A Fatou manca la ricetta

Storie di malati e malattie nel Sud del mondo

In un ospedale africano:
«Per favore, dottore, niente anestesia locale.
Io ho i mezzi: mi faccia un’anestesia d’importazione».
(Serge Latouche, La fine del sogno occidentale)

Presentazione

SALUTE?

Dovrebbe essere un diritto universalmente riconosciuto. Non è così.
Nei paesi del Sud si muore di Aids, tubercolosi, malaria,
ma anche di morbillo e altre patologie normalmente curabili.
Intanto, in quelli del Nord…

Nei paesi occidentali il progressivo smantellamento
dei sistemi sanitari pubblici sta producendo
un sistema all’americana: soltanto chi può
permetterselo avrà le cure migliori. Sarah Delaney,
una giornalista statunitense, ha raccontato (1) la vicenda
di un amico riemerso da un coma profondo:
«Adesso, dopo circa un mese di cure dagli esiti incoraggianti,
il suo tempo è scaduto: la sua assicurazione
(privata) ha deciso che 30 giorni potevano bastare
e dall’ospedale l’hanno rispedito a casa. La sua
famiglia non può permettersi di pagare le costose cure
di cui avrebbe bisogno ancora per un anno. (…)
Negli Usa, l’assistenza sanitaria può essere eccellente,
ma solo per chi se la può permettere».
Se al Nord il problema è soprattutto di qualità, al Sud
è ben più grave. Nella quasi totalità dei paesi del Sud,
soprattutto in quelli dell’Africa (ma anche in America
Latina e in Asia), un servizio di sanità pubblica universale
e gratuito non è mai esistito. «Sono stanco di
vedere – ha denunciato James Orbinski di Medici
senza frontiere (2) – donne, bambini e uomini morire,
mentre so che un trattamento efficace esiste e potrebbe
essere alla loro portata. Sono stanco di constatare
come il profitto abbia sempre la meglio sul
diritto alla salute. Non ne posso più della logica per
cui chi non può pagare, muore».
«Mancava – si legge nel libro di Andrea Moiraghi (3)
– solo un’ulteriore tragedia che, puntualmente, è arrivata:
l’Aids. La sindrome da immunodeficienza acquisita
(…) è la nuova malattia dei poveri e sta causando
in Africa la più devastante epidemia che l’umanità
ricordi: il numero dei contagiati è tale che
intere generazioni di africani rischiano di scomparire.
Ma questo in Africa, non nei paesi occidentali, dove
l’infezione è relativamente sotto controllo, grazie
a costosissimi farmaci, inavvicinabili alla stragrande
maggioranza degli africani; tant’è che all’equatore è
nato questo slogan: “Il Nord del mondo produce i farmaci
e il Sud produce Aids”».
Si stima che ogni giorno 15.000 persone contraggano
l’Aids. La Sars, la polmonite atipica individuata
da Carlo Urbani, è a 6.500 casi mondiali in 3 mesi.
Il vaccino non c’è ancora, ma è già guerra (mondiale)
per i brevetti. Avvenne così anche negli anni
Ottanta per il virus Hiv, ma allora la guerra fu circoscritta
a due contendenti: l’équipe dello statunitense
Robert Gallo e l’Istituto Pasteur di Parigi. «L’argomentazione
– scrive Paul Benkimoun (4) – è chiara:
senza brevetti, niente profitti; senza profitti,
niente ricerca e sviluppo. Se non si colloca su un piano
etico, il ragionamento non fa una grinza, anche
se sarebbe necessario dimostrare che le aziende farmaceutiche
compiono effettivamente sforzi considerevoli
per coprire i costi di ricerca e sviluppo. In
realtà, dai bilanci pubblicati dai grandi laboratori
emerge che questi spendono una quantità di denaro
nettamente superiore per il marketing, la pubblicità
e le spese di gestione che per la ricerca e lo sviluppo,
mentre i profitti ammontano a cifre impressionanti».
Chissà cosa avrebbe detto e scritto Carlo Urbani sulla
corsa al deposito dei diritti sulle scoperte che riguardano
la Sars…
Per concludere, mi si conceda un piccolo ricordo
personale. Nel lontano 1988, con Carlo Urbani,
sua moglie Giuliana e altri amici facemmo un viaggio
in India del Nord e Nepal. Al ritorno in Italia Carlo
fu subito ricoverato per febbre tifoide. Già allora
egli aveva la volontà di conoscere luoghi, culture e
soprattutto persone ben al di là del consueto. Fino
al punto di prendersi una malattia tipica del luogo.
In questo dossier ritroverete alcuni vecchi articoli di
Carlo, pubblicati nell’ambito di «COME STA FATOU?»,
la rubrica che MC gli aveva affidato. Ora, in ricordo
dell’amico e collaboratore prematuramente scomparso,
noi abbiamo inventato il «PREMIO GIORNALISTICO
DOTTOR CARLO URBANI» che, al contrario di altri
concorsi, invece di distribuire riconoscimenti in denaro,
manderà i vincitori… a esercitare la loro professione
di medici.
Proprio là, dove l’«assenza di salute» è prassi quotidiana.
PAOLO MOIOLA

(1) Su Internazionale del 27 settembre 2002.
(2) Riportato in «Accesso ai farmaci», dossier di Msf – Italia
(si veda in bibliografia).
(3) Andrea Moiraghi, Pole pole, 2003 (in bibliografia). Segnaliamo
che lo scorso 26 maggio l’Unione europea ha
approvato una nuova regolamentazione che dovrebbe permettere
alle aziende farmaceutiche di vendere nei paesi
poveri i medicinali contro Aids, malaria e tubercolosi a
prezzi inferiori.
(4) Paul Benkimoun, Morti senza ricetta (in bibliografia).

