beviamo noi. Come scrive Vandana Shiva: «Il ciclo dell’acqua ci connette tutti e dall’acqua possiamo imparare il cammino della pace e la via della libertà».

L’AFA, IL GOVERNO, I CITTADINI:
BENESSERE PRIVATO, MALESSERE PUBBLICO

Ma i consumi non dovevano «far girare l’economia»? Siamo stati tormentati per mesi con l’ormai (purtroppo) nota pubblicità televisiva che ci ricordava come i consumi facciano bene all’economia… e oggi, 26 giugno 2003, il ministro per le attività produttive Antonio Marzano in persona, alle 13.30 sul Tg1, ci implora di consumare meno energia, di risparmiare, di usare meno possibile i condizionatori, addirittura di spegnere anche la lucina rossa del televisore… Se il ministro ci parla in questo modo in prima notizia, se la notizia dura ben 9 minuti, se tutti i Tg la ripropongono, allora c’è da preoccuparsi: la situazione dev’essere proprio grave.
Ma andiamo con ordine. Nella puntata precedente abbiamo sottolineato come i consumi facciano girare non solo l’economia, ma facciano anche impazzire il clima. Nessuno scienziato negherà l’eccezionalità del mese di giugno 2003, dominato da un caldo rovente fuori da qualsiasi media stagionale: avvisaglie dell’effetto serra? Scatta comunque la corsa all’acquisto non solo di ventilatori, ma dei famigerati condizionatori d’aria: 400-1.000 euro in cambio del tanto desiderato fresco. Peccato che i condizionatori consumino molta energia elettrica, troppa… Chi si azzarda a criticarne l’uso smodato per motivi ambientali viene tacciato di petulanza, di «terrorismo» ambientale e via dicendo.
Le autorità dell’energia decidono di programmare, in tutto il territorio nazionale, dei blackout a macchia di leopardo, perché non c’è energia elettrica sufficiente per soddisfare tutte le richieste. E, quasi come una beffa, scatta il «caloroso» invito a diminuire i consumi: «Non prendete l’ascensore, non aprite il freezer, il traffico può andare in tilt…». Ma allora è vero che c’è un limite ai consumi, che i limiti sono imposti dalla natura e non dall’economia? Come si sentiranno i milioni di cittadini che pensavano di risolvere tutto con i soldi, e che invece si ritrovano un condizionatore nuovo di zecca senza (teoricamente) poterlo usare?
Il fatto tragico non è comunque questo: al contrario, la «necessità» di energia elettrica sarà il pretesto per la costruzione di nuove centrali elettriche, nuove dighe, nuove strutture che impatteranno il nostro già ferito territorio, che incentiveranno nuovamente i consumi, che di conseguenza incrementeranno il fenomeno dei cambiamenti climatici… in un circolo vizioso senza fine. Forse toerà la «necessità» di costruire le famigerate centrali atomiche: con il loro sfrenato consumismo, gli italiani rischiano di far tornare in auge il problema del nucleare che essi stessi avevano allontanato con il referendum del 1987. In questi casi, il paradosso è una costante: in caso di costruzione di nuove centrali, non mancheranno le manifestazioni di protesta della popolazione locale (che le centrali non le vuole sul proprio territorio) o quelle di soddisfazione di coloro che vogliono più energia per utilizzare i condizionatori (che «fanno girare l’economia»…). La stessa giornalista del Tg1 ci presenta l’invito a risparmiare energia, vestita in giacca nera, mentre fuori ci sono 38 gradi…
Come se non bastasse, un altro «invito» ci viene rivolto in questi giorni: risparmiare acqua. In molti comuni, non dell’Africa ma del ricco ed industrializzato Nord Italia, l’acqua viene razionalizzata e distribuita in container di plastica, a causa della siccità. Così, mentre la AEM di Torino propone con entusiasmo al cittadino «proiettato nel futuro» di cambiare il contratto di casa da 3KW
a 4,5 o addirittura a 6KW, in modo che possa utilizzare tutti gli elettrodomestici che desidera (in particolare il condizionatore), molti gestori di centrali elettriche sono costretti a chiudere gli impianti per mancanza di acqua.
Che cosa sta succedendo? Forse dovremmo fermarci un momento, sederci, iniziare a pensare, con calma, su cosa stiamo combinando.

Si.Ba.

Le guerre per l’«oro blu»

ISRAELE-GIORDANIA: Israele dipende, per i 2/3 dell’acqua che consuma, dai paesi confinanti con cui condivide il fiume Giordano (Giordania, Palestina, Siria). Nel 1994 è stato firmato un accordo tra Israele e Giordania, ma l’equilibrio è precario, essendo non lontana la penuria d’acqua.

ISRAELE-PALESTINA: durante il Forum Alteativo dell’acqua tenutosi a Firenze nel marzo 2003, un membro della delegazione palestinese in Italia, Belal Mustafa, ha denunciato che l’80% delle risorse idriche palestinesi viene usato da Israele, che ha un controllo pressoché totale delle acque del Giordano. «Per scavare nuovi pozzi c’è bisogno dell’autorizzazione dell’esercito israeliano… la maggior parte degli insediamenti dei coloni sono stati realizzati proprio in base alla presenza di falde acquifere nella zona… gli israeliani hanno a disposizione 260 litri di acqua al giorno pro-capite, mentre i palestinesi solo 70, meno degli 80 litri considerati dal processo di pace di Oslo il loro fabbisogno minimo» (da Rocca, 1 maggio 2003). Problema sottolineato anche da Jonathan Laronne, docente israeliano dell’università Ben Gurion di Tel Aviv, secondo il quale sarebbe necessaria ed indispensabile una gestione comune e pubblica della risorsa idrica per entrambi gli stati.

TURCHIA-SIRIA-IRAQ: le tensioni riguardano la Turchia da un lato e Siria e Iraq dall’altro. Sia il Tigri che l’Eufrate nascono in Turchia, attraversano per un breve tratto la Siria, per poi entrare in Iraq. Questi paesi, dato il clima molto arido, confidano sulle acque dei due fiumi, minacciati però dalla costruzione di 222 dighe, la cui conseguenza è la diminuzione del 35% dell’acqua entrante in Iraq. La Turchia sta inoltre provocando la distruzione di storia e cultura del popolo curdo, a causa delle evacuazioni e deportazioni per la creazione dei nuovi bacini.

IL FIUME NILO: questo fiume è fonte di tensioni per tutti i paesi che attraversa: Uganda e Tanzania, Sudan, Etiopia, Egitto. Questo paese è l’ultimo ad essee attraversato in ordine spaziale: il suo approvvigionamento idrico dipende, quindi, dagli stati a monte. Le tensioni più gravi sono tra Egitto ed Etiopia e tra Sudan e Uganda. Punto strategico è la città di Damazin, sede della diga che fornisce l’80% dell’acqua consumata dalla capitale del Sudan, contesa tra gli eserciti nemici.

IL FIUME GANGE: il Gange, uno dei più grandi fiumi del mondo, attraversa India, Nepal, Bangladesh. Nel 1975 l’India ha costruito una diga nei pressi di Farrakka, riducendo drasticamente l’apporto d’acqua al Bangladesh, e innescando una disputa non ancora risolta.

Si.Ba.

(rielaborato da: Civiltà dell’Acqua, www.provincia.venezia.it/cica; Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi, 1 maggio 2003)

Silvia Battaglia




I COLORI NON SONO NEUTRI

A volte anche parole e simboli diventano,
senza che ce ne rendiamo conto, «violenti».
Questione di abitudine, mentalità, cultura.
Così il razzismo è sempre in agguato…

I l «simbolo» non è un prodotto di natura, come l’acqua, l’aria, la luce, la pioggia che scende dal cielo… ma è un manufatto.
Un certo interesse, alquanto intellettuale, per un tema del genere, non dipende da motivi artistici o astratti: avendo dovuto insegnare in Mozambico per diversi anni ho voluto, usando tutto il tatto possibile per non ingenerare suscettibilità inutili, chiedere ai miei allievi che mi dessero il significato di alcuni vocaboli esistenti nelle loro lingue, tra cui anche quello di «simbolo». Avevo notato una certa perplessità nel rispondermi e mi ero convinto sempre più che probabilmente noi occidentali importiamo concetti che esulano dalla loro mentalità.
Il vocabolo «simbolo» (dal greco sun ballo) significa «mettere insieme» due elementi, di cui uno esistente in natura (come cosa) e l’altro con proprietà spirituali, dall’uomo e dalla sua capacità creativa. I simboli esistono perché esistono gli uomini, come il tempo. Forse i simboli sono il primo prodotto dell’uomo in quanto uomo.
Un giorno un africano scrisse una lettera ad un bianco (un bianco ipotetico) del seguente tenore:

Caro fratello bianco,
quando sono nato ero nero.
Quando sono cresciuto ero nero.
Quando mi metto al sole resto nero.
Quando muoio sarò sempre nero.

Ma tu, uomo bianco,
quando sei nato eri rosa.
Quando sei cresciuto eri bianco.
Quando vai al sole diventi marrone.
Quando sei arrabbiato di collera
diventi rosso.
Quando hai freddo diventi blu.
Quando hai paura diventi verde.
Quando sei ammalato diventi giallo.
Quando muori sei grigio.

