IRAQ IL GRANDE IMBROGLIOuna guerra assurda, crudele, illegale

QUALI SENTIMENTI AI TEMPI DELL’IMPERO?
La pietà per i morti. Il dolore per le distruzioni.
La preoccupazione per le macerie
che hanno sepolto il diritto internazionale.
La rabbia per l’ingiustizia
eretta a verità assoluta e incontestabile.
Ma anche la speranza suscitata in molti
da un movimento planetario
che non ha paura di opporsi all’arroganza
dei «liberatori».

«Una guerra che non doveva
aver luogo – ha detto
monsignor Michel Sabbah,
patriarca di Gerusalemme – (1).
Perché niente giustifica che un paese,
qualunque esso sia, invada un altro
paese. Se ogni nazione si permette
di invadee un’altra perché
più debole o perché si dice che è cattiva,
allora è la fine del mondo. Chi
può stabilire i criteri di cattivo o
buono? Questa guerra non doveva
aver luogo e ora deve cessare quanto
prima, perché continuare vuol solo
dire continuare ad ammazzare e a
riempire i cuori di odio».
«Ferite profonde – ha scritto L’Osservatore
romano, il quotidiano della
Santa Sede (2) – segnano il volto
dell’umanità del Terzo millennio.
Sono i segni indelebili del dolore impresso
sui volti innocenti dei bambini
colpiti dalla guerra. Sono le cicatrici
difficilmente rimarginabili
nei cuori dei familiari delle vittime.
Sono i fossati di odio scavati tra i popoli.
(…) In città sventrate dai bombardamenti,
e nelle cui strade si spara
senza pietà, uomini, donne, bambini
cercano disperatamente la fuga,
verso mete ignote e non meno insidiose(…)».

IL PAPA AMICO
DI TERRORISTI E DITTATORI?

I sostenitori di questa guerra (una
minoranza assoluta in ogni paese,
eccetto che negli Stati Uniti) pensavano
di poter aver facilmente il sopravvento
sul movimento pacifista
mondiale (3). Invece, così non è stato.
A spiazzarli ha contribuito in maniera
sostanziale il papa in persona
che, fin dall’inizio della crisi, non ha
mai smesso di gridare contro la follia
della guerra.
«Di fronte a questa testimonianza
cristiana contro la guerra – ha
scritto padre Enzo Bianchi,
priore del monastero di Bose
(4) -, quanti avevano ritenuto
che la chiesa si fosse ormai
rappacificata con il potere
del libero mercato e omologata
all’ideologia
occidentale si sentono frustrati
e delusi (5). Ogni
giorno intervengono sui
mass media o per criticare
il papa (…) o per fornire
distinguo e interpretazioni
riduttive al suo magistero:
il papa non è
pacifista, la papa contrasta
ma non condanna questa guerra
contro l’Iraq, il papa si distanzia dal
pacifismo di vasti settori del mondo
cattolico… Salvo essere puntualmente
smentiti da ulteriori interventi(…)» (6).

DOVE SCOVARE
LA «VERITÀ»?

La verità, com’è noto, è la prima
vittima della guerra. Vengono i brividi
a pensare cosa sarebbe accaduto
se l’informazione fosse stata limitata
ai reportages dei networks televisivi
statunitensi, come la Cnn o la
Fox News (non a caso la televisione
preferita dal segretario alla difesa
Donald Rumsfeld, uno dei superfalchi
dell’amministrazione Bush), o
agli editoriali del Washington Post o
ancora ai resoconti dei giornalisti arruolati
(«embedded») insieme alle
truppe anglostatunitensi. I bombardamenti
sarebbero diventati operazioni
chirurgiche; i morti civili spiacevoli
effetti collaterali; la resistenza
all’invasione terrorismo; gli scud iracheni
armi di distruzione di massa;
gli aiuti umanitari vero scopo della
guerra. Invece, per fortuna il monopolio
informativo statunitense è
stato rotto, soprattutto dalla televisione
panaraba al-Jazeera, invisa ad
ambo i contendenti (buon segno,
questo) e che ha pagato con il sangue
il suo essere sul campo. Non è
stata l’unica.
L’8 aprile un carro armato statunitense
ha ucciso
due reporters dell’agenzia
Reuters, che
stavano lavorando all’Hotel
Palestine, dove
alloggiava la maggior
parte dei giornalisti
non «embedded».
«Siamo indignati – ha
detto Reporters sans
frontiers (la più importante
organizzazione internazionale
per la libertà
di stampa) – dall’atteggiamento
dell’esercito americano,
il cui comportamento
nei confronti dei
giornalisti non ha smesso
di deteriorarsi, soprattutto
nei confronti di quelli non
incorporati».
«In tempo di guerra – ha scrito
padre Giulio Albanese,
direttore della Misna (7) -,
l’informazione rischia di sortire
effetti devastanti sulle coscienze
di tanta gente. (…) Il gergo,
in certi salotti dell’etere, è quello dei
fumetti di guerra, dove muoiono i
cattivi e vincono i buoni».
Certo fa male al cuore e all’intelligenza
vedere come nei salotti televisivi
nostrani si è discusso della guerra,
con le mappe dell’Iraq su cui
muovere le pedine e gli ospiti (generali
in pensione, direttori di giornale,
attori, politici) a disquisire sull’avanzata
degli «alleati».
Salotti dove 500 morti iracheni
non meritavano che un cenno perché
tanto erano soldati del dittatore
(e dunque «cattivi»), mentre alcuni
morti dell’altra parte erano subito
assurti al rango di eroi. Era così pericoloso
l’esercito di
Saddam? Quasi tutte le
vittime anglo-americane
sono state uccise dal
cosiddetto «fuoco amico
» o da incidenti. In
settimane di guerra non
si è alzato in cielo un solo
aereo iracheno, mentre
un esercito di poveri
diavoli con i sandali o
addirittura scalzi ha affrontato
un esercito iper-
tecnologico. Sono
girate foto in cui gli iracheni
fatti prigionieri
apparivano con la testa
in un sacchetto nero
(proprio come i talebani imprigionati
nella base statunitense di Guantanamo)
e un numero segnato sulla
spalla. Morti o prigionieri che fossero,
nessuno di loro ha avuto l’onore
della prima pagina, come la
soldatessa Jessica.
E poi dove saranno finite le fantomatiche
«armi di distruzione di massa
» (chimiche, batteriologiche e
quant’altro) di Saddam? Se c’erano,
come mai non sono state utilizzate?
Forse, a questo punto, la speranza è
che vengano trovate quanto prima
altrimenti i «vincitori» potrebbero
andare a cercarle in altri paesi… (8).

LA GUERRA COME STRUMENTO
DI «LIBERAZIONE»?

È stata una guerra di liberazione
per scacciare il dittatore Saddam e
imporre la democrazia (occidentale)
ai popoli dell’Iraq?
«Che i responsabili – ha scritto
monsignor Shlemon Warduni, vescovo
ausiliare di Baghdad (9) – di
quest’aggressione al popolo iracheno
ascoltino il pianto dei bambini, il
grido delle madri e dei padri sofferenti
e la disperazione delle ragazze
e delle donne, che sentano la sofferenza
di tutti gli iracheni (…), che
cessino di mandare missili e bombe
(…). Noi responsabili delle chiese
cristiane, insieme ai nostri fratelli
musulmani in Iraq (…), ringraziamo
tutti quelli che lavorano per fermare
l’aggressione contro di noi, e specialmente
il santo padre Giovanni
Paolo II. Chiediamo di continuare
la preghiera e l’opera assidua per influenzare
quelli nelle cui mani sta la
decisione della cessazione di quest’aggressione
ingiusta sul nostro
martoriato popolo, causa della morte
di bambini, vecchi, donne, malati,
mentre i nostri giovani al fronte
devono difendere con lealtà la loro
patria».
Ora vedremo come gli anglo-
statunitensi si comporteranno,
come gestiranno la
transizione verso la «democrazia
». Vedremo quale ruolo
assegneranno alle Nazioni Unite,
umiliate come mai nella
loro storia.
Dicono: avete visto come gli
iracheni festeggiavano le nostre
truppe che entravano a Bassora,
Baghdad e nelle altre città? A
parte i legittimi dubbi sull’entità
numerica della folla festante, dopo
12 anni di embargo e settimane
di bombardamenti martellanti,
paura, morte, distruzione, chi
mai non festeggerebbe la fine di un
siffatto incubo? La foto della statua
di Saddam abbattuta ha fatto il giro
del mondo. Il timore è che ci si ricordi
di quella e si dimentichino le
migliaia di morti (quasi tutti iracheni),
le immense distruzioni, il concetto
perverso di «guerra preventiva
», la pericolosità dell’«unilateralismo
statunitense».
Forse vale la pena ricordare quanto
successo in Afghanistan. Quanto
tempo è durata la felicità della gente
per la cacciata dei talebani?

QUALE BOTTINO
PER I «VINCITORI»?

Un vincitore trova sempre ragioni
per esaltare il proprio successo e
per attirare schiere di adulatori. Chi
salirà sul carro dei «vincitori»? Vi
sono già salite da tempo (per essere
precisi, da prima che la guerra cominciasse)
le compagnie statunitensi
che ricostruiranno l’Iraq (10).
«Per dare un’idea di come lavorano
gli americani- ha scritto il settimanale
Famiglia cristiana (11) -: Usaid
(United States agency for inteational
development, agenzia del dipartimento
di stato Usa) ha appaltato i
lavori di ricostruzione del porto iracheno
di Um Qasr molti giorni prima
che le truppe americane potessero
dire di averlo conquistato».
Ma forse anche gli europei avranno
delle briciole, magari in forma di
una diminuzione del prezzo della
benzina. «Il glorioso esercito – ha
scritto con amara ironia un lettore –
di 8 milioni di autovetture guardi
con attenzione mentre il rumeno di
tuo gli riempie il serbatornio: forse
vedrà che la benzina verde avrà una
strana dominante rossa, non dovuta
al ritorno
dell’odiato piombo, ma al colore
del sangue versato da tutti in
questa assurda guerra in cui tutti
stiamo perdendo» (12).
E gli aiuti per l’emergenza? «Il popolo
iracheno ha già sofferto troppo
per dover patire – ha scritto padre
Albanese – l’ennesima umiliazione
di presunti datori che lesinano offerte
come se fossero elemosine per
tenere a bada la coscienza. Chi è sopravvissuto
alle bombe intelligenti
non mendica le briciole di noi ricchi
Epuloni».
Dicono: questa guerra ha eliminato
un dittatore che favoriva il terrorismo
internazionale. A parte che
questa accusa non è mai stata provata,
ci sarà veramente meno terrorismo
con un protettorato statunitense
insediato in un paese islamico
al centro del Medio Oriente e a pochi
passi dalla polveriera israelo-palestinese?
«Tutte le nazioni ricche – ha spiegato
monsignor Sabbah -, se vogliono
veramente combattere il terrorismo,
devono fare un esame di coscienza,
chiedendosi che ruolo
hanno nel far nascere i terroristi.
L’ingiustizia, l’oppressione imposta
ai popoli più poveri, l’iniqua distribuzione
dei beni, tutto questo fa nascere
il terrorismo. E chi ne è responsabile?
Certamente il terrorista,
ma lo è ancora di più chi è causa della
nascita del terrorista».

DURERÀ
LA «PAX AMERICANA»?

«Gli Stati Uniti – ha scritto nel
2000 il professor Chalmers Johnson
dell’Università della Califoia (13)
– dovrebbero cercare di espletare la
loro leadership attraverso la diplomazia
e l’esempio, anziché la forza
militare e i soprusi economici. (…)
Molti leader americani sembrano
convinti che, qualora venisse smantellata
anche una sola base americana
oltreoceano o si permettesse anche
a un solo paese di gestire liberamente
la propria economia, il
mondo crollerebbe all’istante. Meglio
farebbero a ponderare invece
quale potenziale di creatività e di
crescita verrebbe liberato se solo gli
Stati Uniti allentassero il proprio
soffocante abbraccio. Dovrebbero
inoltre capire che i loro sforzi di
preservare l’egemonia imperiale finiscono
inevitabilmente col generare
molteplici forme di ritorno di
fiamma».
L’obiettivo di costruire un mondo
«conforme agli interessi e agli ideali
americani» è in elaborazione da
tempo (14). «La guerra – si legge su
Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana
di Assisi (15) – senza legalità,
senza ragione, senza verità e senza onore,
si profila come un nuovo delitto
fondatore dal quale dovrebbe
nascere la nuova identità americana
come Impero e il mondo come epitome
dell’America».
«Una piccola pietra si staccò dalla
montagna e colpì i piedi della statua
e l’Impero si frantumò» (Daniele
2, 34). Ma, anche senza andare a
sfogliare il libro del profeta Daniele,
la storia insegna che gli imperi sono
sempre caduti. Alcuni rovinosamente,
altri meno.

RIPORRE NEL CASSETTO
LE BANDIERE DELLA PACE?

Che fare dunque? «Sarebbe auspicabile
– ha scritto padre Albanese
(16) – che nel gregge dei “bassotti”
della diplomazia qualche spirito
illuminato invocasse un tribunale
per i crimini perpetrati dal feroce regime
di Baghdad, ma anche dai presunti
liberatori che, violando la convenzione
di Ginevra, bombardano
presidi civili e gettano
dal cielo le
micidiali bombe
a grappolo
che solo menti
perverse avrebbero
potuto
concepire.
Questa
guerra, ammettiamolo,
è
una vergogna
per tutti!».
E noi, gente comune? Ritirare le
bandiere della pace dai nostri balconi
e riporle nel cassetto in attesa
della prossima guerra preventiva?
Farsi prendere dallo scoramento
perché, nonostante l’ampiezza straordinaria
del fronte pacifista hanno
vinto George W. Bush e amici?
«Bisogna – ha scritto padre Umberto
Guidotti, missionario a Manaus
(Brasile) – sporcarsi le mani
dietro questa storia che è veramente
sporca. Si tratta cioè di lavorare,
perché se non si lavora non accade
nulla. Passare all’azione, partecipare,
frequentare, militare, sostenere
sindacati, banche etiche, bilanci
di giustizia, obiezione fiscale.
Bisogna lavorare alla costruzione
dell’uomo nuovo: lavorare
al cambiamento del
cuore».

NOTE:
(1) Dichiarazione fatta durante un incontro
con la stampa avvenuto a Torino il 1 aprile.
(2) Sabato 29 marzo 2003.
(3) «Ci sono persone che dicono: il 72 per cento
degli americani appoggia questa guerra.
Quindi chi è contro la guerra è anche contro
gli americani, non solo contro Bush. Risultato:
i pacifisti sono antiamericani. Peccato che
chi cita quel sondaggio si scordi di citae altri
due. Il 51 per cento degli americani è convinto
che dietro l’11 settembre ci sia l’Iraq. E
il 65 per cento degli americani non è capace di
individuare l’Iraq su una carta geografica»
(Giovanni De Mauro, direttore di Internazionale,
4 aprile).
Sul supporto degli statunitensi alla guerra di
Bush si legga l’impressionante articolo di Vittorio
Zucconi su «il Venerdì» dell’11 aprile.
(4) Su «la Stampa» del 28 marzo.
(5) Si legga ad esempio Angelo Panebianco sul
«Corriere della sera» del 29 marzo: «Per la seconda
volta in un decennio, l’Iraq di Saddam è
stato causa di un equivoco. Oggi, come all’epoca
della guerra del 1991, l’opposizione del
Papa all’intervento americano alimenta la leggenda
di un Vaticano “pacifista” (…)».
«Se i pacifisti – si domanda Curzio Maltese (il
Venerdì, 11 aprile) – sono “oggettivamente dalla
parte di Saddam”, allora chi è contrario alla
pena di morte sarà oggettivamente dalla parte
degli assassini?».
(6) «Si capiscono allora l’uso da parte di Bush
di una propaganda religiosa, dei discorsi sul
Bene e sul Male, i continui appelli a Dio per
giustificare l’assurdo. Il più potente capo politico
della Terra parla come un capo religioso,
come i papi delle crociate, mentre l’ultimo
grande politico rimasto sulla scena mondiale
appare Giovanni Paolo II. Il papa polacco è
l’uomo che ha visto prima e con più lucidità il
crollo dell’impero sovietico, forse è oggi quello
che intravede la caduta dell’impero americano,
i rischi di una guerra permanente, globale,
definitiva» (Curzio Maltese, il Venerdì, 4
aprile).
(7) Nota apparsa sul sito della Misna, l’agenzia
di notizie degli istituti missionari italiani, il
31 marzo.
(8) Non teme, ha chiesto un giornalista durante
una conferenza al centro stampa del commando
anglostatunitense di Doha, che questa
guerra diventi «la prima guerra della storia che
sarà finita prima di aver trovato la propria causa?
» (la Repubblica, 6 aprile).
(9) La dichiarazione, trasmessa da Teleradiopace
di Chiavari, è stata ripresa dalla Misna il
27 marzo.
(10) Ecco qualche nome: Halliburton, Betchel
Group, Fluor, Berger Group.
(11) Fulvio Scaglione su «Famiglia cristiana»
del 30 marzo.
(12) Lettera del signor Marco Masolin su «la
Repubblica» del 6 aprile.
(13) Si veda: Chalmers Johnson, Gli ultimi
giorni dell’impero americano, Garzanti 2001.
(14) A cominciare dal «New american century
project» (si veda: www.newamericancentury.
org) e «Rebuilding America’s Defenses»
per arrivare ai piani di alcuni potenti istituti di
ricerca di Washington (l’American Enterprise
Institute, l’Heritage Foundation, il Center for
Strategic and Inteational Studies) dove lavorano
o hanno lavorato molti uomini vicini all’amministrazione
Bush.
(15) Raniero La Valle su «Rocca» del 1 aprile.
(16) Misna del 7 aprile.

Paolo Moiola




IRAQ IL GRANDE IMBROGLIOuna guerra assurda, crudele, illegale

TANTI PERCHÉ, ALCUNE RISPOSTE
Cosa sarà l’Iraq del dopo Saddam?
Perché Bush non ha attaccato la Corea del Nord?
Dopo Baghdad a chi toccherà?
L’analisi dei fatti porta ad una sola conclusione:
questa guerra inventata non produrrà nulla di buono,
forse neppure per i «vincitori».

