A volte anche parole e simboli diventano,
senza che ce ne rendiamo conto, «violenti».
Questione di abitudine, mentalità, cultura.
Così il razzismo è sempre in agguato…
I l «simbolo» non è un prodotto di natura, come l’acqua, l’aria, la luce, la pioggia che scende dal cielo… ma è un manufatto.
Un certo interesse, alquanto intellettuale, per un tema del genere, non dipende da motivi artistici o astratti: avendo dovuto insegnare in Mozambico per diversi anni ho voluto, usando tutto il tatto possibile per non ingenerare suscettibilità inutili, chiedere ai miei allievi che mi dessero il significato di alcuni vocaboli esistenti nelle loro lingue, tra cui anche quello di «simbolo». Avevo notato una certa perplessità nel rispondermi e mi ero convinto sempre più che probabilmente noi occidentali importiamo concetti che esulano dalla loro mentalità.
Il vocabolo «simbolo» (dal greco sun ballo) significa «mettere insieme» due elementi, di cui uno esistente in natura (come cosa) e l’altro con proprietà spirituali, dall’uomo e dalla sua capacità creativa. I simboli esistono perché esistono gli uomini, come il tempo. Forse i simboli sono il primo prodotto dell’uomo in quanto uomo.
Un giorno un africano scrisse una lettera ad un bianco (un bianco ipotetico) del seguente tenore:
Caro fratello bianco,
quando sono nato ero nero.
Quando sono cresciuto ero nero.
Quando mi metto al sole resto nero.
Quando muoio sarò sempre nero.
Ma tu, uomo bianco,
quando sei nato eri rosa.
Quando sei cresciuto eri bianco.
Quando vai al sole diventi marrone.
Quando sei arrabbiato di collera
diventi rosso.
Quando hai freddo diventi blu.
Quando hai paura diventi verde.
Quando sei ammalato diventi giallo.
Quando muori sei grigio.
E hai il coraggio di chiamare me
«uomo di colore»?
I colori sono simboli. Ma tra tutti, quello nero viene caricato generalmente di significati perversi e violenti.
LA NATURA DEI SIMBOLI
I simboli sono forme visibili di realtà invisibili. Ciò avviene quando un oggetto materiale si carica di valori o significati che vi mette l’uomo. Una bandiera, un mazzo di fiori, il canto della Marsigliese (è stata cantata anche nella rivoluzione russa del 1917!) o di alcune arie del Nabucco, l’uso magico del fuoco o dell’acqua (in tutte le culture)… vanno al di là della loro pura materialità.
Il simbolo è come un’impronta digitale ed è sempre allusivo. Tra i simboli, il più eccellente (e che non ha limiti nelle sue forme quasi infinite) è il dono. Tutto può essere trasformato in dono: un fiore di campo come una gemma preziosa; ma possiede sempre, oltre al valore dell’oggetto materiale, un plus valore di carattere spirituale, che aggiunge chi dona o chi riceve il dono.
Il simbolo è sempre un’uscita libera e concreta del nostro io verso altri. In genere i simboli, quelli veri, sono dei tentativi di perpetuare nel tempo qualcosa di noi. Come si fa con i testamenti e nei giuramenti di fedeltà. I simboli non sono delle forme algebriche, ma arabeschi e melodie. Non illuminano soltanto l’intelligenza, ma riscaldano il cuore.
È pure certo che l’uomo sente il bisogno di creare dei simboli. Perché tanta gente ha reso omaggio ad una donna di nome Diana? Il popolo non l’ha trasformato in un «mito», ma in simbolo: il che è diverso. Tutti noi siamo assetati e affamati di simboli.
Però c’è anche un risvolto negativo e pericoloso (come in tutte le cose belle) in questa necessità di creare e di servirci di simboli, specie quando quest’uso fosse inconscio. L’animo umano è generoso, specie nei «doni»; ma sovente è anche aggressivo e può servirsi dei simboli per ferire più ferocemente o, addirittura, uccidere: se non fisicamente, moralmente.
Viene in mente il romanzo di François Mauriac, Groviglio di vipere: il vecchio e ricco avvocato consuma la sua esistenza nell’odio contro tutti, compresi moglie e figli, e lo fa diseredando tutti, con un testamento feroce; osserva di nascosto i membri della famiglia in attesa del bottino, come si guarda una mosca alle prese con un ragno… Ma la moglie muore prima e così tutta la sua carica di vendetta sfuma.
Si pensi anche alla carica simbolica, non sempre positiva, che c’è nella nostra «domenica» cristiana, in confronto al «sabato» ebraico o al «venerdì» musulmano. Nel nostro mondo questi giorni sono legati anche alla pausa nel lavoro, quindi ci sono problemi finanziari e problemi sindacali, ma anche di carattere puramente simbolico. È solo con Costantino, infatti, quando la chiesa diventa istituzione di stato, che la «domenica» prevarica e si carica anche di violenza verso chi non è cristiano.
