I GRANDI MISSIONARI Caterina Drexel
Cresciuta in una solida
famiglia cristiana, erede
di un’enorme fortuna,
Caterina Drexel (1858-
1955) ha messo tutta
se stessa a servizio
dell’evangelizzazione,
educazione e promozione
umana degli indigeni
e afro-americani degli
Stati Uniti. Benché sia
ancora poco conosciuta,
è una delle figure più
significative della chiesa
americana e universale.
Il nome è un programma: Filadelfia
significa «amore fraterno».
La fondò con le sue mani, nel
1682, William Penn, quacchero, uno
strano miscuglio di misticismo e affarismo,
per essere la capitale del suo
«sacro esperimento»: ottenuta dal re
d’Inghilterra l’immensa regione da
lui battezzata Pennsylvania (selva di
Penn), aprì il suo dominio a tutti i
perseguitati di ogni sètta e confessione
religiosa in cerca di pace e libertà.
Da tutta l’Europa a migliaia fioccarono
i coloni, tedeschi soprattutto.
La città gustò il sapore della storia:
nel 1776 vi fu firmata la dichiarazione
d’indipendenza dei primi 13
stati americani; ma l’ideale di fratellanza
era ormai affogato in quello degli
affari. Filadelfia crebbe con la
puzza sotto il naso: da una parte lo
snobismo ed esclusivismo dei big ten
(10 famiglie installatesi prima del
1749) e della borghesia; dall’altra le
periferie, con masse di bianchi e neri
che facevano miseria.
RICCHEZZA IN PRESTITO
Questa era Filadelfia, quando, il 26
novembre 1858, vi nacque Caterina,
secondogenita di Francesco Drexel,
figlio di un emigrato austriaco, e Anna
Longstroth, morta un mese dopo
il parto. Per due anni la bimba e la sorella
Elisabetta (1855-90) furono affidate
agli zii patei, finché il padre si
risposò (1860) con Emma Bouvier
(prozia di Jacqueline Kennedy). Dal
secondo matrimonio nacque un’altra
figlia, Luisa (1863-1940).
Pur non essendo nel numero dei
big ten, i Drexel erano tra le famiglie
più ricche e famose di Filadelfia, ma
senza quella puzza sotto il naso.
Francesco, ricco finanziere, era stimato
per la sua filantropia verso asili,
orfanotrofi, ospedali e istituzioni
caritative. Inoltre, finanziava le iniziative
della moglie.
Due giorni la settimana il cancello
posteriore di casa Drexel si apriva a
centinaia di poveri della città e, aiutata
dalle figlie e un domestico, Emma
rispondeva alle richieste di cibo,
vestiario, scarpe, affitto, secondo le
necessità delle famiglie. Aveva intessuto
una fitta rete di assistenza a
quanti si vergognavano di mescolarsi
agli altri bisognosi: foiva medicine,
consigli e denaro; ma sempre con
discrezione. «La bontà può essere
cattiva, se si lascia dietro un po’ di
puzza» insegnava mamma Emma.
La gente la chiamava la «signora
generosa»: in 20 anni distribuì fra i
poveri oltre mezzo milione di dollari;
solo alla sua morte (1883) si seppe
che pagava l’affitto a 150 famiglie.
Non si trattava di pura filantropia.
I Drexel erano convinti che i beni
materiali fossero un prestito da condividere
con i meno fortunati. «Dio
ci ha elargito molto e con tanta abbondanza:
siate dispensatrici dei
suoi doni» diceva papà Francesco.
In casa c’era un oratorio, dove i
membri della famiglia si riunivano
per recitare insieme le preghiere della
sera. Quando il papà tornava dal
lavoro, s’inginocchiava e pregava nella
sua stanza. «La preghiera era come
il respiro» ricorderà più tardi Caterina.
Ma niente bacchettoneria.
Grazie alla posizione del padre, le
figlie ricevettero una solida educazione
da insegnanti privati, ebbero
modo di frequentare l’alta classe di
Filadelfia, viaggiare negli Stati Uniti
e in Europa e godersi le vacanze nella
casa estiva, che il padre aveva comperato
a Saint Michel nel 1870. Ma
anche qui madre e figlie continuavano
ad aiutare i bisognosi.
A Saint Michel i Drexel strinsero
amicizia col parroco James O’Connor,
che Caterina scelse come direttore
spirituale.
SCELTA DI CAMPO
Caterina aveva 21 anni quando l’idilliaca
esistenza dei Drexel andò in
frantumi: nel 1879 a Emma fu diagnosticato
un tumore che, dopo tre
anni di grandi sofferenze, amorosamente
assistita dalla figlia, la portò
nella tomba (1883).