Una guerra breve, che duri al
massimo 4-6 settimane. Insomma,
una guerra «benigna
», come certi tumori. Questo è
l’aggettivo utilizzato dal Csis (Center
for Strategic and Inteational
Studies), un istituto di ricerca vicino
al governo e al Pentagono, per
descrivere lo scenario ottimale che
dovrebbe garantire all’economia
statunitense di uscire dal ristagno.
Tra le opzioni prese in esame dal
Csis, una situazione di no war (le
parole «pace» e «dialogo» sono state
bandite dal vocabolario diplomatico
Usa) non sarebbe auspicabile,
perché verrebbe considerata
solo temporanea dai mercati, che ne
risentirebbero.
Viceversa, una guerra di lunga
durata, 3 o 6 mesi, potrebbe incidere
altrettanto negativamente sulla
fiducia dei consumatori e delle
borse, senza contare che il prezzo
del petrolio potrebbe schizzare a 80
dollari al barile. E dato che ogni aumento
di 10 dollari brucia 100 miliardi
di dollari nell’economia Usa,
le conseguenze sarebbero catastrofiche.
Nonostante l’embargo, oggi
l’Iraq è il sesto fornitore di petrolio
al mercato Usa, che ogni giorno
spreme 19,5 milioni di barili, pari al
26% del consumo mondiale. Di
questi, più della metà, 9,8 milioni,
provengono dai pozzi petroliferi esteri:
Arabia Saudita, Messico, Canada,
Venezuela, Nigeria, Iraq nell’ordine.
Inoltre, mentre un barile di petrolio
estratto in Texas costa 15 dollari
al produttore, in Iraq il prezzo
scende a soli 5 dollari. È chiaro,
quindi, l’interesse per l’Iraq mostrato
dall’amministrazione Bush,
che ha 41 membri con legami nell’industria
petrolifera Usa e dalla
quale ha ricevuto 1,8 milioni di dollari
per la campagna presidenziale.
Ma il gioco vale la candela?

COME UNA STAZIONE
DI POMPAGGIO

Dopotutto la guerra del Golfo del
1991 non ha portato quella ripresa
economica di cui tanto favoleggiava
Bush senior e gli 80 miliardi di
dollari, spesi durante le 6 settimane
di Desert Storm, sono stati pagati
per la maggior parte dagli alleati Usa,
Arabia Saudita in primo luogo.
William Nordhaus, economista della
Yale University, afferma che, a seconda
del protrarsi delle azioni belliche,
la guerra potrebbe costare da
un minimo di 100 miliardi di dollari
ad un massimo di 1.900 miliardi,
pari al 2% del Pil Usa per 10 anni.
A questi si devono aggiungere i costi
per la ricostruzione (100-600 miliardi
di dollari per i prossimi 10
anni) e i 20 miliardi di dollari di
compenso ai paesi arabi che hanno
ospitato le truppe anglo-americane.
L’Ufficio per la ricostruzione e
l’assistenza umanitaria (un dipartimento
creato ad hoc dal Pentagono
per controllare la fase immediatamente
successiva la guerra) ha già
chiesto a cinque compagnie statunitensi
(la Betchel Group, la Fluor,
la Louis Berger Group, la Parsons e
la Kellog Brown & Root, quest’ultima
controllata dalla Halliburton, ex
società del vicepresidente Dick
Cheney) di presentare costi e piani
logistici per la ricostruzione dell’Iraq
del dopo-Saddam.
Il progetto prevede la riparazione
di 2.800 km di strade, la costruzione
di ospedali per 13 milioni di persone,
la riapertura di scuole, la costruzione
di 3.000 nuove abitazioni
e la riparazione di altre 5.000. Ma,
come azione principale, a cui viene
dedicato il 90% degli sforzi, si punta
alla privatizzazione dell’Iraq Petroleum
Company (Ipc), la compagnia
di stato irachena, nazionalizzata
nel 1973, e del ministero del
petrolio, i cui nuovi funzionari dovrebbero
essere affiancati da consiglieri
Usa.
L’ostilità verso le Nazioni Unite e
gli organismi di sviluppo non governativi
non tenta neppure di essere
celata: «Sarebbe controproduttivo
– si legge – permettere ai burocrati
Onu (…) di governare
l’industria petrolifera». La BP, la
Shell e la Exxon-Mobil, tre delle
quattro compagnie straniere che avevano
partecipazioni nella IPC
prima di essere liquidate con lauti
compensi (la quarta era la Total),
hanno avanzato richieste di risarcimento
chiedendo il monopolio dello
sfruttamento del petrolio iracheno.
Il piano del Pentagono è così sfacciatamente
orientato a foraggiare
l’economia statunitense che alcuni
analisti ed economisti non hanno esitato
a definire l’Iraq del dopo-
Saddam come il Klondike sullo
Shatt al-Arab’. Il greggio iracheno
verrebbe slegato dall’Opec sia in
termini di produttività (non più
quote di estrazione) che in quelli di
vendita (prezzi più bassi del mercato
corrente). In tal modo le immense
riserve nazionali (seconde solo a
quelle saudite) verrebbero spremute
e la produzione, dagli attuali 2,8
milioni di barili al giorno, si innalzerebbe
a 5 milioni entro il 2005. La
ricetta Bush trasformerebbe l’Iraq
in una stazione di pompaggio Usa
nel Vicino Oriente.
Tutto secondo copione.

DA KABUL A BAGHDAD,
PROSSIMA TAPPA A…

Prima Kabul, ora Baghdad e già
ci si chiede quale sarà la prossima
capitale nelle mire di Bush. Dall’11
settembre 2001, nel giro di soli 18
mesi, gli Stati Uniti sono riusciti a
riportare truppe in paesi e territori
da dove erano assenti da decenni o
addirittura dove non avevano mai
messo piede. Oltre in Turchia, Arabia
Saudita, Emirati Arabi, Bahrain,
Qatar, Kuwait, tradizionali alleati
degli Usa, il Pentagono ora ha uomini,
consiglieri e mezzi militari dislocati in Pakistan, Afghanistan,
Tajikistan, Uzbekistan, Georgia.
Con il controllo dell’Iraq, Washington
riuscirà a realizzare la strategia
di recupero del Vicino Oriente
e Centro Asia inaugurata da Ronald
Reagan prima, e continuata da
Bush senior poi. Basta guardare una
normalissima cartina geografica
per accorgersi quale sia l’obiettivo
finale di questa lunga marcia di accerchiamento:
l’Iran. La dinastia
Bush ha sempre mostrato interesse
per Teheran. Più che il suo petrolio,
pur abbondante e di buona qualità,
alle compagnie petrolifere statunitensi
e europee fa gola l’ottima rete
di oleodotti di cui dispone il paese.
A differenza dell’Iraq, gli impianti
petroliferi e le pipeline iraniani sono
modei e in ottimo stato di manutenzione;
riuscire a sfruttare questa
risorsa per trasferire il greggio
del Mar Caspio sino ai porti del
Golfo Persico, non solo farebbe risparmiare
miliardi di dollari, ma garantirebbe
agli Stati Uniti il definitivo
controllo del principale bacino
petrolifero del mondo.
Naturalmente l’Iran non è l’Iraq.
Il suo esercito, provato dalla guerra
con il vicino negli anni Ottanta, è
stato in gran parte ricostruito e rimodeato
e da allora non ha dovuto
affrontare nessun altro conflitto
esterno che lo abbia decimato.
Al suo interno gli ayatollah
devono combattere una guerriglia
curda e una comunista, abbandonate
a se stesse e dimenticate dai
mass media e dall’opinione pubblica
occidentali, permettendo ai generali
iraniani di testare sul campo
le nuove armi e tattiche di guerra. Inoltre
Teheran ha sviluppato nuove
tecnologie militari ed avviato programmi
di sviluppo nucleare attirando
con lauti stipendi gli scienziati
sovietici licenziati dopo il crollo
dell’Unione Sovietica. Il missile
balistico Shihab-3, derivato dalla
tecnologia nordcoreana Nodong e
lanciato il 1° maggio 2002 dalla regione
di Semmai, può raggiungere
un raggio di 1.300 chilometri. Anche
se la Cia non crede che i generali
iraniani abbiano già pronte armi
a testate atomiche, il generale
russo Yuri Baluyevsky, ha confermato
che «l’Iran possiede armi nucleari.
Non sono armi strategiche,
nel senso che non sono Icbm (Inter
Continental Ballistic Missiles), che
raggiungono un raggio d’azione di
più di 5.500 chilometri, ma sono
certamente in grado di colpire Israele».
È sicuro che Teheran sta sviluppando
un veicolo di lancio spaziale,
lo Slv (Space Launch Vehicle), in grado
di spedire missili in orbita per
colpire paesi extracontinentali. Le
agenzie strategiche affermano però
che questo nuovo vettore non sarà
pronto prima del 2015. Nel frattempo
Washington sta affilando le
armi: appena conquistata la Casa
Bianca, Bush ha ribadito l’appartenenza
dell’Iran all’Asse del Male,
l’ha riaffermato all’indomani
dell’11 settembre e lo ha riconfermato
poco prima dell’inizio di Iraqi
Freedom. E dato che nelle diplomazie
più accorte e autorevoli, ogni
parola viene soppesata con attenzione,
gli ayatollah sono avvisati.
L’Iraq deve esser
ancora ingurgitato
e digerito
dagli americani
e dalla loro
economia, ma una
volta espulso la
Casa Bianca lavorerà
per tendere
l’agguato alla prossima
preda. Kabul
e Baghdad sono solo
delle tappe. L’arrivo
è Teheran. Almeno
nel Vicino Oriente.

E LA COREA DEL
NORD?

Saddam Hussein deve andarsene
perché ha trasformato l’Iraq in uno
stato canaglia. Questa, tra le tante,
è la giustificazione addotta dal presidente
Bush e dalla sua amministrazione
mentre, nello stesso periodo,
si apriva in Estremo Oriente
un altro fronte caldo, quello della
Corea del Nord.
Come è logico, sono stati in molti
a chiedersi come mai gli Usa adottassero
due atteggiamenti apparentemente
così differenti tra due
stati classificati entrambi come pericolosi
sostenitori del terrorismo
internazionale. L’abbondanza di
petrolio presente nel sottosuolo iracheno
può essere una motivazione
e forse la più preponderante, ma
certamente non è la sola che giustifichi
le differenti prese di posizione.
Appare, invece, più importante
rafforzare a breve termine il nuovo
assetto geopolitico regionale che si
è venuto a creare nel Vicino Oriente
dopo Enduring Freedom. Difatti,
mentre nella regione estremo orientale
dell’Asia, Washington può
contare su basi militari la cui esistenza
e giurisdizione sono oramai
consolidate, nell’area centroasiatica
e del Golfo Persico la stabilità politica
e militare statunitense è ancora
precaria.
In Afghanistan, i marines hanno
dovuto chiamare gli alpini italiani
per liberare un fronte a loro carico
e trasferire le forze in Iraq, mentre
lo stesso governo di Kabul ha fatto
più volte sapere di non essere disposto
ad accettare la presenza straniera
(spesso identificata con gli
Stati Uniti) oltre il necessario. La
nazione, lungi dall’essere pacificata,
si sta mostrando per quello che
è stata per gli inglesi nell’800 e per
i sovietici negli anni Settanta-Ottanta:
un micidiale terreno adatto
alle imboscate, dove la conoscenza
degli anfratti, delle vallate, delle lingue,
delle usanze, la parentela, le amicizie
valgono molto più della sofisticata
tecnologia. I militanti di al-
Qaeda possono contare su una fitta
rete di conoscenze sparse su tutto il
paese; i militari stranieri, invece, solo
sui loro armamenti che non sono
mai persuasivi alla maniera delle parole.
E se in Estremo Oriente il Pentagono
ha alleati fidati come Giappone,
Sud Corea, Taiwan, Filippine,
Thailandia, nel Vicino Oriente
persino alleati storici come l’Arabia
Saudita sono visti sempre più con
scetticismo da Washington.
Il figlio e successore di re Fahd è
stato intimo amico di Osama bin
Laden e sembra che continui ad avere
rapporti con lui. Questa ambiguità
fa parte della politica mercantilistica
utilizzata per secoli dalle popolazioni
locali (situate lungo le
principali rotte commerciali tra Europa
e Asia; si pensi alle vie della seta,
dell’oxiana, delle spezie, del
caucciù, del tè). In base ad essa, anche
il nemico può divenire fonte di
vantaggio: basta dialogare. Gli Stati
Uniti, nati da una rivoluzione e
cresciuti con lo sterminio di milioni
di aborigeni, sono rimasti incapaci
al dialogo. Da qui la necessità
di interventi frequenti e, il più delle
volte, cruenti.
Il vuoto di potere, creatosi nella
regione tra il Mediterraneo e la Cina
dopo la scomparsa dell’Urss,
non si è verificato in Oriente, dove
Pechino ha mantenuto, anzi a volte
incrementato, le alleanze con i vari
paesi dell’area. Questo implica che,
se un intervento militare Usa nel Vicino
Oriente (Iraq) e in Centro Asia
(Afghanistan) non trova apparati
in grado di contrastarlo, in Estremo
Oriente (Corea del Nord) la
Cina non gradirebbe certo la politica
aggressiva della Casa Bianca e
reagirebbe di conseguenza.
È anche per questo che Seoul e
Tokyo hanno guardato con preoccupazione
l’acuirsi della tensione
tra Washington e Pyongyang, adoperandosi
per aprire un dialogo con
la Corea del Nord.

Piergiorgio Pescali




vita da rifugiati AFGHANI IN IRAN

E ORA A KABUL, COSTI QUEL CHE COSTI!
Sono 37 milioni i rifugiati nel mondo: per calamità naturali,
per conflitti armati…
E se le prime sono ineluttabili (non sempre),
i secondi denunciano l’uomo. Che però sembra non voler capire…
L’Iran ospita 2 milioni e 360 mila profughi dell’Afghanistan.
Da qualche tempo è iniziato il rimpatrio. Ma…

Qual è la situazione dei rifugiati
afghani in Iran? È certamente
migliore di quella
dei loro conterranei fuggiti in Pakistan.
Però sono soltanto alcune decine
di migliaia gli afghani che vivono nei
27 campi profughi dell’Iran, «insolitamente
decorosi e bene organizzati,
tra i migliori al mondo», come
li ha definiti Laura O’Mahony, una
delle responsabili dell’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i
rifugiati a Teheran. Gli altri afghani
(la maggioranza) si sono insediati un
po’ ovunque: si trovano in quasi tutti
i grandi centri.
Alcuni, soprattutto quelli arrivati
da vecchia data, hanno anche impiantato
una propria attività. C’è
chi ha moglie o marito iraniani.
Lo ammettono essi stessi: a loro è
andata meglio che ad altri. Ma non
è stato facile. Per un profugo non lo
è mai.

UNA LUNGA ODISSEA
Gli afghani sono incominciati ad
arrivare in Iran circa 30 anni fa, ai
tempi della cacciata del loro re Zahir.
Da allora non hanno mai smesso di
attraversare la frontiera. Durante
l’invasione sovietica dell’Afghanistan
(1979-89), il loro numero arrivò
a 6 milioni. Molti sono tornati quando
i russi hanno abbandonato il paese.
Poi è incominciata la guerra civile,
poi sono arrivati i talebani, poi
questi sono stati cacciati, poi…
Secondo l’ultimo censimento, gli
afghani in Iran sono 2 milioni e 360
mila. Ma pochi hanno lo status di rifugiati;
un discreto numero possiede
la «carta blu» (corrisponde al permesso
di soggiorno); i più hanno solo
un numero di registrazione; però
si calcola che ci siano ancora 200 mila
profughi che non hanno risposto
all’appello e che, quindi, rimangono
fuori dei conti.
«L’Iran è stato generoso nei loro
confronti – ha confermato la signo-

ra O’Mahony -. Ha garantito istruzione
ai loro figli, assistenza medica
a tutti, sussidi per i più vulnerabili».
Bisogna, però, aggiungere che questo
vale per chi ha la carta blu; per
gli altri le cose sono più difficili. Ad
esempio: non possono mandare i figli
nelle scuole iraniane. Per tali ragazzi
gli stessi afghani hanno organizzato
scuole proprie, con l’aiuto
dei membri più danarosi della comunità.
Rimane per tutti il grosso scoglio
del lavoro. Se lo è per i profughi in
occidente (economicamente forte),
a maggior ragione lo è in Iran, dove
l’indice di disoccupazione è molto
alto. Perfino chi è in possesso di regolari
documenti può svolgere legalmente
solo lavori manuali. L’afghano
viene per lo più impiegato come
spazzino, giardiniere, manovale.
Il settore delle costruzioni si avvale
molto di lui, perché è un bravo lavoratore,
tenace e affidabile.

COMPLICE LA DIFFIDENZA
In Iran (con non pochi problemi
socio-economici) la presenza di numerosi
profughi suscita malcontento.
Negli ultimi anni le autorità
locali, pressate anche dall’opinione
pubblica, hanno tentato di rimandare
a casa qualcuno.
Un articolo del piano quinquennale
di sviluppo, approvato nel 2000,
prevedeva l’espulsione dal paese dei
lavoratori illegali: leggasi «afghani».
Ma poco è stato fatto per garantie
l’applicazione. Qualcuno è stato accompagnato
alla frontiera, ma non si
è andati molto più in là.
Va ricordato che, negli ultimi anni,
l’Iran ha dovuto fronteggiare il
problema dei profughi quasi completamente
da solo. La diffidenza
che nutre verso l’occidente (ampiamente
ricambiata) ha reso difficoltosa
la presenza delle organizzazioni
inteazionali: quindi anche l’arrivo
di aiuti.
Ora però, con la caduta del regime
dei talebani in Afghanistan e l’insediamento
di un governo riconosciuto
dalla comunità internazionale,
le autorità iraniane ritengono non
esserci più i presupposti perché gli
afghani rimangano nel loro paese.
Il 4 aprile 2002 l’Alto Commissariato
delle Nazioni Unite per i rifugiati,
il governo iraniano e l’autorità
afghana hanno sottoscritto un programma,
per favorire il rimpatrio
volontario dei profughi. Un analogo
programma, sempre promosso e
finanziato dall’Onu, prevedeva altrettanti
rientri dal Pakistan e dalle
repubbliche centroasiatiche. In totale,
1 milione e 200 mila persone.
Però la realtà ha di gran lunga superato
le aspettative. A fine agosto
2002 erano già 1 milione e 600 mila
i rientrati, di cui oltre 1 milione dal
Pakistan e 200 mila dall’Iran. La diversità
delle cifre può dare un’idea
delle diverse condizioni in cui i profughi
vivono nei due paesi.

AD UN CENTRO PROFUGHI
Ho visitato uno dei 10 centri aperti
in Iran per consentire il rimpatrio
dei profughi. È il «Suleiman
Khani», nei sobborghi di Teheran,
che registra il maggiore concentramento
di persone, perché nella capitale
e provincia abita un terzo degli
afghani residenti nel paese.
Le modalità per il rimpatrio sono
semplici. Chi desidera partire si presenta
al centro con i documenti; ognuno
(compresi i bambini di pochi
mesi) viene fotografato e riceve il foglio
di via.
Terminata questa prima fase a cura
delle autorità iraniane, i profughi
vengono ricevuti dagli operatori dell’Alto
Commissariato delle Nazioni
Unite, i quali li intervistano per stabilire
la volontarietà del rimpatrio,
la località in cui intendono rientrare,
le condizioni in cui presumibilmente
si verranno a trovare: se hanno
casa, se possiedono terra. Compito
degli operatori è anche fornire
informazioni sui pericoli in cui i profughi
possono incorrere durante il
viaggio in territorio afghano.
L’Onu, infatti, provvede alle loro
necessità e sicurezza solo fino a
Herat. Poi ognuno prosegue per
conto proprio, dopo aver ricevuto
un po’ di denaro per il viaggio e generi
alimentari sufficienti per i primi
giorni.
Le persone anziane e quelle non
in buone condizioni di salute devono
sottoporsi ad una visita medica,
per stabilire se sono in grado di affrontare
il viaggio o per ricevere le
cure di cui hanno bisogno.
A conclusione delle procedure, i
profughi ricevono il biglietto per il
convoglio, che parte il giorno successivo.
Ogni convoglio è formato
da un numero di pullman, variabile
secondo i viaggiatori previsti per
quel giorno, e da un numero doppio
di camion per il trasporto dei
bagagli. Gli afghani possono portare
via tutti i loro beni, senza alcun
limite: suppellettili, oggetti personali,
denaro.
Dal centro «Suleiman Khani» ogni
giorno parte un convoglio alla
volta di Mashad e della frontiera. La
mattina del mio arrivo si stava avviando
il centesimo viaggio di ritorno
a casa: 425 profughi su 12 pullman.
Era un numero modesto, se si
pensa che nei giorni precedenti le
persone erano state da 800 a 1.000.
I dati mostrano che il numero dei
rientri è in rapida crescita.