E hai il coraggio di chiamare me
«uomo di colore»?

I colori sono simboli. Ma tra tutti, quello nero viene caricato generalmente di significati perversi e violenti.
LA NATURA DEI SIMBOLI
I simboli sono forme visibili di realtà invisibili. Ciò avviene quando un oggetto materiale si carica di valori o significati che vi mette l’uomo. Una bandiera, un mazzo di fiori, il canto della Marsigliese (è stata cantata anche nella rivoluzione russa del 1917!) o di alcune arie del Nabucco, l’uso magico del fuoco o dell’acqua (in tutte le culture)… vanno al di là della loro pura materialità.
Il simbolo è come un’impronta digitale ed è sempre allusivo. Tra i simboli, il più eccellente (e che non ha limiti nelle sue forme quasi infinite) è il dono. Tutto può essere trasformato in dono: un fiore di campo come una gemma preziosa; ma possiede sempre, oltre al valore dell’oggetto materiale, un plus valore di carattere spirituale, che aggiunge chi dona o chi riceve il dono.
Il simbolo è sempre un’uscita libera e concreta del nostro io verso altri. In genere i simboli, quelli veri, sono dei tentativi di perpetuare nel tempo qualcosa di noi. Come si fa con i testamenti e nei giuramenti di fedeltà. I simboli non sono delle forme algebriche, ma arabeschi e melodie. Non illuminano soltanto l’intelligenza, ma riscaldano il cuore.
È pure certo che l’uomo sente il bisogno di creare dei simboli. Perché tanta gente ha reso omaggio ad una donna di nome Diana? Il popolo non l’ha trasformato in un «mito», ma in simbolo: il che è diverso. Tutti noi siamo assetati e affamati di simboli.
Però c’è anche un risvolto negativo e pericoloso (come in tutte le cose belle) in questa necessità di creare e di servirci di simboli, specie quando quest’uso fosse inconscio. L’animo umano è generoso, specie nei «doni»; ma sovente è anche aggressivo e può servirsi dei simboli per ferire più ferocemente o, addirittura, uccidere: se non fisicamente, moralmente.
Viene in mente il romanzo di François Mauriac, Groviglio di vipere: il vecchio e ricco avvocato consuma la sua esistenza nell’odio contro tutti, compresi moglie e figli, e lo fa diseredando tutti, con un testamento feroce; osserva di nascosto i membri della famiglia in attesa del bottino, come si guarda una mosca alle prese con un ragno… Ma la moglie muore prima e così tutta la sua carica di vendetta sfuma.
Si pensi anche alla carica simbolica, non sempre positiva, che c’è nella nostra «domenica» cristiana, in confronto al «sabato» ebraico o al «venerdì» musulmano. Nel nostro mondo questi giorni sono legati anche alla pausa nel lavoro, quindi ci sono problemi finanziari e problemi sindacali, ma anche di carattere puramente simbolico. È solo con Costantino, infatti, quando la chiesa diventa istituzione di stato, che la «domenica» prevarica e si carica anche di violenza verso chi non è cristiano.
L SIMBOLO,
INESAURIBILE MINIERA

Si tratta di uno degli aspetti della creatività dell’uomo. Simboli sono anche le parole che ci escono dalla bocca: hanno una loro vita segreta e non esiste nulla che sia più soggetto alle bizzarrie della moda delle parole che sono nei nostri vocabolari. Come c’è accuratezza nella scelta dei vestiti, che possono anch’essi trasformarsi in simboli (presentarsi alla Camera dei deputati in jeans o vestiti da pagliacci!), così c’è accuratezza e varietà di sfumature nell’uso delle parole; ad esempio, storpiamo volutamente il nome di una persona.
Le parole possono scatenare una guerra sui nomi delle persone (ad esempio nelle etnie bantu, quasi tutta l’Africa subequatoriale, in India e altre località, i bambini ricevono tre nomi che hanno tutti un significato particolare). Con le parole si può giocare; le si può far camminare sul filo come se fossero dei funamboli, con sottintesi, analogie, paragoni, metafore. Per esempio, nelle lingue africane i nomi hanno i prefissi che indicano le categorie (o classi). C’è quindi la categoria degli animali, delle piante, ecc. L’uomo ha un certo prefisso: se per disprezzo a una persona, anziché mettergli il prefisso di uomo, gli si mette il prefisso di un animale, evidentemente gli si fa un’offesa profonda.
Nella nostra lingua italiana le parole «nero» e «negro» di per se non assumono un carattere dispregiativo, mentre negli Stati Uniti era in uso, e forse lo è ancora, in senso dispregiativo la parola nigger (in slang «niga»). Noi italiani, forse, faremmo bene a scrivere le parole negro, nero, afro-americano, africano, quando sono sostantivi, con l’iniziale maiuscola per eliminare nelle persone di razza nera ogni suscettibilità.
In pittura si potrebbe, ad esempio, citare il caso di Goya con le sue cosiddette «pitture nere»: in un momento triste della sua vita, ritiratosi in solitudine nella Quinta del sordo, dipinse le pareti di questa sua abitazione con immagini tragiche e ossessive, riflesse nella visione tetra della sua mente angosciata, per l’appunto pitture nere! Oppure nei dipinti di Van Gogh colori, immagini e vita fanno un tutt’uno.
C’è una carica simbolica nel velo. Nel medioevo il velo era considerato un capo elegante del vestiario femminile. Ne abbiamo uno stupendo sviluppo nell’arte italiana dei velari. Ma quale significato ha il velo imposto alle donne musulmane? Il racconto di Nataniel Hawthoe dal titolo Il pastore dal nero velo sul volto, velo mai deposto, neppure nella tomba, ha del macabro.
Nell’argentino Jorges Luis Borges, cieco, ci sono i simboli dello specchio e del labirinto; in Umberto Eco c’è il simbolo del pendolo, in Elsa Morante quello dell’isola e del mare.
IL SIMBOLO DEI COLORI

Un proverbio recita: «Non ha importanza il colore del gatto, purché acchiappi i topi». Un maestro delle elementari un giorno fece questa domanda ai suoi bambini: «Se tutte le persone buone fossero bianche e tutte quelle cattive fossero nere, voi di che colore sareste?». Una piccola risposta: «Signor maestro, io sarei a strisce». Ma una domanda del genere sarebbe opportuna in Africa, dove tutti i bambini sono neri o qui tra noi in una classe con bambini bianchi e neri?
Pare che gli antichi egiziani fossero raffinatissimi nell’uso dei colori, tanto da identificare l’essere di una persona con il colore. Cosa non insolita, perché nella cultura greca, ad esempio, la persona era qualificata dalla maschera che portava sul viso, il cosiddetto prosapon, che significava dare un colore, dare un valore alla persona.
In Egitto quando si affermava che non si conosceva il colore di una divinità, significava affermare la sua trascendenza e imperscrutabilità. Nelle nostre città del nord domina il nero-fumo; i semafori hanno il verde per indicare via libera, il rosso per indicare senso vietato.
Le bandiere sono dei simboli a colori per eccellenza (vedi riquadro). Si discute sul nostro «tricolore». Pare derivi dalla bandiera della rivoluzione francese (bianco, rosso, azzurro); l’azzurro, simbolo della rivoluzione, sarebbe stato sostituito al verde, colore massonico, ereditato dai giacobini e adottato dai fautori del risorgimento.
In Africa, su 51 stati almeno 17 hanno nelle loro bandiere il nero. Il verde, poi, appare in quasi tutte le bandiere degli stati musulmani: quella libica è tutta verde, l’algerina per metà è verde, perché il verde è il colore dell’islam. Forse anche l’accecamento causato dalla sabbia del deserto porta a considerare il verde, come un colore riposante.
Nella bibbia l’innamorata dice al suo amato: «Nigra sum, sed formosa» (ho la pelle scura, eppure sono bella, Cant 1,5). «Scura come le tende dei beduini, bella come i tendaggi del palazzo di Salomone».
Ma, al contrario, gli assediati in Gerusalemme, al tempo di Geremia, erano diventati tutti «neri». Di loro si diceva che «sembravano più neri della fuliggine e non si riconoscevano per le strade» (Lam 4, 8).
Nella liturgia cattolica sono in uso i quattro colori: bianco, rosso, verde, viola: colore, quest’ultimo, segno di penitenza e tristezza. C’era anche il nero nella liturgia dei defunti, ma fu abolito con la riforma liturgica.
In un testo cristiano molto antico, composto nel secondo secolo, la cosiddetta Lettera di Baaba, c’è un capitolo dal titolo «La via della luce» e un altro «La via delle tenebre». Quest’ultimo inizia così: «La via del Nero (con la «n» maiuscola!) invece è tortuosa e piena di maledizione». È evidente che qui «nero» sta per diavolo.
In Africa i colori basici sono il rosso, il nero e il bianco. Il rosso indica vita (dal sangue); il nero la notte, la sofferenza, le prove; il bianco la morte. Quindi tutto il contrario della nostra mentalità.
Senghor, ex-presidente del Senegal, cattolico, scriveva: «L’uomo nero con il suo colore è come immerso nella notte, notte primordiale: egli non vede l’oggetto, ma lo sente, l’intuisce, aperto com’è a tutte le onde della natura». Quindi il nero si distinguerebbe dai bianchi perché ha l’istinto pronto, intuisce le cose; è nella notte, però le percepisce ugualmente. E questa capacità intuitiva, più che raziocinante, starebbe alla base, secondo lui, della cosiddetta négritude.
Una cantante francese cantava: «Il nero è un colore di festa, di sera, di notte sfavillante, di dignità, di danza, di seduzione, e anche di dispiaceri. Bien sûr».
Montale inizia una sua poesia (Il raschino) con questo verso: «Crede che il pessimismo / sia davvero esistito»; e termina così: «… Ora tutti i colori esaltano / la natia tavolozza, escluso il nero». Il Corriere della sera (luglio 1997), a riguardo del concorso di «Miss Italia», vinto da Denny Mendez, intitolò un articolo: «Miss Italia, mai più nera».
Nel nostro linguaggio italiano (o nella nostra mentalità) il colore «nero» è sempre legato a qualcosa di tremendamente negativo, malefico e diabolico. Esso indica tutto ciò che c’è di più negativo in noi e intorno a noi. È una litania senza fine: umore nero, lavoro nero, mercato nero, borsa nera, toto nero, peste nera, pozzo nero, messe nere, persino «grazia nera»…
Il caso più patetico (oltre al film «Indovina chi viene a cena?») incontrato nella letteratura è il romanzo, dal titolo «Storie di bianchi», scritto da un americano nero, Langston Hughes. In questo romanzo troviamo una lettera scritta da un mulatto, di caagione però completamente bianca. La lettera è inviata alla madre negra. Questo giovane è ormai inserito nel mondo dei bianchi, ha una bella fidanzata bianca. In questa lettera chiede scusa a sua madre perché, avendola incontrata per strada a braccetto con la fidanzata, aveva fatto finta di non conoscerla. Egli scrive: «Quando ci si fa passare per bianchi, la cosa tragica è proprio questa, che si deve rinnegare in pubblico la propria famiglia e persino la propria madre. È una cosa terribile, mamma, e detesto il doverlo fare, anche se tu mi dici che ciò non ha importanza. Io sposerò una bianca… e se arrivasse un figlio nero, giurerò che non è mio figlio. Perché non intendo ricadere nel pantano nero».
Ciò che colpisce sono le parole «pantano nero». Si tratta di un romanzo, ma la fiction non è molto lontana dalla realtà.
Qui la violenza del simbolo è terribile e non solo da un punto di vista psicologico. I neri li abbiamo schiavizzati e umiliati anche così.

