Grande come mezza Italia, il vicariato di Meki
è stato fondato e organizzato dal sudore dei
missionari della Consolata. Per oltre 30 anni, essi
hanno «fatto un lavoro meraviglioso» afferma
il nuovo vescovo, mons. Abraham Desta; ma resta
molto da fare, sia nel campo dell’evangelizzazione
che in quello della promozione umana.
Il 10 maggio scorso è stata una
data storica per il vicariato apostolico
di Meki. Anche il cielo ha
voluto partecipare alla festa: un temporale
notturno ha spazzato via la
cappa caliginosa che ricopriva questo
infuocato angolo della Rift Valley,
promettendo una boccata d’aria
più respirabile. La mattina, un cielo
terso come uno specchio ha fatto da
sfondo al grande evento: l’ordinazione
episcopale di abba Abraham
Desta, secondo vescovo del vicariato
apostolico di Meki, successore di
mons. Johannes Waldeghiorghis, deceduto
nel settembre 2002.
Oltre ai 4 mila fedeli, missionari,
preti locali, religiose e religiosi impegnati
nel vicariato, hanno partecipato
alla celebrazione tutti i vescovi delle
nove diocesi dell’Etiopia, il nunzio
apostolico e vari vescovi e leaders ortodossi.
La stragrande maggioranza
dei convenuti è rimasta fuori della
cattedrale, seguendo la funzione da
due schermi televisivi. Beati loro! I
privilegiati ammessi all’interno della
chiesa hanno sudato le proverbiali
sette camicie per quasi quattro ore,
tanto è durata la funzione.
IL VESCOVO VENUTO DAL NORD
Ha presieduto la cerimonia mons.
Berhaneyesus Souraphile, arcivescovo
di Addis Abeba, assistito dai vescovi
di Adigrat e di Harar. La celebrazione
eucaristica è stata in lingua
amarica e rito latino; la consacrazione
episcopale in lingua ge’ez e rito orientale.
Non sono dettagli di pura curiosità:
le differenze dei riti rispecchiano
storia, organizzazione ecclesiastica
e strategia missionaria adottata in
Etiopia. Le regioni settentrionali del
paese (Tigrai e Shoa) furono evangelizzate
fin dal IV secolo; ma due secoli
dopo la chiesa etiopica si trovò
separata da Roma per incomprensioni
di teologia cristologica, dando
origine alla chiesa copta ortodossa.
Quando nel secolo XIX Agostino
De Jacobis (1839-60) cercò di attirare
gli ortodossi nella comunione con
Roma, conservò lingua, riti e legislazione
orientali.
Nelle regioni del sud, invece, abitate
da popolazioni prevalentemente
non cristiane, il card. Guglielmo
Massaia (1846-77) preferì adottare il
rito latino, ancora in vigore anche nel
vicariato di Meki.
L’uso del ge’ez e la presenza del vescovo
di Adigrat, inoltre, sottolinea
l’origine del nuovo vescovo, che, come
il suo predecessore, proviene dalla
diocesi tigrina.
Nato 51 anni fa, Abraham Desta
studiò nel seminario di Adigrat e, dopo
l’ordinazione, continuò gli studi
in Irlanda, presso un istituto dei Gesuiti,
conseguendo la licenza in teologia
dogmatica e diplomi in sviluppo
comunitario e teologia pastorale.
Tornato in patria, ricoprì vari incarichi:
per nove anni fu rettore del
seminario minore di Adigrat; poi segretario
del vescovo e responsabile
della pastorale e formazione dei giovani;
dopo sette anni fu nominato
cancelliere e direttore del Segretariato
cattolico della diocesi, finché,
nel gennaio scorso, fu raggiunto dalla
nomina di vescovo di Meki.
«È stata una sorpresa – confessa
abba Abraham -. All’inizio, com’è umanamente
comprensibile, mi sono
posto varie domande: sono la persona
giusta? Come potrò assolvere
questo compito? Ce la farò? Poi,
nella preghiera, ho chiesto a Dio Padre
di darmi la forza per accettare e
fare la sua volontà».
SPERANZA EVANGELICA
Ed è proprio durante un periodo
di preghiera e ritiro spirituale, in preparazione
della sua ordinazione, che
incontro abba Abraham e gli porgo
qualche domanda, a cui risponde volentieri.
Cosa pensa del vicariato che è
chiamato a guidare?
«Prima dell’ordinazione ho voluto
rendermi conto della vita della
chiesa in questa regione del paese, visitando
tutte le parrocchie, incontrando
la gente e i missionari e missionarie.
Sono stato felicemente impressionato
dalla mole di lavoro fatto
dal mio predecessore, dai missionari,
preti fidei donum, suore di varie
comunità religiose. Mi ha commosso
lo zelo di tante persone impegnate
nel portare alla gente la speranza
del vangelo, specialmente dei missionari
della Consolata, che sono all’origine
di questa diocesi».
Il vescovo si lancia in un elogio
sperticato dei missionari della Consolata, sciorinando nomi di missioni,
padri e fratelli. Ed è sincero.