L’immensa ricchezza familiare non
poté fare nulla per prevenire la sua
morte. Caterina cominciò a pensare
seriamente alla vita religiosa. Scrisse
a O’Connor, diventato vescovo di Omaha,
nel Nebraska, per chiedere
consiglio. La risposta fu: «Rifletti,
prega e aspetta».
Due anni dopo (1885) morì anche
il padre, fulminato da un infarto, lasciando
un enorme patrimonio (vedi
inserto), con cui le figlie continuarono
sulla scia dei genitori: Luisa cominciò
a sostenere le opere dei padri
Giuseppini di Baltimora e, sposatasi
nel 1889, fondò una scuola professionale
per ragazzi di colore in Virginia;
Elisabetta, andata sposa nel
1890, morì l’anno seguente, dopo avere
dato vita a un istituto tecnico
per orfani in Pennsylvania.
Caterina concentrò l’attenzione sui
più emarginati della società americana:
indigeni e afro-americani, cominciando
con l’aiutare alcuni missionari
operanti tra i nativi del Dakota e
del Nebraska.
Dopo la lettura di un best seller
sulla situazione degli indiani, Un secolo
di vergogna di Helen Jackson,
nel 1885, Caterina fece un viaggio
nel Far West, dove incontrò Nuvola
Rossa, capo dei sioux del Dakota, e
toccò con mano lo stato di abiezione
e degrado dei nativi nelle riserve.
Non meno scioccante era la vita
della popolazione di colore. Benché
l’abolizione della schiavitù fosse stata
decretata da 20 anni, dopo la guerra
civile (1861-65) tra abolizionisti
del nord e schiavisti del sud, i neri
continuavano a essere oggetto di pregiudizi
razziali e angherie. Ben lungi
dall’essere liberi, vivevano in condizioni
d’inferiorità, mal retribuiti, privati
dell’accesso all’istruzione e dei
più elementari diritti umani e costituzionali.
Le piantagioni, poi, rimanevano
un’istituzione sociale senza
sbocco, dove essi continuavano a essere
oppressi come nel passato.
Caterina cominciò ad alzare la voce
contro le ingiustizie, prendere
pubblicamente posizione in ogni caso
di evidente discriminazione razziale
e impegnarsi in tutti i modi per
cambiare mentalità e atteggiamenti
della società americana.
Al tempo stesso sentì l’urgenza di
un apostolato diretto in favore degli
indiani e afro-americani: la carità doveva
essere accompagnata da formazione
cristiana e promozione umana.
Cominciò a costruire scuole nelle riserve,
pagare i salari dei maestri e fornire
agli indigeni cibo e vestiario. Riuscì
pure a trovare alcuni preti per aprirvi
nuove missioni.
Altrettanto fece nell’est e sud, a favore
della popolazione di colore.
«MADRE E SERVA DEI NERI E INDIANI»
Persisteva l’idea di consacrarsi a
Dio. Caterina sentiva una forte attrazione
verso la vita claustrale, per contribuire
all’espansione del vangelo
con preghiera e penitenza. Aveva già
cercato una comunità religiosa in cui
attuare il suo progetto, ma il papa le
scombussolò la vita.
Era il gennaio del 1887. Le sorelle
Drexel fecero un viaggio in Europa;
a Roma furono ricevute in udienza
privata da Leone XIII. Caterina gli espose
la situazione sociale dei nativi,
parlò della sua vocazione e aggiunse:
«Se entrassi in clausura, dovrei abbandonare
coloro che il Signore mi
chiede di aiutare. Forse sua santità
potrebbe designare una congregazione
religiosa, disposta a dedicare
tempo e sforzi alle missioni tra gli indiani
». Il papa rispose con una domanda:
«Bene, figliola, perché non
diventate voi stessa missionaria?».
Le parole del papa la fecero infuriare.
Pianse tutto il pomeriggio.
Neppure il viaggio di ritorno, in nave,
riuscì a sbollire l’emozione. Appena
sbarcata, consultò il direttore
spirituale, mons. O’Connor, il quale
le consigliò di fondare una propria
comunità religiosa, in cui coniugare
vita contemplativa e servizio ai neri e
indiani.
Con grande coraggio e fiducia nel
Signore, Caterina decise di consacrare
a lui non solo la sua fortuna, ma
tutta la vita. Entrata nel convento
delle suore della Misericordia, a Pittsburg,
emise la professione religiosa
in quella comunità alla fine del 1889.
