Più che un articolo, è una lettera.
Per raccontare l’esperienza quotidiana
e invitare alla solidarietà,
nel rispetto della cultura locale,
in un contesto sociale drammatico.
TEATRO DI SCONTRI
Dall’alto delle Ande colombiane
un affettuoso saluto a tutti i lettori
di Missioni Consolata. Il nord del
Cauca, dove lavoro come missionario,
è sulla cordigliera centrale: quindi
è montagnoso, con altezze che variano
dai 1.400 ai 3.500 metri.
Non sono solo. Opero con altri
cinque missionari della Consolata,
un gruppetto di suore e alcuni laici.
Un saluto anche da parte loro. In équipe
serviamo quattro parrocchie:
Toribío, Tacueyó, Jambaló e Caldono.
Però, in realtà, la nostra attività
si estende a tutto il territorio indio
del popolo dei nasa, formato da 20
resguardos (riserve indigene).
Il luogo è ameno, con un clima favorevole:
è quasi un’eterna primavera
che permette di coltivare mais,
caffè e, nelle zone più calde e pianeggianti,
canna da zucchero. Non
manca la frutta.
Il mio saluto è anche preoccupato,
perché il nord del Cauca è teatro
di aspri conflitti sociali. Da circa 40
anni, data la posizione strategica di
ponte fra il nord e sud del paese, la
regione è una delle più cruciali della
Colombia, sede di gruppi guerriglieri:
Farc (Forze armate rivoluzionarie
colombiane) e Eln (Esercito di
liberazione nazionale). La zona recentemente
è diventata pure una via
di transito della cocaina.
Sul territorio si registrano continui
scontri armati fra la guerriglia, da una
parte, e l’esercito nazionale e le
milizie paramilitari dall’altra. La criminalità
organizzata, legata al traffico
di stupefacenti, rende il quadro
ancora più tetro.
E, come sempre accade, chi soffre
di più le conseguenze della lotta
armata è la popolazione civile,
aggredita, ferita e uccisa da personaggi
senza scrupoli. Ne deriva un
progressivo impoverimento delle
comunità.
Negli ultimi anni il nord del Cauca
ha registrato una forte crescita
demografica e, di conseguenza, una
maggiore richiesta di mezzi per l’educazione,
la salute e l’alimentazione;
ma non è seguito un corrispondente
aumento della produzione.
L’economia agricola è in grande parte
di sussistenza. Vittime soprattutto
di tale situazione sono i giovani e,
in maniera drammatica, i bambini.
Una cospicua parte delle attività
pastorali della parrocchia è diretta
proprio a quest’ultima fascia debole
della popolazione. Gli interventi
sono diversificati: vanno dalla catechesi
ordinaria, che consente un diretto
rapporto con i bambini nelle
scuole, alla preparazione ai sacramenti,
al sostegno dei Semilleros de
la paz (seminatori di pace). È questo
un movimento di educazione alla
pace; i bambini provengono sia
da centri urbani sia da frazioni di
campagna dove vive la maggioranza
della popolazione.
Ancora: da oltre un anno è in corso
un programma di adozioni a distanza,
appoggiato dall’associazione
Italia solidale, con la quale riusciamo,
grazie alle autorità indigene e al
lavoro di volontari locali, a raggiungere
i bambini più bisognosi.
SE LA VITA È DURA
Il contatto capillare con le famiglie
più povere ci ha aperto gli occhi
su altri problemi, non facilmente
percepibili ad un primo sguardo
sommario. Alludo alla situazione
dei bambini disabili o gravemente
malati, bisognosi di interventi specifici
di chirurgia o di rieducazione:
trattamenti che, data l’estrema povertà sociale, sono fuori della portata
dei genitori.
Ebbene, quando un amico di Torino,
Gabriele, mi ha parlato della
possibilità di incidere alcuni brani
musicali su CD per proporlo in «offerta
» e inviare i proventi alla nostra
missione, ho pensato subito ai piccoli
disabili. Il progetto di Gabriele
potrebbe essere condiviso anche da
altri amici italiani.
