ETIOPIA – Ciclica o endemica? A proposito di fame in Etiopia

Domenica 11 maggio 2003 a Cachachulo. Dopo la messa, i capi delle Associazioni contadine ripetono davanti a padre Paolo Marré una litania di problemi: «Nessuno ci aiuta. Dopo varie relazioni alle autorità, abbiamo solo promesse. Le organizzazioni umanitarie non vengono qui perché non ci sono strade. Intanto moriamo di fame e sete. Le donne fanno fino a 8 ore di cammino per attingere l’acqua. Buona parte del bestiame è morto. Venite a vedere».
Non ne abbiamo bisogno: abbiamo già incontrato carcasse di capre per la strada; il padre ha visitato le famiglie un mese fa. Finalmente può comunicare la bella notizia: mercoledì inizierà la distribuzione di cibo alle famiglie bisognose.
Cachachulo, a 95 km da Shashemane, ai confini sud-orientali dell’Oromia, con oltre 100 persone, è un’icona della disperazione di un intero paese con oltre 63 milioni di abitanti, di cui nove decimi vivono in aree rurali, le più colpite dalla carestia.

DISASTRO ANNUNCIATO
L’allarme fu lanciato dal Programma alimentare mondiale (Pam) fin dal giugno 2002: 6 milioni di persone in Etiopia rischiano di morire di fame. Il 18 novembre, a Londra, il primo ministro etiopico, Meles Zenawi, chiese più aiuti alla comunità internazionale, per la sopravvivenza di 12 milioni di etiopi; oggi si parla di 15 milioni e potrebbero arrivare a 20. «In un solo paese – afferma Georgia Shaver, segretario del Pam in Etiopia – il numero di bisognosi di cibo potrebbe essere pari a quello di tutto il resto dell’Africa».
Ad aggioare le cifre, oltre al Pam, l’agenzia di soccorsi umanitari dell’Onu, è pure la Commissione per prevenire e prepararsi ai disastri (Dppc), organo del governo etiopico per monitorare l’andamento della sicurezza alimentare nel paese e sollecitare gli aiuti inteazionali.
I paesi donatori (Usa in testa) hanno inviato tonnellate di granaglie; la Dppc ha riunito le Associazioni dei contadini, steso le liste delle famiglie bisognose e cominciato a distribuire mezzo quintale di grano a ogni gruppo di 5 persone: tale aiuto, però, si riduce a una manciata di grano tostato al giorno, con cui un’intera famiglia deve sopravvivere per un mese.
Per quanto misero, tale soccorso non arriva regolarmente a tutti, sia perché molte zone del paese sono lontane dai punti di distribuzione, sia perché gli aiuti inteazionali sono insufficienti: la tragedia è più grave del previsto e, dopo i primi mesi, l’attenzione mondiale è stata rivolta al disastro umanitario e alla ricostruzione dell’Iraq. Di fronte al disastro annunciato, i mezzi di comunicazione mondiale non hanno speso una parola, troppo assorbiti dalle vicende del Golfo.

«INCUBO RICORRENTE»
L’espressione è del presidente etiopico. La crisi è peggiore di quelle del 1983-84 e del 1993-94, in cui 10 milioni di persone furono colpite dalla carestia, causando un milione di vittime. Questa volta, il numero potrebbe essere triplicato, senza contare le conseguenze che la denutrizione lascerà nei superstiti.
Sembrerebbe che tale incubo ritorni ciclicamente ogni dieci anni. Le statistiche foite dal Dppc testimoniano che in Etiopia fame e denutrizione sono endemiche.
Dal 1984 tutti gli anni si susseguono carestie di varia intensità, con la differenza che, negli anni «normali», la distribuzione di cibo procede bene; quando la crisi è troppo estesa, la mancanza di strutture e risorse adeguate impedisce interventi rapidi e capillari. Di solito si dà la colpa ai fenomeni climatici. Nel caso attuale la crisi è attribuita al fatto che da un paio d’anni piove poco e nel 2002, soprattutto, le precipitazioni sono state pressoché nulle, sia durante le piccole (febbraio-maggio) che le grandi piogge (agosto-novembre).
In teoria, l’Etiopia non manca d’acqua: numerosi fiumi, tra cui il Nilo blu, nascono sugli altipiani, attraversano il paese ed esportano acqua in Sudan e Kenya; nella Rift Valley, una delle zone più colpite dalla carestia, ci sono una dozzina di laghi, alcuni grandi come il Garda. In alcune zone piove più che in Nord Italia: mentre in certe aree c’è la siccità, in altre i raccolti sono più che abbondanti.