Dopo un anno di rodaggio nella
vita consacrata e gestazione della
nuova creatura religiosa, il 12 febbraio
1891 Caterina pronunciò i voti
come prima suora del Santo Sacramento,
seguita da 13 compagne.
La formula da lei usata suonava così:
«Faccio voto e prometto a Dio
povertà, castità e obbedienza… e di
essere madre e serva degli indiani e
della gente di colore».
Dopo la provvisoria permanenza
nella casa di Saint Michel, la comunità
si stabilì nel nuovo convento
Saint Elizabeth a Cowell Heights,
ora Bensalem, poco lontano da Filadelfia.
Per 44 anni Caterina guidò e
formò la sua famiglia religiosa, infondendo
il suo carisma: adorazione del
Signore presente nell’eucaristia e servizio
agli indiani e afro-americani,
specialmente attraverso l’educazione
cristiana, assistenza sociale e promozione
umana.
Amore e devozione eucaristica da
sempre scorrevano nelle vene della
famiglia Drexel. «Abbiamo ricevuto
tante e svariate grazie – diceva papà
Francesco -. Accostiamoci puntualmente
al santo sacramento, facciamo
del nostro meglio per dimostrare che
apprezziamo i mezzi di salvezza che
ci sono stati offerti come sostegno alla
nostra vita spirituale».
Nell’eucaristia Caterina trovò la
sorgente delle prime iniziative a favore
dei poveri e oppressi e la molla
che la spingeva a combattere ogni
sorta di razzismo. «Nell’eucaristia
Cristo dà tutto se stesso, per essere
cibo per tutti, senza distinzione di
razza o di colore» diceva.
Una volta stesa la Regola, madre
Caterina ottenne il permesso (cosa
rara a quei tempi precedenti il pontificato
di Pio X) di ricevere quotidianamente
la comunione, affinché
le sue suore attingessero da questo
sacramento la forza per riconoscere
e servire Cristo nei più emarginati
della società americana.
La definitiva approvazione della
Regola arrivò nel 1913: la rapidità di
tale conferma dimostra quanto grande
fosse il bisogno di una congregazione
di tal genere, capace di rispondere
a una delle più gravi necessità
sociali e cristiane degli Stati Uniti.
EDUCAZIONE A TUTTO CAMPO
Da Saint Elizabeth le suore cominciarono
a sciamare, per visitare le famiglie povere, ospedali e prigioni,
raggiungere le scuole e missioni via
via fondate da madre Caterina. Nel
1894 fu aperta St. Catherine’s School
a Santa Fé, Nuovo Messico: una
scuola-convitto per i bambini pueblo.
Lo stesso anno comprò una proprietà
a Rock Castle, in Virginia, dove
costruì St. Francis de Sales School:
collegio per ragazze di colore, simile
a quello per ragazzi costruito da Luisa
nelle vicinanze. Nel 1902 fondò St.
Michael’s School nella riserva indiana
dei navajo.
Impossibile seguire tutte le altre
fondazioni di missioni, chiese, scuole,
collegi, centri, seminati in 21 stati
dell’est e del Far West americano.
Ben presto Caterina comprese che
le suore non potevano coprire tante
iniziative: era priorità assoluta preparare
maestri indiani e neri capaci
di lavorare in mezzo alla propria gente.
Per questo, nel 1917, fondò Xavier
College a New Orleans (Louisiana),
che nel 1925 diventò Xavier
University, la prima e unica istituzione
di studi superiori degli Stati Uniti
destinata agli afro-americani.
La Xavier University svolse un
ruolo di pioniere nell’educazione
mista. Tutte le sue fondazioni, infatti,
avevano lo scopo di favorire la
maggiore integrazione possibile tra i
vari gruppi etnici: Caterina diceva
che tutti erano figli di Dio, indipendentemente
dalla cultura e colore
della pelle.
Una verità lapalissiana, per noi, ma
non per quei tempi: nessuna università
cattolica del sud era disposta ad
accogliere studenti di colore; quelle
statali cominceranno ad aprire i battenti
a tutti, senza distinzione di razze
o religione, solo a partire dal 1954.
Ogni anno Caterina visitava regolarmente
tutte le missioni, anche le
più lontane, affrontando disagi e sacrifici
notevoli, a motivo delle condizioni
dei mezzi di trasporto di quei
tempi; ma continuò a farlo fino a
quando le cattive condizioni di salute
le impedirono di viaggiare.