Dove povertà e malattia
si generano a vicenda

di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

Nel corso degli ultimi anni
si è assistito ad un
miglioramento globale della
salute delle popolazioni.
Tuttavia resta ancora
elevatissimo il numero di
individui, soprattutto nei
paesi della fascia
intertropicale, che non hanno
accesso alle cure sanitarie, e
lo scarto tra poveri e meno
poveri si è ulteriormente
approfondito.
Secondo l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS),
2 miliardi di individui vivono
nella povertà, e di questi 700
milioni vivono in situazioni di
estrema precarietà. Per queste
persone l’accesso a servizi
sanitari e a cure mediche non
è assolutamente assicurato,
quando addirittura
impossibile. La povertà genera
malattie, attraverso la
mancanza di igiene, strutture
sanitarie e adeguati
trattamenti, educazione. Per
questo in
molti paesi
l’attesa di
vita alla
nascita non supera i
50 anni, e sono malnutrizione
e tutta una serie di malattie
tropicali a compiere la
decimazione soprattutto nei
primi anni di vita.
Nel 1977 i governi e l’OMS
nell’Assemblea generale
hanno fissato l’obiettivo di
garantire la salute per tutti i
popoli del mondo entro l’anno
2000. Purtroppo tale
traguardo sembra ancora ben
lontano, e addirittura in
alcune aree si è assistito ad
un deterioramento della
situazione sanitaria e della
qualità della vita.
Per chi vive in un paese
sviluppato è in genere
difficile immaginare la
situazione nella quale la gran
parte dell’umanità vive nei
paesi in via di sviluppo. E di
molte delle
malattie più
diffuse al mondo
si sa quasi nulla,
spesso anche il nome
suona del tutto insignificante,
come avitaminosi,
schistosomiasi, dracunculosi,
dengue, e così via. Si
impiegano nel mondo risorse
enormi per la ricerca sul
cancro, o le cardiopatie, o le
malattie vascolari, ma non
tutti sanno che non è per
queste malattie che la
maggioranza dell’umanità
soffre e muore.
In questa rubrica, attraverso
brevi resoconti di giornate
di lavoro in alcuni paesi
tropicali, ci racconteremo
qualcosa che riguarda la
salute, o meglio l’assenza di
salute, in questo mondo dei
più sfortunati, dove povertà e
malattia si generano a
vicenda.

Pcome parassiti
I PARASSITI DEL MEKONG
Troppi bambini cambogiani hanno la «pancia grossa» o addirittura la
cirrosi epatica. Basterebbero 180 lire contro la schistosomiasi, ma…
Viaggio in un paese stremato dalla guerra civile e dalla povertà.
di Carlo Urbani
(gennaio 1999)