E DOVE VIVRETE?
Dopo la partenza dei pullman, al
centro «Suleiman Khani» rimasero
ancora tante persone: erano quelle
che sarebbero partite il giorno successivo
o che dovevano ultimare le
formalità richieste: chi era in attesa
di fare la fotografia, chi di essere intervistato.
Un folto gruppo, soprattutto
donne e bambini, faceva la fila
davanti all’infermeria.
Che speranza ha questa gente?
Me lo sono chiesta girando per l’ampio
spazio del centro. Vedevo le facce
tirate degli adulti; solo i bambini
piccoli avevano voglia di fare chiasso,
di giocare; i padri, le madri e i fratelli
più grandi rimanevano seri. Avrei
voluto attaccare discorso. Ma
come?
Notando che la mia macchina fotografica
appesa al collo suscitava una
certa curiosità, ne ho approfittato:
ho puntato l’obiettivo su alcune
fanciulle e le ho viste sorridere. Poi
sono accorsi dei ragazzini a mettersi
in posa, come pure qualche altro
membro della famiglia.
Il ghiaccio era rotto.
– Dove andate?
– A Kabul.
– Avete una casa là?
– No.
– Avete parenti che vi possono ospitare?
– No.
– Allora dove vivrete?
– In tenda, da principio. Poi ci costruiremo
una casa.
– È molto duro però… (non ho trovato
di meglio per commentare).
Non pensate che sia pericoloso?
– No, adesso non c’è pericolo…
Le altre persone con cui ho parlato
mi hanno detto pressappoco le
stesse cose. Tutti andavano a Kabul;
qualcuno non aveva la casa, però aveva
dei parenti; qualcuno aveva la
casa, ma non sapeva se fosse ancora
in piedi. Dagli occhi di tutti traspariva
affanno, ma nelle parole risuonava
la determinazione di ritornare
a casa, più forte di tutto. Con la speranza
di farcela.
Come non capire il desiderio di ritrovare
la propria gente e la propria
terra? Li ho ascoltati in silenzio, ma
in cuor mio non sono riuscita a condividere
il loro disperato ottimismo.

TANTO DENARO,
MA NON PER LORO

Durante la nostra conversazione,
Laura O’Mahony è stata molto cauta
nel valutare le reali possibilità che
i profughi hanno di rientrare in Afghanistan.
«Noi tentiamo di facilitare il rimpatrio,
ma non lo incoraggiamo; non
si può parlare di rimpatrio, se non si
pensa contemporaneamente a ricostruire
le infrastrutture. Lo sanno gli
stessi afghani; è per questo che molti
rimangono qui. Se uno ha dei figli,
come fa a ritornare in un paese senza
scuole? La maggioranza non ha
più la casa, essendo stata distrutta o
danneggiata dai bombardamenti anglo-
americani, in seguito all’11 settembre
2001; oppure non ha più la
terra, perché occupata da altri o, addirittura,
venduta a terzi.
Inoltre, se è vero che alcune regioni
dell’Afghanistan sono abbastanza
sicure, altre rimangono pericolose…
Perché a ritornare sono più
numerosi i tagiki rispetto agli hazara?
Perché il territorio degli hazara
ha subìto maggiori devastazioni e
non offre nessuna sicurezza».
Il vero problema non è far partire
la gente, ma assicurarle una condizione
dignitosa al rientro. Muoversi
in Iran è facile; ma in Afghanistan
cornordinare gli interventi è molto difficile
per le condizioni in cui si è costretti
a lavorare. Anche la cosa più
semplice necessita di un enorme dispendio
d’energia e di un lungo lavoro
preparatorio.
E poi mancano i soldi.
«All’Afghanistan sono state fatte
molte promesse, ma di soldi ne sono
giunti ben pochi – ha constatato
con amarezza la signora O’Mahony
-. In Kosovo, all’indomani dell’intervento
della Nato, è arrivato un
fiume di denaro, però in Afghanistan…
Perfino i fondi stanziati per il
programma di rimpatrio sono insufficienti,
a causa dell’alto numero
di rientri. Per starci dentro, abbiamo
dovuto ridurre gli aiuti in cibo e
coperte che diamo ad ogni profugo.
D’altra parte, noi ci basiamo esclusivamente
su contributi volontari.
A proposito: forse le interesserà
sapere che l’Italia è una delle nazioni
che maggiormente contribuisce
alla nostra opera qui…».
Il fatto mi interessava, tanto che
sono andata alla nostra ambasciata
a Teheran per sapee di più. Ho,
così, appreso che l’Italia è da tempo
impegnata in favore dei rifugiati
afghani in Iran: oltre a sostenere i
programmi delle Nazioni Unite, il
nostro paese partecipa con cospicui
contributi alla costruzione di scuole
e finanzia interventi per migliorare
le condizioni di vita nei campi
profughi. Una volta tanto,
ci si può augurare di
continuare così.

Biancamaria Balestra




GUARDANDO «LA CROCE DEL SUD»


È un bisogno del cuore quello di ricordare un grande vescovo e un amico indimenticabile. Sì, don Tonino Bello, il profeta dei piccoli grandi gesti, cantore degli umili, innamorato della pace.

Don Tonino Bello, scomparso dieci anni fa è ancora presente in me: quanti ricordi e rimpianti! L’ho sempre considerato uno strumento nelle mani di Dio, per cantare e «portare ai popoli l’annuncio della salvezza», come dice un testo a lui molto caro. Non ho paura di dire che mi è stato maestro e padre, soprattutto nei momenti di discernimento del mio cammino di vita, della vocazione missionaria.

Credo avesse sempre desiderato essere missionario e lo faceva intuire in certe occasioni; come quando una volta, al visitatore della Pontificia unione del clero faceva domande proprio come uno di noi; o le sue lacrime durante la proiezione del film «Molokai»; e ancora il suo entusiasmo travolgente e partecipe nel conferire il mandato missionario a padre Vincenzo Mura (suo alunno e, poi, missionario della Consolata). Ma quanti gesti di pace e missionarietà lo hanno reso… famoso! Basti pensare ai tanti messaggi scritti per la «prima» guerra del Golfo, dove difese a spada tratta la scelta della non-violenza; il suo incarico di presidente di «Pax Christi», succedendo all’amico mons. Luigi Bettazzi; i suoi viaggi all’estero (in Australia, Argentina, Venezuela, U.S.A. per visitare i molfettesi emigrati in quelle terre; o in Etiopia, per un ritiro ai missionari; o a San Salvador, nel luogo del martirio del vescovo Romero); la marcia per la pace a Sarajevo, durante i suoi ultimi giorni, con la malattia che l’aveva già consumato.

Quando decisi di farmi missionario e averne parlato in famiglia, i miei genitori avevano invitato a pranzo don Tonino, non solo perché era nostro grande amico, ma soprattutto con la segreta speranza che mi convincesse a rimanere in diocesi. Quella volta «fallì» nel suo intento (almeno apparentemente), perché le sue parole non mi fecero cambiare idea. Vistomi agitato e piuttosto contrariato, mi confidò l’apprezzamento che aveva per i miei genitori; mi chiese soltanto di non dimenticarmi mai di loro. Il motto del suo episcopato: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3), non sono state vuote parole, ma espressione concreta del suo cuore ardente e aperto a tutti, cominciando dagli ultimi e dai poveri.

Una sera dell’autunno 1984 ero andato a salutarlo a Molfetta, perché ero in partenza per la Colombia, dove avrei studiato teologia. Lo trovai impegnato a presiedere un incontro: con l’entusiasmo di sempre, raccoglieva consigli e dava suggerimenti per incrementare una pastorale d’insieme. Rimasti finalmente soli, mi offrì una «frisa» (pane tipico della gente del Salento), con olio e sale; poi, in casa e lungo il porto di Molfetta, parlammo a lungo. Mi accennò, tra l’altro, all’idea di prendersi un appartamento, lasciando il palazzo episcopale come dimora per i più poveri e centro culturale e teologico, a servizio della nuova evangelizzazione. Fu la più lunga chiacchierata con lui della mia vita (siamo arrivati alle ore piccole) e sembrava non sentisse la stanchezza della lunga e pesante giornata. Mi regalò anche il suo libro «Sotto la Croce del sud», frutto della sua visita pastorale agli emigrati in Australia, scrivendomi la dedica: «A Rocco, chiamato a essere testimone del Risorto».

Quella sera la ricordo come la celebrazione del mio primo mandato missionario, in un’atmosfera evangelica, presso le barche ormeggiate nel porto. Nel 1993, alla fine di luglio, ormai dopo la sua dipartita, arrivato in Sudafrica, riassaporai la gioia del porto di Molfetta, vedendo la costellazione della Croce del Sud: me lo sentii vicino, mentre mi incoraggiava a non aver paura e a saper «osare» nel mio nuovo lavoro apostolico.

A don Tonino piaceva ricordare i missionari con il versetto «Beati i piedi del messaggero che annuncia la pace», cioè che annuncia Gesù, la sua pasqua, il suo progetto, il suo amore, espressi in azione nella carità quotidiana. La sua parola era sostanziosa pregna di cultura umanistica, saggezza popolare e, soprattutto, imbevuta dello stesso Cristo, sapienza del Padre. Tutti comprendevano la sua parola; i dotti l’apprezzavano, riconoscendone lo spessore culturale; gli illetterati si affezionavano a lui, perché veniva loro offerto un messaggio evangelico di liberazione, capace di incoraggiarli e spingerli ad essere protagonisti nella storia. Soltanto in Colombia, studiando la teologia della liberazione, mi sono accorto di essere già stato introdotto a quel tipo di riflessione (che è anche metodologia missionaria), proprio da don Tonino.

L’unica volta che mi sono trovato a pranzo da lui, insieme a un missionario, ci aveva mostrato la sua piccola cappella; ricordo l’inginocchiatornio di fronte al tabernacolo, e un tavolo, su cui c’era la bibbia aperta, altri libri, la sua penna e manoscritti qua e là. Mi era sembrato di vedere simbolicamente la sapienza umana attenta ad attingere dalla sapienza divina. Don Tonino spendeva ore di adorazione durante le notti, pregando e scrivendo. In lui, la contemplazione diveniva azione e il suo dialogo col Signore era prototipo di nuove relazioni nella chiesa e nella società.

Dopo la visita in cappella, ci fece vedere gli oggetti esposti su un tavolo, parlandoci delle persone di diverse razze, culture e religioni a cui appartenevano. Ogni «pezzo» ricordava qualcuno, con nome e cognome, che lui aveva incontrato nel suo girovagare in diocesi, ma anche per l’Italia e all’estero. In quei segni c’erano persone che aveva aiutato e da cui era stato aiutato. Fu un animatore, un architetto, un poeta e cantore dell’annuncio ai lontani e credo di non esagerare venerandolo come uno dei padri della nuova evangelizzazione.

La scelta dei poveri non fu, per lui, solo una pia formula, ma uno stile di vita. Per questo ebbe a soffrire e, come Gesù, anch’egli non fu capito, ma invidiato e combattuto; eppure non ebbe mai sentimenti di rancore con nessuno. Neanche quando, in televisione, cercò di esprimere un’alternativa di pace alla guerra del Golfo, in una trasmissione condotta da Santoro. In quell’occasione, venne interrotto moltissime volte da interventi in diretta, tanto che non gli fu possibile presentare la sua posizione pacifista e non violenta.

Considerando queste difficoltà, così accentuate in certi momenti, è molto probabile che, se fosse stato missionario in America Latina, o in qualche paese dell’Africa, avrebbe senz’altro pagato con la vita la sua fedeltà al vangelo e la coerenza delle sue scelte, fondate su una fede semplice e filiale. Poche ore prima della sua dipartita, chiedeva di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna (chissà se non c’era anche quello della Consolata), per essere sicuro di morire, fissando lo sguardo su uno di essi. Don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo regno di giustizia e di pace attraverso Maria, sospirando le parole di tanta gente sofferente del Salento: «Mamma mia, Madonna mia!». E fidandosi fino in fondo di quel Dio a cui aveva dedicato, con amore appassionato, tutta la sua vita.

Rocco Marra




ISLAM E MEDIA tra spettacolo e terrore psicologico

IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA
«In Italia ci sono centinaia
di migliaia di musulmani
a rischio, migliaia
di combattenti del “jihad”
(guerra santa) in sonno,
pronti a scatenarsi…».
A chi serve tale offensiva
antislamica?
Il giornalismo – rileva
il barone von Clausewitz –
è la continuazione della
politica con altri mezzi.

«SONO DEVOTO
DI BIN LADEN…»

Martedì 25 febbraio, ore 21, gli
occhi severi e castigatori di shaikh
Abd el-Qader Fall Mamour fissano
il pubblico italiano attraverso le telecamere
della trasmissione «Ballarò
», mentre la sua voce proclama:
«Sono un devoto di Osama bin Laden.
Lo ammiro…».
Tutt’intorno è silenzio e attesa fremente
di nuove rivelazioni.
«Mamme degli alpini, se l’Italia
colpirà l’Iraq, dovrete tremare per i
vostri figli. Soldati del jihad (guerra
santa) in Europa sono pronti a vendicare
la morte dei loro fratelli. Bisognerà
accertare le responsabilità
dei militari italiani: se avremo la certezza
che questi hanno ammazzato
innocenti in Iraq, allora i mujaheddin (combattenti per l’islam) residenti
in Europa verranno a colpire
obiettivi in Italia. Ci saranno attentati».
Fall Mamour parla in prima persona,
per sottolineare la sua relazione
diretta con il terrorismo islamico,
e il suo essere a conoscenza di movimenti
e strategie di gruppi legati
ad al Qaeda. Il suo scopo è far paura,
spaventare lo spettatore. E di farsi
pubblicità. È titolare di tre società
finanziarie islamiche, che attingono
soldi da ricchi musulmani europei.
Ciò che il pubblico non sa, però,
è che questo signore rappresenta solo
se stesso e qualche sprovveduto,
che ammira la sua fiumana di parole,
di citazioni coraniche e la sua indubbia
arte di show and businessman.
Nei mesi passati si è vantato di
essere stato un punto di riferimento,
in Piemonte, per il reclutamento
di mujaheddin da inviare in Bosnia
e Afghanistan. Ha snocciolato cifre:
300, 1.000 o 2.000 combattenti, secondo
il momento. O, forse, secondo
il suo interlocutore.
Le forze dell’ordine sostengono
che tali affermazioni siano fondate.
Invece i rappresentanti dell’islam in
Italia le ritengono fandonie, volte ad
autopromuovere la sua immagine.
Qualcuno parla persino di mitomania.
Ma tant’è.
Ciò che non si sa è che Fall Mamour
«nuoce gravemente alla salute
» dei musulmani, prima che a
quella degli italiani. Le sue sono comunque
dichiarazioni ad effetto: sia
che siano frutto della verità dei fatti
sia che si tratti di mitomania e megalomania.
Proprio per questa ambiguità
piace enormemente ai media,
che corrono a suonare al suo
campanello di Carmagnola (TO).
Che è pure quello della consorte,
Aisha Barbara Farina, anch’essa amante
degli show islamici ad uso e
consumo dei mezzi di informazioni
occidentali.

PROPRIO UNA RELIGIONE
DI BARBARI

La coppia Aisha/Abd el-Qader è
molto richiesta da tivù e giornali,
quando si tratta di parlare di islam:
poligamia, jihad, terrorismo, velo e
così via. Quando qualche redazione
ha bisogno di puntare il dito sulla
«barbarie islamica» made in Italy, è
a loro che si rivolge. Non ai moderati,
ai pacifisti, ai riformatori. Non
agli intellettuali e ai tanti che, pur
mantenendo forti le radici del proprio
credo religioso, sono integrati
nella società italiana. Costoro non
interessano: rappresentano solo una
«normalità» noiosa, banale, diffusa,
poco attraente.
È meglio dar spazio e voce a chi ci
infastidisce, spaventa: o, meglio ancora,
a chi ci terrorizza. Certamente
l’audience è salva. Come lo sono tutte
le politiche estere e intee filoamericane,
pronte a immolare l’islam
e le centinaia di milioni di fedeli sull’altare
della guerra preventiva o difensiva.
O offensiva.
Personaggi negativi come Osama
bin Laden – grande partner di petrolieri
texani, Cia e Isi pakistano, a
sua volta sponsorizzato dalla Cia (1)
– e, molto più in piccolo, come i nostrani
Adel Smith e la coppia Farina/
Fall Mamour sono funzionali alla
propaganda: una propaganda
sposata da molti media in tutto il
mondo occidentale e volta ad accreditare
strategie economiche, militari
e politiche di conquista coloniale
vera e propria.
Nel caso di Smith e dei coniugi di
Carmagnola, si tratta soprattutto di
provocatori, il cui obiettivo è di disturbare
la quiete pubblica e di creare
ansie. Il tutto con un ritorno di
pubblicità a loro favore.
Da questi ed altri episodi, tra media
e islam appare un rapporto che
spesso travalica la razionalità e la
deontologia professionale. Di islam
possono parlare male tutti. Anche il
giornalista che, fino a poco fa, si era
occupato di cronaca rosa, di sport.
Improvvisamente tutti sono diventati
esperti, informati su cause ed effetti,
reti e legami con il terrorismo.
Non è necessario «provare» nulla.
Dopo mesi si può scoprire, da un
trafiletto di poche righe pubblicato
su un qualsiasi quotidiano, che la videocassetta
con messaggi minacciosi
per l’umanità, attribuita a bin Laden,
era un falso; che la registrazione
di un suo discorso violento era
stata mal tradotta e non costituiva
quel pericolo tanto millantato.
Nelle redazioni si sfoderano termini
in arabo e citazioni coraniche.
Una mano (mozzata per vendetta da
criminali comuni legati allo spaccio
di droga) diviene subito, senza alcuna
riflessione, una sentenza «coranica
». E a nulla valgono le dichiarazioni
dei rappresentanti dell’islam italiano,
che ripetono ormai stanchi:
«È un fatto di pura cronaca nera, una
vendetta di stampo mafioso. L’islam
nulla vi ha a che fare».
No. Una mano tagliata ad un marocchino
deve essere per forza l’esecuzione
letterale di una sura coranica.
Alcune testate giornalistiche vi
dedicano paginoni di storia sulle punizioni
corporali: taglio di testa, mani,
piedi, lapidazione e quant’altro.
In tivù i servizi imperversano sullo
stesso tema, che suscita ovvio disgusto
e disprezzo anche nel telespettatore
più distratto. «L’islam è
proprio una religione di barbari!»
intuisce soddisfatta la massaia mentre
fa zapping tra un programma di
cucina, una telenovela e un talkshow.
«Ci invaderanno il paese con
le loro abitudini sanguinarie» sbotta
il pensionato, mentre al bar del
circolo gioca a carte con gli amici e
butta uno sguardo alla tivù sempre
accesa.
E Luca, Marco, Silvia, bambini di
quinta elementare in una qualsiasi
scuola d’Italia, cosa pensano dei loro
compagni musulmani? Probabilmente
quello che sentono raccontare
dai tigì e in casa. Né più né meno.