Fin dai primi anni ’70, quando arrivarono
i padri Giovanni De Marchi,
Lorenzo Ori, Giovanni Bonzanino,
è stato fatto un lavoro gigantesco
(cfr. M.C. gennaio e maggio 2003):
in pochi anni, il territorio di Meki, distaccato
dalla chiesa madre di Harar
(1980), diventò prefettura apostolica
e poi vicariato (1992).
È una regione immensa, dallo Shoa
meridionale alla Somalia, localizzata
in gran parte nello stato dell’Oromia,
con estensioni in quello delle Nazioni
etniche meridionali. Misura oltre
156 mila chilometri quadrati (quasi
mezza Italia) e conta 5,3 milioni di abitanti,
in prevalenza oromo, con minoranze
etniche indigene (kambatta,
adya, wolaita, guraghe) o immigrate
(amhara e tigrini).
Gli oromo sono quasi tutti musulmani;
gli altri gruppi etnici sono cristiani
(ortodossi, cattolici e protestanti)
e di religione tradizionale.
Oggi il vicariato di Meki conta oltre
21 mila cattolici e oltre 2 mila catecumeni:
erano circa 4 mila i battezzati
nel 1980; 14 mila nel 1992.
L’adesione alla chiesa cattolica è forte
soprattutto tra le etnie minoritarie;
ma anche tra gli oromo si registra
il passaggio di famiglie intere dall’islam
al cattolicesimo.
Più delle cifre, sono le innumerevoli
opere sociali (scuole, asili, ospedale,
lebbrosari, dispensari, centri di
formazione religiosa e promozione
umana, pozzi e acquedotti, interventi
umanitari di emergenza…) a testimoniare
la mole di lavoro che la
chiesa di Meki continua a svolgere a
favore di centinaia di migliaia di persone
di ogni etnia e religione, seminando
tra la gente «speranza evangelica
» per un futuro migliore.
PALLA O… PATATA?
«Naturalmente c’è ancora molto
da fare – continua il vescovo -. Ho visto
che vaste zone sono ancora da evangelizzare.
I missionari della Consolata
sono essenziali; ma ho paura
che mi lascino solo».
La frase è sibillina, ma so a che cosa
allude. I missionari della Consolata
hanno sempre voluto dare massima
visibilità al clero locale: quando
fu creata la prefettura di Meki,
essi insistettero che fosse un prete etiopico
a guidarla; appena una parrocchia
è funzionante, premono perché
sia affidata al clero diocesano,
per aprire una nuova missione in zone
ancora incolte.
C’è ancora un posto di responsabilità,
da 30 anni in mano a un missionario
della Consolata: l’amministrazione
del vicariato. Tale carica richiede
continui contatti e trattative
con amministrazioni e governo, per
lo svolgimento dei programmi sociali
e di sviluppo del vicariato. Inoltre,
dal momento che Meki conta già
una quindicina di preti locali, i missionari
hanno ventilato l’idea di passare
loro la palla, ritenendo che un
prete oromo possa intendersi con le
autorità meglio di un visopallido.
Più che di palla, forse si tratta di…
patata bollente: basta guardare padre
Giovanni Monti, attuale amministratore
e direttore dei vari uffici
della curia: è rimasto pelle e ossa e,
in pochi mesi, ha aggiunto tre buchi
alla cinghia dei calzoni, anche se non
è mai stato in sovrappeso in vita sua.
«I missionari della Consolata hanno
svolto un compito meraviglioso;
il futuro della diocesi dipende ancora
dal loro supporto – continua il
nuovo vescovo incensando -. Sono
felice di lavorare e programmare insieme
a loro. Spero e prego, quindi,
che essi vedano le esigenze e problemi
della diocesi e aumentino la loro
presenza, per rispondere alle attese
sociali e religiose della gente, che in
tanti villaggi aspettano ancora la consolazione
del vangelo. Da soli non ce
la possiamo fare».
VISIONE E REALTÀ
A proposito di programmi, cosa
prevede per il futuro?
«Per ora non ho in mente nessun
piano, sarebbe prematuro. Prima di
delineare una strategia, ho bisogno
di sedermi con tutte le persone coinvolte
nelle attività del vicariato e ascoltare
cosa hanno da dire. Ma ho
una mia visione, un traguardo da
raggiungere. Nel vicariato ci sono già
molti cristiani: dobbiamo fare in modo
che si impegnino realmente, fino
a diventare autosufficienti e capaci
di aiutare gli altri. È pure il cammino
indicato dalla lettera pastorale
della Conferenza episcopale etiopica:
La chiesa che vogliamo essere.
È un cammino da fare tutti insieme:
vescovo, clero, religiosi, suore,
catechisti e fedeli, uniti in mente e
cuore, nella preghiera e comunione,
nella condivisione, diffusione e testimonianza
del vangelo. Vogliamo essere
una chiesa non ripiegata su se
stessa, ma che guarda sempre avanti,
che guarda fuori, come le comunità
primitive che, quando ricevettero
la missione di Cristo, non si chiusero
in se stesse, ma andarono a
portare altrove la buona notizia. Vogliamo
costruire una chiesa non dipendente,
ma capace di inviare missionari
e aiuti alle chiese in necessità
di altri luoghi.
