INDIGENI E GUERRIGLIA

Ezio Roattino
Da 39 anni missionario della Consolata,
per alcuni anni formatore nel seminario
teologico internazionale di Londra e da pochi
mesi maestro del noviziato latinoamericano
a Buenos Aires (Argentina), padre Ezio Roattino
ha lavorato per quasi 30 anni in Colombia,
con una breve esperienza nella favela
della Mangueira a Rio de Janeiro.
Gli abbiamo posto alcune domande
sulla situazione in Colombia.
Padre Ezio, lei ha vissuto un’esperienza
missionaria di frontiera,
dove operano le Forze armate
rivoluzionarie della Colombia
(Farc): cosa vogliono realmente?
Le Farc sono nate come movimento popolare,
in difesa delle classi oppresse,
principalmente contadine. Si sono inserite
nel movimento internazionale
marxista. Col tempo gli obiettivi iniziali
sono cambiati. Avendo abbandonato
gradualmente le primitive intenzioni,
sono diventate una forza militare,
con lo scopo di cambiare, per
mezzo della rivoluzione, l’organizzazione
dello stato. Ciò che oggi vogliono
è la vittoria finale.
Quindi, le Farc possono essere inquadrate
nei gruppi terroristici,
come vogliono gli Stati Uniti?
Inizialmente non erano propriamente
un gruppo terrorista, anche se organizzavano
qualche operazione estremista.
Dopo il fallimento del dialogo
con il governo, che ha dichiarato loro
guerra aperta, stanno usando sempre
più azioni di questo genere.
Perché non si è arrivato a un accordo?
L’ex presidente Pastrana aveva avviato
il dialogo; ma, legato ai grandi gruppi
economici che lo hanno appoggiato
nelle elezioni, non voleva assumersi i
costi della pace: di fatto, non ha mai
portato sul tavolo dei negoziati proposte
concrete di riforme a favore delle
classi più povere. Il dialogo ha sempre
avuto un tono di conflitto. Le Farc
hanno approfittato di tale situazione
per installarsi e organizzarsi in un’area
strategica di 65 mila chilometri quadrati.
Con il nuovo presidente il dialogo
sarà ripreso?
Il presidente Alvaro Uribe Vélez ha vinto
le elezioni con largo margine. Durante
la campagna elettorale, da una
parte parlava di disponibilità al dialogo,
dall’altra presentava un programma
di lotta decisa, indicando un vero
e proprio confronto armato.
Da quando è salito al potere, ha aumentato
le tasse per pagare la guerra;
sta usando il piano americano, inizialmente
presentato come lotta al
traffico della droga, per combattere la
guerriglia; consiglieri dell’esercito americano
sono nelle basi militari colombiane.
Il presidente ha richiamato ancora
una volta i riservisti e vuole armare
30 mila contadini nel giro di tre
mesi, come una forza di autodifesa
nella campagna. Così la guerra si
espande e intensifica, coinvolgendo
tutti. C’è un clima di sfiducia generale
ed è necessario mostrare con fatti concreti
da quale lato si sta.
Il governo sta investendo molto denaro;
fa persino propaganda pubblica,
premiando e presentando nei media
quelli che denunciano qualcuno sospetto.
Dove uno non sa chi sia l’altro,
la lotta diventa più violenta.
In questo scenario, come si trovano
le popolazioni indigene?
Gli indigeni sono praticamente il bersaglio
principale. Essi possiedono il diritto
riconosciuto sulle terre, che sono
sulle montagne, nelle foreste, nei luoghi
più nascosti e di difficile accesso.
Esse appartengono alla collettività e
non possono essere alienate o vendute.
Ma, per l’assenza della forza pubblica,
questi territori sono requisiti per
la coltivazione e produzione della coca.
Per questo i popoli indigeni si trovano
tra fuochi incrociati.
Nel Cauca, per esempio, dove lavorano
i missionari della Consolata, gli indigeni
nasa-paezes hanno raggiunto
un buon livello di autocoscienza e organizzazione.
Sono sempre stati grandi
lottatori, con capi famosi, come
Juantama nel 1700, Manuel Quintim
Lame all’inizio del secolo XX, ultimamente
il padre Alvaro Ulcué, assassinato
nel 1984. Questo popolo reclama
la propria autonomia. Sa che, fino ad
ora, suo peggior nemico si è dimostrato
lo stato, che lo ha lasciato senza
strutture sociali, né partecipazione alla
vita nazionale, né protezione dai
grandi proprietari terrieri, che hanno
occupato le sue terre.