PERCHÉ L’ISLAM FA PAURA?
Perché questa tendenza ad esasperare,
esagerare, amplificare, focalizzare
l’attenzione solo su certi aspetti
e non su altri di una religione
monoteistica, abramitica e, per alcuni
versi, vicina a cristianesimo ed
ebraismo?
L’islam non è un credo monolitico,
omogeneo. Al suo interno coesistono
correnti e tradizioni culturali,
orientamenti e tendenze interpretative,
scuole giuridiche e teologiche
molto diverse tra loro. Il messaggio
è unico, ma le sue interpretazioni sono
tante. Come per ogni religione rivelata,
è valido il principio per cui oscurità
e illuminazione, luce e tenebre
convivano a seconda dell’animo
del fedele che ad essa si avvicina.
Tuttavia, nei confronti dell’islam,
l’immaginario collettivo occidentale
crea una sorta di sovrapposizione
tra due rappresentazioni: quella terrorizzante
e quella quotidiana. E affinché
una minaccia, un crimine siano
ritenuti veri basta soltanto crederli
tali. Questo immaginario viene
ogni giorno nutrito da dubbi e paure.
Così il «pericolo attentati» è continuamente
ribadito, ricordato, evocato.
Turisti marocchini, sorpresi nella
basilica di san Petronio, a Bologna,
a commentare alcuni dipinti… si trasformano
in poche ore in terroristi
pronti a colpire i luoghi di culto della
cristianità.
E che dire degli afghani, fermati a
Roma nell’ottobre 2001, nei pressi
dell’ambasciata Usa? Viaggiavano
senza documenti, avevano cartine
sospette, non parlavano né italiano
né inglese. Per giorni si parlò di minaccia
islamica: servizi segreti e polizie
di mezzo mondo erano in allerta.
La gente era spaventata, temeva
attentati e guardava con odio e sospetto
qualsiasi straniero… Poi poche
righe furono spese per spiegare
che si trattava solo di clandestini in
cerca di lavoro.
Più recentemente, ci è stato offerto
il caso di 28 pakistani, arrestati il
30 gennaio scorso a Napoli. Le accuse
rivolte loro erano gravissime:
associazione per delinquere finalizzata
a terrorismo internazionale e
detenzione di esplosivo. I giornali
gridarono a tutta pagina: «Presi terroristi
islamici. Stavano preparando
un attentato»! Ma il 12 febbraio, dopo
13 giorni di carcere, i poveracci
furono liberati per «insufficienza di
gravi indizi di colpevolezza».
Per non parlare degli articoli, apparsi
verso fine gennaio sulla presunta
rete di al Qaeda a Torino: se si
tratti di terroristi, non ci è ancora dato
saperlo, visto che la Procura non
ha proceduto agli arresti. In attesa,
la gente trema. Colore della pelle,
accento, professione religiosa… sono
ingredienti ormai sufficienti per
creare i nuovi «mostri» dell’occidente.
«Italia a rischio di attentati»,
«In Italia ci sono centinaia di
migliaia di musulmani a
rischio», «Migliaia di
combattenti del “jihad”
in sonno pronti a scatenarsi», «Islamizzazione
dell’Italia», «L’islam
ha dichiarato
guerra all’occidente»,
«Immigrati, soldati
dell’islam», «Bin Laden,
il video dell’orrore
», «Bin Laden,
appello alla rivolta»,
«Palestinesi e al Qaeda,
in Italia scatta l’allarme»…
Quanti articoli, servizi,
editoriali sono stati dedicati,
dall’11 settembre in poi,
alla minaccia islamica che
incombe sul mondo civile!
Foto, titoli a caratteri cubitali,
occhielli e sottotitoli
cercano il sensazionale. Vogliono
colpire le emozioni,
la fantasia, il substrato più
remoto della nostra mente
e rimandarci a minacce
apocalittiche, da fine del
mondo. Da armageddon.
Da conflitto planetario
ed epocale del bene contro il male.
Della serie, insomma, «o con noi o
contro di noi». Dove il «noi», ovviamente,
sono gli Usa e «loro» tutti
gli altri.

QUESTIONE DI IGNORANZA
Nel libro I media e l’Islam, edito
dall’Emi di Bologna, Stefano Allievi
scrive: «Dell’islam fanno notizia
uno o due aspetti, e solo quelli. Il
fondamentalismo, innanzitutto: l’islam
della guerra, del terrorismo,
delle bombe, della violenza, del sangue
(e già il fondamentalismo non è
solo questo). Un mostro a metà tra
il feroce Saldino dell’era atomica e
un’accozzaglia di fanatici in costume,
scimitarra inclusa, pronti a tutto
pur di combattere il loro jihad».
Ci sono ragioni profonde, ascrivibili
alla storia dell’ultimo millennio,
che appartengono alla sfera dell’inconscio,
e altre che hanno a che vedere
con logiche politico-strategiche
e militari. I due piani interagiscono
in un cocktail micidiale, dove il ruolo
dei media è appunto quello di trasmettitore,
amplificatore. E di canale
di trasmissione.
Spiega Magdi Allam su Media e Islam:
«I mass media sono improntati
ad una accentuata logica del sensazionalismo
e scandalismo per finalità
che possono essere politiche,
commerciali o entrambe.
L’irresponsabilità dimostrata dai
mezzi di comunicazione di massa,
nella trattazione dei temi relativi all’immigrazione
e in particolare all’islam
in Italia, svolge un ruolo fondamentale
nella diffusione dell’intolleranza
e dell’insicurezza sociale.
Alla base di tale atteggiamento irresponsabile
vi sono prevalentemente
l’ignoranza e l’inesperienza da parte
dei giornalisti, mentre è più frequente
una consapevole politica di
manipolazione della realtà da parte
della direzione e della proprietà dei
mass media».
La paura dell’islam, scrive Allievi,
è storia antica: ci rimanda lungo i secoli
per giungere fino ai nostri giorni;
il ricordo delle crociate è inscritto
nel Dna occidentale, così come la
caduta di Costantinopoli nel 1453
per mano dei turchi ottomani e, ancora,
la pirateria e i conflitti contro
i saraceni, la colonizzazione e le lotte
di liberazione nazionale nei paesi
arabi, la guerra israelo-palestinese
che dura da oltre mezzo secolo con
le sue stragi e i suoi massacri, la prima
guerra del Golfo, l’efferata guerra
civile in Algeria, il regime dei talebani
in Afghanistan, l’«11settembre
», il conflitto in Afghanistan e la
nuova guerra del Golfo. A ciò si deve
aggiungere la visione di un islam
reazionario, violento e ristretto, rimbalzata
dalle frange estremiste e politicizzate
sparse nel mondo musulmano
e occidentale. Tutto ciò crea
un humus in cui diffidenza, timore e
avversione si alimentano, spesso in
modo speculare, nelle due diverse
realtà, occidentale ed islamica appunto.
Politicamente, il crollo dell’Unione
Sovietica e del comunismo, considerati
per decenni nemici della nostra
civiltà, hanno prodotto un vuoto
che, per le ragioni su indicate, è
stato facile colmare con l’islam.
Ma è altrettanto vero che il ruolo
strategico di molte nazioni islamiche
(produttrici di petrolio, gas naturale
e materie di vitale importanza per
l’attuale sussistenza dei paesi occidentali)
sono alla base delle guerre
preventive lanciate nell’era di Bush
junior. Per accaparrarsi le fonti energetiche
in via di estinzione in un
futuro sempre più vicino, l’America
del Nord sembra disposta a qualsiasi
cosa. Anche a trasformare ex alleati
(2) in mostri dalle
mille teste. E a scatenare i
nostri fantasmi interiori.

(1) Sui legami tra integralismo islamico,
al Qaeda, bin Laden, Cia e «11 settembre
», si legga il saggio di Michel
Chossudovsky Guerra e globalizzazione,
Edizioni Gruppo Abele, Torino, 2002.
(2) «Mentre la jihad islamica, definita
da Bush una “minaccia per l’America”,
è accusata degli assalti terroristici al
World Trade Center e al Pentagono, le
organizzazioni islamiche che ne fanno
parte sono uno strumento chiave delle
operazioni militari e di intelligence
statunitensi, non soltanto nei Balcani
e nell’ex Unione Sovietica, ma anche
in India e Cina» (op. cit., pag. 41).
Il ruolo della Cia a favore dei mujaheddin
è confermato in un’intervista da Zbigniew
Brzezhinski, consigliere per la
sicurezza del presidente Jimmy Carter.
Domanda: Non si rammarica nemmeno
di aver sostenuto il fondamentalismo
islamico, di aver fornito armi e consulenza
a futuri terroristi?
Brzezhinski: Cos’è più importante per
la storia del mondo? I talebani o il collasso
dell’impero sovietico? Qualche
musulmano esagitato o la liberazione
dell’Europa centrale e la fine della
guerra fredda? (op. cit., pag. 25).

Angela Lano




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

SUORE, SORELLE, ZINGARE
Vivono in una roulotte in un campo alla periferia di Torino. Con i nomadi condividono
i problemi della quotidianità e della sopravvivenza. Questa è la storia di due sorelle
che dal 1979 hanno scelto di mettere la loro vita di donne e suore al servizio di gente
che non conta e che anzi viene considerata inferiore, deviante, fuorilegge.

«Condividere la vita degli
ultimi, dei più poveri,
della gente comune».
Questa è stata la spinta iniziale che
ha condotto due sorelle, Carla e Rita,
suore della congregazione di san
Luigi di Alba, ad abbandonare la
vita abituale per dare sempre più
concretezza alla loro vocazione.
Dal 1979 vivono in una roulotte
alla periferia di Torino. Acqua e
servizi sono rigorosamente fuori, al
freddo. Il calore lo produce una
stufa (per la quale occorre procurarsi
gioalmente la legna), ma anche
i tanti visi allegri e sorridenti
dei bambini, che ogni attimo si affacciano
alla porta e irrompono
dentro: per avere una carezza, parlare
un po’, mangiare un dolce, vedere
chi c’è.
Mitezza, cordialità, fratellanza è
quanto avverti incontrandole. Se ti
fermi a parlare con loro un gran
senso di pace e serenità ti inondano,
perché questo è il loro abituale
stato d’animo che emerge anche
nei momenti difficili.
Queste due semplici suore hanno
compiuto una scelta coraggiosa,
non facile e, spesso, impopolare,
che motivano così.
«La ragione profonda della
nostra vita con i rom e
i sinti, sta nell’incarnazione
di Gesù, in tutto simile a noi
fino alla morte; sta nella parola di
Dio.
Nella lettera ai Filippesi è scritto:
“Cristo Gesù, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con
Dio, ma spogliò sé stesso assumendo
la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini…”.
È la parola di Dio che ha ispirato
l’inizio del nostro cammino, che
si è fatta carne nella nostra quotidianità,
e ancora oggi ci sostiene
specie quando la resistenza nel
quotidiano si fa più pesante, incomprensibile
e assurda anche a
noi stesse; quando verrebbe voglia
di tentare altrove, questa parola ci
fa sentire più forte il legame con il
nostro popolo, un legame che non
si può spezzare facilmente.
Noi crediamo fermamente che la
vita religiosa non è un ruolo, né
principalmente un ministero, ma
un carisma, un dono che Dio fa alla
sua chiesa, e come tale lo vogliamo
accogliere senza etichette o apparati
che di fatto separano dalla
gente.
Vita religiosa come profezia, suppone
una scelta di luogo, di persone,
di stile. Abbiamo scelto rom e
sinti e le persone legate alla loro vita;
i campi sosta, le strade talvolta
le cose e i luoghi in cui queste persone
vivono. Ci poniamo lì come
un poco di lievito che nel silenzio e
nel segreto fermenta la pasta.
Come in punta dei piedi condividiamo
la loro vita, ci accogliamo
e ci stimiamo vicendevolmente con
simpatia. La nostra vita non è fatta
di grandi attività e impegni pastorali.
I problemi e gli impegni sono
quelli della quotidianità e della sopravvivenza.
Una quotidianità fragile, imprevedibile
e semplice, ma nello stesso
tempo solenne e festosa come
non è facile trovare nella nostra cultura
fatta più di concetti e idee
astratte.
Potrà sembrare una perdita di
tempo lo stare in accampamento
più silenziose che loquaci, più titubanti
che sicure, più discepole che
maestre; essere lì non come benefattrici,
ma come sorelle, quasi come
bambini che apprendono la lezione
della vita, dell’ospitalità proprio
da persone da molti
considerate inferiori, devianti, fuorilegge.
Pensiamo che non si parli solo
con la parola, ma anche ascoltando
la parola che sta all’interno del silenzio,
che ci insegna a porgere l’orecchio,
ad aprire gli occhi per vedere
ciò che sale dal basso e riconoscere
nei gesti concreti della vita,

tanti luoghi in cui Dio opera e si rivela,
e scoprire anche e soprattutto
l’acqua viva che disseta.
Si impara in questo lento e lungo
ascolto a non fare di nessuno, nemmeno
dei poveri, un mito (cogliendo
tutto senza spirito critico), ma
viceversa a vedere il bello e il meno
bello come parte costitutiva della
natura umana.
Così, cammin facendo, siamo
state condotte dalla vita allo stile
della debolezza, di chi “non fa udire
in piazza la sua voce e non spegne
il lucignolo fumigante”, di chi
si china per adorare e anche per
raccogliere i “semi del Verbo”
sparsi anche nella cultura rom, per
scoprire i germogli che crescono:
come donne ci sentiamo particolarmente
chiamate a raccogliere la
vita in tutte le sue espressioni e a
proteggerla, coltivarla e celebrarla.
Partendo da una posizione di
piccolezza e fragilità, imparando a
riconoscere la nostra debolezza,
possiamo accettare anche quella
delle nostre amiche e amici per farla
nostra come ha fatto il Cristo,
perché la trasformi in storia di misericordia
e di salvezza.
Questo diventa per noi un linguaggio
per dire l’amore di Dio ed
il suo sogno di fare del mondo una
famiglia più fratea e più giusta;
tutto questo, poco a poco, produce
in noi dei solchi profondi che ci
fanno intravedere un Dio un po’
diverso da quello che pensavamo
di conoscere, e ci fa anche meno sicuri
sul luogo in cui è nascosto il tesoro
di cui parla il vangelo.
Il Dio che si incontra in questo
luogo non è più il Signore onnipotente
e forte, ma piuttosto il Dio
dell’incarnazione, della passione e
della resurrezione.
E anche il nostro cammino spirituale
è debole e fragile così come si
presenta la vita di coloro che non
contano e sono ai margini.
Ci accorgiamo ogni giorno che è
necessario cambiare i nostri schemi
mentali, lasciarci convertire e
porci in un continuo atteggiamento
di preghiera, di supplica, di perdono,
di pace e di ringraziamento
per averci fatto dono di stare qui.
Lo stare davanti a Dio con loro e
anche a nome loro, è quanto di più
grande possiamo fare. Questo è il
nostro stile: quello di sederci accanto,
di camminare insieme, con
la nostra umanità, e vedere nell’umanità
il luogo della presenza di
Dio e i frutti dello Spirito».
ATorino la questione del momento
è lo spostamento del
campo nomadi dall’Arrivore
a via Germagnano. Carla e Rita
mi dicono che anche loro hanno
cercato di far capire l’inadeguatezza
del nuovo campo.
Secondo le due suore luigine sarebbe
meglio risistemare il campo
dell’Arrivore dove i rom sono già
abituati a vivere. Pensano che occorra
partire da loro, rispettare le
loro scelte; al tempo stesso, è assai
importante responsabilizzarli, richiedere
il loro impegno (per
esempio, nella cura e mantenimento
del campo).
Occorre cercare (come in parte
si sta facendo) di dar loro gli strumenti
adeguati ai fini di favorie
l’integrazione. Le borse-lavoro, ad
esempio, sono una soluzione parziale
spesso utilizzata principalmente
per ottenere il permesso di
soggiorno.
Le istituzioni pubbliche dovrebbero
andare maggiormente ad incentivare
le reali potenzialità di
queste persone. Ad esempio, puntando
a favorire lavori che facciano
leva sulle loro capacità artigianali.
Anche l’idea di far vivere gli zingari
all’interno delle case popolari
a Carla e Rita (che al campo continuano
a vivere) appare come una
scelta pilotata o un po’ forzata.
Spesso le persone obbediscono
per paura che il campo venga
sgomberato e poi non si sappia più
dove andare.
L’ipotesi, già proposta anni fa, di
consentire l’abitazione in vecchie
cascine potrebbe essere la soluzione
ideale in quanto rappresenta
una via intermedia fra l’alloggio vero
e proprio e il campo. La cascina,
infatti, consente di mantenere la vita
comunitaria del clan (accendere
il fuoco la sera, fare le feste, le cene
comuni, ecc.) e permette di sentire
ancora vivo quel senso di libertà
che è insito nello spirito nomade.

«PER LORO ESISTE L’OGGI»
Incontro con il professor Secondo Massano,
responsabile dell’«Opera nomadi» di Torino.