BANDIERE DI PACE
Ogni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.O gni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.
Bandiere, stendardi e vessilli hanno una funzione: in passato, aveva grande importanza sui campi di battaglia dove, mancando ogni trasmissione radiofonica, distinguere i propri colori da quelli dell’avversario significava praticamente avere salva la vita. Ancora oggi le bandiere utilizzate sulle navi sono mezzo di segnalazione e riconoscimento.
In prospettiva psicologica, la bandiera suscita nel cuore di milioni di persone emozioni e sentimenti legati a valori assoluti; essa diventa il segno più semplice ed efficace per assumere e «tradurre» tali valori in scelte esistenziali, coinvolgendo la persona nella sua globalità, fino a dare la vita per l’ideale da essa rappresentato o per la bandiera stessa.
Quando avvenimenti epocali sconvolgono assetti ed equilibri sociali e politici, le bandiere «parlano da sole». Ne è un esempio la portata storica che ebbe il tricouleur durante la rivoluzione francese e la bandiera rossa con la falce e martello durante la rivoluzione russa, modelli ripresi con molteplici varianti in vari paesi del mondo.

Si hanno testimonianze di simboli ed emblemi «nazionali» fin dall’antico Egitto, subito imitati da Assiri e Babilonesi. Nella bibbia sono ricordate le insegne delle 12 tribù d’Israele in marcia verso la terra promessa.
I Romani avevano i signa (insegne) per la fanteria e i vexila (vessilli) per la cavalleria; il simbolo dell’aquila era utilizzato dalle legioni romane in ogni angolo dell’impero.
Ai tempi di Costantino iniziò l’adozione di un labaro con la croce, simbolo poi largamente utilizzato dalle nazioni europee nate dallo sfascio dell’impero romano e bizantino.
Nelle conquiste del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, gli arabi dispiegavano bandiere bianche, nere e verdi, rispettivamente degli omayyadi, abbasidi e alidi: colori tutt’ora preminenti (col rosso degli ottomani) nelle bandiere dei paesi arabi odiei.
A partire dal medioevo, la bandiera si affermò in tutti i regni europei come simbolo nazionale.
Suggestiva è la storia del dannebrog, la più antica bandiera del mondo, ancora in uso in Danimarca: narra una leggenda nordica che, durante una terribile battaglia contro gli estoni, a quel tempo ancora pagani, i danesi implorarono l’aiuto divino e dal cielo scese un drappo di lana rossa con una croce bianca, che terrorizzò i nemici e li mise in fuga.
Con diverse varianti di colore, il dannebrog è stato adottato da tutti i paesi del Nord Europa.
Curiosa è pure l’origine della bandiera pontificia: bianco e giallo erano i colori caratteristici degli stendardi di Goffredo da Buglione: dopo che il famoso condottiero conquistò Gerusalemme, nella prima crociata, tali colori furono adottati come simbolo dello Stato Pontificio, con l’aggiunta delle chiavi di san Pietro.
La bandiera è un simbolo che provoca ancora un grande impatto sull’opinione pubblica. Che emozioni abbiamo provato nel vedere migliaia di americani con le bandierine a stelle e strisce in mano nei momenti di preghiera dopo l’attentato delle Torri Gemelle; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino sostituendola con il tricolore in uso sin dai tempi degli Zar; durante il «mitico 1989», quando i popoli dell’Est strappavano gli emblemi comunisti dalle bandiere nazionali per inalberare orgogliosamente bandiere lacere e strappate, finalmente affrancate dai simboli del dominio marxista. Abbiamo provato anche noi la sensazione dell’inizio di una nuova epoca di libertà per tutti.
Ma chi non sente un brivido per la schiena, vedendo giovani muscolosi e incoscienti brandire le svastiche, mentre inneggiano al nazismo e ostentano violenza e odio?
E come non sentire un’istintiva simpatia, di fronte alla mobilitazione dei popoli indigeni delle Ande che, rivendicando diritti e dignità, sventolano la whipala, la multicolore bandiera degli aymara e quechua: essa è composta da una serie di riquadri colorati, disposti su linee diagonali, il cui suggestivo riferimento cromatico raffigura l’iride e allude alle istanze della gente andina.
Sono gli stessi colori dell’arcobaleno, che un formidabile movimento di massa ha rilanciato su scala nazionale e mondiale, identificando in quel simbolo l’anelito di pace che gli arroganti di tuo hanno cercato di sbeffeggiare e soffocare. Forse è dai tempi del risorgimento che l’Italia non vede milioni di persone «vibrare» così intensamente di fronte a una bandiera.
La pace, anelito fondamentale di tutti gli uomini di buona volontà, ha fatto fiorire i balconi di tutta la penisola e garrire al vento questa immensa voglia di giustizia e libertà. Una bandiera questa, da non ammainare mai più.

don Mario Bandera

Igino Tubaldo




INCHIESTA Multinazionale Gisas

Jesus (pronuncia gisas) risuona anche in Italia, da televisioni gestite da culti made in Usa e loro adepti. La Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), per esempio, piazza prodotti religiosi miracolosi. Alcuni abboccano, ma non molti.