L SIMBOLO,
INESAURIBILE MINIERA
Si tratta di uno degli aspetti della creatività dell’uomo. Simboli sono anche le parole che ci escono dalla bocca: hanno una loro vita segreta e non esiste nulla che sia più soggetto alle bizzarrie della moda delle parole che sono nei nostri vocabolari. Come c’è accuratezza nella scelta dei vestiti, che possono anch’essi trasformarsi in simboli (presentarsi alla Camera dei deputati in jeans o vestiti da pagliacci!), così c’è accuratezza e varietà di sfumature nell’uso delle parole; ad esempio, storpiamo volutamente il nome di una persona.
Le parole possono scatenare una guerra sui nomi delle persone (ad esempio nelle etnie bantu, quasi tutta l’Africa subequatoriale, in India e altre località, i bambini ricevono tre nomi che hanno tutti un significato particolare). Con le parole si può giocare; le si può far camminare sul filo come se fossero dei funamboli, con sottintesi, analogie, paragoni, metafore. Per esempio, nelle lingue africane i nomi hanno i prefissi che indicano le categorie (o classi). C’è quindi la categoria degli animali, delle piante, ecc. L’uomo ha un certo prefisso: se per disprezzo a una persona, anziché mettergli il prefisso di uomo, gli si mette il prefisso di un animale, evidentemente gli si fa un’offesa profonda.
Nella nostra lingua italiana le parole «nero» e «negro» di per se non assumono un carattere dispregiativo, mentre negli Stati Uniti era in uso, e forse lo è ancora, in senso dispregiativo la parola nigger (in slang «niga»). Noi italiani, forse, faremmo bene a scrivere le parole negro, nero, afro-americano, africano, quando sono sostantivi, con l’iniziale maiuscola per eliminare nelle persone di razza nera ogni suscettibilità.
In pittura si potrebbe, ad esempio, citare il caso di Goya con le sue cosiddette «pitture nere»: in un momento triste della sua vita, ritiratosi in solitudine nella Quinta del sordo, dipinse le pareti di questa sua abitazione con immagini tragiche e ossessive, riflesse nella visione tetra della sua mente angosciata, per l’appunto pitture nere! Oppure nei dipinti di Van Gogh colori, immagini e vita fanno un tutt’uno.
C’è una carica simbolica nel velo. Nel medioevo il velo era considerato un capo elegante del vestiario femminile. Ne abbiamo uno stupendo sviluppo nell’arte italiana dei velari. Ma quale significato ha il velo imposto alle donne musulmane? Il racconto di Nataniel Hawthoe dal titolo Il pastore dal nero velo sul volto, velo mai deposto, neppure nella tomba, ha del macabro.
Nell’argentino Jorges Luis Borges, cieco, ci sono i simboli dello specchio e del labirinto; in Umberto Eco c’è il simbolo del pendolo, in Elsa Morante quello dell’isola e del mare.
IL SIMBOLO DEI COLORI
Un proverbio recita: «Non ha importanza il colore del gatto, purché acchiappi i topi». Un maestro delle elementari un giorno fece questa domanda ai suoi bambini: «Se tutte le persone buone fossero bianche e tutte quelle cattive fossero nere, voi di che colore sareste?». Una piccola risposta: «Signor maestro, io sarei a strisce». Ma una domanda del genere sarebbe opportuna in Africa, dove tutti i bambini sono neri o qui tra noi in una classe con bambini bianchi e neri?
Pare che gli antichi egiziani fossero raffinatissimi nell’uso dei colori, tanto da identificare l’essere di una persona con il colore. Cosa non insolita, perché nella cultura greca, ad esempio, la persona era qualificata dalla maschera che portava sul viso, il cosiddetto prosapon, che significava dare un colore, dare un valore alla persona.
In Egitto quando si affermava che non si conosceva il colore di una divinità, significava affermare la sua trascendenza e imperscrutabilità. Nelle nostre città del nord domina il nero-fumo; i semafori hanno il verde per indicare via libera, il rosso per indicare senso vietato.
Le bandiere sono dei simboli a colori per eccellenza (vedi riquadro). Si discute sul nostro «tricolore». Pare derivi dalla bandiera della rivoluzione francese (bianco, rosso, azzurro); l’azzurro, simbolo della rivoluzione, sarebbe stato sostituito al verde, colore massonico, ereditato dai giacobini e adottato dai fautori del risorgimento.
In Africa, su 51 stati almeno 17 hanno nelle loro bandiere il nero. Il verde, poi, appare in quasi tutte le bandiere degli stati musulmani: quella libica è tutta verde, l’algerina per metà è verde, perché il verde è il colore dell’islam. Forse anche l’accecamento causato dalla sabbia del deserto porta a considerare il verde, come un colore riposante.
