Vivono in una roulotte in un campo alla periferia di Torino. Con i nomadi condividono
i problemi della quotidianità e della sopravvivenza. Questa è la storia di due sorelle
che dal 1979 hanno scelto di mettere la loro vita di donne e suore al servizio di gente
che non conta e che anzi viene considerata inferiore, deviante, fuorilegge.
«Condividere la vita degli
ultimi, dei più poveri,
della gente comune».
Questa è stata la spinta iniziale che
ha condotto due sorelle, Carla e Rita,
suore della congregazione di san
Luigi di Alba, ad abbandonare la
vita abituale per dare sempre più
concretezza alla loro vocazione.
Dal 1979 vivono in una roulotte
alla periferia di Torino. Acqua e
servizi sono rigorosamente fuori, al
freddo. Il calore lo produce una
stufa (per la quale occorre procurarsi
gioalmente la legna), ma anche
i tanti visi allegri e sorridenti
dei bambini, che ogni attimo si affacciano
alla porta e irrompono
dentro: per avere una carezza, parlare
un po’, mangiare un dolce, vedere
chi c’è.
Mitezza, cordialità, fratellanza è
quanto avverti incontrandole. Se ti
fermi a parlare con loro un gran
senso di pace e serenità ti inondano,
perché questo è il loro abituale
stato d’animo che emerge anche
nei momenti difficili.
Queste due semplici suore hanno
compiuto una scelta coraggiosa,
non facile e, spesso, impopolare,
che motivano così.
«La ragione profonda della
nostra vita con i rom e
i sinti, sta nell’incarnazione
di Gesù, in tutto simile a noi
fino alla morte; sta nella parola di
Dio.
Nella lettera ai Filippesi è scritto:
“Cristo Gesù, pur essendo di
natura divina, non considerò un tesoro
geloso la sua uguaglianza con
Dio, ma spogliò sé stesso assumendo
la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini…”.
È la parola di Dio che ha ispirato
l’inizio del nostro cammino, che
si è fatta carne nella nostra quotidianità,
e ancora oggi ci sostiene
specie quando la resistenza nel
quotidiano si fa più pesante, incomprensibile
e assurda anche a
noi stesse; quando verrebbe voglia
di tentare altrove, questa parola ci
fa sentire più forte il legame con il
nostro popolo, un legame che non
si può spezzare facilmente.
Noi crediamo fermamente che la
vita religiosa non è un ruolo, né
principalmente un ministero, ma
un carisma, un dono che Dio fa alla
sua chiesa, e come tale lo vogliamo
accogliere senza etichette o apparati
che di fatto separano dalla
gente.
Vita religiosa come profezia, suppone
una scelta di luogo, di persone,
di stile. Abbiamo scelto rom e
sinti e le persone legate alla loro vita;
i campi sosta, le strade talvolta
le cose e i luoghi in cui queste persone
vivono. Ci poniamo lì come
un poco di lievito che nel silenzio e
nel segreto fermenta la pasta.
Come in punta dei piedi condividiamo
la loro vita, ci accogliamo
e ci stimiamo vicendevolmente con
simpatia. La nostra vita non è fatta
di grandi attività e impegni pastorali.
I problemi e gli impegni sono
quelli della quotidianità e della sopravvivenza.
Una quotidianità fragile, imprevedibile
e semplice, ma nello stesso
tempo solenne e festosa come
non è facile trovare nella nostra cultura
fatta più di concetti e idee
astratte.
Potrà sembrare una perdita di
tempo lo stare in accampamento
più silenziose che loquaci, più titubanti
che sicure, più discepole che
maestre; essere lì non come benefattrici,
ma come sorelle, quasi come
bambini che apprendono la lezione
della vita, dell’ospitalità proprio
da persone da molti
considerate inferiori, devianti, fuorilegge.
Pensiamo che non si parli solo
con la parola, ma anche ascoltando
la parola che sta all’interno del silenzio,
che ci insegna a porgere l’orecchio,
ad aprire gli occhi per vedere
ciò che sale dal basso e riconoscere
nei gesti concreti della vita,
tanti luoghi in cui Dio opera e si rivela,
e scoprire anche e soprattutto
l’acqua viva che disseta.
Si impara in questo lento e lungo
ascolto a non fare di nessuno, nemmeno
dei poveri, un mito (cogliendo
tutto senza spirito critico), ma
viceversa a vedere il bello e il meno
bello come parte costitutiva della
natura umana.