Ex preside, oggi in pensione, il professor Secondo
Massano a riposo non lo è affatto, essendo
impegnato quotidianamente nella sede dell’Opera
nomadi di Torino.
Il suo impegno è rivolto non solo a raccogliere e documentare
la storia e la cultura zingara, ma soprattutto
a schierarsi in prima persona per difendere
i diritti di questa gente.
Ha iniziato ad essere loro amico dai tempi della
scuola, girovagando per strade, mercati, campi sosta
con l’intento di convincere le famiglie zingare
sull’importanza di mandare i loro figli a scuola. Ancora
oggi continua a spendere molte energie per
realizzare un servizio di mediazione e integrazione
dei bambini zingari nelle scuole.
Nelle giornate di lavoro presso la sede dell’associazione
il compito principale del professor Massano
è quello di ascoltare i nomadi quando vengono
ad esporre i loro problemi. Per
tutti ha un gesto affettuoso, un incoraggiamento
paterno, foendo
quando occorre anche un piccolo aiuto
materiale.
Conosce bene queste persone e ne sa
distinguere i lati positivi, ma al tempo
stesso non nega i loro difetti.
Sul problema dei luoghi dove accogliere
i nomadi, il professor
Massano risponde: «Noi come Opera
nomadi avevamo cercato di portare
avanti la possibilità di consentire l’insediamento
dei nomadi in vecchie cascine.
Purtroppo, il progetto si è perso
per strada.
Una soluzione al problema credo sia
favorire la scelta di andare a vivere nelle case popolari.
Ormai molte famiglie ne fanno richiesta e
già diverse hanno fatto questa scelta.
Senza dubbio non è facile per loro che amano vivere
liberi, in grandi spazi, a stretto contatto con il
resto del clan. Naturalmente la scelta delle case
popolari implica tutta una serie di responsabilità
cui queste persone sono poco avvezze: avere un lavoro
fisso, rispettare le regole, tempi di pagamento,
avere un minimo d’istruzione.
I nomadi infatti tendono a vivere nel presente, al
massimo c’è un passato. Per loro esiste l’oggi, forse
il domani. Non pensano al futuro, non sono abituati
a programmarlo, ad organizzarsi in funzione
di esso. Per questo è fondamentale continuare l’opera
di mediazione, seguirli, affiancarli, responsabilizzarli.
Per anni la nostra città ha rappresentato un modello
sia per quanto riguarda la gestione dei campi,
sia per l’integrazione scolastica dei nomadi».
Al responsabile dell’Opera nomadi chiediamo un
parere anche sul problema della diserzione scolastica
provocata dall’entrata in vigore della legge
Bossi-Fini.
«Il comune di Torino – risponde Massano – ha fatto
e fa molto per loro tramite l’Ufficio stranieri e l’Ufficio
mondialità in particolare per quel che riguarda
l’educazione ed integrazione dei bambini nelle
scuole.
L’alfabetizzazione dei nomadi è importante anche
al fine di tutelae la storia e la cultura. Diversamente
esse rischiano di perdersi poiché fino ad ora
sono state tramandate solo oralmente.
Si spendono tanti soldi per mandare i bambini nomadi
a scuola e da metà gennaio si sta registrando
un netto calo delle presenze nelle scuole. Che vergogna
essere in questa situazione a causa di una
legge!».

«LASCIATECI VIVERE!»
Non hanno molte esigenze. Si accontentano di avere un posto in un campo della
periferia. Spesso sono sporchi perché fanno lavori che gli italiani non vogliono fare. Oggi molti zingari non dormono più nelle loro abitazioni. Hanno paura che vengano a portarli via. Con la legge Bossi-Fini, la vita è diventata una fuga quotidiana. Dicono: «Lasciateci vivere!». Ma per vivere è necessario il… «permesso di soggiorno».

«Sono una profuga – racconta
Fadila -, arrivata a Torino da Banja
Luca. Dopo aver abitato al campo
dell’Arrivore, sono passata nelle
case popolari. Sono senza lavoro e
per mangiare vado a vendere robe
vecchie nei mercatini. Oggi, purtroppo,
molti di noi debbono scappare
perché sono senza il permesso
di soggiorno».
VOIKAN
«Stiamo scappando da troppo
tempo – dice Voikan -. Credo sia
giunto il momento di dire “Basta!”.
Usciamo sulle strade e ci definiscono
“zingari”. Senza guardare da
dove veniamo, di quale cultura siamo
portatori, quale religione abbiamo.
Io ho sbagliato a suo tempo a non
sostenere la proposta di legge che
mirava a riconoscere il nostro popolo
come minoranza etnica (dicembre
’92; la proposta di legge
presentata da Rifondazione comunista
non ha mai avuto seguito,
ndr)».
FRANCESCO
«Io sono sinto – racconta Francesco
-. C’è un nostro campo sul
Sangone. È lì da trent’anni, ma non
risulta inserito in nessun piano regolatore.
Si pensa che tanto noi
possiamo vivere comunque.
Non è così. Noi siamo persone
come le altre: viviamo e respiriamo
come voi. Per questo vi chiedo:
“Lasciateci vivere! Lasciateci abitare
dove stiamo. Siamo tutti nomadi
a questo mondo».
JONKO JOVANOVICIL
«Mio figlio – racconta Jonko, vicepresidente
dell’associazione Aizo
– è nato nel 1981; non conosce i
furti; ha fatto le scuole e pratica
sport. Ora, dopo i 18 anni, non può
più giocare al calcio perché è straniero.
Ma che cosa sono i nostri figli?
Senza diritti, anche se sono nati
qui. Il lavoro? Ma come posso trovare
un lavoro se lo stanno togliendo
anche agli operai della Fiat?
Noi siamo a Collegno e possiamo
affermare con orgoglio che ogni famiglia
ha dato il suo contributo per
il campo. Paghiamo i servizi come
tutti.
Quando vediamo arrivare una
pattuglia di vigili, ci tocca abbassare
la testa, perché non abbiamo il
permesso di soggiorno. Io sono entrato
in Italia con documenti validi
e ora mi tocca vivere così. Con paura
e vergogna».
PATRIZIA
«Mi piacerebbe vivere in una casa,
perché è pulita e confortevole.
Non occorrerebbe più spaccare la
legna per scaldarsi.
Provengo dalla ex-Jugoslavia, ma
sono nata qui. Ho il permesso di
soggiorno, ma molti altri non ce
l’hanno. Così scappano. Scappano
quando arrivano i vigili. Scappano
mattina e sera. Con i bambini. Vanno
a dormire nelle macchine.
Così è la nostra vita. Solo scappare.
Marisa e Franco hanno fatto la
carta come apolidi, ma secondo me
hanno fatto male perché così non
sono più di nessuna nazionalità.
Hanno fatto questa scelta, perché
era un mese che scappavano.
Qui al campo dell’Arrivore è bello
perché attorno ci sono i prati. Se
soltanto sistemassero i bagni, staremmo
bene. Se tutto fosse a posto,
io preferirei restare qua dove sono
nata».
ZAIM
«Io abito in una casa, ma non sono
contento. Quando l’ho vista, ho
detto: “Non la voglio”. I funzionari
mi hanno risposto: “La devi
prendere per forza, altrimenti ti togliamo
il permesso di soggiorno”.
Mi hanno messo in una casa per
forza. Adesso vengo al campo di
giorno a lavorare. Nella casa vado
solo di notte, per dormire. Perché
non mi piace? Perché io sono cresciuto
qui in mezzo ai campi.
Con questa scusa dei permessi di
soggiorno, ci fanno scappare via.
Così più persone scappano meno
persone hanno da sistemare…».
GIULIANA
«Non è giusto dare il permesso di
soggiorno soltanto ad alcuni, escludendo
altri.
Se tu vieni qui la sera vedi bambini
scalzi, nudi. Non mangiano
più pasti caldi. Scappano in continuazione.
Non dormono da 20
giorni nelle loro abitazioni. Scappano
per le strade. Scappano dai
vigili e dalla polizia. Non è giusto.
Se siamo nati qui almeno lasciateci
stare. Io sono nata in Italia, a Brescia.
Sono 27 anni che sono qui all’Arrivore
e ho quattro figli.
Lavoro come le altre donne tenendo
i micro-nidi. Aiutate da assistenti
sociali, guardiamo i bambini
delle altre donne quando queste
vanno a chiedere l’elemosina o a lavorare
e non possono portarsi i
bambini con sé. Lavoriamo in un
container. Ma ora purtroppo
questo lavoro non c’è più
perché sono tutti scappati».
FATIMA
«Non vogliamo ritornare nel nostro
paese, dato che là non abbiamo
più niente: né terra, né casa, né cibo.
Io ho il permesso di soggiorno,
ma tanti qui sono senza. Gli italiani
disoccupati non lo sono per colpa
degli zingari. Gli zingari si occupano
di cose che agli italiani non interessano.
Qui, ad esempio, gli uomini
lavorano il ferro e il rame. È un
lavoro che gli italiani non fanno
perché ci si sporca sempre. Ci sono
60 famiglie in questo campo. Io è 16
anni che sono ferma qui, ma altri lo
sono da più tempo: 20-27 anni. Noi
paghiamo tutto: luce, acqua. Non
paghiamo il terreno, ma se ci chiedono
di pagarlo per rimanere qui lo
facciamo. Io ho quattro figli, che lavorano
nella demolizione. Hanno la
licenza e pagano le tasse. Cosa chiediamo?
Solo una cosa: vivere».

SPARITI!
Scuola / Gli «effetti collaterali» della legge Bossi-Fini

Sì, da circa metà gennaio i bambini nomadi della mia scuola
(circoscrizione 6 di Torino) sono spariti. Strano. Infatti
è proprio in inverno che noi insegnanti ne rileviamo la
maggiore frequenza. Come si spiega questo fenomeno?
I bambini non sono rintracciabili ai soliti recapiti. Anche i responsabili
del servizio di cornordinamento non ne sanno nulla. È
però facile immaginare che non frequentano più la scuola perché
le loro famiglie sono prive del permesso di soggiorno e pertanto
cercano di rendersi irreperibili per evitare di essere prese
e cacciate dall’Italia. Questo è un grave «effetto collaterale»
prodotto dall’applicazione della legge Bossi-Fini.
Il dispiacere circola tra tutti noi – insegnanti, educatori e volontari
-, che abbiamo lavorato per favorire l’inserimento nelle
strutture educative del popolo nomade.
In questi anni si era fatto molto per l’integrazione scolastica e
come insegnante debbo ammettere con piacere che il servizio
funzionava piuttosto bene.
COME FUNZIONA (O FUNZIONAVA)
I bambini vengono accompagnati a scuola da mediatori. L’Ufficio
mondialità funge da supporto e cornordinamento del servizio
ed è a disposizione delle scuole per ogni richiesta d’informazioni,
chiarimenti, accertamenti.
Nella mia scuola inizialmente non è stato
facile far accettare la presenza dei
bambini nomadi. In partenza vi erano
forti rigidità sia da parte del personale,
che dei genitori. Talvolta anche da alcuni
insegnanti.
I pregiudizi, i timori sono spesso più forti
della nostra stessa volontà di superarli
e ci condizionano. Gradualmente però
le divergenze si sono appianate e vi è stata
un’accettazione affettuosa di questi
bambini da parte di tutta la comunità
educante.
Questa è la riprova che sono i nostri pregiudizi
a bloccarci. Il contatto a tu per tu
fa scoprire il diverso come altro da sé, ma
allo stesso tempo uguale, quindi portatore
come noi di bisogni, ma anche di ricchezze.
Specialmente gli operatori, incaricati della
cura di questi bambini dal punto di vista
igienico, hanno progressivamente superato
le loro paure e istintivamente sono
scattati in loro atteggiamenti matei
e protettivi.
E i bambini tra loro? Questo ostacolo è
stato uno dei primi ad essere superato.
Anche perché i bambini non posseggono
ancora (per fortuna) tutte le sovrastrutture
mentali di noi adulti.
C’è stata qualche difficoltà iniziale: i
bambini si guardavano quasi a scrutarsi,
avvertivano istintivamente qualcosa di
diverso da loro e si evitavano. Poi la simpatia,
la giovialità e giocosità nomade
hanno favorito l’integrazione. Così anche
Patrizia e Bruno sono diventati parte
del gruppo. Noi insegnanti fatichiamo sempre un po’ a far
comprendere le regole della vita scolastica ai bambini nomadi,
abituati ad una vita molto libera e all’aria aperta, ma debbo dire
che le nostre fatiche sono state ampiamente ripagate dai risultati.
DOV’È FINITA PATRIZIA?
Patrizia, ad esempio, si è inserita molto bene ed ha interiorizzato
meglio di altri bambini i comportamenti positivi, le regole
della vita comunitaria, ed esige da noi insegnanti che nulla ci
sfugga di tutte quelle cose che la fanno sentire uguale ai compagni
(grembiulino, bavagliolo, pantofole, capelli in ordine…).
Ha acquisito il concetto di ordine, un comportamento corretto
a tavola, esprime interesse ed iniziativa creativa durante le attività
didattiche.
Ora che stava per avviarsi alla scuola elementare si mostrava
desiderosa di apprendere la scrittura. Scrivo al passato perché
Patrizia non è più presente a scuola e non sappiamo nulla di lei.
È forte il dispiacere che proviamo noi insegnanti nel vedere interrotto
un lavoro educativo che avrebbe certamente favorito
un inserimento positivo e costruttivo di questi bambini in una
società che sarà sempre più multietnica.

Silvana Vergnano




Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

«VIA DI QUI SPORCHI ZINGARI!»
Probabilmente sono ancora meno sopportati degli «extra-comunitari». Sono gli zingari, una popolazione dalla storia misteriosa e affascinante, che a causa
delle proprie modalità di vita non ha mai avuto un’esistenza facile. Disprezzati, rifiutati, guardati con sospetto.

Torino, campo nomadi dell’Arrivore.
È quasi l’alba del
17 gennaio 2003. Il campo è
immerso nel silenzio della notte, fa
freddo. Tutto è buio quando ad un
tratto irrompono i fari delle macchine
dei vigili urbani. Sanno già
dove andare e cosa fare.
Da giorni stanno pedinando la famiglia
di Romeo e Asnnia Ahmetovic
per procedere all’arresto.
Da giorni questa gente non dorme
al campo, ma qua o là, per le vie
della città, immersi nel gelo invernale.
Stanotte si erano concessi una
pausa che gli è stata fatale.
Colpevoli! Di che? Colpevoli di
nulla, ma senza documenti di riconoscimento,
quindi anche privi del
permesso di soggiorno. Eppure sono
una tranquilla famiglia rom: madre,
padre e cinque figli. Profughi
scappati dalla Bosnia a causa della
guerra. Vivono di elemosine o rivendendo
al Balón (un noto mercatino
di Torino, ndr) oggetti che recuperano
dalle nostre immondizie.
La loro vita sta tutta in quel carretto
contenente povere cose che
permettono loro di tirare a campare.
Sono quindi vittime due volte.
Vittime della guerra e vittime di
un’altra guerra più silenziosa e strisciante:
quella che la legge Bossi-Fini
ha scatenato sul territorio italiano.
Al campo si diffonde la voce:
– Li hanno presi.
– Sì, li hanno proprio portati via.
– Cosa ne faranno?
Prima sosta in questura. Ventiquattro
ore dopo escono con la loro
condanna: 5 giorni di tempo per
uscire dall’Italia.
Se li «ribeccano» il loro destino è:
il «Centro di detenzione temporanea
» di corso Brunelleschi, poi l’estradizione.
Mentre per i figli minorenni
è previsto l’inserimento in
una comunità, cioè la separazione
dal nucleo familiare (un modo molto
strano di difendere i diritti dei
bambini).
Tutto questo senza un’accusa valida,
senza aver commesso alcun
reato. Non hanno né rubato, né ucciso.
Papà e mamma vogliono bene
ai loro figli come qualsiasi altro genitore.
Ma questa è la legge. Questa
è la legge Bossi-Fini (e questo, nell’opinione
di chi scrive, è razzismo…).
D’ora in avanti gli episodi di questo
genere saranno sempre più numerosi.
Naturalmente avvolti nel silenzio
di chi non sa o non vuole né
sapere né vedere.
Il campo dell’Arrivore si trova alla
periferia di Torino, nei pressi
della località «basse di Stura».
Un terreno assolato, con pochi alberi
dove d’inverno fa molto freddo
e d’estate troppo caldo.
I torinesi per lo più ignorano la
presenza di queste persone; nei casi
peggiori manifestano nei loro
confronti aperta ostilità.
«Gli zingari sono sporchi, puzzano,
non lavorano, rubano». O, addirittura,
«ci danno fastidio per il
fatto stesso di esistere». Luoghi comuni
o mezze verità?
Per arrivare al campo, si percorre
una strada tutta buche. Alla fine,
dopo una curva, ecco comparire
tante «casette» e roulottes. Tutt’intorno
c’è fango, mentre spessi e
densi fumi circondano le abitazioni.
Questo è un campo-laboratorio:
gli uomini si guadagnano da vivere
con lavori di demolizione (per fare
questo spesso è necessario bruciare
dei metalli). Le donne, invece, con
l’aiuto di assistenti sociali, hanno
organizzato in un container un micro-
nido. Qui, in cambio di un piccolo
compenso, guardano i bambini
anche di quelle tra loro che hanno
trovato un’occupazione (magari
attraverso le «borse-lavoro» del comune)
in città.
Nel campo vivono circa 60 famiglie
rom, per lo più profughe dalla
Bosnia a causa della guerra.
La prima cosa che vedi recandoti
là sono i bambini che spuntano
immediatamente, come dal nulla,
appena ti vedono comparire.
«Chi sei?» subito ti domandano.
«Sono un’amica di Carla e Rita» (le
due sorelle suore che condividono
la loro vita, abitando lì in una roulotte;
vedi articolo successivo). Questo
li rassicura. Così ti dicono dove
lasciare la macchina, poi ti danno
l’ok e ti trotterellano intorno per
farti mille domande e raccontarti di
loro.
«Guarda cosa so fare» dice la più
piccoletta ed ecco una capriola dopo
l’altra. Poi ti mostra le caramelle
che ha in mano: «Ma se me ne dai
una delle tue è ancora meglio».
Ecco, i bambini rom sono così:
spontanei, giorniosi, sorridenti, socievoli.
Sono i più piccoli, perché i
grandi sono a scuola, tra breve
giungeranno con il pulmino. È un
servizio del comune per favorire la
scolarizzazione (alcuni giovani nomadi
ora svolgono il lavoro di accompagnatori
dei bambini o di mediatori
tra la scuola e le famiglie).
Eccoli, infatti. «La scuola non mi
piace – dice la più grande -. Un po’
ci vado, un po’ non ci vado perché
è tutto chiuso, si lavora sempre, non
si va mai fuori in giardino». «A
scuola manca l’aria…» aggiunge
un’altra.
Più difficile è avvicinare gli adulti:
sfuggono agli estranei o ti trattano
con opportuna cortesia.
«Tu qui – sembrano dirti – sei
un’estranea» e per un breve arco di
tempo vivi ribaltata la loro condizione.
Mi aggiro per il campo. Le donne
si affacciano curiose dalle loro
abitazioni. Tra loro c’è chi tiene
molto alla tradizione: è Fatima.
Mi concede di varcare
la soglia della
sua casa tenendo
le scarpe (loro
le lasciano
sempre fuori
dalla porta perché solitamente le
abitazioni sono rivestite di tappeti).
Sono giustificata perché sono estranea
alle loro abitudini ed ospite.
Entrando sorge spontaneo un senso
di riverenza.
La sua abitazione è «sontuosa»,
rivestita di drappi colorati e tappeti,
sullo sfondo s’intravede anche un
altarino di padre Pio. Con il suo
abito tradizionale e i suoi giornielli Fatima
sembra una regina. Sta preparando
un pollo per la cena: un’operazione
semplice e apparentemente
rude, eppure tutti i suoi gesti
denotano una signorilità non comune.
Il campo dell’Arrivore è stato
inizialmente scelto (erano gli
anni ’70) come area abitativa
per poche famiglie, circa una
decina.
In seguito il campo si è ingrandito:
sono arrivate nuove
famiglie, in particolare a
seguito della guerra nella
ex-Jugoslavia. Molti rom
hanno dovuto fuggire e
sono giunti qui in Italia
senza avere un posto
dove stare, senza cittadinanza.
Il campo andrebbe
migliorato: occorrerebbe
apportare
modifiche al terreno,
risistemare i
servizi igienici, ridare
nuova dignità
al luogo.
Tuttavia, esso è
situato sulle rive
del fiume Stura
dove un ambizioso
progetto
di riqualificazione
del quartiere,
situato
tra corso Giulio
Cesare e
corso Vercelli,
prevede: zone alberate, piste
ciclabili, nonché la realizzazione di
un parco fluviale. Questo progetto
quindi non prevede la permanenza
abitativa dei rom nel campo dell’Arrivore.
Per risolvere il problema
una delibera del 1999 ha individuato
un’area ad hoc per loro, in via
Germagnano.
Il progetto prevede la costruzione
di circa 16 casette bifamiliari in
muratura dotate di servizi, con un
po’ di terreno intorno e anche, come
«fiore all’occhiello», una costruzione
più ampia per le feste.
Allora c’è da chiedersi: dove sta il
«piccolo neo» di questo progetto?
Il problema è… il luogo. Un luogo
in cui nessun altro vorrebbe abitare.
L’area di via Germagnano, infatti,
si trova al centro di una zona
in cui stanno la tangenziale (quindi
i gas di scarico saranno tutti per i
nomadi), la ferrovia, due canili
(questo significa latrati continui
giorno e notte). Ma non basta.
Davanti all’ingresso del campo
una strada a scorrimento continuo
ha indotto i rom a chiedere una recinzione
per tutelare i loro bambini.
E, ciliegina sulla torta, ad appena
1 km di distanza c’è la discarica
dalla quale si sprigionano fumi e gas
tossici.
Neanche il canile voleva venisse
costruita quest’area in quanto ciò
avrebbe limitato lo spazio accessibile
ai cani e, in difesa del medesimo,
è stato detto (con involontaria
ironia) che «quella zona non è adeguata
nemmeno per i cani».
Inoltre, la costruzione del campo
crea tensioni fra gli abitanti della zona,
già scontenti di dover convivere
con il campo dei sinti di via Lega.
Visitandolo inoltre ci si rende
conto che le casette sono di piccole
dimensioni, se pensiamo che una
famiglia nomade di solito è assai numerosa.
Lo spazio circostante risulta
assai limitato.
Il problema sembra senza possibilità
di soluzione in quanto il progetto
è già stato deliberato ed è in
corso di attuazione. L’area si prevede
ultimata per il novembre
2003. Quindi, per il 2004 i rom verranno
effettivamente trasferiti qui
(se, nel frattempo, l’applicazione
della legge Bossi-Fini non avrà già
attuato per molti di loro l’estradizione…).