Nella bibbia l’innamorata dice al suo amato: «Nigra sum, sed formosa» (ho la pelle scura, eppure sono bella, Cant 1,5). «Scura come le tende dei beduini, bella come i tendaggi del palazzo di Salomone».
Ma, al contrario, gli assediati in Gerusalemme, al tempo di Geremia, erano diventati tutti «neri». Di loro si diceva che «sembravano più neri della fuliggine e non si riconoscevano per le strade» (Lam 4, 8).
Nella liturgia cattolica sono in uso i quattro colori: bianco, rosso, verde, viola: colore, quest’ultimo, segno di penitenza e tristezza. C’era anche il nero nella liturgia dei defunti, ma fu abolito con la riforma liturgica.
In un testo cristiano molto antico, composto nel secondo secolo, la cosiddetta Lettera di Baaba, c’è un capitolo dal titolo «La via della luce» e un altro «La via delle tenebre». Quest’ultimo inizia così: «La via del Nero (con la «n» maiuscola!) invece è tortuosa e piena di maledizione». È evidente che qui «nero» sta per diavolo.
In Africa i colori basici sono il rosso, il nero e il bianco. Il rosso indica vita (dal sangue); il nero la notte, la sofferenza, le prove; il bianco la morte. Quindi tutto il contrario della nostra mentalità.
Senghor, ex-presidente del Senegal, cattolico, scriveva: «L’uomo nero con il suo colore è come immerso nella notte, notte primordiale: egli non vede l’oggetto, ma lo sente, l’intuisce, aperto com’è a tutte le onde della natura». Quindi il nero si distinguerebbe dai bianchi perché ha l’istinto pronto, intuisce le cose; è nella notte, però le percepisce ugualmente. E questa capacità intuitiva, più che raziocinante, starebbe alla base, secondo lui, della cosiddetta négritude.
Una cantante francese cantava: «Il nero è un colore di festa, di sera, di notte sfavillante, di dignità, di danza, di seduzione, e anche di dispiaceri. Bien sûr».
Montale inizia una sua poesia (Il raschino) con questo verso: «Crede che il pessimismo / sia davvero esistito»; e termina così: «… Ora tutti i colori esaltano / la natia tavolozza, escluso il nero». Il Corriere della sera (luglio 1997), a riguardo del concorso di «Miss Italia», vinto da Denny Mendez, intitolò un articolo: «Miss Italia, mai più nera».
Nel nostro linguaggio italiano (o nella nostra mentalità) il colore «nero» è sempre legato a qualcosa di tremendamente negativo, malefico e diabolico. Esso indica tutto ciò che c’è di più negativo in noi e intorno a noi. È una litania senza fine: umore nero, lavoro nero, mercato nero, borsa nera, toto nero, peste nera, pozzo nero, messe nere, persino «grazia nera»…
Il caso più patetico (oltre al film «Indovina chi viene a cena?») incontrato nella letteratura è il romanzo, dal titolo «Storie di bianchi», scritto da un americano nero, Langston Hughes. In questo romanzo troviamo una lettera scritta da un mulatto, di caagione però completamente bianca. La lettera è inviata alla madre negra. Questo giovane è ormai inserito nel mondo dei bianchi, ha una bella fidanzata bianca. In questa lettera chiede scusa a sua madre perché, avendola incontrata per strada a braccetto con la fidanzata, aveva fatto finta di non conoscerla. Egli scrive: «Quando ci si fa passare per bianchi, la cosa tragica è proprio questa, che si deve rinnegare in pubblico la propria famiglia e persino la propria madre. È una cosa terribile, mamma, e detesto il doverlo fare, anche se tu mi dici che ciò non ha importanza. Io sposerò una bianca… e se arrivasse un figlio nero, giurerò che non è mio figlio. Perché non intendo ricadere nel pantano nero».
Ciò che colpisce sono le parole «pantano nero». Si tratta di un romanzo, ma la fiction non è molto lontana dalla realtà.
Qui la violenza del simbolo è terribile e non solo da un punto di vista psicologico. I neri li abbiamo schiavizzati e umiliati anche così.
BANDIERE DI PACE
Ogni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.O gni popolo, stato, nazione si identifica in una bandiera. Il suo uso risponde a un’esigenza elementare dell’uomo: sentirsi identificato a una comunità, etnia, gruppo… Tale simbolo, infatti, è in grado di dare maggiore rilevanza all’individuo, collocandolo in un contesto sociale più ampio, e lo rappresenta visivamente inserito in una realtà che trascende il singolo soggetto.