L’ATR72 della «Royal Air
Cambodge» sfiora con il
carrello le cime di alcuni
alberi. Dopo aver posato rumorosamente
le ruote sulla corta pista in
terra battuta, le turbine frenano
con un ruggito la corsa dell’aereo.
Un’ora abbondante di volo ci ha
portati all’aeroporto di Stung
Treng, nel nord-est della CAMBOGIA,
dove il Sesan e il Sekong si versano
nel Mekong, a circa 40 chilometri
dalla frontiera con il Laos.
Pochi minuti prima, seduto vicino
al finestrino, osservavo il paesaggio
sotto di me e, nei varchi tra
i cumuli di condensa tipici di quell’ora,
intorno a mezzogiorno, scorrevano
lentamente risaie, foreste e
fiumi. Il corso del Mekong, visto
dall’alto, lascia immaginare l’imponenza
di questo fiume, che disegna
ampie curve nel verde intenso
della vegetazione. A stento si possono
vedere i piccoli villaggi sulle
sue sponde, giusto una linea di
quadratini di un altro colore, tra
cui è magari identificabile il tetto
variopinto di una pagoda. Ed è difficile
immaginare in questo stupendo
quadro quante incredibili
atrocità siano state consumate, e
quanta sofferenza sia nascosta sotto
quegli alberi. Il verde intenso
della foresta a tratti scompare, per
lasciare il posto ad ampie macchie
grigiastre, testimonianza della
deforestazione selvaggia che incombe
nella regione.
Ora, sbarcati nell’aeroporto di
Stung Treng, ci prepariamo a risalire
un tratto del Sekong, per andare
a visitare gli abitanti di un gruppo
di villaggi più a monte. Poco più
tardi stiamo già scivolando sulle acque
blu e perfettamente lisce del
fiume, tra due pareti di impenetrabile
verde. Con me viaggiano due
medici e due microscopiste cambogiani.
Trasportiamo farmaci e
materiale di laboratorio.
Sulla piroga sventola la bandiera
di Médecins Sans Frontières
(MSF), che dal 1993 cerca di
far fronte in questa regione al grave
problema della schistosomiasi.
Oggi stiamo andando a verificare
la presenza della malattia in una zona
molto remota, ed eventualmente
distribuire il farmaco che trasportavamo,
il praziquantel.
La schistosomiasi è uno dei problemi
sanitari più importanti dei
paesi della fascia intertropicale, e la
forma diffusa lungo il fiume
Mekong è una delle più gravi. In
Cambogia le dimensioni del problema
sono state comprese solo di
recente, grazie all’intervento di
MSF che ne ha identificato l’area
più colpita e ha messo in opera delle
misure di controllo. In molti villaggi
lungo il Mekong i segni della
malattia sono drammaticamente
evidenti.
Gran parte dei bambini soffrono
di dolori addominali cronici, emettono
feci con sangue e muco, il loro
addome si gonfia progressivamente
per l’ingrossamento di milza
e fegato, ed a partire dagli anni
dell’adolescenza sviluppano i primi
sintomi della cirrosi epatica, la
stessa malattia che colpisce gli alcolisti.
Si forma acqua nella pancia
(ascite), si gonfiano le vene sulla superficie
dell’addome e si formano
varici nell’esofago. Negli stadi
avanzati della malattia il soggetto è
estremamente emaciato, sofferente,
con una enorme pancia, gambe
magre ed edematose, fino a che la
rottura delle varici esofagee e la
conseguente emorragia ne causa il
decesso. Coloro che sono infettati
da molti parassiti hanno anche un
arresto della crescita e dello sviluppo
sessuale, così che l’età apparente
trae spesso in inganno e un
ventenne può essere facilmente
preso per un bambino di 11-12 anni.
La schistosomiasi è causata da
un piccolo verme che vive nelle vene
intorno alla parete dell’ultimo
tratto dell’intestino. Se le uova prodotte
con le feci arrivano nelle acque
del fiume, si schiudono e liberano
un piccolo organismo che,
nuotando, viene attirato particolarmente
da un certo mollusco, una
piccola conchiglia che vive nelle
fessure delle rocce semisommerse
nel fiume. All’interno della conchiglia
il parassita matura e forma una
piccola larva. Questa lascia la conchiglia
e si libera nelle acque del
fiume. Se entra in contatto con la
pelle umana, è in grado di perforarla
ed attraversarla. Una volta penetrato
il parassita si lascia trasportare
dal sangue e, dopo un
complicato percorso, raggiunge la
sede definitiva del suo sviluppo,
appunto le vene intorno all’intestino,
per diventare adulto.
Il problema principale è causato
da quelle uova che, prodotte dalla
femmina, non riescono a mescolarsi
alle feci come previsto, ma vengono
portate via dalla corrente sanguigna
nelle piccole vene dove i
vermi vivono. Queste uova finiscono
intrappolate nel fegato, causandone
l’ingrossamento, la fibrosi, e
poi la cirrosi. Questo fa ingrossare
la milza e fa aumentare la pressione
del sangue nella vena porta.
Questa «ipertensione» causa l’ascite
e la formazione di varici esofagee.
Più sono numerosi i vermi adulti,
più grave è la malattia. Ne deriva
che solo i soggetti continuamente
esposti a nuove infezioni sviluppano
gravi sintomi. Essere esposti all’infezione
significa avere molti
contatti con l’acqua del fiume, nelle
zone dove ci sono quelle conchiglie
e dove nelle acque finiscono le
feci umane. In zone disabitate la
trasmissione non può esistere. E
chi ha più contatti con il fiume? Basta
arrivare in un villaggio per capirlo.
La nostra piroga quel pomeriggio
è arrivata a Sdau, un
villaggio di un migliaio di abitanti,
lungo il Sekong. È quasi il tramonto:
i colori del fiume e del cielo
sono stupendi. Spento il motore
dell’imbarcazione per arrivare dolcemente
sulla riva, piombiamo in
un piacevole silenzio, nel quale è facile
sentire le grida dei bambini che
giocano poco lontano, tutti immersi
nell’acqua del fiume… vicino le
rocce dalle quali si tuffano. Ecco il
primo bersaglio della malattia: i
bambini.
Il loro contatto con l’acqua del
fiume è importante. È forse l’unico
gioco disponibile e offre un piacevole
ristoro nell’afa soffocante. E