Intanto, però…
«Siamo ancora una chiesa bisognosa
di personale e aiuti materiali.
Viviamo tra gente molto povera. Anche
quest’anno, l’intero paese è in
stato di emergenza a causa della siccità
e della fame; il vicariato di Meki
è parte del problema; soprattutto la
gente che vive nell’area della Rift Valley
si trova in una situazione disperata.
Dobbiamo pensare ai bisogni
materiali della gente. Non possiamo
aspettare, predicando solo cose spirituali;
devono anche riempire lo stomaco.
La comunità internazionale e
la chiesa universale ci stanno aiutando
molto. Ma non dobbiamo
perdere di vista il traguardo: edificare
una chiesa sempre più coinvolta
nello sviluppo del territorio, protagonista
di cambiamento, fino a rovesciare
la situazione di povertà
della nostra gente».
Come sono i rapporti con i musulmani?
La loro presenza è in aumento?
«A livello nazionale e internazionale,
il Coo d’Africa è nel mirino
della comunità mondiale e, nel suo
insieme, non so cosa accadrà in futuro.
Per ora direi che esiste una certa
“tensione” a livello psicologico;
ma sul piano pratico non vedo problemi
concreti e pericolosi.
Anche a livello locale non ho riscontrato
tensioni particolari. Ma ho
notato un fatto preoccupante: lungo
la strada da Shashemane al Bale ho
contato 10 moschee nuove: una ogni
dieci chilometri. Noi cattolici abbiamo
una chiesa ogni 100 chilometri.
Ho una certa apprensione: dobbiamo
intervenire in fretta. Non si
tratta di provocare contrasti, ma di
presenze pacifiche, per fare conoscere
l’etica della nostra religione e
la testimonianza della nostra carità evangelica.
Aspettare potrebbe essere
troppo tardi. Per questo ho intenzione
di aprire una nuova parrocchia
nel Bale.
Anche le sètte evangeliche sono in
aumento…
«E sono molte. Vengono con tanto
denaro e la gente povera è attratta
dai soldi. Anche a questo aspetto
dobbiamo fare fronte, non ricorrendo
ai loro metodi, denaro in cambio
di conversione, una prassi che aborriamo,
ma aiutando la gente a riscoprire
la propria dignità umana e formare
cristiani dalla fede solida.
Ho visto che i missionari hanno
fatto un grande lavoro in tale direzione,
e questo mi dà coraggio: hanno
preparato un buon numero di catechisti,
leaders e laici impegnati.
Occorre continuare.
L’unità e solidarietà della chiesa
cattolica, sia essa in Italia, Etiopia o
America, mi dà fiducia nell’assumere
la responsabilità di guidare una comunità
povera di personale e mezzi
come il vicariato di Meki. Confido
nella chiesa universale, per rispondere
alle infinite necessità della nostra
gente. Per questo faccio appello anche
alla generosità di quanti sostengono
i missionari della Consolata. E
li ringrazio di cuore. Sono certo che,
lavorando insieme, mano nella mano,
riusciremo a portare consolazione
e speranza evangelica in
questa remota parte dell’Etiopia».
STEMMA EPISCOPALE
Dall’alto: la corona (simbolo di santità
e buone opere), la tipica croce etiopica
e il pastorale (simbolo di servizio,
autorità e magistero).
I tre cerchi indicano la Trinità.
Il centro del campo è occupato dalla
Madonna con il bambino e la scritta
in caratteri etiopici: «Il verbo si è fatto
carne». Maria è rappresentata come
madre di Dio e in atteggiamento
di preghiera, figura della chiesa orante.
Il roveto ardente, oltre a ricordare
la figura di Mosè, simboleggia la rivelazione
definitiva di Dio mediante
l’incarnazione del Figlio.
La quercia a sinistra, tipica del paesaggio
dell’Oromia e presente nella
bandiera dello stato omonimo, simboleggia
fertilità e pace: alla sua ombra
si siedono gli anziani per discutere
i problemi della gente.
In basso il motto episcopale: «Lampada
ai miei passi è la tua parola, luce
sul mio cammino» (Sal 118,105).
SCHEDA DI MEKI
Superficie: 156.600 kmq.
Popolazione: 5,3 milioni.
Parrocchie e centri: 12.
Chiese cappelle: 64.
Cattolici: 21.520.
Catecumeni: 2.092.
Personale missionario:
17 missionari della Consolata,
3 fidei donum, salesiani, fratelli scuole
cristiane, suore di 12 istituti religiosi.
Personale locale: vescovo,
15 preti diocesani, una congregazione
di suore indigene.
Attività: seminario minore
e maggiore, evangelizzazione,
130 progetti (scuole, sanità, acqua,
agricoltura…) a beneficio di 2,47 milioni
di persone, per una spesa di 6 milioni
di euro in 5 anni.
Benedetto Bellesi