Ho scritto che il fenomeno della
«differenza» non è subito facilmente
avvertibile. Mi riferisco anche alle
barriere culturali, che tendono a
isolare e nascondere i bambini portatori
di handicap fisici o mentali.
Oggi una maggiore coscientizzazione
sul valore della persona permette
a molte creature sfortunate di
vivere: non vengano più soppresse
nelle prime ore di vita, per consentire
alla famiglia una sopravvivenza
senza il fardello ulteriore di un figlio
«esigente».
Ciò che a noi può apparire un dato
aberrante deve essere, però, letto
nel contesto di una vita durissima,
dove la lotta per sopravvivere è
quotidiana e dove un bambino handicappato
sottrae alla famiglia forze
importanti, che potrebbero consentire
agli altri membri maggiori
probabilità di crescere, di andare a
scuola, ecc.
Nella regione del Cauca il tasso
di mortalità infantile è elevato, e la
denutrizione è una delle cause principali
(se non la più grave) che porta
il bimbo a soccombere, oppure a
vivere con pesanti condizionamenti
fisici e psicologici.
A questo si aggiunge un altro fatto:
un figlio penalizzato fin dalla nascita
(anche se accettato) rimane sovente
abbandonato a se stesso. Una
terapia specifica potrebbe aiutarlo a
crescere, a sviluppare le sue potenzialità,
a unirlo di più alla comunità.
Questa, invece, tende a isolarlo.
In tale contesto l’azione «con» e
«sulla» famiglia è fondamentale per
intaccare il male alla sua radice. Però
molti genitori non sono in grado di
offrire ai figli un ambiente idoneo
dove possano almeno «non peggiorare» la già precaria situazione.
ALTRE BARRIERE
Il problema della famiglia è acuto.
Tanti nuclei familiari sono frutto
di unioni forzate, dovute a gravidanze precoci.
In numerosi casi il padre è assente,
fisicamente ed economicamente.
Tante madri sono incapaci di educare
i figli, che vengono pertanto affidati
alla nonna o ad una sorella
maggiore, con pochi anni di più. Risulta,
allora, quasi impossibile che
un bambino disabile, bisognoso di
particolare attenzione, abbia un adeguato
accompagnamento da parte
dei familiari, mentre necessiterebbe
di assistenza e riabilitazione
costanti in un ambiente che lo circondi
di affetto.
Incide molto anche la fede popolare
nel medico tradizionale (sciamano)
e nei benefici della sua medicina.
D’altro lato, c’è il sospetto e,
talvolta, la paura di affidarsi alle cure
della medicina occidentale; dal
dottore o all’ospedale si va se lo prescrive
lo sciamano. Tale credenza è
molto radicata nella gente, anche
per l’indubbio ruolo socio-religioso
che lo sciamano esercita all’interno
della società indigena.
La presa di distanza dalla medicina
occidentale fa sì che, sovente, la
donna preferisca partorire in casa,
aiutata da una partera e sotto gli auspici
dello sciamano, anche quando
il parto, per la sua difficoltà, richiederebbe
il ricovero in una struttura
ospedaliera. Va da sé che tali scelte
possono essere causa di handicap
nel nascituro e rischiose per l’incolumità
della puerpera.
Ai problemi di origine culturale si
aggiungono quelli più strettamente
economici. I genitori sono poveri e,
anche se volessero, sarebbe per loro
impossibile fornire ai figli, portatori
di handicap, un’attenzione sanitaria
in grado di aiutarli a vivere
meglio la disabilità.
La nostra regione, poi, non possiede
alcuna struttura capace di offrire
un’attenzione specializzata ai
portatori di handicap. Le famiglie
che possono o desiderano fare qualcosa
per loro devono, giocoforza, rivolgersi
altrove: alle strutture ospedaliere
di Santander de Quilichao,
Cali, Popayán.