poi correre nei campi non è, forse,
così raccomandabile… in un paese
con una delle più alte concentrazioni
al mondo di mine antiuomo!
Poco più vicine alla riva le sorelle
più grandi, sedute sulle rocce semiaffioranti,
a lavare i poveri panni
o intente a sciacquare gli umili
utensili domestici: un cesto di
bambù, un mestolo, o qualche ciotola.
E sulla riva qualche bambino
più piccolo, che fa la cacca nel fiume.
Una scena normale lungo un
fiume tropicale, ma è questo il ritratto
della trasmissione della schistosomiasi.
Bambini infetti fanno
la cacca, dove probabilmente ci sono
delle uova di schistosoma. Poco
lontano le rocce ospitano la conchiglia
che fa diventare infettante la
larva, e nella stessa zona altri che
nuotano, ed il cerchio si chiude. Incuriositi
dal nostro arrivo i bambini
escono all’asciutto, mostrando i
loro enormi ventri, costellati di tante
piccole cicatrici. Ci accompagnano
silenziosi lungo il sentirnero
che sale al villaggio.
Girando nelle case, palafitte di legno
o di bambù per i più poveri, incontriamo
altri bambini, quelli che
non hanno abbastanza forza per
andare a schiamazzare nel fiume.
Sono seduti sulla scala che sale al
piano rialzato, con lo sguardo più
triste degli altri, e la pancia ancora
più grossa. Alcuni adulti sanno che
quei bambini sono malati di qualcosa
che ha a che vedere con il fiume,
ma sanno anche che per loro,
gli abitanti di Sdau, come per quelli
di tantissimi altri villaggi in Cambogia,
non ci sono cure. L’ospedale
più vicino è a due ore di piroga,
e poi bisogna pagare le medicine, e
quassù soldi non ce ne sono. Non è
facile avvicinare le persone, tutti
sembrano diffidenti, ed anche un
po’ spaventati. La strategia del terrore
fa ancora sentire il suo alito in
Cambogia. In questi villaggi è facile
morire anche per molto meno:
basta una diarrea o una polmonite,
quando poi non si accanisca su
questa gente una epidemia di febbre
emorragica o di malaria. Le
donne partoriscono nelle loro capanne
senza alcuna assistenza sanitaria
ed in precarie condizioni igieniche.
Ci dicono che a volte i bambini
muoiono vomitando sangue
(la rottura delle varici esofagee).
Nonostante l’evidenza decidiamo
di esaminare alcuni campioni di feci
per confermare la presenza della
malattia.
Intanto do un’occhiata al resto
del villaggio, mentre penso a
cosa servirebbe per restituire la
salute a queste persone. Sono colpito
dalla loro povertà. L’unico bene
che custodiscono in casa è una
piccola riserva di riso e qualche
utensile. Nella «passeggiata» mi accompagna
Huong, silenzioso ragazzino
con una fionda appesa al
collo, un viso pallido e affilato, ed
un enorme ventre che lo obbliga a
camminare con la schiena curvata
indietro, come una donna alla fine
della gravidanza. Mi osserva curioso
e, dal modo di sorridere, sembra
evidente che si aspetta qualcosa da
me.
Passiamo la notte nel villaggio,
rassicurati dagli abitanti che ci mostrano
i loro AK47, con i quali ci difenderebbero
dai khmer rossi. Al
mattino cominciamo a distribuire il
farmaco. Verrebbe voglia di curare
anche tutte le polmoniti, congiuntiviti,
anemie e quanto altro scorre
sotto i nostri occhi. Purtroppo,
quando le risorse sono carenti, occorre
stabilire delle priorità e la
schistosomiasi, per la grave malattia
e la mortalità che ne derivano,
qui a Sdau rappresenta una priorità.
Distribuiamo la dose di praziquantel
ad ogni abitante. In queste
situazioni costa meno trattare tutti
che esaminare tutti e trattare solo le
persone infette. È una delle regole
in simili programmi di sanità pubblica
nei paesi in via di sviluppo.
Huong vuole essere il primo
a ricevere la medicina, e rimane
vicino a noi ad assistere
al trattamento degli altri del
villaggio. Si fa anche fotografare orgoglioso
del suo ventre enorme. La
medicina tradizionale di queste regioni
tratta il dolore addominale facendo
delle piccole bruciature con
dei tizzoni ardenti sulla pelle. Per
questo le pance di chi ha la schistosomiasi
qui sono piene di cicatrici:
sono le bruciature che i bambini
crescendo accumulano, ogni
volta che si lamentano dei loro dolori.
Purtroppo chi è già gravemente
malato non beneficia del
trattamento: la cirrosi del fegato è
una malattia irreversibile.
Trattae i sintomi per allungare
la sopravvivenza è possibile, ma tali
trattamenti sono completamente
fuori della portata di chi vive in villaggi
come Sdau. Dopo due giorni
lasciamo il villaggio, con almeno un
problema in meno, ma allontanandoci
lo immaginiamo sprofondare
di nuovo nell’isolamento e nella
mancanza totale di cure mediche.
In zone come queste la schistosomiasi
interessa anche l’80% dei
bambini, e il trattamento costa 12
centesimi di dollaro: circa 180 lire.
Ma moltiplicare le 180 lire per le decine
di migliaia che aspettano di essere
trattati fa diventare il costo insostenibile
per il paese, e poi la mancanza
di infrastrutture ne rende
difficile la distribuzione, e negli
ospedali non c’è personale formato
per controllare la distribuzione del
farmaco e l’evoluzione della malattia,
e ancora in molte aree l’accesso
è difficile a causa dell’insicurezza:
khmer rossi, banditi, anche gli infermieri
cambogiani hanno paura
ad andare in certe zone. Così un
problema in apparenza semplice diventa
in realtà difficile in paesi (e
non sono pochi) come la Cambogia.
Quando, sei mesi dopo, torniamo
a Sdau, Huong è già
morto, ma in tanti altri l’infezione
è scomparsa. L’infermiere
che ci assisteva sa ora riconoscere
agevolmente i malati attraverso i
sintomi. E la gente è un po’ più fiduciosa.
A piccoli passi il programma sta
dando i suoi frutti. Dopo tre anni
di attività, in molti villaggi le «pance
grosse» stanno scomparendo,
ma ne restano altri in attesa. Di un
po’ di salute e pace. E magari di
una piroga di Msf.