Negli ultimi anni, l’offerta televisiva italiana si è «arricchita» di un nuovo prodotto: la Tbne (Trinity Broadcasting Network Europe), un canale televisivo di esclusiva programmazione religiosa, derivata dalla Tbn, televisione evangelical statunitense. (Evitiamo il termine evangelico, proprio delle chiese storiche del protestantesimo che si riconoscono nelle posizioni del Consiglio ecumenico delle chiese).
La Tbn è un colosso forte di 800 stazioni televisive sparse per il mondo e un patrimonio pari a 2 miliardi di euro. Per avere un termine di paragone: la capitalizzazione della Fiat ammonta a 5 miliardi di euro.
Ispirata da un pastore pentecostale dell’Assemblea di Dio, Paul Crouch, la Tbn fu fondata a Los Angeles nel 1978. Televisione eclettica, inizialmente molto spartana, essa dava voce ai predicatori più carismatici e di moda del tempo, alcuni dei quali coinvolti poi in scandali giudiziari e morali.
La Tbne italiana ha come scopo il proselitismo, ma non direttamente, non essendo una denominazione definita. Di fatto ai suoi microfoni si alternano predicatori dei gruppi più svariati. Costoro sono al vertice di para-chiese vicine alla Tbne, agenzie di servizio per persone che, ascoltati i predicatori, sono liberi di scegliere il gruppo che più piace, senza indicazione da parte della televisione.
A Torino, per esempio, sono decine le para-chiese segnalate dalla Tbne. Essa funge da centro di smistamento per persone che andranno a finire in molte altre denominazioni. Ovviamente l’ampiezza dell’offerta dipende dalla condivisione della teologia evangelicale, che è conservatrice, di stampo pentecostale o carismatico.
Nonostante gli sforzi, il travaso dal cattolicesimo al protestantesimo evangelicale è quasi assente, tranne in alcune zone del meridione, come l’hinterland napoletano e la Sicilia, dove risulta fondamentale il carisma dei predicatori di successo.
RELIGIONE… SPETTACOLARE
Non è facile trovare parole adatte per descrivere funzionamento e programmazione televisiva della Tbne. Due esempi possono evidenziare gli aspetti più grotteschi e pittoreschi del fenomeno nel suo complesso.
Il primo esempio riguarda la figura di Benny Hinn, un predicatore riconducibile al Faith Movement (movimento della fede, nato nel mondo pentecostale, molto diffuso in Svezia e Usa, che attribuisce alla preghiera la possibilità di conseguire successo, ricchezza e denaro).
In un libro autobiografico, «Buongiorno Spirito Santo», egli racconta la sua storia di anima persa e del risveglio avvenuto a Boston, grazie alla chiamata dello Spirito Santo.
Fine conoscitore della bibbia, aria mistica e grande comunicatore, mister Hinn è forse il più importante predicatore evangelical degli Stati Uniti e guarisce decine di ossessi, storpi, paralitici, malati di cancro, esauriti mentali grazie all’aiuto dello Spirito Santo con cui vive, lui dice, in comunione.
La televisione lo mostra in azione in uno stadio stracolmo, davanti a decine di migliaia di persone estasiate o in trance, braccia alzate, occhi socchiusi, guance rigate dalle lacrime, canti, urla. Benny inizia a soffiare nel microfono e il suono viene amplificato per tutto lo stadio. Gruppi di persone svengono, cadendo al suolo come pere mature.
Ecco il nostro Benny in un’altra scena spettacolare: sul palco di un palazzetto dello sport sfilano davanti a lui decine di casi umani che, a suo dire, hanno ottenuto grazie di vario genere; quindi arriva il suo magico tocco e le persone cadono stecchite; non si fracassano la testa grazie all’intervento di forzuti aiutanti, che acchiappano al volo i miracolati.
Talvolta però anche i migliori piazzisti si tradiscono…
Ecco salire sul palco una famigliola: spiegazione di disgrazie a profusione e relativi miracoli; poi Benny tocca papà e mamma che crollano al suolo. Ma i pargoli vengono cautamente evitati… Non si sa mai, con i bambini dispettosi che ci sono oggi, potrebbero rimanere in piedi.
Un secondo esempio, importante anche se non occupa molto spazio nella programmazione, delle rappresentazioni religiose della Tbne è quella dei Power Team: alcuni energumeni invocano il Cristo morto in croce per la remissione dei peccati di tutti i presenti; poi spaccano tronchi e mattoni, fanno scoppiare lattine di coca piene, oppure si esibiscono in altre prove di forza bruta e demenziale. Tali imprese sono accompagnate da paurosi momenti di estasi da parte degli spettatori, che pregano convinti affinché il muscoloso di tuo compia la prodezza che inizialmente non riesce a fare.
Un’americanata, si dirà. Vedere stadi stracolmi, in preda a un delirio collettivo, con mancamenti, lacrime, guarigioni, conversioni e molto altro, è impressionante, ma non aiuta a crescere nella fede, specialmente se si pensa alle nostre sparute parrocchie di campagna, dove il prete, che non veste griffato come le stars religiose made in Usa, fa i salti mortali tra una chiesa e l’altra.
La figura del profeta predicatore, guaritore non è un’invenzione di mister Hinn, della Tbne o altri predicatori che si alternano nei vari spettacoli religiosi. Il copione è il solito, cambia solamente l’approccio tecnologico: in un mondo perduto, il profeta, specie se carismatico, che crede in comunione con lo Spirito Santo, raccoglie adepti dalle correnti protestanti tradizionali che vedono in lui l’unica «arca della salvezza».
Miracoli e guarigioni sono mezzi con cui fare proselitismo, utilizzati per convincere della propria unicità e divina elezione.
PREDICATORI E MISSIONARI
C’è turbamento quando si confrontano questi quotidiani spettacoli miracolosi, rivolti a persone ricche e ben pasciute, con il lavoro di chi i miracoli li fa sul serio, mandando avanti scuole e ospedali a rischio della propria vita, nella foresta amazzonica, tra malaria e acqua fetida, o in altri posti del mondo anche peggiori. Di questi silenzio assoluto!
Centinaia di migliaia di persone corrono da tempo dietro una religione che assomiglia sempre più a un business show, dove chi la spara più grossa vince la partita: si accaparra fedeli e quindi fa incasso.
Gente in lacrime che sviene, ossessi che sbraitano, visioni collettive, paralitici che fanno volare le stampelle… in un tripudio di autosuggestione collettiva tutto è fattibile.
E poiché tra i film di Hollywood e realtà ormai non c’è più distinzione, anche la religione risulta inquinata dall’ossessiva richiesta da parte del pubblico di spettacolo mozzafiato.
Certo stiamo parlando di una cosa americana, che però viene propinata con la forza dirompente della televisione nelle case di milioni di persone in tutta Europa.
In una società che stravede per tutto quanto arrivi da oltre oceano, che luccichi di grandezza e opulenza, sfarzo e lusso sfrenato, la megalomania emanata dai vari predicatori ha successo. Denaro, potere, ricchezza passano per segni della benevolenza di Dio, in un’ottica calvinista-weberiana.
SODDISFAZIONE DEL CLIENTE
Durante il giorno vengono mandati in onda cartoni animati biblici per i bimbi, gruppi rock e rap che inneggiano al Signore, dibattiti religiosi, telegiornali e molto altro. E la programmazione è completa.
Parte dei programmi sono spezzoni ripresi dalla Tbn statunitense; l’altra è prodotta in Italia, nei nuovi studi di Varese. Tutto con una netta impostazione ultraconservatrice.
L’appoggio alla guerra in Iraq ne è un esempio eloquente; e tutto condito di accenni apocalittici, dal momento che i luoghi si dove si svolgevano i combattimenti è la biblica Babilonia.
Nell’abbondante parte di programmi prodotti in Italia, grande spazio è riservato a Chuck e Nora che, bibbia alla mano, portano avanti la raccolta di fondi per il finanziamento della Tbne, con iniziative come il lodathon: fai un’offerta e essi pregano per te in televisione.
In un ambiente ultra kitch, con ori e troni, ogni giorno vengono lette decine di lettere di persone che chiedono grazie e guarigioni da malattie più o meno serie.
SANTI E PECCATORI
Un’impresa commerciale quindi? Quando ci troviamo davanti a cifre da capogiro, viene il dubbio che qualcuno lucri alle spalle dei fedeli.
Il mondo dei predicatori televisivi presenta due aspetti: il primo, il più appariscente, è quello dell’opulenza e dello sfarzo; il secondo è più povero, dove persone idealisticamente motivate giungono a pagare di tasca propria gli spazi televisivi.
Un mondo di santi e peccatori. In fondo la Tbne non ha inventato nulla di originale: i fenomeni più inquietanti sono ripresi da ambienti già esistenti nel mondo protestante, soprattutto quello più caldo. Tutto, però, è ora unito alla potenza comunicativa della televisione, vero elemento innovatore di tutta questa storia.
Per chi volesse conoscere cosa pensa il mondo evangelical italiano che conta 300 mila persone, la Tbne rappresenta un buon strumento, anche se non tutti vi si riconoscono. Ma il suo proselitismo è scarso, indice che il tutto si ferma a un fenomeno di costume, almeno in Italia, dove più salda è la presa della chiesa cattolica. Oppure, molto più semplicemente, i nostri parroci sono più credibili degli spettacolari predicatori made in USA.

Maurizio Pagliassotti




AFRICA CENTRALE – Pigmei I «piccoli» signori

Ritoo agli albori della nostra umanità

E LA LUNA STAVA
A GUARDARE

Nel sud del Camerun vivono, isolati nella foresta,
i pigmei baka, ma per quanto ancora?
La deforestazione e la prepotente invadenza
dei bantu sta mettendo fine a questo meraviglioso mondo, distruggendo per sempre la cultura
e la storia del più antico popolo dell’Africa.

Gennaio-febbraio 2003.

…I canti cessano e il suono dei tamburi va sempre più affievolendosi fino ad arrestarsi del tutto. Sento dei passi che si allontanano, qualche rumore sordo ed infine cade il silenzio, la festa d’iniziazione è finita. Edjenghi, lo spirito, è ritornato nella foresta.
Mi guardo intorno, tutti si sono ritirati a dormire nelle minuscole capanne, illuminate dai bagliori delle braci. Un senso di pace e di tranquillità mi pervade, anche i lugubri rumori che echeggiano ogni tanto nella foresta, che cinge il minuscolo villaggio, mi sono diventati familiari.