BASTONI TRA LE RUOTE
Le difficoltà più gravi, incontrate
da Caterina, non erano certo dovute
alla geografia. La sua decisione di abbracciare
la vita religiosa fu uno
shock per l’alta società di Filadelfia e
altre città della costa orientale; lo zio
Antonio Drexel cercò di dissuaderla,
pregandola di «restare con chi le
voleva bene»; i giornali uscirono con
titoli cubitali in prima pagina: «Miss
Drexel in convento: rinuncia a sette
milioni di dollari»; i paparazzi la inseguivano
in convento.
La giovane miliardaria, che rinunciava
a tutto per mettersi al servizio
delle classi più disprezzate, era un
pugno nello stomaco per una borghesia
attaccata alla vertiginosa crescita
materiale, ma indifferente alle
masse di indigenti che popolavano le
periferie delle città.
Anche nella chiesa non trovò sempre
lo sperato sostegno e incoraggiamento:
non tutti gli ordini e congregazioni
religiose erano disposti a
offrire personale per operare in modo
stabile nelle missioni da lei fondate;
le era difficile trovare sacerdoti
che garantissero la vita sacramentale
a studenti e insegnanti.
Nel sud degli Stati Uniti, poi, esisteva
una forte opposizione all’educazione
di coloro che erano stati
schiavi fino a pochi anni prima. Tale
opposizione si traduceva in azioni legali,
per rendere impossibile la vendita
di proprietà a madre Caterina,
propaganda di stampa contro i suoi
sforzi, minacce e atti di violenza contro
le stesse proprietà da lei acquistate
(vedi riquadro).
Tra gli indiani stessi non fu sempre
rose e fiori: molti di essi, per diversi
motivi, non mostravano interesse
per l’educazione.
PROFEZIA SCOMODA
Fatiche e lotte logorarono il cuore
di Caterina: nel 1935, a 77 anni, fu
colpita da crisi cardiaca, che la indebolì
gravemente e la ridusse gradualmente
a uno stato di quasi immobilità.
Libera dai gravosi impegni
direttivi della comunità, per 20 anni
si dedicò interamente alla vita di adorazione
contemplativa, cosa da lei
desiderata fin dalla giovinezza.
Nella vita di preghiera non dimenticava
i suoi indiani e afro-americani,
per cui aveva dato tutto, fino
all’ultimo respiro, esalato il 3 marzo
1955. Le sue ultime parole furono:
«Spirito Santo, vorrei essere una piuma,
perché il tuo soffio mi porti dove
ti pare e piace».
Tra la focosa giovane, recalcitrante
al pungolo papale (episodio che le
piaceva ricordare sorridendo), e l’anziana
donna, arresa senza resistenza
al soffio dello Spirito, quanto cammino
percorso! Furono 97 anni vissuti
intensamente e con un’enorme
carica interiore, armonizzando in
maniera calma e serena vita contemplativa
e attività inarrestabile, giorniosa
sintonia con lo Spirito e lotta per
spezzare le barriere dell’indifferenza
e pregiudizi.
Quella di Caterina Drexel fu una
presenza profetica e, come tale, scomoda
nella società e nella chiesa americana.
Le denunce d’ingiustizie
sociali contro le minoranze etniche,
la convinzione dell’importanza di offrire
a tutti una istruzione di qualità,
gli sforzi da lei compiuti per tradurre
tale convinzione in realtà, hanno
preceduto di quasi 100 anni quei
problemi diventati oggi di pubblico
interesse negli Stati Uniti. Fu certamente
anche grazie a lei se, nel 1954,
un anno prima della morte, la Corte
suprema degli Stati Uniti abolì la segregazione
razziale nelle scuole.
«A volte mi domando cosa sarebbe
stata mai l’America – dice Norman
Francis, rettore della Xavier University
-, cosa sarebbe stata la chiesa
cattolica riguardo alle minoranze
etniche, se non ci fosse stata lei: ha
salvato la chiesa dall’imbarazzo nel
campo della giustizia sociale».
Di fatto, la chiesa statunitense, se
è diventata gradualmente consapevole
della necessità dell’apostolato
diretto in favore di indiani e afro-americani,
deve dire grazie a Caterina.
Anche oggi, la sua figura continua
a essere un pungolo nel fianco
dei cristiani, ossessionati dallo «standard
americano», fatto di consumismo,
giochi di borsa, lotterie e altri
mezzi di facili guadagni.
Beatificata nel 1988 e canonizzata
nel 2000, Giovanni Paolo II ha proposto
santa Caterina Drexel come
modello alla chiesa universale con
queste parole: «Possa il suo esempio
aiutare i giovani in particolare a riconoscere
che non si può trovare tesoro
più grande che nel seguire Cristo
con cuore indiviso, utilizzando
generosamente i doni che abbiamo
ricevuto nel servizio degli altri, per
collaborare alla costruzione
di un mondo più giusto
e più fraterno».