B come bambini
SE I BAMBINI
URINANO ROSSO

Può un’opera idrica aggravare un problema sanitario?
Sì, purtroppo…
Viaggio tra i piccoli malati di uno sconosciuto paese africano.
di Carlo Urbani
(marzo 1999)

Da Nouakchott a Rosso –
Scendiamo verso sud sulla
strada asfaltata che unisce
Nouakchott, capitale della MAURITANIA,
alla frontiera con il Senegal,
segnata dal fiume omonimo. Duecento
chilometri di asfalto, a tratti
completamente inghiottito da alte
dune che si muovono secondo il
vento, sommergendo palmeti e pali
del telegrafo.
Dopo un viaggio di 4 ore si arriva
a Rosso, capoluogo della regione
e posto di frontiera. Qui la sabbia
del deserto, solo punteggiata da
una timida vegetazione di arbusti e
palmeti, incontra le acque del fiume
Senegal. Di Rosso colpisce la
povertà e la desolazione di una
sconfinata bidonville, dove migliaia
di persone vivono (o meglio sopravvivono)
in piccoli ripari di teli
di plastica o sotto latte. In questa
zona negli ultimi 3 anni i medici del
locale ospedale riferiscono un netto
incremento del numero di bambini
che urinano sangue.
Urinare sangue in Africa è sinonimo
di schistosomiasi urinaria,
una varietà dell’infezione dovuta
ad una specie del parassita che vive
nelle vene intorno alla vescica,
causandone alterazioni che portano,
tra l’altro, alla presenza di sangue
nelle urine.
In questa zona fino a 2-3 anni fa
la schistosomiasi urinaria, pur già
presente, non sembrava costituire
un grosso problema. Ora in alcuni
villaggi lungo il fiume pressoché
tutti i bambini urinano rosso, e da
alcuni mesi alcuni hanno anche
sangue e muco nelle feci, un segno
di schistosomiasi intestinale, finora
sconosciuta nella regione.
Sull’altra sponda del fiume, in
Senegal, sta accadendo la stessa cosa
e la situazione sanitaria costituisce
ormai una seria emergenza. Cosa
sta succedendo? Da circa 8 anni
è entrata in funzione una grossa diga
poco più a valle di Rosso. Le
modificazioni chimico-fisiche delle
acque del fiume hanno notevolmente
favorito la diffusione dell’infezione,
agevolando lo sviluppo
della conchiglia necessaria al parassita
per maturare.
Questa conchiglia vive attaccata
ad alcune piante acquatiche, che
proliferano semi-sommerse sulle
sponde dei corsi di acque dolci in
ambiente tropicale. Prima della diga,
quando il livello del fiume, seguendo
l’alternarsi delle stagioni,
variava notevolmente tra stagione
secca e piogge, queste piante non
avevano vita facile e, in genere, seccavano
nei mesi in cui il livello dell’acqua
del fiume scendeva.
Ora, invece, si è creato un nuovo
variegato e diffuso ambiente favorevole
al loro sviluppo. Infatti il fiume,
alzandosi di livello, ha portato
l’acqua nei canali o piccoli laghetti
di ogni villaggio, formando piscine
naturali usate per lavare, lavarsi e
soprattutto giocare. Ora il livello è
costante per 12 mesi l’anno e la vegetazione
cresce rigogliosa. Così in
queste acque la trasmissione del
parassita è ormai altissima e l’infezione
si è diffusa raggiungendo livelli
impressionanti.
Andiamo a visitare una scuola
a Rosso. Spiegata agli insegnanti
la ragione della visita,
questi ci accompagnano a incontrare
una classe. La scena è
comune alle migliaia di scuole dei
paesi più poveri dell’Africa subsahariana.
I bambini sono ordinatamente
seduti in terra, perfettamente allineati,
con una piccola lavagna sulle
gambe e un gessetto per scrivere.
La parete di fronte, tinteggiata di
nero, è piena di scritte e disegni
esplicativi. Chiediamo ai bambini
chi di loro ha visto la propria pipì
di colore rosso. Una buona metà,
dopo le prime esitazioni, alza la mano
con un timido sorriso. Il maestro,
non soddisfatto, insiste, dicendo
che la pipì rossa non costituisce
motivo di vergogna. Così un
altro gruppetto si unisce ai primi.
Restiamo a lavorare nella scuola
per tutta la giornata. Dopo aver
esaminato con una tecnica di filtrazione
ed esame al microscopio
campioni di urine di tutti i bambini,
confermiamo l’allarmante dato.
In un villaggio poco lontano da