E ciò è un freno alla buona volontà
di una famiglia di Toribío. Infatti
il solo viaggio in chiva (tipica
corriera colombiana) a Santander,
la cittadina più vicina (a 45 chilometri
percorribili in circa due ore)
può rappresentare un problema serio
per tante famiglie; senza contare
che, in molti casi, la specifica infermità
del bimbo esige un trasporto
su un’auto privata, sicuramente
più costoso. A questo si aggiunga la
tradizionale diffidenza del contadino
verso il mondo urbano e a quanto
egli percepisce come minaccia.
La situazione di scontro armato
peggiora ulteriormente le cose, visto
che la gente vive in un territorio interamente
controllato dalla guerriglia;
mentre nella zona pianeggiante,
all’imbocco della valle, stazionano
l’esercito e i paramilitari, sempre
pronti ad identificare o sospettare in
chi viene dalla montagna un simpatizzante
della guerriglia. Le troppe
persone uccise, sequestrate o fatte
sparire, in questo interminabile conflitto,
consigliano a tutti di muoversi
con estrema prudenza e, sempre,
con molta ansia.
E che dire del costo di una visita
specialistica, delle medicine, della
degenza in ospedale talvolta necessaria
in città?
Tutto ciò crea barriere insormontabili
per la quasi totalità delle famiglie.
PERÒ QUALCOSA C’È GIÀ
Con l’apporto di benefattori stranieri
e di medici colombiani sensibili
al problema, siamo riusciti ad
offrire interventi agli arti e al cuore
di alcuni bambini disabili. Però la
strada è ancora lunga e tortuosa.
Per ora il nostro progetto è assai
modesto: vorremmo creare una piccola
équipe di specialisti operanti in
loco, in grado di aiutare i bambini
bisognosi nei resguardos di Toribío,
San Francisco e Tacueyó. La prima
unità sanitaria dovrebbe essere formata
da un fisioterapista, un logopedista
e uno psicologo, che potrebbero
lavorare sia nel centro urbano
sia nelle veredas, visitando non
solo i bambini, ma anche le famiglie,
chiamate a garantire l’accompagnamento
costante dei piccoli pazienti.
Oltre a superare il problema del
trasporto, il sistema garantirebbe
pure un intervento medico rispettoso
della cultura locale. Sarebbe
impensabile un aiuto psicologico ignorando
il contesto socio-culturale
della popolazione.
Lo stato iniziale del progetto non
ci consente di quantificare l’aiuto
necessario per incominciare ad operare.
Sicuramente dovremo istituire
un piccolo centro, fornito di qualche
materiale per un’azione fisioterapica:
una cyclette, alcuni tappetini
di gomma piuma, una spalliera e
quanto ci verrà consigliato dal personale
addetto alla gestione del centro.
Tale personale può essere contattato
attraverso università specializzate
nel settore.
Intanto una ragazza di Tacueyó,
abilitata in logopedia, presto inizierà
a lavorare nel progetto, facendosi
carico dei bambini con problemi
di udito e parola. Ma abbiamo
bisogno di un piccolo fondo di
denaro per incominciare l’attività.
E, da questo, procedere con un progetto
concreto più definito.
Intendiamo partire dai casi più
semplici, che diano un risultato visibile
a breve termine, per mostrare
alle famiglie più scettiche che esiste
una luce, seppur fioca, all’uscita del
tunnel. Spesso le mamme non portano
i figli alla terapia, perché non
vedono miglioramenti e si rifugiano
nel classico: «Tanto non c’è nulla da
fare!». Oppure: «Campa cavallo!».
Con il vostro sostegno, cari amici,
ci piacerebbe sfatare
questi nefasti luoghi comuni.
Grazie.
(*) Padre Ugo Pozzoli, torinese,
dopo la laurea in filosofia all’università
cattolica di Washington, è
missionario in Colombia.
Ha vissuto anche una breve esperienza
in Ecuador.
Ugo Pozzoli