Mi siedo a guardare quel piccolo lembo di cielo stellato, che spunta dalle alte cime degli alberi, e mi ritorna in mente la leggenda: «I padri dei nostri padri vivevano al bordo della grande acqua, dove gli animali erano numerosi. Poi un giorno venne il popolo nero, con lance e scudi di ippopotamo, e dissero che la terra era loro…

I nostri padri dissero: No! Non è vero! La battaglia incominciò e molti morirono.
Allora i nostri padri dissero: fuggiamo!
Le donne con i bambini partirono e i guerrieri li seguirono proteggendoli. I padri dei nostri padri dissero: abiteremo la foresta!».

C osì da più di cinquemila anni i pigmei vivono nella tenebrosa foresta, cacciando, pescando, raccogliendo quanto offre in un connubio armonico di perfetto equilibrio fra le risorse naturali e il solo fabbisogno giornaliero, senza accumuli e sprechi e, devoti al loro mondo-foresta, la ringraziano con danze e canti.
Ma il pericolo che li aveva minacciati migliaia di anni fa si è materializzato nuovamente ancora sotto la forma del «popolo nero», a cui si è aggiunta quella del «popolo bianco»; e questa volta non è rivolto solo alla loro esistenza, ma anche a quella della loro amata foresta.

Giro lo sguardo nel piccolo villaggio e provo un senso di tristezza. Perché deve finire tutto ciò? Perché le cose semplici devono soccombere? Perché non è possibile vivere senza distruggere?
Il pensiero ritorna al primo impatto con la foresta, quando con i miei compagni di viaggio decidiamo di andare a conoscere i baka, i pigmei che vivono nella parte meridionale del Camerun, sotto la riserva di Dija, verso il confine con il Congo.
Mi ricordo che, prima di entrare nella foresta, avevo alzato istintivamente la testa verso le cime degli alberi, e mi ero sentito piccolo, incredibilmente piccolo. I primi passi che mossi all’interno mi diedero la sensazione di oltrepassare un sipario che si apriva lentamente davanti a me, dove, a fatica, riuscivo a mettere a fuoco le cose che mi si paravano davanti, frastornato dalle mille gradazioni di verdi che sembravano velarle.
Provai la netta sensazione di avventurarmi verso l’ignoto e l’istinto mi fece girare di scatto, per fissare almeno il punto da dove ero entrato e avere quindi un riferimento certo; ma tutto era già scomparso: come Alice quando aveva attraversato lo specchio, anch’io ero entrato in un’altra dimensione. Un mondo umido, apparentemente inospitale, dove corsi d’acqua formano acquitrini, paludi, e danno vita a una selva sovrastata da giganteschi alberi, dalle cui cime filtra mollemente la luce del sole o scompare del tutto, lasciando uno stato di isolamento e di solitudine, che permea da tempo immemorabile ogni cosa.

Più mi addentravo e più provavo un senso di oppressione per la pesantezza della natura che mi circondava, oltre all’umidità dell’aria che mi riempiva i polmoni a ogni respiro.

Superato il primo impatto, quando la calma riprese il sopravvento e incominciai a mettere a fuoco le cose, a rilassarmi, a muovermi con più disinvoltura, allora mi resi conto di essere entrato in un mondo affascinante che mi riportava inevitabilmente all’enigmatica materializzazione dell’«altro», che è più o meno in noi: la suggestione del «come eravamo».

Il desiderio di conoscere i baka, «i signori della foresta», ci fa superare ogni ostacolo, ogni fatica, e la stanchezza svanisce davanti all’emozione del primo incontro, quando in una radura naturale, finalmente scorgiamo quattro enkulu, le tipiche casette a forma di igloo, e i loro ospitali e sorpresi abitanti.

Di una mitezza proverbiale, inclini al sorriso, curiosi ma riservati, ci accolgono permettendoci di allestire il campo fra le loro casette, di seguirli nelle loro attività, di condividere con loro la giornata.

I baka, vivono una vita semplice, atavica: la si vede subito dalle loro piccole abitazioni, fatte di rami e ricoperte di foglie impermeabili, che solo all’apparenza sembrano fragili, ma che resistono bene alle forti piogge cui sono sottoposte quasi quotidianamente. All’interno l’arredamento è minimale: un letto di canne, qualche stuoia, pochissime suppellettili, qualche pentola per cucinare ed il fuoco sempre acceso.
L’attività quotidiana degli uomini è la caccia. Lungo piste, a noi invisibili, percorrono la foresta, armati di balestre o lance, alla ricerca delle trappole disseminate, dove ignare finiscono prede come: gazzelle o piccoli caivori che, dopo essere stati affumicati, vengono tagliati a pezzi e racchiusi in larghe foglie.

Durante il loro giro di perlustrazione sono sempre attenti a ciò che li circonda, pronti ad approfittare di ogni occasione. Abilissimi a imitare i suoni da richiamo degli animali, sfruttano questa tecnica per avvicinarli e quindi ucciderli con le loro frecce avvelenate.
Mentre gli uomini si dedicano alla caccia o ad allestire le trappole, le donne, oltre ad accudire ai bambini, si recano nella foresta, con la gerla sulle spalle, a raccogliere tutto quello che trovano di commestibile, conoscendo alla perfezione tutte le proprietà delle piante e come utilizzarle.

Al villaggio le si vede ritornare cariche di radici, tuberi o banane verdi da cuocere e poi, sedute sotto ripari di foglie o davanti alla propria casa, a intrecciare stuoie o preparare la cena, usando grossi machete o pestelli.
La vita sociale, pur essendoci un capo villaggio, è governata da un sistema altamente democratico che si basa principalmente sulla meritocrazia. Non minacciano, non puniscono, non giudicano, perché ogni disputa viene ricomposta partendo dal presupposto che è meglio ristabilire l’armonia per il bene di tutti.

Abituati a vivere sull’essenziale e spostandosi frequentemente nella foresta, rifuggono dai soliti canoni estetici di vanità; unica eccezione è la limatura dei denti che appuntiscono, oltre a qualche piccolo tatuaggio o scarificazione sul volto o, come in alcune donne anziane, un piccolo foro sul labbro superiore segno di appartenenza a un particolare clan. E poi ci sono i canti, i balli, i festeggiamenti per la raccolta, per le iniziazioni.
Q uando i tamburi presero a suonare, fu come un segnale: i primi ad arrivare furono i bambini, poi le donne; gli uomini avevano già preso posto e preparavano gli iniziati.

Si disposero tutti in cerchio e incominciarono a cantare e danzare; il ritmo si fece sempre più frenetico e i canti più alti; poi calarono improvvisamente e restarono solo i tamburi e, da uno spiraglio della foresta, si materializzò Edjenghi lo spirito.

Una grande agitazione pervase i presenti che ripresero i canti e i balli, con gli occhi puntati sulla enorme figura che piroettava nel centro dello spiazzo, alzandosi e abbassandosi ritmicamente.
Mi allontanai e mi sedetti a fianco della mia tenda a osservarli, grato di avermi invitato alla loro festa, ma conscio che solo gli iniziati e la luna potevano partecipare.

Da Omero… al saccheggio della foresta

SCOMPARE UN PEZZO DI UMANITÀ

Piccoli: perché?

A ntropologhi e studiosi di genetica, già nel secolo scorso, cercarono di capire perché i pigmei erano «piccoli». La maggior parte era convinta che fossero privi dell’ormone della crescita. Il fatto si rivelò errato: l’ormone c’è; ciò che è carente, specie durante il periodo della pubertà, è un’altra sostanza biochimica contrassegnata con la sigla IGF-1 (Insuline-like Growth-Factor), peraltro oggetto ancora di studio.
La mescolanza della razza pigmea con quella dei bantu (generalmente sono gli uomini bantu che sposano le donne pigmee e non viceversa) danno vita a figli più alti, creando, se si può dire, una nuova classificazione etnica denominata pigmoide.

Da quanto tempo esistono?

Sono ritenuti fra i primi abitanti dell’Africa. La loro comparsa documentata risale al 3° millennio a.C., in un antico papiro ai tempi del faraone Neferkere, che ne volle uno a corte come ballerino. Coincidenza o no, il dio egizio della danza, Bes, è raffigurato come un nano.
Anche Omero, nel terzo canto dell’Iliade, li descrive nella battaglia con le gru, chiamandoli Pygmaios (alti un cubito). Nelle Metamorfosi di Ovidio, viene descritta la gelosia di Giunone per la regina dei pigmei, che verrà trasformata in gru.
Sempre nella mitologia, anche Ercole, durante le sette famose fatiche, si imbatte sulla costa mediterranea in un esercito di omuncoli. Descrizioni contrastanti e a volte fantasiose sulla esistenza, furono portate da Erodoto, Aristotele, Plinio. Nell’era cristiana sant’Agostino, nella Città di Dio, ammette, se pur vagamente, una loro esistenza.
Dal X secolo fino al XVII secolo si cade nell’oscurantismo della ricerca scientifica, per dare luogo a quella delle dissertazioni accademiche, che arrivano addirittura a equipararli a scimmie o a esseri deformi, che popolano il mondo sconosciuto; tipico il trattato di Giacinto Gimmi intitolato De hominibus et de animalibus fabulosis.
Solo verso la fine del 1800, con le prime esplorazioni nel grande continente africano, ci fu l’incontro «sul campo» con questa sorprendente etnia, uno dei primi fu il naturalista George August Schweinfurth.