Così, cammin facendo, siamo
state condotte dalla vita allo stile
della debolezza, di chi “non fa udire
in piazza la sua voce e non spegne
il lucignolo fumigante”, di chi
si china per adorare e anche per
raccogliere i “semi del Verbo”
sparsi anche nella cultura rom, per
scoprire i germogli che crescono:
come donne ci sentiamo particolarmente
chiamate a raccogliere la
vita in tutte le sue espressioni e a
proteggerla, coltivarla e celebrarla.
Partendo da una posizione di
piccolezza e fragilità, imparando a
riconoscere la nostra debolezza,
possiamo accettare anche quella
delle nostre amiche e amici per farla
nostra come ha fatto il Cristo,
perché la trasformi in storia di misericordia
e di salvezza.
Questo diventa per noi un linguaggio
per dire l’amore di Dio ed
il suo sogno di fare del mondo una
famiglia più fratea e più giusta;
tutto questo, poco a poco, produce
in noi dei solchi profondi che ci
fanno intravedere un Dio un po’
diverso da quello che pensavamo
di conoscere, e ci fa anche meno sicuri
sul luogo in cui è nascosto il tesoro
di cui parla il vangelo.
Il Dio che si incontra in questo
luogo non è più il Signore onnipotente
e forte, ma piuttosto il Dio
dell’incarnazione, della passione e
della resurrezione.
E anche il nostro cammino spirituale
è debole e fragile così come si
presenta la vita di coloro che non
contano e sono ai margini.
Ci accorgiamo ogni giorno che è
necessario cambiare i nostri schemi
mentali, lasciarci convertire e
porci in un continuo atteggiamento
di preghiera, di supplica, di perdono,
di pace e di ringraziamento
per averci fatto dono di stare qui.
Lo stare davanti a Dio con loro e
anche a nome loro, è quanto di più
grande possiamo fare. Questo è il
nostro stile: quello di sederci accanto,
di camminare insieme, con
la nostra umanità, e vedere nell’umanità
il luogo della presenza di
Dio e i frutti dello Spirito».
ATorino la questione del momento
è lo spostamento del
campo nomadi dall’Arrivore
a via Germagnano. Carla e Rita
mi dicono che anche loro hanno
cercato di far capire l’inadeguatezza
del nuovo campo.
Secondo le due suore luigine sarebbe
meglio risistemare il campo
dell’Arrivore dove i rom sono già
abituati a vivere. Pensano che occorra
partire da loro, rispettare le
loro scelte; al tempo stesso, è assai
importante responsabilizzarli, richiedere
il loro impegno (per
esempio, nella cura e mantenimento
del campo).
Occorre cercare (come in parte
si sta facendo) di dar loro gli strumenti
adeguati ai fini di favorie
l’integrazione. Le borse-lavoro, ad
esempio, sono una soluzione parziale
spesso utilizzata principalmente
per ottenere il permesso di
soggiorno.
Le istituzioni pubbliche dovrebbero
andare maggiormente ad incentivare
le reali potenzialità di
queste persone. Ad esempio, puntando
a favorire lavori che facciano
leva sulle loro capacità artigianali.
Anche l’idea di far vivere gli zingari
all’interno delle case popolari
a Carla e Rita (che al campo continuano
a vivere) appare come una
scelta pilotata o un po’ forzata.
Spesso le persone obbediscono
per paura che il campo venga
sgomberato e poi non si sappia più
dove andare.
L’ipotesi, già proposta anni fa, di
consentire l’abitazione in vecchie
cascine potrebbe essere la soluzione
ideale in quanto rappresenta
una via intermedia fra l’alloggio vero
e proprio e il campo. La cascina,
infatti, consente di mantenere la vita
comunitaria del clan (accendere
il fuoco la sera, fare le feste, le cene
comuni, ecc.) e permette di sentire
ancora vivo quel senso di libertà
che è insito nello spirito nomade.
«PER LORO ESISTE L’OGGI»
Incontro con il professor Secondo Massano,
responsabile dell’«Opera nomadi» di Torino.
Ex preside, oggi in pensione, il professor Secondo
Massano a riposo non lo è affatto, essendo
impegnato quotidianamente nella sede dell’Opera
nomadi di Torino.
Il suo impegno è rivolto non solo a raccogliere e documentare
la storia e la cultura zingara, ma soprattutto
a schierarsi in prima persona per difendere
i diritti di questa gente.