DISASTRO POLITICO
Qual è, allora, la vera causa della fame in Etiopia? Il professor Mesfin Wolde Mariam, fondatore del locale Movimento per i diritti umani, studioso e autore di vari libri sul problema, afferma che la fame in Etiopia è di «origine socio-politica» e spiega: «L’85% della popolazione etiopica vive di agricoltura di sussistenza ed è vulnerabile alla fame, perché oppressa e sfruttata da regimi dispotici e sfavorita dalle condizioni di mercato. Il regime marxista ha nazionalizzato la terra e i contadini non hanno più diritto di proprietà né sicurezza di tenuta: essi possono coltivare piccoli appezzamenti di terreno finché esprimono lealtà al regime. L’obbligo di partecipare agli incontri di indottrinamento sottrae tempo prezioso al lavoro dei campi; la chiamata alle armi lascia il lavoro agricolo a donne, vecchi e bambini. Ogni anno, poi, al tempo del raccolto, piombano sui contadini esattori di tasse, contributi, debiti, forzandoli a pagare o andare in prigione. Gli agricoltori vendono i loro prodotti quasi allo stesso tempo, provocando il crollo dei prezzi. Più devono pagare più prodotti sono costretti a vendere: così 5-6 milioni di persone rimangono senza cibo e non hanno soldi per comperarlo, neppure negli anni di abbondanza.
Malnutrizione e fame si trascinano di anno in anno. Se poi falliscono le piogge stagionali, la fame diventa un killer di massa».
Per superare la povertà ereditata dal passato, il governo ricorre a iniziative come quelle del «cibo o denaro in cambio di lavoro», ma esse non bastano per mantenere la promessa di dare a tutti «tre pasti al giorno». Sono state introdotte misure positive: economia mista, liberalizzazione del mercato, decentramento amministrativo, investimenti nell’agricoltura, ma i risultati non si vedono.
Le spese militari assorbono almeno il 5% del prodotto interno lordo (Pil); il regime continua a essere oppressivo e l’amministrazione burocratica e corrotta; la proprietà è ancora negata; l’assegnazione della terra dipende dai venti politici; i sistemi di produzione e allevamento sono arretratissimi; le strutture di stoccaggio, mercato e ridistribuzione dei prodotti quasi inesistenti; la ricerca scientifica e difesa del suolo dalle erosioni totalmente assente…
E mentre milioni di persone rischiano di morire di fame, il problema più discusso dal governo sono i quattro sassi di Badme, per cui il paese si è dissanguato di uomini e denaro nella guerra contro l’Eritrea.

SINDROME DA DIPENDENZA
«Finché piove negli Stati Uniti e in Canada, non importa se le piogge sono totalmente assenti in Etiopia» recita una trita e ritrita facezia. A parte il sarcasmo, essa fotografa la crescente sindrome da dipendenza del paese.
Tale dipendenza fa comodo al regime. Le donazioni inteazionali sono la principale industria dell’Etiopia: quest’anno dovrebbero sfiorare il miliardo di dollari (un sesto del Pil). E poiché tali aiuti sono gestiti dalla Dppc, parte di essi resta impigliata tra le maglie dell’intricato labirinto burocratico, a livello nazionale e locale.
Inoltre, la fame può essere usata come strumento di potere per muovere le pedine della politica e degli equilibri etnici. Nonostante i proclami di sostegno all’agricoltura, afferma il prof. Mesfin, «la politica inespressa del regime consiste nel tenere i contadini politicamente senza potere, economicamente impoveriti e socialmente arretrati: così, nelle cosiddette elezioni, alcuni membri del partito ottengono fino al 100% dei voti e il regime mantiene una legittimazione di facciata per governare il paese».
La sindrome da dipendenza fa comodo anche alla comunità internazionale, che chiude un occhio sulle cause delle carestie, tutt’altro che inevitabili.
Controllata con pugno di ferro dall’esercito, l’Etiopia è diventato un paese strategico del Coo d’Africa nella lotta internazionale al terrorismo. Gli americani elogiano il ruolo di Addis Abeba in tale lotta e meditano di collocare basi militari Usa nel paese, lungo il confine con la Somalia. Lo ha rivelato il segretario alla difesa Usa, Donald Rumsfeld, a metà dicembre 2002, durante la visita al Coo d’Africa, dove ha incontrato il presidente Meles Zenawi.

SOLUZIONE POLITICA
«Le potenzialità agricole dell’Etiopia (terra, risorse idriche, diversità climatiche) possono diventare talmente produttive – continua il professor Mesfin – da permettere al paese di esportare una grande quantità di prodotti. Non ho alcun dubbio al riguardo. Ma fino a quando i contadini rimangono impotenti e in servitù, e fino a quando continua la cattiva amministrazione di tali risorse, la carestia sarà sempre un problema per il quale la comunità internazionale sarà chiamata a provvedere soccorsi di emergenza».
«In ultima analisi, la fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio» afferma James Morris, direttore esecutivo del Pam. L’alternativa è il caos.
La fame provocò scioperi, manifestazioni studentesche e proteste generali, portando alla caduta dell’imperatore Hailé Salassié (1974). La carestia del 1983-84 diede origine ai partiti di opposizione e alla guerra civile, culminata con la fuga di Menghistu. Anche oggi le proteste di studenti e contadini vengono represse nel sangue. Se il regime non cambia atteggiamento, l’Etiopia potrebbe diventare teatro di una tragedia simile a quella dei Grandi Laghi.

Benedetto Bellesi

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