Minaccia Continua

R elegati quasi nella preistoria, a volte messa in discussione perfino la loro esistenza, non riconosciuta una loro cultura, vissuti in secoli di isolamento, tutto questo scompare di fronte agli ultimi 50 anni di contatti con il resto dell’umanità.
Tali contatti iniziarono dapprima con i «grandi neri» bantu, sotto forma di baratto: scambiavano selvaggina con sale, tabacco, granaglie e altri beni. Quindi sono caduti nella spirale della dipendenza, foendo manodopera di tipo feudale agli agricoltori neri, in cambio di inutili vestiti e di alcolici, dando via a un inizio di sedentarizzazione non loro congenito.
Inoltre, l’invadenza e vicinanza sempre più soffocanti dei bantu incide profondamente sulla vita spirituale e materiale, tradizioni e libertà di questo piccolo popolo della foresta.
Ma c’è anche l’incontro con il «popolo bianco», interessato a soddisfare i bisogni di pregiato legname per costruire mobili o pavimenti da calpestare. E così incomincia, o meglio, è già in atto la deforestazione, quindi la distruzione del mondo dove vivono, emarginandoli anche fisicamente.

Dio nell’arcobaleno
T utta l’espressione culturale dei pigmei è permeata da una profonda spiritualità, che si manifesta con la danza, i canti e i riti. Essi riconoscono l’esistenza di un Dio creatore di tutte le cose: Komba presso i baka, Nzambe presso i bakola/bayeli, Kmvum per i bambuti. Generalmente Dio si manifesta sotto la forma dell’arcobaleno.
Parallelamente esistono una moltitudine di piccole divinità o spiriti della foresta, ai quali essi si rivolgono per tutte le loro imprese: caccia, pesca, raccolta del miele, danza, musica, riti.

Le aree di distribuzione
O ggi i pigmei vivono nell’immensa foresta tropicale, più precisamente in otto stati dell’Africa: Burundi, Camerun, Congo, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centroafricana, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda.
Tale dislocazione contribuisce alla differenziazione di vari aspetti culturali, per cui essi si distinguono in diverse etnie:
– bambuti nel Congo, a loro volta suddivisi a seconda della lingua parlata in aka, afe, awa;
– bongo nel Gabon;
– baka, detti anche babinga, nel Camerun.

Oggi in Camerun si distinguono tre grandi gruppi di pigmei:
– i baka, circa 40 mila, occupano il sud e sud-est del paese;
– bakola o bayeli vivono nella parte sud-ovest e sono stimati in circa 3.000 individui;
– medzam, appena 1.500, sono nella piana di Tikar, nel centro del Camerun.
Tristemente possiamo dire che un nostro stadio di calcio li contiene tutti.

Bruno Bocchi




Di stampo URSS

Qualche mese fa, in un pubblico intervento, è stato detto dal più alto responsabile del governo italiano che la nostra Costituzione, quando tratta di iniziativa economica, sarebbe impostata secondo l’ideologia «sovietica», imperante nel contesto politico di allora. Di fronte a questa affermazione, a dir poco stupefacente, pare doveroso cercare di capire ciò che effettivamente la magna charta repubblicana afferma e, soprattutto, se può essere fondata una interpretazione del genere.
La nostra Costituzione (una delle migliori del mondo, tanto da essere presa a modello da non poche altre nazioni) nella sua prima parte, «Diritti e doveri dei cittadini», è personalista, solidale e rappresenta il frutto maturo di una positiva convergenza di diversi filoni di pensiero cattolico e laico, tutti animati da un alto senso dello stato democratico e del bene comune per costruire insieme una «casa per tutti i cittadini».
Sappiamo come nei dibattiti alla Costituente, vivaci e battaglieri, si è sempre cercato da tutte le forze politiche rappresentate non di prevaricare gli uni sugli altri, con l’arroganza tipica di oggi, ma, con viva intelligenza, profonda cultura e operosa pazienza, di raggiungere una piattaforma comune di valori umani nel rispetto di tutti.
Cosa dice la Costituzione circa la tematica economica in questione? «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e cornordinata a fini sociali» (art. 41). Due le affermazioni importanti: la libertà di iniziativa privata, o di impresa come qualcuno preferisce; una libertà però non assoluta, ma da situarsi in un contesto di rispetto della persona («sicurezza, libertà, dignità umana»), perché l’attività economica non può essere fine a se stessa o per il benessere di pochi, ma di tutti, poiché esiste «una utilità sociale» dell’economia stessa.
A questo punto viene da chiedersi: questa impostazione è frutto dell’ideologia «sovietica» oppure di una ispirazione genuinamente umana e cristiana?

Chi conosce, anche sommariamente, il vangelo e l’insegnamento sociale della chiesa, specialmente dell’enciclica Rerum novarum, fino ai pronunciamenti del Concilio Ecumenico Vaticano II e di Giovanni Paolo II, sa benissimo che la tesi circa «l’utilità sociale» dell’economia, assunta dalla Costituzione, è in piena consonanza a questo Magistero. Si potrebbe dire che è la traduzione laica della genuina visione cristiana sui rapporti eticamente corretti tra uomo e beni materiali. Solo chi è inspirato da un pensiero neoliberista e, purtroppo, governa di conseguenza, può trovare nel testo costituzionale una impostazione «sovietica».
D’altronde non è il caso di meravigliarci più di tanto. Ai tempi di Leone XIII, il papa della Rerum novarum, in cui si affermava che il lavoro dell’uomo non è merce, che la persona viene prima del profitto, che è lecito agli operai associarsi per difendere i loro giusti diritti, parecchi, anche nel cosiddetto «mondo cattolico», dicevano che il papa era diventato «socialista»! C’è di più: probabilmente se si continua a leggere nella Costituzione, l’accusa di essere «sovietica» potrebbe ancora diventare più grave. Infatti l’articolo 42 dice: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurae la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Dunque non solo l’attività economica, ma pure la proprietà privata deve rispettare e adempiere una funzione sociale. Addirittura si afferma che la società (e perciò chi governa) deve fare in modo, con opportune leggi, che tutti possano accedervi. Evidentemente perché i costituenti erano convinti che l’uomo è più importante delle cose e che occorreva evitare il rischio quanto mai reale per cui, avendo pochi il possesso di molto o moltissimo, i molti non giungano mai neppure al possesso di poco. E questo certo non è conforme alla volontà di Dio al riguardo.
Insegna il Vaticano II nella Gaudium et spes: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli e pertanto i beni creati devono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità; pertanto quali che siano le forme della proprietà, si deve sempre tenere conto di questa destinazione universale dei beni» (69).
Allora la nostra Costituzione reca l’impronta «sovietica», oppure, felicemente e genuinamente, quella biblica-cristiana, anticipando perfino, in una certa misura, il dettato conciliare?… È perciò triste dover constatare come alcuni politici, con relativi loro sostenitori che pur dicono di inspirarsi ai princìpi sociali cristiani, possano pubblicamente fare certe affermazioni, senza neppure suscitare motivate e giuste reazioni.

Sebastiano Dho, vescovo di Alba




La presenza

Domenica 9 marzo, nella parrocchia di S. Martino a Gangalandi di Lastra a Signa (FI), si tenne l’assemblea diocesana di Azione cattolica dedicata ai giovani, con l’approfondimento dei temi «chi siamo», «cosa cerchiamo», «in cosa crediamo». Vi partecipai quale presidente dell’Azione cattolica della parrocchia di S. Maria ausiliatrice (Firenze), unitamente alla responsabile del settore giovani.
Importante fu, nell’intervento dell’assistente nazionale giovanile, don Francesco Silvestri, la riflessione sul tema «verità». La verità è Lui, Gesù: con i suoi immutabili insegnamenti ci indica la via da seguire e, con il suo sacrificio d’amore, ci fa giungere alla vita eterna, vero scopo della nostra esistenza.
Pertanto è con Lui che, ogni giorno, dobbiamo cercare il diretto contatto spirituale, rispondendo al grandissimo dono di amore dell’eucaristia. Il Signore, grazie all’ostia consacrata, è sempre presente nelle chiese parrocchiali, con possibilità per noi di andare a trovarLo quando vogliamo. E noi a Firenze abbiamo la fortuna di averLo, ogni giorno, solennemente esposto nelle due piccole chiese di via Faenza e via Rucellai, presso la stazione di S. Maria Novella.
A questo costante, quotidiano e personale rapporto di amore Gesù ci tiene moltissimo, come si rileva anche dalla promessa che Egli stesso fece a suor Maria Consolata Betrone, clarissa cappuccina di Moncalieri, di cui il 6 aprile scorso è stato commemorato il centenario della nascita pure a Firenze con una tavola rotonda presso il monastero delle clarisse cappuccine di via S. Marta, 18.
«Ogni tuo atto d’amore – rivelò Gesù a Maria Consolata – rimane in eterno. Ogni tuo atto d’amore ripara per mille bestemmie. Ogni tuo atto d’amore è un’anima che si salva. Per un tuo atto d’amore creerei il paradiso… L’atto d’amore ti aiuta a valorizzare al massimo ogni istante di questa giornata terrena, facendoti osservare il primo e massimo comandamento: “Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze”».
«Gesù ti amo»: una piccola frase, ma espressiva ed efficace che, ripetuta spesso durante la giornata (anche, ad esempio, nell’attesa del verde di un semaforo) realizza quell’«atto incessante di amore» che costituì il programma di vita di suor Consolata e che consente pure a noi di vivere il rapporto personale con Gesù, verità, via, vita. Senza dimenticare di andarLo a trovare dove è presenza eucaristica, da Lui stesso più volte confermataci con tanti miracoli.
Tra i miracoli eucaristici ne ricordo alcuni: nell’anno 595 a Roma (pane in carne e sangue); nel 750 a Lanciano (l’ostia si converte in carne e il vino in sangue del gruppo AB, lo stesso risultato dalle analisi del sangue della Sindone); nel 1171 a Ferrara (l’ostia sprizza sangue); negli anni 1230 e 1595 a Firenze in S. Ambrogio (sangue coagulato e ostie illese nel fuoco); nel 1263 a Bolsena (ostia sanguinante); nel 1330 a Cascia (ostia insanguinata); nel 1333 a Bologna (l’ostia si eleva); nel 1453 a Torino (ostia elevata in aria); nel 1535 ad Asti (ostia sanguinante); nel 1730 a Siena (conservazione di ostie consacrate); nel 1772 a Napoli (ostie ritrovate intatte); nel 1847 a Torino con S. Giovanni Bosco (ostie moltiplicate).
Al riguardo esiste una videocassetta televisiva, dal titolo «È la speranza» (dura circa un’ora).
Anche in Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Portogallo, Svizzera, Germania, Austria e Polonia si ebbero diversi miracoli eucaristici.
In conclusione, non si può scordare l’enciclica di Giovanni Paolo II Ecclesia de Eucharistia. Inoltre, fra i misteri del rosario, il papa ha inserito anche «i misteri della luce», tra cui l’istituzione dell’eucaristia. È il mistero che realizza la consolante promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20).
Giuseppe Simini