Ha iniziato ad essere loro amico dai tempi della
scuola, girovagando per strade, mercati, campi sosta
con l’intento di convincere le famiglie zingare
sull’importanza di mandare i loro figli a scuola. Ancora
oggi continua a spendere molte energie per
realizzare un servizio di mediazione e integrazione
dei bambini zingari nelle scuole.
Nelle giornate di lavoro presso la sede dell’associazione
il compito principale del professor Massano
è quello di ascoltare i nomadi quando vengono
ad esporre i loro problemi. Per
tutti ha un gesto affettuoso, un incoraggiamento
paterno, foendo
quando occorre anche un piccolo aiuto
materiale.
Conosce bene queste persone e ne sa
distinguere i lati positivi, ma al tempo
stesso non nega i loro difetti.
Sul problema dei luoghi dove accogliere
i nomadi, il professor
Massano risponde: «Noi come Opera
nomadi avevamo cercato di portare
avanti la possibilità di consentire l’insediamento
dei nomadi in vecchie cascine.
Purtroppo, il progetto si è perso
per strada.
Una soluzione al problema credo sia
favorire la scelta di andare a vivere nelle case popolari.
Ormai molte famiglie ne fanno richiesta e
già diverse hanno fatto questa scelta.
Senza dubbio non è facile per loro che amano vivere
liberi, in grandi spazi, a stretto contatto con il
resto del clan. Naturalmente la scelta delle case
popolari implica tutta una serie di responsabilità
cui queste persone sono poco avvezze: avere un lavoro
fisso, rispettare le regole, tempi di pagamento,
avere un minimo d’istruzione.
I nomadi infatti tendono a vivere nel presente, al
massimo c’è un passato. Per loro esiste l’oggi, forse
il domani. Non pensano al futuro, non sono abituati
a programmarlo, ad organizzarsi in funzione
di esso. Per questo è fondamentale continuare l’opera
di mediazione, seguirli, affiancarli, responsabilizzarli.
Per anni la nostra città ha rappresentato un modello
sia per quanto riguarda la gestione dei campi,
sia per l’integrazione scolastica dei nomadi».
Al responsabile dell’Opera nomadi chiediamo un
parere anche sul problema della diserzione scolastica
provocata dall’entrata in vigore della legge
Bossi-Fini.
«Il comune di Torino – risponde Massano – ha fatto
e fa molto per loro tramite l’Ufficio stranieri e l’Ufficio
mondialità in particolare per quel che riguarda
l’educazione ed integrazione dei bambini nelle
scuole.
L’alfabetizzazione dei nomadi è importante anche
al fine di tutelae la storia e la cultura. Diversamente
esse rischiano di perdersi poiché fino ad ora
sono state tramandate solo oralmente.
Si spendono tanti soldi per mandare i bambini nomadi
a scuola e da metà gennaio si sta registrando
un netto calo delle presenze nelle scuole. Che vergogna
essere in questa situazione a causa di una
legge!».
«LASCIATECI VIVERE!»
Non hanno molte esigenze. Si accontentano di avere un posto in un campo della
periferia. Spesso sono sporchi perché fanno lavori che gli italiani non vogliono fare. Oggi molti zingari non dormono più nelle loro abitazioni. Hanno paura che vengano a portarli via. Con la legge Bossi-Fini, la vita è diventata una fuga quotidiana. Dicono: «Lasciateci vivere!». Ma per vivere è necessario il… «permesso di soggiorno».
«Sono una profuga – racconta
Fadila -, arrivata a Torino da Banja
Luca. Dopo aver abitato al campo
dell’Arrivore, sono passata nelle
case popolari. Sono senza lavoro e
per mangiare vado a vendere robe
vecchie nei mercatini. Oggi, purtroppo,
molti di noi debbono scappare
perché sono senza il permesso
di soggiorno».
VOIKAN
«Stiamo scappando da troppo
tempo – dice Voikan -. Credo sia
giunto il momento di dire “Basta!”.
Usciamo sulle strade e ci definiscono
“zingari”. Senza guardare da
dove veniamo, di quale cultura siamo
portatori, quale religione abbiamo.
Io ho sbagliato a suo tempo a non
sostenere la proposta di legge che
mirava a riconoscere il nostro popolo
come minoranza etnica (dicembre
’92; la proposta di legge
presentata da Rifondazione comunista
non ha mai avuto seguito,
ndr)».
FRANCESCO
«Io sono sinto – racconta Francesco
-. C’è un nostro campo sul
Sangone. È lì da trent’anni, ma non
risulta inserito in nessun piano regolatore.