Rosso, Boghè, troviamo una zona
dove tutti i bambini hanno ematuria
(sangue nelle urine) e, poiché ce
l’hanno tutti, nessuno si ritiene malato.
Considerando che i bambini
iniziano ad infettarsi quando passano
parte del loro tempo a giocare
nell’acqua, quindi verso i 5-6 anni,
e che la malattia impiega qualche
anno prima di determinare
sintomi importanti, è intorno alla
pubertà che i bambini cominciano
a sviluppare una ematuria visibile
ad occhio nudo. Questo fa sì che
molti, nelle popolazioni residenti
nelle aree endemiche, ritengano
che le urine rosse siano un segno
della avvenuta o incipiente maturità
sessuale, un po’ l’equivalente
delle mestruazioni nelle femmine!
Ma purtroppo non si tratta solo di
una questione di colore.
Anzitutto la perdita di sangue
contribuisce all’anemia. In queste
regioni la malnutrizione, la malaria,
ed alcuni vermi intestinali costituiscono
già importanti fattori di rischio
per l’anemia, e il sanguinamento
dovuto alla schistosomiasi
non fa che aggravare il quadro clinico.
Ricordo di aver visto bambini
seduti in un’aula scolastica (che
qui significa sul pavimento) risultare
avere 4 gr. di emoglobina per
decilitro di sangue (i valori normali sono tra 12 e 14, e l’OMS giudica
anemico un bambino quando il
livello scende ad 11). Un’anemia
così grave costituisce una seria malattia,
mettendo in pericolo la vita
stessa.
Ci spostiamo a Tonguene,
un piccolo villaggio
che vive prevalentemente
della
coltivazione della
menta, richiestissima
al mercato di
Rosso per la preparazione
del tipico
thè mauro, e di ortaggi,
prevalentemente
pomodori, melanzane, patate
e okra.
Il villaggio è costituito da un
grappolo di casupole addossate su
un dolce pendio ad anfiteatro. Nella
piccola valle centrale, un tempo
terreno sabbioso dove pascolavano
le capre, ora si è formato un laghetto,
in connessione con il
bacino del fiume aumentato
di livello per la costruzione
della diga.
Questo marigot è considerato
dagli abitanti
una vera miniera: con
l’acqua trasportata nei
catini sul capo delle
donne si innaffiano gli
orti, si cucina e tutti i bambini passano
interminabili ore a sguazzare
felici nelle sue acque.
La sera al tramonto, sotto due
fromagers che si protendono sulle
sue acque, le donne si raggruppano
per lavare le vesti, i bambini più
piccoli e loro stesse. Tutto sembra
andare per il verso giusto, sennonché
da alcuni mesi sono sempre più
numerose le donne di Tonguene
che si recano a piedi all’ospedale di
Rosso, per portare i loro figli stanchi,
inappetenti, che lamentano talvolta
bruciore a urinare. La diagnosi
è facile: è sufficiente guardare
il colore delle loro urine.
Così capita che un anziano del
villaggio guardi con preoccupazione
quel laghetto e dica che «tutto
questo progresso» lo riempie di
preoccupazioni!
Come porre rimedio al problema
della schistosomiasi in
Mauritania? Occorre formare
il personale sanitario per metterlo
in condizione di conoscere la
malattia e saperla trattare, ed educare
la popolazione riguardo ai sintomi
e alle possibilità di guarigione,
qualora sia assunto un determinato
farmaco. Nelle scuole si deve insegnare
ai bambini a non urinare
nel fiume: meglio in brousse, nella
savana, se non ci sono latrine. E poi
altre strategie, ormai sperimentate
e certamente efficaci nel controllare,
se non l’infezione, almeno la
malattia.
Il problema è sempre lo stesso,
un ritornello noioso che interrompe
spesso i progetti di sviluppo a
queste latitudini: la mancanza di
danaro.
In Mauritania problemi come la
schistosomiasi sembrano insormontabili,
e solo il supporto di un
donatore esterno (in genere, organizzazioni
inteazionali o un governo
o una Ong) può permettee
la gestione. Proprio in queste
settimane nella regione di Rosso,
compreso il villaggio di Tonguene,
grazie al supporto di una fondazione
tedesca e dell’OMS, è iniziata la
distribuzione di praziquantel, un
farmaco efficacissimo nel curare
l’infezione. Ma per molti altri villaggi
in altre regioni o paesi le urine
resteranno rosse a tempo indeterminato.