INCIDENTI
Che molti non condividessero le sue
idee in fatto di giustizia sociale,
Caterina lo sapeva, ma glielo ricordarono
spesso con minacce e violenze.
Ecco alcuni casi.
Il giorno in cui fu posta la prima pietra
del convento St. Elizabeth, fu trovato
nei paraggi un candelotto di dinamite.
Nel 1913, per impedire che le suore del
Santo Sacramento insegnassero nella
scuola di Macon, il governo della Georgia
fece una legge che proibiva ai
bianchi di insegnare a studenti neri.
Nel 1915, a New Orleans, quando Caterina
comprò un edificio per iniziare
lo Xavier College, i vandali distrussero
tutte le finestre.
Nel 1922, a Beaumont (Texas), quelli
del ku klux klan affissero sulla porta
della chiesa, dove le suore avevano
aperto una scuola, un cartello con
questa scritta: «Basta servizi religiosi
qui! Non staremo a guardare, mentre
preti bianchi frequentano prostitute
negre di fronte alle nostre famiglie.
Chiudete entro una settimana o
colpiremo con catrame e piume».
Pochi giorni dopo, un violento temporale
si abbatté sulla città, distruggendo
la sede del ku klux klan.
Nel 1925 Caterina trovò un terreno
per espandere la Xavier University,
ma poté acquistarlo solo tramite terzi.
Quando il bell’edificio fu inaugurato,
un prete esclamò: «Inutilis labor!»
(fatica sprecata). Caterina non sentì il
commento: guardava la cerimonia da
una finestra del terzo piano, lontano
dalla piattaforma dei dignitari.
A Wilmington (Delaware) Caterina finanziò
con 4 mila dollari la costruzione
di una chiesa, in sostituzione
della vecchia, a condizione che fosse
aperta a bianchi e neri. Ma il parroco,
compaesano di Caterina, non stette
ai patti: riservò la nuova ai bianchi e
usò la vecchia per i neri.
CONTI… IN TASCA
Alla sua morte, Francesco Drexel lasciava
un patrimonio di 15,5 milioni
di dollari, il più grande registrato
nella Filadelfia di quei tempi: il
10% (1,5 milioni) da distribuire subito
a 29 istituzioni caritative; i restanti
14,5 milioni (oggi pari a 250
milioni di dollari) furono spartiti fra
le tre sorelle, non ancora sposate, con
vincoli precisi, per scoraggiare eventuali
cacciatori di eredità.
Il padre stabilì per testamento che
tutto il patrimonio costituisse un fondo,
di cui le figlie godevano solo gli
interessi e che alla loro morte passasse
in eredità ai rispettivi figli. Se
una moriva senza eredi, gli interessi
dovevano andare alle sopravvissute;
se tutte e tre fossero scomparse senza
figli, il fondo doveva essere diviso
tra i beneficiari dell’iniziale 10%.
Gli interessi di ogni sorella ammontavano
a 1.000 dollari al giorno. Alla
morte di Elisabetta (1890) e di Luisa
(1940), Caterina diventò unica beneficiaria.
Morta anche lei (1955), tutto
il fondo Drexel passò alle istituzioni
menzionate dal testamento paterno.
Non un centesimo rimase nelle tasche
delle suore del Santo Sacramento.
In 60 anni, Caterina fondò 145 missioni
cattoliche, 12 scuole per indiani
e 50 per afro-americani, distribuendo
circa 20 milioni di dollari, una
cifra di molto superiore all’intero e intoccabile
patrimonio paterno.
Cresciuta nell’opulenza e maneggiando
tanti soldi, Caterina prese sul serio
il voto di povertà: usava le matite finché
diventavano mozziconi; adoperava
vecchie buste della corrispondenza
per scrivere le note; ricuciva i legacci
rotti delle scarpe, invece di comprarli
nuovi; nelle lunghe traversate in treno
viaggiava in carrozza giornaliera, meno
costosa del vagone letto.
Ridotta quasi all’immobilità, rifiutò di
comperare una carrozzella; a stento
accettò che un falegname mettesse
quattro ruote a una sedia di legno.
Nel 1924 convinse il Congresso a
emendare la legge tributaria federale:
chi per 10 anni avesse dato il
90% dei redditi in carità era esente
dalle tasse. Con tale emendamento,
conosciuto come «scappatornia della
suora di Filadelfia», risparmiò un terzo
delle entrate, altrimenti finite nelle
casse dello stato.
Benedetto Bellesi