Si pensa che tanto noi
possiamo vivere comunque.
Non è così. Noi siamo persone
come le altre: viviamo e respiriamo
come voi. Per questo vi chiedo:
“Lasciateci vivere! Lasciateci abitare
dove stiamo. Siamo tutti nomadi
a questo mondo».
JONKO JOVANOVICIL
«Mio figlio – racconta Jonko, vicepresidente
dell’associazione Aizo
– è nato nel 1981; non conosce i
furti; ha fatto le scuole e pratica
sport. Ora, dopo i 18 anni, non può
più giocare al calcio perché è straniero.
Ma che cosa sono i nostri figli?
Senza diritti, anche se sono nati
qui. Il lavoro? Ma come posso trovare
un lavoro se lo stanno togliendo
anche agli operai della Fiat?
Noi siamo a Collegno e possiamo
affermare con orgoglio che ogni famiglia
ha dato il suo contributo per
il campo. Paghiamo i servizi come
tutti.
Quando vediamo arrivare una
pattuglia di vigili, ci tocca abbassare
la testa, perché non abbiamo il
permesso di soggiorno. Io sono entrato
in Italia con documenti validi
e ora mi tocca vivere così. Con paura
e vergogna».
PATRIZIA
«Mi piacerebbe vivere in una casa,
perché è pulita e confortevole.
Non occorrerebbe più spaccare la
legna per scaldarsi.
Provengo dalla ex-Jugoslavia, ma
sono nata qui. Ho il permesso di
soggiorno, ma molti altri non ce
l’hanno. Così scappano. Scappano
quando arrivano i vigili. Scappano
mattina e sera. Con i bambini. Vanno
a dormire nelle macchine.
Così è la nostra vita. Solo scappare.
Marisa e Franco hanno fatto la
carta come apolidi, ma secondo me
hanno fatto male perché così non
sono più di nessuna nazionalità.
Hanno fatto questa scelta, perché
era un mese che scappavano.
Qui al campo dell’Arrivore è bello
perché attorno ci sono i prati. Se
soltanto sistemassero i bagni, staremmo
bene. Se tutto fosse a posto,
io preferirei restare qua dove sono
nata».
ZAIM
«Io abito in una casa, ma non sono
contento. Quando l’ho vista, ho
detto: “Non la voglio”. I funzionari
mi hanno risposto: “La devi
prendere per forza, altrimenti ti togliamo
il permesso di soggiorno”.
Mi hanno messo in una casa per
forza. Adesso vengo al campo di
giorno a lavorare. Nella casa vado
solo di notte, per dormire. Perché
non mi piace? Perché io sono cresciuto
qui in mezzo ai campi.
Con questa scusa dei permessi di
soggiorno, ci fanno scappare via.
Così più persone scappano meno
persone hanno da sistemare…».
GIULIANA
«Non è giusto dare il permesso di
soggiorno soltanto ad alcuni, escludendo
altri.
Se tu vieni qui la sera vedi bambini
scalzi, nudi. Non mangiano
più pasti caldi. Scappano in continuazione.
Non dormono da 20
giorni nelle loro abitazioni. Scappano
per le strade. Scappano dai
vigili e dalla polizia. Non è giusto.
Se siamo nati qui almeno lasciateci
stare. Io sono nata in Italia, a Brescia.
Sono 27 anni che sono qui all’Arrivore
e ho quattro figli.
Lavoro come le altre donne tenendo
i micro-nidi. Aiutate da assistenti
sociali, guardiamo i bambini
delle altre donne quando queste
vanno a chiedere l’elemosina o a lavorare
e non possono portarsi i
bambini con sé. Lavoriamo in un
container. Ma ora purtroppo
questo lavoro non c’è più
perché sono tutti scappati».
FATIMA
«Non vogliamo ritornare nel nostro
paese, dato che là non abbiamo
più niente: né terra, né casa, né cibo.
Io ho il permesso di soggiorno,
ma tanti qui sono senza. Gli italiani
disoccupati non lo sono per colpa
degli zingari. Gli zingari si occupano
di cose che agli italiani non interessano.
Qui, ad esempio, gli uomini
lavorano il ferro e il rame. È un
lavoro che gli italiani non fanno
perché ci si sporca sempre. Ci sono
60 famiglie in questo campo. Io è 16
anni che sono ferma qui, ma altri lo
sono da più tempo: 20-27 anni. Noi
paghiamo tutto: luce, acqua. Non
paghiamo il terreno, ma se ci chiedono
di pagarlo per rimanere qui lo
facciamo. Io ho quattro figli, che lavorano
nella demolizione. Hanno la
licenza e pagano le tasse. Cosa chiediamo?