Ultimamente, anche i gruppi rivoltosi
sono diventati nemici degli indigeni,
distruggendo la loro autonomia e autorità.
Gli indigeni soffrono doppiamente:
da ambo le parti sono accusati
di collaborare con le parti opposte.
Qual è la partecipazione della
chiesa nel processo di pace?
La chiesa come popolo di Dio, con le
sue comunità, sacerdoti, vescovi e religiosi,
fa un grande lavoro, fino a rischiare
la vita. Nel Chocó, alcuni mesi
fa, una bombola di gas con dinamite è
stata usata nella lotta tra i paramilitari
e la guerriglia, ma è caduta sopra
una cappella, dove si era rifugiata la
popolazione, causando la morte di 118
persone.
A livello di Conferenza episcopale, non
c’è ancora il coraggio di denunciare
non solamente la guerriglia, ma anche
le azioni dello stato stesso e dei paramilitari.
Nella chiesa colombiana manca
la determinazione che ha portato la
chiesa del Brasile, all’epoca della dittatura
militare, a prendere la difesa del
popolo. Abbiamo alcuni esempi come
il caso dell’arcivescovo di Cali: Isaia
Duarte Cansino, che denunciò il narcotraffico,
pagando con il proprio sangue
il prezzo della scelta fatta.
Molti religiosi, preti, gli stessi vescovi,
come il presidente della
Conferenza episcopale latinoamericana,
mons. Jorge Guimenez, sono
stati sequestrati dalle Farc: cosa
si aspettano con queste azioni?
A livello di confronto armato tra governo
e movimenti rivoluzionari, la tolleranza
è molto bassa. Chiunque attraversa
la strada può essere bersaglio.
Il governo ha dei guerriglieri prigionieri
e le Farc sequestrano gente importante
per avere più opportunità nel negoziare.
Molte volte, lei e altri missionari
avete dovuto ritirarvi da certi luoghi
per l’influenza che esercitavate
sulla popolazione. È possibile
essere profeta in queste situazioni?
Il papa ci ha invitati a guardare ai martiri,
che danno la vita per cause nobili.
L’America Latina è stata e continua
a essere luogo di profezia. Noi abbiamo
incontrato difficoltà; mentre in
molti altri luoghi vari sacerdoti e cristiani,
persone di pace, hanno dovuto
pagare per le scelte fatte. Qui la profezia
è fare la scelta per la vita, nel nome
di Cristo.
Ma a volte, parlare provoca maggiore
difficoltà per la vita della propria gente.
Chi ha una funzione pubblica e agisce
in nome del vangelo, può servirsi di
alcuni momenti, come le celebrazioni
dei sacramenti, per fare denunce aperte.
Si può anche parlare con gli uomini
della guerra, insieme ai capi indigeni,
affinché non rubino i bambini e restituiscano
i giovani.
Lei è stato missionario in vari
paesi (Brasile, Inghilterra, Colombia,
Ecuador) e ha lavorato
con una spiritualità incarnata e
credendo nella trasformazione
delle persone, a volte con gesti
concreti e simbolici, altre volte
con prudenza e silenzio: chi ha influenzato
la sua vita?
Elenco, in breve, solo alcune cose che
hanno segnato il cammino della mia
vita: l’esperienza in Roma durante il
Concilio; le suore che abitano nella
Mangueira; la visita fatta a dom Helder
Camara, vescovo di Recife, che viveva
in una povera stanzetta; gli esempi
di dom Paolo As, vescovo di São
Paulo, e dom Casaldaliga; il lavoro missionario
portato avanti in gruppo, e
molte altre persone, come il padre Alvaro
Ulcué, che ha saputo fare la sintesi
tra essere indio e essere cristiani.
Lei è stato nominato maestro dei
novizi in Argentina e, come tale,
dovrà trasmettere il carisma del
fondatore: quali sono i valori che
ammira di più nell’Allamano?
Henrique Dussel, parlando di padre Ferdinando
Viglino (pure lui fu maestro
dei novizi), mi diceva: «Ho incontrato
un uomo che viene dal futuro». Dico la
stessa cosa del nostro fondatore: oltre
a essere uomo della missione, al di là
delle frontiere, fu pure un uomo del futuro.
Era un uomo intraprendente e
molto attento ai segni dei tempi e del
mondo.
Credo, tuttavia, che la fermezza e decisione
siano i valori forti nell’Allamano:
quando vedeva e decideva quale
strada imboccare, niente e nessuno
potevano fermarlo. Il momento in cui
intuì la chiamata del Signore, disse subito:
«Il Signore mi chiama ora; ora
vado».

Jaime Carlos Patias