Inchiesta sui nomadi: giudizi, pregiudizi, realtà

«VIA DI QUI SPORCHI ZINGARI!»

Probabilmente sono ancora meno sopportati degli «extra-comunitari». Sono gli zingari, una popolazione dalla storia misteriosa e affascinante, che a causa
delle proprie modalità di vita non ha mai avuto un’esistenza facile. Disprezzati, rifiutati, guardati con sospetto.

Torino, campo nomadi dell’Arrivore.
È quasi l’alba del
17 gennaio 2003. Il campo è
immerso nel silenzio della notte, fa
freddo. Tutto è buio quando ad un
tratto irrompono i fari delle macchine
dei vigili urbani. Sanno già
dove andare e cosa fare.
Da giorni stanno pedinando la famiglia
di Romeo e Asnnia Ahmetovic
per procedere all’arresto.
Da giorni questa gente non dorme
al campo, ma qua o là, per le vie
della città, immersi nel gelo invernale.
Stanotte si erano concessi una
pausa che gli è stata fatale.
Colpevoli! Di che? Colpevoli di
nulla, ma senza documenti di riconoscimento,
quindi anche privi del
permesso di soggiorno. Eppure sono
una tranquilla famiglia rom: madre,
padre e cinque figli. Profughi
scappati dalla Bosnia a causa della
guerra. Vivono di elemosine o rivendendo
al Balón (un noto mercatino
di Torino, ndr) oggetti che recuperano
dalle nostre immondizie.
La loro vita sta tutta in quel carretto
contenente povere cose che
permettono loro di tirare a campare.
Sono quindi vittime due volte.
Vittime della guerra e vittime di
un’altra guerra più silenziosa e strisciante:
quella che la legge Bossi-Fini
ha scatenato sul territorio italiano.
Al campo si diffonde la voce:
– Li hanno presi.
– Sì, li hanno proprio portati via.
– Cosa ne faranno?
Prima sosta in questura. Ventiquattro
ore dopo escono con la loro
condanna: 5 giorni di tempo per
uscire dall’Italia.
Se li «ribeccano» il loro destino è:
il «Centro di detenzione temporanea
» di corso Brunelleschi, poi l’estradizione.
Mentre per i figli minorenni
è previsto l’inserimento in
una comunità, cioè la separazione
dal nucleo familiare (un modo molto
strano di difendere i diritti dei
bambini).
Tutto questo senza un’accusa valida,
senza aver commesso alcun
reato. Non hanno né rubato, né ucciso.
Papà e mamma vogliono bene
ai loro figli come qualsiasi altro genitore.
Ma questa è la legge. Questa
è la legge Bossi-Fini (e questo, nell’opinione
di chi scrive, è razzismo…).
D’ora in avanti gli episodi di questo
genere saranno sempre più numerosi.
Naturalmente avvolti nel silenzio
di chi non sa o non vuole né
sapere né vedere.
Il campo dell’Arrivore si trova alla
periferia di Torino, nei pressi
della località «basse di Stura».
Un terreno assolato, con pochi alberi
dove d’inverno fa molto freddo
e d’estate troppo caldo.
I torinesi per lo più ignorano la
presenza di queste persone; nei casi
peggiori manifestano nei loro
confronti aperta ostilità.
«Gli zingari sono sporchi, puzzano,
non lavorano, rubano». O, addirittura,
«ci danno fastidio per il
fatto stesso di esistere». Luoghi comuni
o mezze verità?
Per arrivare al campo, si percorre
una strada tutta buche. Alla fine,
dopo una curva, ecco comparire
tante «casette» e roulottes. Tutt’intorno
c’è fango, mentre spessi e
densi fumi circondano le abitazioni.
Questo è un campo-laboratorio:
gli uomini si guadagnano da vivere
con lavori di demolizione (per fare
questo spesso è necessario bruciare
dei metalli). Le donne, invece, con
l’aiuto di assistenti sociali, hanno
organizzato in un container un micro-
nido. Qui, in cambio di un piccolo
compenso, guardano i bambini
anche di quelle tra loro che hanno
trovato un’occupazione (magari
attraverso le «borse-lavoro» del comune)
in città.
Nel campo vivono circa 60 famiglie
rom, per lo più profughe dalla
Bosnia a causa della guerra.
La prima cosa che vedi recandoti
là sono i bambini che spuntano
immediatamente, come dal nulla,
appena ti vedono comparire.
«Chi sei?» subito ti domandano.
«Sono un’amica di Carla e Rita» (le
due sorelle suore che condividono
la loro vita, abitando lì in una roulotte;
vedi articolo successivo). Questo
li rassicura. Così ti dicono dove
lasciare la macchina, poi ti danno
l’ok e ti trotterellano intorno per
farti mille domande e raccontarti di
loro.
«Guarda cosa so fare» dice la più
piccoletta ed ecco una capriola dopo
l’altra. Poi ti mostra le caramelle
che ha in mano: «Ma se me ne dai
una delle tue è ancora meglio».
Ecco, i bambini rom sono così:
spontanei, giorniosi, sorridenti, socievoli.
Sono i più piccoli, perché i
grandi sono a scuola, tra breve
giungeranno con il pulmino. È un
servizio del comune per favorire la
scolarizzazione (alcuni giovani nomadi
ora svolgono il lavoro di accompagnatori
dei bambini o di mediatori
tra la scuola e le famiglie).
Eccoli, infatti. «La scuola non mi
piace – dice la più grande -. Un po’
ci vado, un po’ non ci vado perché
è tutto chiuso, si lavora sempre, non
si va mai fuori in giardino». «A
scuola manca l’aria…» aggiunge
un’altra.
Più difficile è avvicinare gli adulti:
sfuggono agli estranei o ti trattano
con opportuna cortesia.
«Tu qui – sembrano dirti – sei
un’estranea» e per un breve arco di
tempo vivi ribaltata la loro condizione.
Mi aggiro per il campo. Le donne
si affacciano curiose dalle loro
abitazioni. Tra loro c’è chi tiene
molto alla tradizione: è Fatima.
Mi concede di varcare
la soglia della
sua casa tenendo
le scarpe (loro
le lasciano
sempre fuori
dalla porta perché solitamente le
abitazioni sono rivestite di tappeti).
Sono giustificata perché sono estranea
alle loro abitudini ed ospite.
Entrando sorge spontaneo un senso
di riverenza.
La sua abitazione è «sontuosa»,
rivestita di drappi colorati e tappeti,
sullo sfondo s’intravede anche un
altarino di padre Pio. Con il suo
abito tradizionale e i suoi giornielli Fatima
sembra una regina. Sta preparando
un pollo per la cena: un’operazione
semplice e apparentemente
rude, eppure tutti i suoi gesti
denotano una signorilità non comune.
Il campo dell’Arrivore è stato
inizialmente scelto (erano gli
anni ’70) come area abitativa
per poche famiglie, circa una
decina.
In seguito il campo si è ingrandito:
sono arrivate nuove
famiglie, in particolare a
seguito della guerra nella
ex-Jugoslavia. Molti rom
hanno dovuto fuggire e
sono giunti qui in Italia
senza avere un posto
dove stare, senza cittadinanza.
Il campo andrebbe
migliorato: occorrerebbe
apportare
modifiche al terreno,
risistemare i
servizi igienici, ridare
nuova dignità
al luogo.
Tuttavia, esso è
situato sulle rive
del fiume Stura
dove un ambizioso
progetto
di riqualificazione
del quartiere,
situato
tra corso Giulio
Cesare e
corso Vercelli,
prevede: zone alberate, piste
ciclabili, nonché la realizzazione di
un parco fluviale. Questo progetto
quindi non prevede la permanenza
abitativa dei rom nel campo dell’Arrivore.
Per risolvere il problema
una delibera del 1999 ha individuato
un’area ad hoc per loro, in via
Germagnano.
Il progetto prevede la costruzione
di circa 16 casette bifamiliari in
muratura dotate di servizi, con un
po’ di terreno intorno e anche, come
«fiore all’occhiello», una costruzione
più ampia per le feste.
Allora c’è da chiedersi: dove sta il
«piccolo neo» di questo progetto?
Il problema è… il luogo. Un luogo
in cui nessun altro vorrebbe abitare.
L’area di via Germagnano, infatti,
si trova al centro di una zona
in cui stanno la tangenziale (quindi
i gas di scarico saranno tutti per i
nomadi), la ferrovia, due canili
(questo significa latrati continui
giorno e notte). Ma non basta.
Davanti all’ingresso del campo
una strada a scorrimento continuo
ha indotto i rom a chiedere una recinzione
per tutelare i loro bambini.
E, ciliegina sulla torta, ad appena
1 km di distanza c’è la discarica
dalla quale si sprigionano fumi e gas
tossici.
Neanche il canile voleva venisse
costruita quest’area in quanto ciò
avrebbe limitato lo spazio accessibile
ai cani e, in difesa del medesimo,
è stato detto (con involontaria
ironia) che «quella zona non è adeguata
nemmeno per i cani».
Inoltre, la costruzione del campo
crea tensioni fra gli abitanti della zona,
già scontenti di dover convivere
con il campo dei sinti di via Lega.
Visitandolo inoltre ci si rende
conto che le casette sono di piccole
dimensioni, se pensiamo che una
famiglia nomade di solito è assai numerosa.
Lo spazio circostante risulta
assai limitato.
Il problema sembra senza possibilità
di soluzione in quanto il progetto
è già stato deliberato ed è in
corso di attuazione. L’area si prevede
ultimata per il novembre
2003. Quindi, per il 2004 i rom verranno
effettivamente trasferiti qui
(se, nel frattempo, l’applicazione
della legge Bossi-Fini non avrà già
attuato per molti di loro l’estradizione…).