Il caso di Torino è emblematico
per capire la condizione dei nomadi.
Per riflettere su quanto sia
necessario fare per raddrizzare la
rotta e favorire l’integrazione e la
convivenza con queste persone.
I diritti proclamati dalla Dichiarazione
universale di Ginevra del
10 dicembre 1948 parlano chiaro
(diritto alla vita, alla salute , al cibo,
all’abitazione, alla dignità…) e sono
rivolti a tutti gli esseri umani
«senza distinzioni di razza, sesso,
età, religione…» (articolo 1 e 2 della
Dichiarazione). Questa proclamazione,
che è stata un grande
evento storico, è allo stesso tempo
una conquista continua per la quale
tutti quanti noi dobbiamo lottare
al fine di promuovere e rendere
effettivi tali diritti per ciascun essere
umano. Anche per chi, come i
nomadi, non vuole omologarsi al
nostro stile di vita e per questo è disprezzato, rifiutato o comunque
guardato con sospetto. Questo è il
nocciolo della questione zingari: la
difficile convivenza con il resto della
popolazione che non li vuole, li
rifiuta. Per questo spesso le politiche
dell’ente locale, nel vano tentativo
di accontentare tutti, finiscono
per operare scelte che vanno, ancora
una volta, a scapito dei più deboli,
di chi non ha voce, di chi non
è rappresentato da nessuno.
Non si può non sottolineare che,
nel linguaggio corrente, «zingaro»
è una parola razzista come «negro»,
«vù cumprà», «barbaro», ecc.
Spesso nel parlare quotidiano si
usano espressioni del tipo: «una casa
di zingari», per dire che è disordinata;
«essere come uno zingaro»,
cioè vestito male e sporco; «ti faccio
portare via dagli zingari», per
dire che sono cattivi (come l’«uomo
nero»).

UN POPOLO
SENZA VINCOLI,
«PADRONI»
E AMICI

DALL’INDIA ALL’EUROPA (1400)
Qualcuno li ha chiamati i «figli del vento»
perché il popolo zingaro è un popolo che
non ha vincoli né confini riconosciuti (stato,
caste sacerdotali, norme giuridiche, tribunali).
Vive della sua libertà e nella sua concezione
del tempo che è principalmente basato
sul presente e fortemente condizionato
dal nomadismo.
La loro cultura è sempre e solo stata trasmessa
oralmente da una generazione all’altra
attraverso leggende, consuetudini
che si svolgono durante le veglie intorno
al fuoco, come abitualmente le varie famiglie
sono solite fare, specie nei momenti
di festa.
La loro è una storia principalmente scritta
da altri, avvolta nel mistero, un rompicapo
anche per storici e studiosi.
L’origine del nome «zingaro» (o «zigano») deriva
probabilmente dal termine greco «athingano» cioè
«intoccabile» attribuito ad una sètta proveniente dalla
Frigia (regione storica dell’Asia minore), oltre che
a maghi ed indovini.
Le origini geografiche degli zingari sono state individuate
nel nord dell’India. Da qui si spostarono verso
la Grecia e l’Europa sud-orientale intorno all’anno
1000 d.C., si presume a causa dell’espansione islamica
o forse per una carestia. La loro lunga
migrazione attraverso l’Asia e l’Europa si svolse con
una lunga sosta in Persia (circa due secoli): dalle lingue
di questi paesi acquisirono i tratti della loro lingua,
il romanés. L’arrivo in Europa e in seguito nei
vari paesi europei si ebbe intorno al 1400.

PERSEGUITATI
Proprio il carattere sfuggente e misterioso di questo
popolo ha dato origine a pregiudizi, atteggiamenti
di ostilità e rifiuto che sono confluiti anche in vere e
proprie persecuzioni. Tutti i paesi europei adottarono
nei loro confronti, come minimo, bandi di
espulsione. In Francia vennero pressoché estinti. Di
fatto il nomadismo divenne una perenne fuga.
Nel secolo XVII li troviamo nelle Americhe deportati
come schiavi. Durante la seconda guerra mondiale
l’opera di sterminio di Hitler li condannò (come
gli ebrei) al genocidio (non meno di 500 mila zingari
vennero ammazzati).
Il loro principale torto è sempre stato quello di non
costituire uno stato, non avere una rappresentanza
diplomatica, non fare riferimento ad una terra chiusa
da confini.
Così essi sono divenuti nell’immaginario collettivo
dei «gagè» (termine con cui gli zingari definiscono
coloro che non appartengono al loro popolo) degli
untori, propagatori di malattie, ma anche degli inafferrabili,
primitivi, trasgressivi, ladri, delinquenti,
fattucchieri.
Non si riesce quindi a distinguere se queste opinioni
siano il frutto di uno stile di vita corrispondente a
questi termini oppure se gli zingari abbiano finito col
comportarsi ed agire nel modo con il quale essi venivano
identificati.
Una ricerca condotta in Inghilterra su un campionario
di letteratura per ragazzi (libri scritti negli ultimi
170 anni) rileva che in essa gli zingari sono rappresentati
come figure disprezzate, e si confermano
i pregiudizi ricorrenti. Così pure raramente la letteratura
ed il cinema deviano da questa visione stereotipata.
Recentemente il regista Emir Kusturica ci ha proposto
alcuni film («Gatto nero gatto bianco» e «Il
tempo dei gitani») in cui si evidenzia il mondo colorato,
fantastico e «fuori dagli schemi» dei gitani, trasmettendoci
la loro cultura fatta di: sogni, sangue,
barbare passioni che lasciano intravedere una umanità
ricca di vitalità.

IL RUOLO CENTRALE DELLA FAMIGLIA
Tratto culturale che accomuna e caratterizza tutti gli
zingari è il non riconoscimento della gerarchia salvo
quella che deriva dall’anzianità, dall’essere padre o
madre di famiglia o dall’essere reputato saggio.
La vita degli zingari è incentrata sulla famiglia allargata
attorno alla quale si organizza la vita comunitaria
ed è con essa che vengono prese le decisioni più
importanti quali spostamenti o insediamenti.
Attualmente si sta verificando una sempre maggiore
sedentarizzazione nei campi sosta, questo crea a
volte divisioni e smembramento del gruppo familiare
modificando così l’organizzazione tradizionale.
La famiglia singola ha un’importanza minore, anche
se è il matrimonio che segna l’ingresso nella comunità
degli adulti.
All’interno della famiglia esiste una divisione netta
dei ruoli tra uomini e donne ed è la famiglia che si
occupa principalmente dell’educazione dei figli con
ritmi e modalità propri.
La scuola è vista come un qualcosa di esterno ed
estraneo e per quanto le amministrazioni comunali
e le organizzazioni di volontariato si adoperino da
diversi anni ai fini di favorire al massimo l’integrazione
scolastica di questi bambini, essa resta un luogo
frequentato in modo discontinuo e talvolta conflittuale.

ROM, SINTI, CAMMINANTI
Il popolo zingaro o nomade (come impropriamente
viene chiamato in quanto il nomadismo è ormai assai
limitato: quasi tutti questi gruppi vivono da anni
in campi di sosta stabili) si suddivide a sua volta in
diversi sottogruppi di cui i principali sono: sinti, rom,
camminanti.
Gli zingari chiamano sé stessi «rom» che significa
uomo o anche marito (plurale «roma»). Donna si dice
«romnì» (plurale «romnia»). Attualmente la popolazione
zingara è stimata intorno ai 10-12 milioni
di individui sparsi nel mondo (6 milioni in Europa).
In Italia ci sono attualmente 100 mila zingari: 70 mila
di cittadinanza italiana e 30 mila di provenienza
jugoslava.
SINTI
I sinti sono il gruppo di gran lunga maggioritario. Sono
presenti in Piemonte fin dal XV secolo. I mestieri
sono incentrati da sempre sullo spettacolo viaggiante
(circhi, giostre, acrobati, giocolieri, musicanti) e altre
forme di lavoro meno diffuse quali la fabbricazione di
cesti in vimini, impagliatura di sedie, vendita porta a
porta, lettura della mano, questua.
ROM
I rom sono divisi in numerosi gruppi con caratteristiche
anche molto diverse tra loro. Provengono dall’Europa
centro-orientale: Romania e regioni della ex-
Jugoslavia (Macedonia, Montenegro, Bosnia, Serbia).
Con molta approssimazione possiamo dire che i rom
si dividono in due grandi gruppi: «karakhané» di religione
musulmana, «daxikané» di religione cristiana-
ortodossa.
In questi ultimi anni, sono aumentati i rom «profughi» a causa della guerra nelle regioni della ex-Jugoslavia.
Inoltre, vi è stato un consistente arrivo di
rom rumeni dal 1998.
CAMMINANTI
È una popolazione nomade per gran parte dell’anno,
principalmente insediata in Sicilia. Esercitano
piccoli commerci ed offerte di prestazioni artigianali
a sostegno dell’economia domestica.
Hanno le origini e la residenza nella Sicilia orientale,
in particolare nelle città e province di Siracusa,
Messina, Catania; cospicuo il gruppo che si autodefinisce
«camminanti di Noto».
Sostengono di avere sangue zingaro nelle vene. Riconoscono
di avere «origini sinte», ma ci tengono a
distinguersi dagli altri zingari in quanto il nomadismo
è praticato solo nella buona stagione, mentre in
autunno – inverno vivono in luoghi in cui hanno edificato
case confortevoli.

FONTE DI DISTURBO E DI CONFLITTO
L’impatto tra la cultura di questo variegato popolo
e la società attuale, dominata dal modello tecnologico,
ha dato origine ad una forte crisi d’identità.
Gli zingari presenti alla periferia delle nostre città finiscono
per essere vissuti come fonte di disturbo e
di conflitto sociale. L’attuale bisogno di sicurezza da
parte dei cittadini accentua questi problemi così essi
divengono spesso il capro espiatorio dei problemi
esistenti.
Spesso anche le amministrazioni comunali più attente
ai loro problemi non riescono a fornire risposte
adeguate e soddisfacenti, rispettose delle esigenze
di vita del popolo zingaro. Per questo è fondamentale
il ruolo assunto da diverse organizzazioni di
volontariato che svolgono, in modo difficile e delicato,
un ruolo di mediazione ai fini di favorie l’integrazione.
Tuttavia, mai come ora l’esistenza degli zingari è in
pericolo. Sono un popolo sempre più emarginato,
deprivato della propria identità e ridotto in condizioni
degradanti anche a causa delle rapide trasformazioni
sociali le quali non consentono di adeguare
alle nuove esigenze i moduli tradizionali della loro
cultura.

Silvana Vergnano




I GRANDI MISSIONARI: padre Giovanni De Marchi

È scomparso l’1 gennaio 2003, ma non è troppo presto per annoverarlo tra
i grandi missionari: Giovanni De Marchi è uno di quei personaggi
carismatici che suscitano
simpatia, ammirazione e venerazione, per semplicità, naturalezza e
molteplicità di azione. Innamorato di Maria, pioniere di tre continenti,
fece cose straordinarie
«nell’ordinario», come voleva il beato Allamano.

<centermadonna e="" missione="" Nato ad Arsiè (Belluno) nel
1914, Giovanni De Marchi
entrò tra i missionari della
Consolata nel 1926 e fu ordinato prete
nel 1937. Licenziato in teologia e
sacra scrittura, insegnò tali materie
nel seminario teologico di Torino e,
nel 1941, fu nominato direttore della
casa di Roma. Riprese gli studi all’Istituto
biblico, ma non poté finirli,
perché fu inviato in Portogallo.
Nel 1940, il Concordato e l’Accordo
missionario tra Portogallo e
Santa Sede aveva allargato le porte
dei territori d’oltremare ai missionari
stranieri; un’enciclica di Pio XII esortò
i vescovi lusitani ad accogliere
nel paese ordini e istituti religiosi
stranieri, «per moltiplicare gli operai
dell’evangelo destinati alle colonie».
I missionari della Consolata furono
invitati ad approfittae e il vescovo
di Aveiro si dichiarò disposto
ad accoglierli. Dopo lunghe trattative
diplomatiche, il 10 giugno 1943,
in piena guerra mondiale, padre De
Marchi atterrò a Lisbona, con passaporto
vaticano, e iniziò la sua avventura
di missionario innamorato
di Maria.

COME UN PELLEGRINO
«Dopo quattro giorni di cammino
da Lisbona, giungo a Leiria – scriveva
padre De Marchi del suo “primo
pellegrinaggio” -. Ad ogni costo voglio
arrivare a Fatima prima di notte.
Ancora 25 km: 5 ore di cammino
». Trattenuto a lungo dal vescovo,
fu a destinazione a tarda sera, con
l’auto del prelato.
Era il 13 giugno: la spianata del
santuario brulicava di una marea di
pellegrini. Finita la cena, il padre si
diresse al santuario, per fare le sue
devozioni. Ma fu subito abbordato
da un gruppetto di pellegrini che gli
chiesero di confessarli. «Voi si» disse
agli uomini, lasciando le donne
costeate: a quei tempi era proibito
confessarle al calar della notte.
Pensava di cavarsela in fretta. Invece
si formò una coda che, quando
sembrava esaurirsi, si riproduceva
come file di formiche. Alle due di
notte poté entrare nel santuario. Avrebbe
voluto passare tutta la notte
in «veglia d’armi»; ma fu vinto dal
sonno e si ritirò nella sua stanza.
Il giorno dopo padre Giovanni si
sedette di nuovo nel confessionale,
per ascoltare le confidenze dei pellegrini,
mescolando spesso le sue lacrime
con quelle dei penitenti: alcuni
avevano le ginocchia sanguinanti;
tutti erano lì per adempiere un voto
per grazia ricevuta o chiedere un favore
per un familiare.
Il primo impatto col mistero di Fatima
restò indelebile; fu subito preso
da un impulso irresistibile: scrivere una
storia sulle apparizioni, diversa
dalle altre.
La signora Soledade Freitas, sua
insegnante di portoghese, cercò di
dissuaderlo o, almeno, convincerlo a
procrastinare, dato che masticava
appena la lingua lusitana. E gli riferiva
quanto Ti Marto, il padre dei
veggenti Francesco e Giacinta, diceva
a tutti i giornalisti: «È già tutto
contenuto nei libri». Alla fine fu anch’essa
travolta dal suo entusiasmo.
Padre Giovanni cominciò a leggere
i libri già scritti su Fatima; fece investigazioni
sui luoghi delle apparizioni;
raccolse informazioni sulla vita
dei tre pastorelli; ebbe frequenti
colloqui con Lucia, unica superstite
dei veggenti; interrogò ripetutamente
i testimoni più qualificati. Ridendo,
cantando e commuovendosi, si
metteva alla pari con i suoi interlocutori,
ne guadagnava la confidenza
e li faceva parlare.
Nacque così Era una signora più
splendente del sole, un’opera suggestiva
e completa sulle apparizioni di
Fatima, scritta con vivacità da reporter
e rigore storico, testimonianze
nella forma in cui le aveva ricevute e
fatti inquadrati nella coice dell’ambiente
e storia del paese.
Pubblicata in portoghese nel 1945,
l’anno seguente era già alla terza edizione;
oggi è alla 18a. Stesso successo
ebbero le traduzioni: 15 edizioni in italiano,
13 in inglese, 11 in spagnolo,
8 in francese e varie ristampe in altre
tre lingue. Analoga fortuna riscosse
la versione per ragazzi: La Madonna
parlò così ai tre pastorelli.