Giuseppe Simini




MOZAMBICO – Gabbia di matti

Tra le malattie diffuse nel distretto di Mecanhelas, la pazzia rivela tutta la sua drammaticità; spesso è accompagnata da epilessia.
I missionari si sono fatti carico del problema, con buoni risultati, coinvolgendo le comunità cristiane in una rete di solidarietà che, con il nome di Caritas, è estesa ad altre situazioni.

Era un bel ragazzo di nome Marcellino, ma la droga gli aveva consumato il ben dell’intelletto. Mentre lo accompagnavo, insieme ad altri malati, all’ospedale psichiatrico di Nampula, si gettò dal treno che, sprovvisto di freni d’emergenza, si fermò dopo cinque minuti a una stazione. Diedi allo zio che lo accompagnava del denaro e il compito di recuperare il nipote fuggitivo con l’aiuto della polizia locale.
Il ragazzo fu recuperato una settimana più tardi, con vari segni di ferite, non dovute alla caduta dal treno, ma alle botte ricevute. Dopo la caduta, infatti, Marcellino si era subito rialzato, mettendosi a correre per riprendere il convoglio. Non essendoci riuscito, cercò di sopravvivere rubando galline, porcelli e divorandoli crudi nella foresta. Per tre volte i contadini lo avevano catturato e consegnato alla polizia; ma era sempre riuscito a evadere dalla prigione.
Il viaggio successivo Marcellino lo fece con una buona dose di tranquillanti in corpo. Dopo il recupero si è sposato e lavora la terra.
La sua storia è emblematica di quanto sto per raccontare.

NON SI VEDE, MA C’È
Quando arrivai come missionario laico nel distretto di Mecanhelas, nel maggio 1999, si pensava che esistessero nella zona quei cinque o sei casi, da considerare i classici «scemi del villaggio». Tre anni dopo, i malati mentali registrati dalla parrocchia erano quasi 200; nel giugno 2003 circa 700: quasi l’1% della popolazione del distretto.
La pazzia è poco visibile, perché molti malati passano l’esistenza legati con catene di bicicletta a un albero, vicino alla casa di famiglia. La loro sopravvivenza dipende dal buon cuore dei familiari: se questo manca, cosa non infrequente, la polenta quotidiana diminuisce giorno per giorno, provocando una lenta morte per inedia.
Spesso i malati mentali costituiscono un elemento di disturbo e di pericolo per le comunità: insultano, picchiano, bruciano le capanne, rubano… Finché il consiglio si riunisce e dispone che il malato venga soppresso in modo indolore, incaricando qualcuno di porgergli un piatto di cibo avvelenato. Non abbiamo dati precisi, ma riteniamo che una decina di malati mentali muoiano ogni anno per fame o per veleno.
Principale causa di tale malattia pare essere la suruma, un’erba allucinogena importata dal Malawi: provoca delirio, crisi di aggressività e uno stato simile alla schizofrenia. Viene fumata per lavorare senza sentire fatica e fame.
I contadini drogati (surmàticos) li si vede zappare la terra fin dalle prime luci dell’alba e continuano ininterrottamente fino al tramonto, senza assumere alcun cibo. Presto, però, alla voglia di lavorare subentrano delirio, aggressività e trascuratezza della propria persona.
Traumi dell’infanzia, risalenti ai tempi della guerra civile (1977-92) e incapacità della famiglia di educare i figli ad affrontare le difficoltà della vita incoraggiano la malattia mentale: una volta divenuti adulti, essi possono «perdere la testa» di fronte a un problema più grande del normale.
Circa il 75% dei malati mentali soffre anche di attacchi epilettici. In questi casi è chiamato in causa l’alcornolismo, che conduce al decadimento del cervello.
Un bicchiere di cachaça, bevanda superalcolica, costa pochi centesimi e aiuta a dimenticare la fame e le difficoltà della vita. Alcuni lavoratori vi spendono l’intero stipendio mensile appena percepito, ubriacandosi fin quasi a morire. Capita pure di incontrare ragazzini già ubriachi fradici di prima mattina. Parlare con i genitori non serve a molto.
Un’altra causa dell’epilessia può essere la presenza di parassiti intestinali nella stragrande maggioranza della popolazione locale, per mancanza d’igiene. Alcuni parassiti, tra cui la tenia, a volte migrano dall’intestino verso il cervello e vi depositano le uova: questo provocherebbe attacchi epilettici e comportamenti anormali.

MATTI DA LEGARE
All’inizio di dicembre 1999, apparve nei pressi della missione di Mecanhelas, un ragazzo di 20 anni, magro, sporco, muto, con un sorriso ebete. Antonio, questo il suo nome, cominciò a farsi notare montando sui cassoni dei fuoristrada, o arrampicandosi sugli alberi di mango, per lanciae i frutti ai passanti e aspettare che gli stessi glieli restituissero in faccia.
Poi Antonio cominciò a rompere i vetri della missione per impadronirsi delle tendine, con cui amava cingersi alla testa. Per il resto, indossava solo un paio di slip femminili.
La polizia non si interessava del caso. Noi missionari cominciammo a tirare giù Antonio dagli alberi, dove si rifugiava quando era inseguito, e rinchiuderlo in una cella improvvisata. Non sapevamo che negli slip nascondeva un coltello, con cui si liberò e scappò dalla finestra.
Catturato un’altra volta, fu legato a un albero, affinché, approfittando della pioggia torrenziale, si lavasse un poco. Dopo la doccia, Antonio ricevette un bel maglione di lana verde; il giorno dopo lo ridusse in decine di rocchetti di filo che collezionava in una borsa.
Dopo l’ennesima cattura, per vetri rotti e tendine strappate dalla casa dei missionari, era venuto il momento di occuparci seriamente di Antonio. Lo accompagnammo al manicomio più vicino (oltre 400 km da Mecanhelas), diretto da uno psichiatra missionario della congregazione di San Giovanni di Dio.
Dopo alcuni mesi toò ingrassato, parlava normalmente, salutava e ci ringraziava per averlo aiutato. Aprì un piccolo commercio di olio alimentare e sigarette e cominciò a vivere da persona normale.
Passò qualche mese e constatammo che Antonio stava peggiorando di nuovo, fino a ripiombare nella follia a causa della suruma. Lo riportammo al manicomio e fu di nuovo disintossicato. Adesso continua a vivere a Mecanhelas, ma non è del tutto normale. Il problema è che non ha una famiglia che lo sostenga a rimanere lontano dalla droga.
Stavamo occupandoci di Antonio quando apparve Francisco Pio: fratello dell’ex sindaco di Mecanhelas, alto e forte, era il terrore della gente: essendo parente di un «grande», non poteva essere picchiato.
Arrivò in missione con l’auto delle suore, su cui era salito abusivamente, bevendo allegramente lattine di birra prelevate dal carico. Alla sua apparizione i passanti scappavano e i lavoratori chiudevano a chiave le porte della missione.
Era furioso; brandiva un bastone; ma non ci lasciammo intimorire; lo mettemmo in fuga, fra le grida di esultanza della gente. Un’ora dopo apparve il fratello «grande» per chiederci di aiutarlo. Così anche Francisco venne accompagnato al manicomio, insieme a una cugina, impazzita in seguito all’amputazione di un braccio, e a un signore che vagava per la cittadina con una bibbia in mano, predicando l’apocalisse.
Dopo una settimana in manicomio, Francisco scappò e ritoò a casa da solo. Andai a trovarlo. Era molto più tranquillo; gli diedi degli psicofarmaci, invitandolo a farmi visita. Col tempo, Francisco, anche lui surmàtico e alcornolizzato, recuperò la normalità.