F come farmaci
PRIMA IL PROFITTO,
POI LA SALUTE

Le multinazionali farmaceutiche investono nei settori dove maggiore
è la possibilità di guadagnare, indipendentemente dai bisogni.
I brevetti sono ostacoli insormontabili. Insomma, i farmaci sono
trattati alla stregua di un qualsiasi altro prodotto.
Questa politica comporta gravi conseguenze per una larga fetta
dell’umanità.
Carlo Urbani

(febbraio 2000)

Un pomeriggio di ottobre del
1999, nella Cambogia nordorientale.
Stiamo percorrendo
una pista che costeggia il fiume
Mekong, risalendone il corso.
Andiamo a verificare lo svolgimento
di un programma di controllo
delle malattie parassitarie, gestito
dal ministero della sanità con
il nostro supporto tecnico. Il programma
sembra andar bene, e siamo
orgogliosi di aver abbattuto i
tassi di mortalità per queste malattie
nella regione.
Decidiamo di concederci una sosta
per sgranchirci un po’ e bere
dell’acqua. Ci fermiamo in un grazioso
villaggio, affacciato su una
bella insenatura del grandioso fiume.
L’aria è pulita e profumata, e la
luce dell’imminente tramonto colora
di violetto le acque del fiume, incoiciato
dal verde della esplosiva
vegetazione. Mi allontano un po’
dalla Toyota, e mi fermo sotto una
delle casupole, tutte uguali, tutte
estremamente precarie: un pavimento
di bambù su quattro alti pali
(le case sono così, anche per proteggersi
dalle inondazioni), quattro
pareti di foglie di palma intrecciate
e un tetto, anch’esso di foglie. Una
bambina sorridente sta appoggiata
alla ripida scala che conduce all’interno,
e in alto sua madre – così credo
– è seduta intenta a eliminare le
scorie da una manciata di riso. Mi
sorride. Così mi tolgo le scarpe e
salgo.
Seduta sul pavimento, la donna
ha sulle gambe un fagotto, che si
muove ritmicamente. Lei sposta un
lembo degli stracci e scopre un bimbetto
(10-12 mesi) ansimante, viso
affilato, occhi spalancati e una colata
di muco dal naso. Chiamo l’interprete,
per avere notizie di quel
piccolo visibilmente sofferente. È
così, mi dicono, da 3-4 giorni; ha anche
smesso di succhiare il seno. Lo
tocco: è bollente. Avvicino un orecchio
al suo dorso: polmonite. Non
si lamenta mentre lo esamino, continua
solo ad ansimare rumorosamente.
Apro la borsa per vedere cosa abbiamo
di utile in quella condizione:
trovo delle compresse di ampicillina
e di paracetamolo. Dovrebbero
andare. Poi l’interprete spiega alla
mamma come fare: bollire dell’acqua, schiacciare una compressa in
una ciotola, scioglierla e dae un
cucchiaio al bimbo ogni 8 ore; poi
reidratarlo con acqua, zucchero e
sale, poi il paracetamolo… cose banali
insomma, una serie apparentemente
semplice di istruzioni.
Ma la preoccupazione sul volto
della mamma sembra indicare tutto
il contrario: manovre complicate,
quasi impossibili, gesti del tutto
estranei alla quotidianità della sua
vita. Ci allontaniamo dalla casupola
lasciando il rantolo del bambino
con la polmonite alle nostre spalle.
L’indomani, sulla via del ritorno,
ci fermiamo di nuovo. La mamma
in lacrime ci dice che la sera prima
il bimbo ha chiuso gli occhi dopo il
tramonto e durante la notte ha
smesso di respirare.
Cosa ha di particolare questa
storia? Nulla, assolutamente
nulla. Rivela semplicemente
quanto accade ogni giorno, in migliaia
di villaggi, per milioni di bambini.
Ricordo la prima volta che misi
piede in Africa, fresco di studi di
medicina tropicale. Aspettavo con
ansia di vedere malati affetti da quei
misteriosi e «affascinanti» morbi
esotici. Rimasi quasi deluso quando,
nella prima giornata di consultazioni
mediche, vidi solo bambini
gravemente malati o prossimi al decesso
per banali infezioni.
Diarrea, infezioni delle vie respiratorie:
sono queste le prime cause
di morte nei paesi in via di sviluppo.
Il 95% dei decessi sono dovuti
a malattie infettive, per le quali
esistono efficaci trattamenti. Ma un
terzo della popolazione mondiale
non ha accesso ai farmaci basici.
Gran parte di queste malattie sarebbero
facilmente curabili; però,
proprio là dove più servono, i farmaci
relativi non sono disponibili,
spesso perché troppo costosi.
La causa di questa discrepanza
tra bisogni
e offerta risiede in
rigide leggi di mercato,
in base alle
quali i prezzi dei farmaci,
protetti da
brevetto, sono fissati
sulla disponibilità a
pagarli nei mercati
dei paesi industrializzati.
Alla base di gran parte dei disastri
sanitari, dell’impossibilità a
gestire epidemie o endemie, a prevenirle,
a impedire la morte per banali
infezioni, alla base di tutto possiamo
affermare oggi con certezza
che c’è un problema di farmaci. Vediamo
di capire di cosa si tratta.
Anzitutto mancano nuovi farmaci
utili in medicina tropicale, che
siano poco tossici, a basso costo ed
efficaci per debellare le malattie
(parassitarie, ad esempio), causa di
sofferenza e morte.
Basta un dato: negli ultimi 20 anni,
tra i 1.233 nuovi farmaci offerti
dal mercato internazionale, solo 11
avevano come indicazione malattie
tropicali, e di questi 7 venivano dalla
ricerca veterinaria. Per cui appena
lo 0,3% della ricerca farmaceutica
contemporanea è indirizzata alle
malattie ai vertici di ogni classifica
mondiale di morbosità e mortalità.
Perché? Semplice, perché queste
malattie imperversano in mercati
poco remunerativi. Le priorità sono,
quindi, più di ordine economico-
commerciale che medico.
Da un lato fiumi di miliardi vengono
investiti sulla ricerca di nuove
pillole contro l’obesità e l’impotenza,
dall’altro quasi niente per malattie
tropicali. Se poi talvolta (e c’è