L’INFATICABILE
Ma lo scopo della venuta in Portogallo
era quello di aprire un seminario
per la formazione di missionari
della Consolata portoghesi. La meta
era chiara, il percorso tutto da
inventare, tanto più che si era nei
tempi difficili della guerra.
Era la prima congregazione religiosa
maschile che si stabiliva a Fatima.
Ma la calorosa accoglienza del
vescovo di Leiria e del rettore del
santuario furono per il missionario
un segno di speciale favore da parte
della Madonna, alla quale affidò tutti
i suoi progetti. E non restò deluso.
Padre De Marchi aveva fretta: a
quattro mesi dal suo arrivo, voleva
già iniziare l’anno scolastico con alcuni
aspiranti missionari. Ma il superiore
generale frenò il suo entusiasmo
giovanile, esortandolo a studiare
bene i piani.
Il padre comprò un terreno a un tiro
di scoppio dalla basilica, tracciò il
progetto di un grande seminario e
studiò i mezzi di finanziamento; fece
stampare cartoline e biglietti con
il bozzetto del progetto e li distribuì
a tutti coloro che credevano nella sua
avventura.
Al tempo stesso, per veicolare l’ideale
missionario, diede sfogo alla
sua vena letteraria. Sotto la guida
della signora Soledade, scrisse due
romanzi, Titìri e La figlia del Bramino,
il primo ambientato nel nord del
Mozambico, campo di apostolato
dei missionari della Consolata, l’altro
in India. Pubblicati a puntate su
due differenti mensili religiosi, videro
la luce come libri, rispettivamente
nel 1944 e 1946.
Tanta produzione letteraria non
deve far pensare che padre De Marchi
fosse un uomo da tavolino. Si
spostava da una parte all’altra del
Portogallo in treno, auto o una vecchia
bicicletta per allacciare contatti
e rastrellare fondi. La fama dei suoi
scritti lo precedeva; la rete di amici e
sostenitori si allargava sempre più,
tanto che la costruzione del seminario
non era più un’iniziativa venuta
dall’estero, ma sentita come una necessità
nazionale, per dare continuità
alla vocazione missionaria del popolo
portoghese. Riuscì perfino a ottenere
un sussidio dal governo.
Guerra e burocrazia diplomatica
non permettevano d’inviare rinforzi;
da solo aprì il seminario: il 3 ottobre
del 1944 accolse 11 ragazzi in una
casetta provvisoria. Per la scuola
si fece aiutare dalla signora Soledade
e da un seminarista imprestato
dalla diocesi di Aveiro.
L’anno seguente entrarono altri 12
aspiranti e arrivò il primo confratello;
altri sei nel 1946, segno che la direzione
generale dell’Istituto credeva
nel sogno del dinamico missionario.
Quello stesso anno fu benedetta
la prima pietra del nuovo seminario.
Aumentando gli studenti, nel 1947
furono affittati altri due edifici, per adibirli
a cappella, dormitorio e residenza
dei padri. I seminaristi più
grandi furono dislocati in una casa ad
Alenquer, a pochi chilometri da Lisbona.
Nel 1949 era pronta la prima
parte del grandioso seminario e gli
studenti tornarono tutti a Fatima.
Approfittando delle conoscenze di
pellegrini stranieri che transitavano
nel seminario, padre De Marchi si
spinge in Irlanda e Inghilterra e Stati
Uniti in cerca di sterline, dollari e
vocazioni.
Nel 1951, dopo sette anni infaticabili,
padre Giovanni vedeva consolidata
la presenza di missionari
della Consolata in Portogallo: il seminario
fu ufficialmente inaugurato;
la casa di Albuquer ospitava sei aspiranti
fratelli; a Fatima veniva aperto
il noviziato internazionale per
giovani di lingua inglese.

L’INARRESTABILE
A partire dal 1948 padre De Marchi
fece vari viaggi negli Stati Uniti,
per parlare agli emigrati portoghesi
di Fatima, seminario e missioni. Poi
si rivolse a tutti i cattolici americani.
«Padre De Marchi percorre instancabilmente
le arterie degli Stati Uniti
– si legge nel notiziario dell’Istituto
-, illustrando con impareggiabile
competenza il messaggio di Fatima
e l’attività missionaria del nostro Istituto;
ultimamente ha tenuto conferenze
con largo successo a Detroit,
Pittsburg e Boston» (Da Casa Madre,
settembre 1951).
Tali incontri includevano la proiezione
di un documentario sulle apparizioni
di Fatima e diffusione dei
suoi libri: Fatima the Facts (traduzione
inglese di Era una signora più
splendente del sole), The Crusade of
Fatima e The Imaculate Heart, un
trattato teologico diventato subito
un best seller.
Nel 1952 egli si stabilì definitivamente
negli Stati Uniti. Con l’aiuto di
due scrittori americani migliorò la veste
letteraria dei suoi libri; girò un
nuovo film a colori sulle apparizioni
di Fatima; lanciò Rainbow (1954), rivista
in cui combinava il messaggio di
Fatima con le urgenze delle missioni
in Africa e America Latina.
La Madonna di Fatima apriva tutte
le porte, come scriveva lo stesso superiore
generale, padre Domenico
Fiorina: «Già alcune vocazioni missionarie
si affacciano e saranno una
consolante realtà, appena ci sia possibile
organizzare il nostro seminario
missionario. Fu la Madonna di Fatima
ad aprirci queste porte, attraverso
le conoscenze fatte in Portogallo»
(Da Casa Madre, agosto 1952).
L’anno seguente padre Giovanni
aprì un seminario a Washington; tre
anni dopo una casa di studi a Pittsburg
per giovani missionari che, in
vista dell’apostolato in Africa e America
Latina, frequentavano l’università.
Intanto scovava madrine disposte
a sostenere gli studi universitari
di seminaristi e padri. Una di
esse era la moglie di Ford, il padrone
della casa automobilistica.
Furono 10 anni di attività febbrile,
chiamato da un capo all’altro degli
Usa da comunità religiose e parrocchiali,
associazioni e collegi, centri di
trasmissione radiofonica e televisiva.
Si recò più volte in Kenya, Tanzania
e Colombia per girare cinque documentari
sui popoli e sulle missioni.
Alcuni ottennero premi a livello
nazionale; di un documentario la
marina americana acquistò 12 copie
per i suoi centri di addestramento.
Con l’entusiasmo missionario che
sprizzava da tutti i pori, padre Giovanni
ammaliava quanti lo avvicinavano
e li coinvolgeva nel suo ideale.
E quando ne adocchiava uno ben disposto,
lanciava il sasso: «Perché non
diventi missionario?». Così scovò i
primi missionari della Consolata statunitensi
e più di 100 volontari laici
che inviò nelle missioni in Africa.
Al tempo stesso portò negli Stati
Uniti decine di studenti africani, procurò
loro borse di studio e benefattori,
li accompagnò come se fossero
suoi figli, per poi rimandarli a lavorare
per il bene delle loro comunità.
Bussando a uffici governativi e agenzie
filantropiche, inviò alle missioni
del Kenya, durante la rivoluzione
dei mau mau, tonnellate di aiuti
(vestiti, medicine, libri…) e
convinse un organismo parastatale
canadese a spedire contenitori con
generi alimentari non deperibili in
Kenya e Tanzania.

UN SOGNO TIRA L’ALTRO
Ingolfato in tanti progetti e attività,
sembrerebbe che padre De Marchi
non avesse tempo né spazio per i sogni.
Invece, come i gatti sognano solo
topi, egli sognava le missioni, ma
di lavorarci direttamente. Nel 1963
fu destinato al Kenya. Il figlio di un
amico americano, ricordandogli come
alcuni missionari erano stati appena
uccisi in Congo, da poco indipendente,
gli domandò se non avesse
paura. «Certo – rispose il padre
ridendo -. Ma solo un poco. Sono più
felice che spaventato. Essere lì quando
kikuyu, masai e altre etnie, incontrate
nei film, saranno liberi di governare
il proprio paese, è per me la
più bella avventura».
Proprio quell’anno il Kenya raggiungeva
l’indipendenza; ma i problemi
ereditati dalla lunga rivoluzione
mau mau erano enormi. Padre De
Marchi fu chiamato a Nyeri, come
segretario del vescovo africano Cesare
Gatimu e direttore del Centro
sociale diocesano: lavoro e grattacapi
da tenere occupati una decina di
preti; ma padre De Marchi se la
sbrigò da solo. Procurava aiuti per i
poveri di tutte le missioni; realizzò il
progetto della casa per anziani nella
missione di Gaturi; la scuola-collegio
per sordomuti e la «città dei ragazzi
» al Mathari (Nyeri) per centinaia
di orfani sottratti dalla strada.
Questi furono i suoi prediletti: li sfamava,
vestiva, mandava a scuola e,
soprattutto, li circondava di affetto.
E continuava con le sue visioni di
avanguardia: formare catechisti per
lo sviluppo delle comunità nascenti;
promuovere scuole e creare i futuri
leaders africani, sostenendone la formazione
scolastica e accademica.
L’indipendenza aumentava la sete
d’istruzione. Le scuole gestite dalla
diocesi di Nyeri accoglievano 110 mila alunni: c’era bisogno di insegnanti.
Più di una volta padre De Marchi
si recò in Europa, Canada, Usa e tornava
con decine di professori.
Intanto si profilava all’orizzonte lo
stesso sogno del beato fondatore,
Giuseppe Allamano: evangelizzare
l’Etiopia. I missionari della Consolata
vi avevano lavorato con successo
per quasi 30 anni; ma erano stati espulsi
durante la 2a guerra mondiale
e, per 25 anni, non c’era stato verso
di ritornarvi.
Nel 1970, padre De Marchi riuscì
a ottenere il visto per entrare in quel
paese. A sbloccare la burocrazia, raccontava
lui, fu la sua presentazione
come «missionario della Madonna
di Fatima».
Così descriveva il primo impatto:
«Viaggiando in bus, per strade impraticabili,
la vista della povertà di migliaia
di persone, zoppi, ciechi, lebbrosi,
è insopportabile. Avessi la fede
e la fiducia del Cottolengo! Quando
ho un buon pasto e dormo in un comodo
letto mi sento in colpa».
Ma fu il periodo più fecondo e felice
della sua vita. Stabilitosi a Meki,
vicariato di Harrar, con padre Lorenzo
Ori e una suora americana, egli
cominciò il lavoro di evangelizzazione
e promozione umana. Intanto
cercò altro personale: suore etiopiche
e di altre congregazioni e nazionalità,
volontari laici e, naturalmente, missionari
e missionarie della Consolata.
Nel giro di tre anni funzionavano
quattro parrocchie, con relative opere
religiose e umanitarie: scuole elementari
e «laboratorio permanente»
di arti e mestieri, dispensario e scuola
matea a Meki; istituto professionale
maschile e femminile, collegio
per ciechi a Shashemane; casa per
bimbi handicappati, in maggioranza
colpiti da poliomielite, a Gighessa e
Asella; cura dell’ospedale di Gambo,
con annessi lebbrosario, scuola con
500 alunni e fattoria agricola; e poi
scuole elementari e 35 dispensari in
tutta la regione.
Sotto il regime marxista-leninista,
instaurato da Menghistu con la sua
rivoluzione (1973-74), i missionari
della Consolata poterono continuare
l’evangelizzazione in Etiopia grazie
alle opere di promozione umana
avviate in quei tre anni.
Nel 1978 padre De Marchi passò
il testimone della direzione a un confratello
più giovane, padre Giovanni
Bonzanino; ma continuò per altri
10 anni le operazioni di sussistenza:
più volte volò in America e vari paesi
europei in cerca di personale (suore,
laici, dottori, preti fidei donum…)
e aiuti materiali d’ogni genere, specialmente
nei momenti in cui le carestie
infierivano con più furore.

EVANGELICA COLOMBA
Professore, pioniere in tre continenti,
scrittore di best sellers, conferenziere,
direttore di rivista, produttore
di film, manager, organizzatore
e amministratore di soldi a palate,
procuratore di vocazioni e collaboratori,
frequentatore di uffici governativi
e organizzazioni inteazionali…
Chi non lo ha incontrato di persona,
potrebbe pensare a padre De
Marchi come a uno di quei personaggi
artificiali, cui ci si presenta a
occhi bassi e cappello in mano.
Niente affatto. Schivo, modesto,
mai preoccupato della propria immagine,
gli bastavano un sorriso e una
battuta ingenua per celare la sua
volontà di acciaio inossidabile, mettere
tutti a proprio agio, allacciare amicizie
indistruttibili.
Nessun missionario della Consolata
ha maneggiato tanto denaro come
lui: ma non un centesimo rimase
attaccato alle sue mani. Nessuno lo
ha mai visto con vestito e scarpe nuove,
eccetto le rare volte in cui, di passaggio
in Italia, faceva visita ai parenti:
lo mettevano a nuovo da capo
a fondo. A chi gli faceva i complimenti
per l’eleganza rispondeva ridendo:
«Mi hanno messo la camicia
di forza».
Sempre sereno e pronto alla conversazione,
alla battuta, allo scherzo,
padre De Marchi si interessava di tutti
e di tutto, specie con i confratelli,
fino a sembrare un ficcanaso; ma vedeva
solo il bene. «Semplice come una
colomba», senza la minima «astuzia
dei serpenti», un giorno confidò
a un confratello: «Quando vedo una
donna, mi viene voglia di inginocchiarmi
e baciarle i piedi, perché in
ogni donna vedo una Madonna».

RITORNO A CASA
«Ho fatto un patto con la Madonna
– confidava ancora -: quando non
potrò più lavorare, per età o salute o
perché cieco, voglio tornare a Fatima
e passare gli ultimi anni ascoltando le
confessioni dei pellegrini».
Non diventò cieco; ma per il resto
fu esaudito. Dopo 18 anni in Etiopia,
forze e memoria cominciarono a traballare:
chiese e ottenne di tornare a
Fatima. Ma il suo cuore continuava
a battere per i lebbrosi e i bambini
handicappati, per i quali chiedeva
continuamente aiuti ai pellegrini.
Finché le forze glielo permisero,
continuò ad aiutare i parroci vicini e
lontani, ascoltare le confessioni in casa
e nel santuario, ad accogliere e intrattenersi
con la gente, sempre col
rosario e breviario tra le mani.
Da novembre 2002 non poté più
camminare: un martirio per un «ficcanaso
» come lui. E si preparò all’ultimo
viaggio, «contrattando» con
la Madonna il definitivo appuntamento:
spirò l’1 gennaio
2003, festa di Maria SS.
Madre di Dio.

Benedetto Bellesi




INDIGENI E GUERRIGLIA

Ezio Roattino
Da 39 anni missionario della Consolata,
per alcuni anni formatore nel seminario
teologico internazionale di Londra e da pochi
mesi maestro del noviziato latinoamericano
a Buenos Aires (Argentina), padre Ezio Roattino
ha lavorato per quasi 30 anni in Colombia,
con una breve esperienza nella favela
della Mangueira a Rio de Janeiro.
Gli abbiamo posto alcune domande
sulla situazione in Colombia.
Padre Ezio, lei ha vissuto un’esperienza
missionaria di frontiera,
dove operano le Forze armate
rivoluzionarie della Colombia
(Farc): cosa vogliono realmente?
Le Farc sono nate come movimento popolare,
in difesa delle classi oppresse,
principalmente contadine. Si sono inserite
nel movimento internazionale
marxista. Col tempo gli obiettivi iniziali
sono cambiati. Avendo abbandonato
gradualmente le primitive intenzioni,
sono diventate una forza militare,
con lo scopo di cambiare, per
mezzo della rivoluzione, l’organizzazione
dello stato. Ciò che oggi vogliono
è la vittoria finale.
Quindi, le Farc possono essere inquadrate
nei gruppi terroristici,
come vogliono gli Stati Uniti?
Inizialmente non erano propriamente
un gruppo terrorista, anche se organizzavano
qualche operazione estremista.
Dopo il fallimento del dialogo
con il governo, che ha dichiarato loro
guerra aperta, stanno usando sempre
più azioni di questo genere.
Perché non si è arrivato a un accordo?
L’ex presidente Pastrana aveva avviato
il dialogo; ma, legato ai grandi gruppi
economici che lo hanno appoggiato
nelle elezioni, non voleva assumersi i
costi della pace: di fatto, non ha mai
portato sul tavolo dei negoziati proposte
concrete di riforme a favore delle
classi più povere. Il dialogo ha sempre
avuto un tono di conflitto. Le Farc
hanno approfittato di tale situazione
per installarsi e organizzarsi in un’area
strategica di 65 mila chilometri quadrati.
Con il nuovo presidente il dialogo
sarà ripreso?
Il presidente Alvaro Uribe Vélez ha vinto
le elezioni con largo margine. Durante
la campagna elettorale, da una
parte parlava di disponibilità al dialogo,
dall’altra presentava un programma
di lotta decisa, indicando un vero
e proprio confronto armato.
Da quando è salito al potere, ha aumentato
le tasse per pagare la guerra;
sta usando il piano americano, inizialmente
presentato come lotta al
traffico della droga, per combattere la
guerriglia; consiglieri dell’esercito americano
sono nelle basi militari colombiane.
Il presidente ha richiamato ancora
una volta i riservisti e vuole armare
30 mila contadini nel giro di tre
mesi, come una forza di autodifesa
nella campagna. Così la guerra si
espande e intensifica, coinvolgendo
tutti. C’è un clima di sfiducia generale
ed è necessario mostrare con fatti concreti
da quale lato si sta.
Il governo sta investendo molto denaro;
fa persino propaganda pubblica,
premiando e presentando nei media
quelli che denunciano qualcuno sospetto.
Dove uno non sa chi sia l’altro,
la lotta diventa più violenta.
In questo scenario, come si trovano
le popolazioni indigene?
Gli indigeni sono praticamente il bersaglio
principale. Essi possiedono il diritto
riconosciuto sulle terre, che sono
sulle montagne, nelle foreste, nei luoghi
più nascosti e di difficile accesso.
Esse appartengono alla collettività e
non possono essere alienate o vendute.
Ma, per l’assenza della forza pubblica,
questi territori sono requisiti per
la coltivazione e produzione della coca.
Per questo i popoli indigeni si trovano
tra fuochi incrociati.
Nel Cauca, per esempio, dove lavorano
i missionari della Consolata, gli indigeni
nasa-paezes hanno raggiunto
un buon livello di autocoscienza e organizzazione.
Sono sempre stati grandi
lottatori, con capi famosi, come
Juantama nel 1700, Manuel Quintim
Lame all’inizio del secolo XX, ultimamente
il padre Alvaro Ulcué, assassinato
nel 1984. Questo popolo reclama
la propria autonomia. Sa che, fino ad
ora, suo peggior nemico si è dimostrato
lo stato, che lo ha lasciato senza
strutture sociali, né partecipazione alla
vita nazionale, né protezione dai
grandi proprietari terrieri, che hanno
occupato le sue terre.
Ultimamente, anche i gruppi rivoltosi
sono diventati nemici degli indigeni,
distruggendo la loro autonomia e autorità.
Gli indigeni soffrono doppiamente:
da ambo le parti sono accusati
di collaborare con le parti opposte.
Qual è la partecipazione della
chiesa nel processo di pace?
La chiesa come popolo di Dio, con le
sue comunità, sacerdoti, vescovi e religiosi,
fa un grande lavoro, fino a rischiare
la vita. Nel Chocó, alcuni mesi
fa, una bombola di gas con dinamite è
stata usata nella lotta tra i paramilitari
e la guerriglia, ma è caduta sopra
una cappella, dove si era rifugiata la
popolazione, causando la morte di 118
persone.
A livello di Conferenza episcopale, non
c’è ancora il coraggio di denunciare
non solamente la guerriglia, ma anche
le azioni dello stato stesso e dei paramilitari.
Nella chiesa colombiana manca
la determinazione che ha portato la
chiesa del Brasile, all’epoca della dittatura
militare, a prendere la difesa del
popolo. Abbiamo alcuni esempi come
il caso dell’arcivescovo di Cali: Isaia
Duarte Cansino, che denunciò il narcotraffico,
pagando con il proprio sangue
il prezzo della scelta fatta.
Molti religiosi, preti, gli stessi vescovi,
come il presidente della
Conferenza episcopale latinoamericana,
mons. Jorge Guimenez, sono
stati sequestrati dalle Farc: cosa
si aspettano con queste azioni?
A livello di confronto armato tra governo
e movimenti rivoluzionari, la tolleranza
è molto bassa. Chiunque attraversa
la strada può essere bersaglio.
Il governo ha dei guerriglieri prigionieri
e le Farc sequestrano gente importante
per avere più opportunità nel negoziare.
Molte volte, lei e altri missionari
avete dovuto ritirarvi da certi luoghi
per l’influenza che esercitavate
sulla popolazione. È possibile
essere profeta in queste situazioni?
Il papa ci ha invitati a guardare ai martiri,
che danno la vita per cause nobili.
L’America Latina è stata e continua
a essere luogo di profezia. Noi abbiamo
incontrato difficoltà; mentre in
molti altri luoghi vari sacerdoti e cristiani,
persone di pace, hanno dovuto
pagare per le scelte fatte. Qui la profezia
è fare la scelta per la vita, nel nome
di Cristo.
Ma a volte, parlare provoca maggiore
difficoltà per la vita della propria gente.
Chi ha una funzione pubblica e agisce
in nome del vangelo, può servirsi di
alcuni momenti, come le celebrazioni
dei sacramenti, per fare denunce aperte.
Si può anche parlare con gli uomini
della guerra, insieme ai capi indigeni,
affinché non rubino i bambini e restituiscano
i giovani.
Lei è stato missionario in vari
paesi (Brasile, Inghilterra, Colombia,
Ecuador) e ha lavorato
con una spiritualità incarnata e
credendo nella trasformazione
delle persone, a volte con gesti
concreti e simbolici, altre volte
con prudenza e silenzio: chi ha influenzato
la sua vita?
Elenco, in breve, solo alcune cose che
hanno segnato il cammino della mia
vita: l’esperienza in Roma durante il
Concilio; le suore che abitano nella
Mangueira; la visita fatta a dom Helder
Camara, vescovo di Recife, che viveva
in una povera stanzetta; gli esempi
di dom Paolo As, vescovo di São
Paulo, e dom Casaldaliga; il lavoro missionario
portato avanti in gruppo, e
molte altre persone, come il padre Alvaro
Ulcué, che ha saputo fare la sintesi
tra essere indio e essere cristiani.
Lei è stato nominato maestro dei
novizi in Argentina e, come tale,
dovrà trasmettere il carisma del
fondatore: quali sono i valori che
ammira di più nell’Allamano?
Henrique Dussel, parlando di padre Ferdinando
Viglino (pure lui fu maestro
dei novizi), mi diceva: «Ho incontrato
un uomo che viene dal futuro». Dico la
stessa cosa del nostro fondatore: oltre
a essere uomo della missione, al di là
delle frontiere, fu pure un uomo del futuro.
Era un uomo intraprendente e
molto attento ai segni dei tempi e del
mondo.
Credo, tuttavia, che la fermezza e decisione
siano i valori forti nell’Allamano:
quando vedeva e decideva quale
strada imboccare, niente e nessuno
potevano fermarlo. Il momento in cui
intuì la chiamata del Signore, disse subito:
«Il Signore mi chiama ora; ora
vado».