Solo una cosa: vivere».
SPARITI!
Scuola / Gli «effetti collaterali» della legge Bossi-Fini
Sì, da circa metà gennaio i bambini nomadi della mia scuola
(circoscrizione 6 di Torino) sono spariti. Strano. Infatti
è proprio in inverno che noi insegnanti ne rileviamo la
maggiore frequenza. Come si spiega questo fenomeno?
I bambini non sono rintracciabili ai soliti recapiti. Anche i responsabili
del servizio di cornordinamento non ne sanno nulla. È
però facile immaginare che non frequentano più la scuola perché
le loro famiglie sono prive del permesso di soggiorno e pertanto
cercano di rendersi irreperibili per evitare di essere prese
e cacciate dall’Italia. Questo è un grave «effetto collaterale»
prodotto dall’applicazione della legge Bossi-Fini.
Il dispiacere circola tra tutti noi – insegnanti, educatori e volontari
-, che abbiamo lavorato per favorire l’inserimento nelle
strutture educative del popolo nomade.
In questi anni si era fatto molto per l’integrazione scolastica e
come insegnante debbo ammettere con piacere che il servizio
funzionava piuttosto bene.
COME FUNZIONA (O FUNZIONAVA)
I bambini vengono accompagnati a scuola da mediatori. L’Ufficio
mondialità funge da supporto e cornordinamento del servizio
ed è a disposizione delle scuole per ogni richiesta d’informazioni,
chiarimenti, accertamenti.
Nella mia scuola inizialmente non è stato
facile far accettare la presenza dei
bambini nomadi. In partenza vi erano
forti rigidità sia da parte del personale,
che dei genitori. Talvolta anche da alcuni
insegnanti.
I pregiudizi, i timori sono spesso più forti
della nostra stessa volontà di superarli
e ci condizionano. Gradualmente però
le divergenze si sono appianate e vi è stata
un’accettazione affettuosa di questi
bambini da parte di tutta la comunità
educante.
Questa è la riprova che sono i nostri pregiudizi
a bloccarci. Il contatto a tu per tu
fa scoprire il diverso come altro da sé, ma
allo stesso tempo uguale, quindi portatore
come noi di bisogni, ma anche di ricchezze.
Specialmente gli operatori, incaricati della
cura di questi bambini dal punto di vista
igienico, hanno progressivamente superato
le loro paure e istintivamente sono
scattati in loro atteggiamenti matei
e protettivi.
E i bambini tra loro? Questo ostacolo è
stato uno dei primi ad essere superato.
Anche perché i bambini non posseggono
ancora (per fortuna) tutte le sovrastrutture
mentali di noi adulti.
C’è stata qualche difficoltà iniziale: i
bambini si guardavano quasi a scrutarsi,
avvertivano istintivamente qualcosa di
diverso da loro e si evitavano. Poi la simpatia,
la giovialità e giocosità nomade
hanno favorito l’integrazione. Così anche
Patrizia e Bruno sono diventati parte
del gruppo. Noi insegnanti fatichiamo sempre un po’ a far
comprendere le regole della vita scolastica ai bambini nomadi,
abituati ad una vita molto libera e all’aria aperta, ma debbo dire
che le nostre fatiche sono state ampiamente ripagate dai risultati.
DOV’È FINITA PATRIZIA?
Patrizia, ad esempio, si è inserita molto bene ed ha interiorizzato
meglio di altri bambini i comportamenti positivi, le regole
della vita comunitaria, ed esige da noi insegnanti che nulla ci
sfugga di tutte quelle cose che la fanno sentire uguale ai compagni
(grembiulino, bavagliolo, pantofole, capelli in ordine…).
Ha acquisito il concetto di ordine, un comportamento corretto
a tavola, esprime interesse ed iniziativa creativa durante le attività
didattiche.
Ora che stava per avviarsi alla scuola elementare si mostrava
desiderosa di apprendere la scrittura. Scrivo al passato perché
Patrizia non è più presente a scuola e non sappiamo nulla di lei.
È forte il dispiacere che proviamo noi insegnanti nel vedere interrotto
un lavoro educativo che avrebbe certamente favorito
un inserimento positivo e costruttivo di questi bambini in una
società che sarà sempre più multietnica.
Silvana Vergnano