l’evidenza) una multinazionale farmaceutica giunge a sintetizzare un
farmaco attivo su una malattia tropicale,
spesso il fabbricante decide
di non commercializzarlo, poiché la
sua vendita sarebbe poco remunerativa
nei paesi dove i pazienti interessati
sono concentrati.
A volte, per le stesse ragioni, farmaci
già disponibili, efficaci e semplici
da somministrare scompaiono
improvvisamente, come è stato il caso
della sospensione oleosa di cloramfenicolo,
usata per trattare la
meningite meningococcica (malattia
capace di uccidere in 24 ore). Tale
farmaco era l’alternativa al trattamento
con ampicillina, che richiede
4 infusioni endovenose al giorno,
contro un paio di iniezioni intramuscolari
in tre giorni per il cloramfenicolo.
Una bella differenza,
per trattare pazienti in strutture sanitarie
carenti di materiale e igiene.
Altro esempio, quello della efloitina.
Questo farmaco serve per
trattare lo stadio avanzato della tripanosomiasi,
più conosciuta come
malattia del sonno (trasmessa dalla
famosa mosca tse-tse). Bene, mentre
il vecchio farmaco usato (un derivato
dell’arsenico estremamente
tossico e somministrabile in dolorose
iniezioni) diveniva anche inefficace
per l’insorgenza di ceppi di
parassiti resistenti, appare questo
nuovo ritrovato. Sfortunatamente
due anni fa la ditta produttrice, detentrice
del brevetto, ha deciso di
sospendee la produzione per motivi
commerciali. E i circa 300 mila
malati si vedono rioffrire il vecchio
melarsoprol.
Questo è quanto accade, in questo
mercato globalizzato.
Uno dei problemi principali è
causato dal brevetto che
protegge il farmaco. Il brevetto
rappresenta un diritto sacrosanto
dell’industria per salvaguardare
i frutti dei suoi investimenti in
sperimentazioni. Accade però che
i brevetti si tramutino in micidiali
armi che limitano l’accesso ai farmaci.
Esistono paesi definiti in via di
sviluppo, ma in realtà detentori di
tecnologie sufficienti per una produzione
farmaceutica. Nazioni come
India, Thailandia, Sudafrica o
Brasile sono in grado di produrre
farmaci utili per le loro popolazioni
e quindi rivenderli a prezzi accessibili.
Il prezzo di farmaci come
il fluconazolo, efficace in gravi infezioni
fungine, crolla così dai 20
dollari al giorno per un trattamento
in Kenya, dove è importato, a
meno di un dollaro al giorno in
Thailandia, dove è prodotto da una
azienda nazionale.
Questo è reso possibile da una
norma che si chiama compulsory licensing,
o licenza obbligatoria.
A questo punto, la domanda che
sorge è: etica e sviluppo economico
del settore farmaceutico sono obiettivi
incompatibili?
Le più autorevoli riviste mediche
inteazionali (ad esempio, British
Medical Joual e JAMA) sostengono
che l’etica è compatibile con l’economia.
Per questo i medici, che
operano in questi contesti, sono
stanchi di dover pensare, di fronte
all’ennesima morte di un loro paziente:
«Mi spiace. Stai morendo a
causa di una inadeguatezza del mercato».
Il caso dell’Aids mostra poi cifre
apocalittiche. Il 95% dei malati di
Aids nel mondo non ha accesso a
farmaci efficaci per restituire salute
e dignità. Ma (fatto ancor più
grave) i trattamenti per ridurre significativamente
la trasmissione
verticale dell’infezione da madre
sieropositiva a figlio al momento
del parto non sono disponibili proprio
nei paesi dove questa modalità
di trasmissione sta segnando le
nuove generazioni, condannando a
morte entro 5-8 anni un bambino
già al momento della sua nascita.
Farmaci come l’Azt o la nevirapina,
efficaci anche se somministrati
per solo 4 settimane intorno alla data
del parto, sono vittime delle stesse
regole di mercato. Spietati brevetti
ne permettono la vendita a
prezzi proibitivi e ne impediscono
la produzione da parte di altre
aziende. Se è vero, si può sempre
applicare la licenza obbligatoria. Ci
ha provato la Thailandia iniziando
a produrre Azt per le sue donne
(tantissime) incinte e sieropositive.
Il farmaco ha avuto il costo abbattuto
del 7000%.
La reazione degli Usa, dove risiede
la ditta detentrice del brevetto, è
stata: non possiamo impedirtelo,
ma possiamo però ridurre le importazioni
dalla Thailandia… Cosa
questa insostenibile in questo momento
di crisi economica.
Ecco come vanno le cose.
Farmaci che ci sono, ma costano
troppo; farmaci che esistono,
ma non vengono prodotti,
germi che divengono resistenti ai
comuni trattamenti (Tbc, leismaniosi,
tripanosomiasi, ecc.), ma la ricerca
farmaceutica ha altri obiettivi…
e le cifre di morte e malattia
continuano ad avere parecchi zeri
nei paesi dei poveri del mondo.
Quello che basterebbe è esigere un
«diritto alla salute per tutti».
Già sentito?

SUGGERIMENTI
BIBLIOGRAFICI

ESPERIENZE
Andrea Moiraghi,
Pole pole.
Dentisti volontari in Africa,
Edizioni Camilliane, Torino 2003
CRITICHE AL SISTEMA
Paul Benkimoun,
Morti senza ricetta.
La salute come merce,
Edizioni Elèuthera, Milano 2002
Medici senza frontiere (Msf)
Accesso ai farmaci:
la malattia del profitto,
Dossier di Msf-Italia, Roma 2001
SANITÀ ITALIANA
Paolo Coaglia-Ferraris,
Camici e pigiami,
Editori Laterza, Roma 1999
Paolo Coaglia-Ferraris,
Pigiami e camici,
Editori Laterza, Roma 2000
Informatore anonimo,
La mala-ricetta,
Fratelli Frilli Editori, Genova 2000
SITI INTERNET
• Medici senza frontiere: www.msf.it
• Organizzazione mondiale
della sanità: www.who.org
Tutti i libri sono acquistabili
od ordinabili presso la
«Libreria Missioni Consolata»,
via Cialdini 2/a, Torino;
tel./fax 011.4476695,
e-mail: libmisco@tin.it.

Carlo Urbani (a cura di Paolo Moiola)

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