Jaime Carlos Patias




MADAGASCAR scuole «per la speranza»

PALLONI DI CARTA E STRACCI

Anche questi sono buoni per mettere insieme
un po’ di ragazzi e prospettare loro la possibilità
di qualcosa di buono nella vita…
Cominciando dalla scuola, per sconfiggere la povertà.

Michel non era mai stato in
una scuola: i suoi genitori
non potevano permettersi
di pagare le rette di iscrizione. Trascorreva
la sua giornata sulle strade
di Antananarivo, facendo piccoli lavori
per guadagnare qualche spicciolo.
Un giorno, un signore francese
gli si era accostato e avevano cominciato
a parlare. Dopo un po’,
l’uomo gli aveva proposto di giocare
a calcio. Niente a che fare con il
calcio che si vede in tivù: qui la palla
è fatta di stracci e carta. Michel ha
cominciato a frequentare la squadra
e, dopo qualche settimana, si è ritrovato
in una scuola: bella, proprio come
quelle vere.

Stefan, invece, mendicava tutto il
giorno. Quando era più fortunato,
riceveva qualcosa da mangiare. Anche
lui poi ha conosciuto quel signore
francese che, dopo averlo
convinto a giocare a calcio, lo ha portato
a scuola.
Queste sono le storie di Michel e
di Stefan, due delle centinaia di bambini
che vediamo per le strade di Antananarivo,
capitale del Madagascar.
Di storie come queste ce ne sono a
bizzeffe, tutte accomunate da un solo
denominatore: la povertà.

L’ISOLA DEI CONTRASTI
Secondo l’Unicef, la popolazione
del Madagascar è estremamente giovane:
il 45% dei suoi abitanti ha meno
di quattordici anni. Il 15% di essi
nasce sottopeso. Il tasso di sviluppo
umano è uno dei più bassi al
mondo: il 70% della popolazione vive
sotto la soglia di povertà di un dollaro
al giorno, mentre lo stato investe
solo il 16% per l’istruzione.
L’isola, bellissima, si estende per
587.000 chilometri quadrati, che si
allungano lungo l’Oceano Indiano,
separati dall’Africa dal Canale di
Mozambico. Lungo la fascia costiera
ci sono le pianure utilizzate per le
coltivazioni, mentre la parte centrale
dell’isola è occupata da un altipiano
di origine vulcanica. Il suolo, che
ospita una varietà straordinaria di
specie animali, vegetali e minerali, è
minacciato dalla deforestazione:
benvenuti nell’isola dei contrasti! Risorse
quindi, ma povertà estrema.

TRA REGNI E PROTESTE
Sappiamo, ormai, la lezione: per
capire il presente, occorre conoscere
il passato. I primi ad approdare in
Madagascar furono alcuni navigatori
di origine malese-polinesiana tra
il I ed il V secolo d. C. Intoo al XVI
secolo fu la volta dei portoghesi che,
trovando l’isola semivuota, distrussero
le basi commerciali esistenti e
prelevarono schiavi da deportare in
Europa. Dal XVI secolo la popolazione
si divise in tre regni: la monarchia
Sakalva e i due regni di Betsileo
e di Merina. Nel 1828, il figlio del sovrano
di Merina unificò i tre imperi,
concludendo il lavoro avviato dal padre
nel 1810.
Alla fine del secolo, dopo la morte
inattesa del sovrano, l’isola cadde
in una crisi profonda, segnata da numerosi
conflitti per la successione al
trono. Fu proprio in questo clima di
fragilità che le potenze occidentali
poterono gettare le basi del colonialismo.
Con il loro arrivo, molte foreste
vennero distrutte per destinare
il suolo all’agricoltura intensiva di
prodotti come caffè, cotone e zucchero.
I contadini locali vennero
privati delle loro proprietà e costretti
a lavorare in condizioni di
sfruttamento. I francesi colonizzarono
l’isola dal 1896.
Nel 1948 l’esercito soppresse una
violenta rivolta di contadini malgasci
stanchi di subire l’egemonia francese.
L’indipendenza fu raggiunta
solo nel 1960.
Nel 1975 venne eletto capo dello
Stato Ratsiraka, dopo la sconfitta del
regime militare imposto dal generale
Ramanantsoa. Ratsiraka attuò una
serie di riforme, seguendo una politica
di orientamento socialista e chiuse
l’economia dell’isola ad ogni comunicazione
verso l’esterno, soprattutto
nei confronti del Sudafrica.
Ratsiraka goveò il paese sino al
1992, anno in cui Albert Zafy venne
nominato presidente del Madagascar.
Anche Zafy attuò una serie di
profonde riforme, proposte dal Fondo
monetario internazionale.
Il malcontento della popolazione
fu talmente forte, che Zafy fu costretto
a dare le dimissioni nel 1996.
Il 16 dicembre 2001 vinse le elezioni
Ravalomanana dopo una serie estenuante
di ballottaggi, scioperi nazionali
e manifestazioni di protesta.
Gli scontri, da allora, non sono mai
cessati e l’economia del paese è ancora
in ginocchio.
La maggior parte della popolazione
è dedita all’agricoltura, nonostante
la percentuale della superficie coltivabile
sia rappresentata solo dal 4%
del suolo. L’isola però esporta una
piccola parte dei suoi prodotti mentre
importa metalli, petrolio e macchinari
dall’Occidente. Le esportazioni
riguardano prodotti agricoli e
pesce, destinati alle tavole di Francia,
Italia, Giappone e Stati Uniti.
Recentemente, il settore finanziario
è stato rafforzato con interventi di
ristrutturazione e privatizzazione, attuati
nei settori di telecomunicazione
e trasporti. Il debito estero ammonta
a 4.394 milioni di dollari. Ben 19 agenzie
di Sviluppo Internazionale
(World Bank) sono situate nell’isola.
La maggior parte di esse investe fondi
in progetti legati al sociale, alle infrastrutture
e ai trasporti.
Il 26 luglio 2002, il Madagascar a
Parigi ha presentato un programma
di ricostruzione e sviluppo. Si tratta
di un programma d’urgenza, destinato
a sostenere le fasce di popolazione
più povere. Le autorità sostengono
che per esse sarà previsto
un piano nutrizionale immediato, la
creazione di lavoro temporaneo e
misure volte a migliorare il settore
dell’istruzione e sanità di base.
Nonostante le promesse, l’agricoltura
sembra ottenere pochi benefici.
Roland, presidente dell’associazione
malgascia Reny Fanilo, ci spiega che
gli indigeni qui coltivano quasi esclusivamente
patate. «L’obiettivo
dell’associazione che rappresento è
quello di insegnare agli agricoltori a
coltivare il grano. In questo modo si
garantirebbe alla popolazione locale
un’alimentazione più sana e la
possibilità di un guadagno» – ci dice.

LA SPERANZA DELLA SCUOLA
Dopo avere camminato per il centro
della capitale, arriviamo a Tsiadana,
periferia di Antananarivo. Visitiamo
la scuola «Espoir de Tsiadana
», gestita dalle suore Francescane
dell’Immacolata (Modena). L’ordine
è nato nel 1970, con lo scopo di
ridare dignità umana agli individui
più emarginati attraverso attività di
alfabetizzazione, programmi di igiene
di base e promozione dei diritti
della donna.
La scuola Espoir è un edificio semplice,
dalle pareti intonacate di bianco
e una scritta blu al centro. Le suore
ci dicono che è stata costruita dai
genitori dei bambini che, armati di
buona volontà e coraggio, hanno
partecipato attivamente ai lavori.
Il progetto è stato reso possibile
grazie al contributo di alcune associazioni,
tra cui «Aiutare i bambini»,
una Onlus di Milano che sostiene
programmi a favore di minori poveri,
ammalati e senza istruzione in ogni
parte del mondo.
«Aiutare i bambini» ha contribuito
alla costruzione dell’edificio della
scuola e sostiene a distanza una classe
di 100 bambini dal 2002. Suor Teresa
Fontana, cornordinatrice del programma,
ci spiega: «Sono 1.037 i
bambini che frequentano la scuola.
Spesso vengono da lontano e percorrono
molti chilometri a piedi per
raggiungerci. L’Associazione sostiene
due classi a distanza. Agli alunni
vengono così garantiti istruzione,
materiale didattico ed
assistenza medica. Nel 2002,
almeno venti studenti sono
stati operati alle tonsille; altri
hanno ricevuto visite oculistiche
e dentistiche… Le
insegnanti della scuola
sono ragazze del luogo,
preparate e sorridenti,
nonostante abbiano avuto
un passato non
facile».
Conosciamo così
anche Juditte, insegnante
della nona
classe di Espoir. Ci
parla della difficoltà
dei bambini
nel raggiungere la
scuola. «L’assenteismo
è molto
diffuso: alcune
volte i bambini
si ammalano,
altre non sono in grado di raggiungere
la scuola perché non hanno
mangiato a sufficienza. Non hanno
la forza necessaria per camminare.
Talvolta raggiungono la scuola, ma
sono così affaticati ed affamati che
a malapena riescono a seguire la lezione.
Un altro problema è rappresentato
dalla carenza di materiale
didattico. Ciò che viene distribuito
è puntualmente perso. Eppure, nonostante questi limiti, sono felice. Alla
fine dell’anno constato che sono
riuscita ad insegnare qualcosa di
buono. Sono piccoli passi, ma sono
compiuti» – ci dice sorridendo.
Poco dopo incontriamo anche Serge:
cinquant’anni, francese. Prima di
stabilirsi in Madagascar, ha vissuto
dodici anni in Asia. Poi, dopo avere
brevemente collaborato con un’organizzazione
inglese, decise di lasciare
l’isola. I giovani gli chiesero di restare
e lui rimase. Si occupa della
scuola e mi racconta del suo arrivo.
«All’inizio ho avvicinato i ragazzi
con il calcio. Non avevamo molto,
così abbiamo costruito palle di carta
e stracci. I ragazzi che hanno partecipato
al gioco sono stati i primi a frequentare
la scuola e con loro sono
nate anche squadre fortissime. Abbiamo
pure partecipato due volte alle
semi-finali nazionali» confessa orgoglioso.
«I giovani studenti hanno età diverse
e non hanno solo bisogno di istruzione,
ma anche di cibo – prosegue
-. Le loro famiglie difficilmente
riescono a garantire un pasto al giorno;
così cerchiamo di ospitarli anche
per il pranzo: la mensa fornisce più
di 500 coperti. Non lontano da qui,
in due laboratori professionali, le ragazze
apprendono a cucire; seguono
pure un programma di igiene e per
l’educazione dei figli. Da quando abbiamo
avviato i laboratori, più di 300
ragazze hanno trovato lavoro stabile
nella capitale» conclude fiero.
Ètardi. Lasciamo tutti i personaggi
del nostro viaggio e ci
riavviamo a malincuore verso
la capitale. Ed ecco, sulla strada,
vediamo ancora decine di bambini
vagabondare senza meta. Hanno il
volto di Michel e di Stefan. Forse,
bambini come loro, esisteranno sempre
ad Antananarivo e per le strade
del mondo, ma la missione «Espoir
de Tsiadana» ci ha dato un esempio
meraviglioso di cura e impegno per
il prossimo. Un esempio
che funziona: come l’amore,
come la speranza.

SCHEDA
Superficie: 587.153 Kmq
Popolazione: 16.437.000 (0-14 anni:
45.02%; 15-64 anni: 51,77%; oltre 64
anni: 3.21%)
Speranza di vita: 40 anni
Mortalità infantile: 136 su 1.000
Gruppi etnici: malgasci, indiani, pakistani,
francesi, cinesi
Religione: culti indigeni 52%, cristiani
41%, 7% musulmani
Tasso alfabetizzazione: 46%
Ordinamento politico: repubblica parlamentare
(1960 indipendenza dalla
Francia)
Economia: agricoltura (caffè, chiodi di
garofano, vaniglia, zucchero); industrie
(lavorazione della carne, tessile); minerali
(cromite, grafite, carbone, bauxite)
Sotto la soglia di povertà: 70% vive
con 1 dollaro al giorno
Spesa per l’istruzione: 16%
Spesa per sanità pubblica: 1.1%
Debito estero: 4.394 milioni di dollari

Domanda… e risposta
La capitale del Madagascar ora si chiama Antananarivo. Fino a pochi anni fa
il suo nome era Tananarive, ma la gente continua a chiamare la capitale Tanà.
Più corto. È abitata dall’etnia dei mérina, di origine indonesiana, arrivata su questi
altipiani a partire dal V secolo. Costruita su dodici colline, a 1.200 metri sul
livello del mare, è circondata da risaie a perdita d’occhio. Il colore dominante è
il rosso: tutto è costruito in mattoni cotti al sole. Le strade sono strette e sinuose,
sempre in saliscendi.
La città dà un’idea di povertà e miseria. Le botteghe sono lungo tutte le strade
da ambo i lati, piccole e non sempre pulite; impressionano specialmente quelle
di carne e salsicce esposte in pieno sole, che attirano sciami di mosche e insetti.
Le strade pullulano di bambini e bambine in ogni ora del giorno. Anche
all’ora della scuola. Dove sicuramente non vanno.
Anno 1999. Perché non vanno a
scuola? È la prima domanda
che mi frulla in testa, mentre attraverso
questa città: lo chiedo
anche a chi mi accompagna. «Non
ci sono abbastanza scuole per tutti,
anche facendo due tui» è la
risposta.
«Mi piacerebbe costruire almeno
una scuola» penso.
A Tanà, le suore «Discepole del Sacro
Cuore», fondate a Lecce e per
le quali lavoro, hanno qui il noviziato. Arrivano in visita mons. F. Ruppi, arcivescovo
di Lecce, e il nunzio apostolico. La prima cosa che dicono è: «Perché non
fate una scuola qui, nel vostro giardino?». Evidentemente, pure a loro era venuto
lo stesso pensiero, attraversando i vari quartieri. Dico che è una buona idea.
Anche le suorine sono dello stesso parere. Quando lasciano la casa, la decisione
è presa.
Faremo una scuola per questo quartiere povero di Mandrosoa, situato alla periferia
di Tanà, non lontano dall’aeroporto. Le novizie faranno le maestre durante
il secondo anno di noviziato, che è un periodo di apostolato pratico.
Il vescovo Ruppi fa un primo generoso gesto. Un certo signor De Filippo (di Montecarlo),
che si trova nei paraggi in vacanza e a cui spiego il progetto, aggiunge
quello che manca. Si può iniziare!
La scuola diventa realtà nell’estate 2002. L’Associazione di Montecarlo «Aide et
presence» finanzia i banchi per la scuola. Dirige i lavori un volontario di Bellano
(Lecco), Oreste Gottifredi, mio amico da tanti anni. Costruiamo la scuola
sullo stile della città, in mattoni rossi a vista. Niente cemento, perché i mattoni
stanno insieme con terra rossa bagnata, la stessa su cui è costruita la scuola. Due
piani, dodici aule spaziose. Il pavimento è in cemento, perché le piastrelle sono
care. Finestre e porte vetrate per avere più
luce. A Tanà, in certi giorni fa freddo e tira
vento. Però di solito, restano aperte e
l’Oceano Indiano non è lontano.
Nell’ottobre 2002 arrivano i primi allievi.
Incominciamo con 150 bambini. Gioia e
tanta vita fremono ora nel giardino delle
novizie del Sacro Cuore di Tanà. Vere discepole:
«Lasciate che i pargoli vengano
a me!». Siamo in linea con il cuore generoso
del nostro Maestro.
NOÈ CEREDA
missionario della Consolata
in Madagascar

Roberta Vocaturo