CAROVANA DI MATTI
Viste le quattro guarigioni, la gente di Mecanhelas cominciò a scendere dai monti e uscire dalle giungle per «colocar uma preocupação», come si dice eufemisticamente da queste parti. Tra i malati mentali c’erano varie madri di famiglia: per i loro bambini era un dramma avere una mamma pazza, vederla fare stramberie o legata a un albero come un cane.
Ogni mese, dalla missione cominciò a partire una macchina carica di pazienti che, trasferiti su uno scompartimento prenotato, raggiungevano in treno l’ospedale psichiatrico di Nampula; questo può accogliere una cinquantina di malati e serve tutto il Mozambico settentrionale. Ce ne sono solo altri due nel resto del paese.
La comitiva di matti era accompagnata da me, da un infermiere, munito di siringhe e tranquillanti, e da un parente per ogni malato, con la responsabilità di sorvegliarlo. Compito non sempre assolto: a volte gli stessi malati arrivavano da me trafelati per dirmi che qualcuno era scappato.
Arrivati a Nampula, la polizia non aveva nulla da eccepire, vedendo una decina di persone incatenate scendere dal treno e avviarsi a saltelli verso una macchina, sorvegliati da certi tipi con manganelli, tra cui c’ero anch’io.
I passanti, invece, pensando che fossi un poliziotto alle prese con chiconhocas (ladri) appena catturati, si avvicinavano minacciosi per picchiarli. Ci pensarono gli stessi malati a chiarire la situazione: «Siamo malucos (matti) diretti al manicomio».

SERVIZIO A DOMICILIO
Dalla fine del 2001 è aperta un’unità psichiatrica a Cuamba, a 91 km da Mecanhelas; non dobbiamo più percorree 440 per raggiungere il manicomio di Nampula.
A Cuamba opera il signor Sibinde, un tecnico psichiatra mozambicano. «Tecnico» significa che si tratta di un operatore sanitario, formatosi per tre anni, e non di un medico laureato. Egli dimostra una grande motivazione per il lavoro che fa: senza chiedere alcuna mancia, viene ogni mese nella parrocchia di Mecanhelas, si trattiene tre giorni, riuscendo a visitare un centinaio di pazienti alla volta. Non gli fa problemi andare in bicicletta o guadare paludi.
La maggior parte dei pazienti visitati viene trattata a domicilio, con psicofarmaci affidati alla responsabilità dei familiari. Tuttavia, ogni mese, quattro o cinque pazzi pericolosi devono essere trasferiti all’unità psichiatrica di Cuamba per una terapia intensiva di alcune settimane.
La terapia di recupero completo dura due o tre anni. La difficoltà principale è convincere i pazienti e le rispettive famiglie a perseverare nell’assumere psicofarmaci. Ma poiché, dopo qualche mese, i malati constatano un miglioramento, tendono a interrompere l’assunzione di medicine, col rischio di ricadere nella follia anche più grave.
Mentre tra i guariti da malattie fisiche solo uno su dieci viene a ringraziarci dopo la guarigione, quasi tutti gli ex matti vengono a esprimere la loro gratitudine per averli recuperati alla vita civile, nonostante gli eventuali trattamenti rudi subiti durante le crisi di aggressività.
A differenza di quanto avviene nella società europea, la persona affetta da malattia mentale, una volta guarita, non trova difficoltà a reinserirsi nella vita della famiglia e del villaggio: nessuno gli rinfaccia il suo passato. Ciò vale anche per i criminali, compresi quelli che, durante la guerra civile si macchiarono di torture e massacri.
Un proverbio makua dice al riguardo: «Il passato è passato, adesso dobbiamo vivere il presente». I makua, etnia pacifica e aliena da litigi, attua così una concreta forma di perdono che, tra l’altro, ha favorito il processo di pace che pose termine a 15 anni di guerra civile.

LA RETE DELLA CARITAS
Dal 1999 al 2002, gli animatori e i missionari di Mecanhelas hanno soccorso circa 180 malati di mente, recuperandone una cinquantina alla vita normale. A giugno 2003, nel distretto sono stati contati circa 700 malati mentali, 450 dei quali affetti anche da epilessia; di questi, dopo cure adeguate, un centinaio sono tornati alla vita normale, sposandosi e riprendendo a lavorare la terra.
Il lavoro con i malati mentali nella parrocchia di Mecanhelas, si inquadra in un progetto più ampio: la creazione di una rete di solidarietà fra cristiani locali, denominata caridade (carità).
Per comprendere tale processo, occorre una premessa. La lunga guerra civile (1977-92) ha deteriorato il sentimento di solidarietà di molti mozambicani. Diversi bambini sono cresciuti senza genitori (magari uccisi) né alcun tipo di educazione; sono cresciuti senza apprendere il rispetto verso l’autorità di parenti o capi tradizionali; hanno piuttosto sviluppato il culto della forza, delle armi, del denaro e dell’indifferenza verso le sorti del prossimo.
Inoltre, durante e dopo la guerra, agenzie umanitarie e missionari hanno distribuito aiuti indiscriminatamente, provocando tra la popolazione un atteggiamento passivo verso le difficoltà, con conseguente allentamento dei vincoli di solidarietà verso concittadini più poveri.
In campagna come in città, non è raro incontrare anziani genitori che patiscono fame e freddo, abbandonati da figli e parenti che vivono nello stesso villaggio senza problemi economici.
Nel distretto di Mecanhelas si calcolano 5 mila persone «povere», cioè non in grado di mantenersi con le proprie forze: anziani, invalidi e mutilati, malati cronici (lebbra, tbc, malaria, anemia, malattia mentale). A queste bisogna aggiungere vedove e orfani, spesso abbandonati a se stessi. Un villaggio di 400 abitanti (metà dei quali cristiani) ha in media 15-20 casi di tali persone, spesso condannate a morte per inedia.
In questo contesto, ho chiesto agli animatori delle comunità cristiane di impegnarsi ad aiutare i poveri, secondo le proprie possibilità. Ho suggerito loro di elaborare un progetto di assistenza, che includesse sia l’attività dei cristiani che quella dei missionari, promettendo che avrei «obbedito ai loro ordini».
Ne è scaturita questa idea: gli animatori avrebbero messo la loro forza lavoro a disposizione dei poveri del villaggio: coltivare i campi di chi non poteva più farlo, costruire le case, distribuire il cibo, raccolto tra i cristiani al termine delle messe domenicali. A me hanno chiesto di provvedere coperte per i poveri e soccorrere i malati.
Occuparsi di malati richiede una certa familiarità con gli ambienti ospedalieri, difficilmente presente in un animatore di estrazione contadina. Piano piano, però, ho abituato gli animatori a vincere la loro timidezza verso il personale ospedaliero.
Il denaro per l’acquisto di coperte e cure mediche viene messo dai missionari. Ma stiamo lavorando perché comunità e famiglie dei pazienti contribuiscano alle spese mediche e la rete di solidarietà dei cristiani raggiunga un certo grado di autonomia dalle finanze della missione.

ALCUNE CIFRE DELLA RETE

Oggi, la rete di solidarietà dei cristiani di Mecanhelas assiste circa 2 mila poveri. I missionari della Consolata hanno procurato un migliaio di coperte e 300 capi di vestiario per altrettanti poveri. Missionari e animatori provvedono a inviare regolarmente i malati fisici presso gli ospedali più adatti, a seconda della specialità richiesta.
Ogni due mesi vengono trattati 25 pazienti di chirurgia generale, più 6-8 malati che necessitano di interventi chirurgici specialistici, per un totale di 170 operazioni. Chi è affetto da malaria, anemia, tbc, lebbra, parassitosi, piccole ferite e ustioni, viene accompagnato dagli animatori all’ambulatorio di Mecanhelas.
Per aiutare gli invalidi alle gambe, la parrocchia provvede loro delle carrozzine triciclo: i cristiani del villaggio contribuiscono per coprire un terzo della spesa. Sempre nell’ambito della rete di solidarietà, i missionari hanno attivato un programma di mini-prestiti alle associazioni di animatori della parrocchia, perché possano avviare piccole attività economicamente redditizie.
I beneficiari dei prestiti vengono selezionati dai missionari e dagli animatori, valutando il loro impegno a favore dei poveri e ammalati e la capacità di lavorare in gruppo per gestire una piccola impresa. Del profitto ottenuto, la metà va ai membri dell’associazione, l’altra metà è impiegata per finanziare l’aiuto a poveri e malati. Finora, sono stati concessi prestiti per 180 euro a 6 imprese, i rimborsi ammontano a 150 euro.
Oltre a promuovere l’autonomia finanziaria delle comunità nel servizio ai poveri, le iniziative di microcredito indicano la via da percorrere per uno sviluppo futuro, fondato sullo spirito di una rete chiamata caridade

di Paolo Deriu*