Bandiere, stendardi e vessilli hanno una funzione: in passato, aveva grande importanza sui campi di battaglia dove, mancando ogni trasmissione radiofonica, distinguere i propri colori da quelli dell’avversario significava praticamente avere salva la vita. Ancora oggi le bandiere utilizzate sulle navi sono mezzo di segnalazione e riconoscimento.
In prospettiva psicologica, la bandiera suscita nel cuore di milioni di persone emozioni e sentimenti legati a valori assoluti; essa diventa il segno più semplice ed efficace per assumere e «tradurre» tali valori in scelte esistenziali, coinvolgendo la persona nella sua globalità, fino a dare la vita per l’ideale da essa rappresentato o per la bandiera stessa.
Quando avvenimenti epocali sconvolgono assetti ed equilibri sociali e politici, le bandiere «parlano da sole». Ne è un esempio la portata storica che ebbe il tricouleur durante la rivoluzione francese e la bandiera rossa con la falce e martello durante la rivoluzione russa, modelli ripresi con molteplici varianti in vari paesi del mondo.
Si hanno testimonianze di simboli ed emblemi «nazionali» fin dall’antico Egitto, subito imitati da Assiri e Babilonesi. Nella bibbia sono ricordate le insegne delle 12 tribù d’Israele in marcia verso la terra promessa.
I Romani avevano i signa (insegne) per la fanteria e i vexila (vessilli) per la cavalleria; il simbolo dell’aquila era utilizzato dalle legioni romane in ogni angolo dell’impero.
Ai tempi di Costantino iniziò l’adozione di un labaro con la croce, simbolo poi largamente utilizzato dalle nazioni europee nate dallo sfascio dell’impero romano e bizantino.
Nelle conquiste del Medio Oriente e del bacino del Mediterraneo, gli arabi dispiegavano bandiere bianche, nere e verdi, rispettivamente degli omayyadi, abbasidi e alidi: colori tutt’ora preminenti (col rosso degli ottomani) nelle bandiere dei paesi arabi odiei.
A partire dal medioevo, la bandiera si affermò in tutti i regni europei come simbolo nazionale.
Suggestiva è la storia del dannebrog, la più antica bandiera del mondo, ancora in uso in Danimarca: narra una leggenda nordica che, durante una terribile battaglia contro gli estoni, a quel tempo ancora pagani, i danesi implorarono l’aiuto divino e dal cielo scese un drappo di lana rossa con una croce bianca, che terrorizzò i nemici e li mise in fuga.
Con diverse varianti di colore, il dannebrog è stato adottato da tutti i paesi del Nord Europa.
Curiosa è pure l’origine della bandiera pontificia: bianco e giallo erano i colori caratteristici degli stendardi di Goffredo da Buglione: dopo che il famoso condottiero conquistò Gerusalemme, nella prima crociata, tali colori furono adottati come simbolo dello Stato Pontificio, con l’aggiunta delle chiavi di san Pietro.
La bandiera è un simbolo che provoca ancora un grande impatto sull’opinione pubblica. Che emozioni abbiamo provato nel vedere migliaia di americani con le bandierine a stelle e strisce in mano nei momenti di preghiera dopo l’attentato delle Torri Gemelle; e dopo il crollo dell’Unione Sovietica, quando venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino sostituendola con il tricolore in uso sin dai tempi degli Zar; durante il «mitico 1989», quando i popoli dell’Est strappavano gli emblemi comunisti dalle bandiere nazionali per inalberare orgogliosamente bandiere lacere e strappate, finalmente affrancate dai simboli del dominio marxista. Abbiamo provato anche noi la sensazione dell’inizio di una nuova epoca di libertà per tutti.
Ma chi non sente un brivido per la schiena, vedendo giovani muscolosi e incoscienti brandire le svastiche, mentre inneggiano al nazismo e ostentano violenza e odio?
E come non sentire un’istintiva simpatia, di fronte alla mobilitazione dei popoli indigeni delle Ande che, rivendicando diritti e dignità, sventolano la whipala, la multicolore bandiera degli aymara e quechua: essa è composta da una serie di riquadri colorati, disposti su linee diagonali, il cui suggestivo riferimento cromatico raffigura l’iride e allude alle istanze della gente andina.
Sono gli stessi colori dell’arcobaleno, che un formidabile movimento di massa ha rilanciato su scala nazionale e mondiale, identificando in quel simbolo l’anelito di pace che gli arroganti di tuo hanno cercato di sbeffeggiare e soffocare. Forse è dai tempi del risorgimento che l’Italia non vede milioni di persone «vibrare» così intensamente di fronte a una bandiera.
La pace, anelito fondamentale di tutti gli uomini di buona volontà, ha fatto fiorire i balconi di tutta la penisola e garrire al vento questa immensa voglia di giustizia e libertà. Una bandiera questa, da non ammainare mai più.
don Mario Bandera
Igino Tubaldo