Il caso di Torino è emblematico
per capire la condizione dei nomadi.
Per riflettere su quanto sia
necessario fare per raddrizzare la
rotta e favorire l’integrazione e la
convivenza con queste persone.
I diritti proclamati dalla Dichiarazione
universale di Ginevra del
10 dicembre 1948 parlano chiaro
(diritto alla vita, alla salute , al cibo,
all’abitazione, alla dignità…) e sono
rivolti a tutti gli esseri umani
«senza distinzioni di razza, sesso,
età, religione…» (articolo 1 e 2 della
Dichiarazione). Questa proclamazione,
che è stata un grande
evento storico, è allo stesso tempo
una conquista continua per la quale
tutti quanti noi dobbiamo lottare
al fine di promuovere e rendere
effettivi tali diritti per ciascun essere
umano. Anche per chi, come i
nomadi, non vuole omologarsi al
nostro stile di vita e per questo è disprezzato, rifiutato o comunque
guardato con sospetto. Questo è il
nocciolo della questione zingari: la
difficile convivenza con il resto della
popolazione che non li vuole, li
rifiuta. Per questo spesso le politiche
dell’ente locale, nel vano tentativo
di accontentare tutti, finiscono
per operare scelte che vanno, ancora
una volta, a scapito dei più deboli,
di chi non ha voce, di chi non
è rappresentato da nessuno.
Non si può non sottolineare che,
nel linguaggio corrente, «zingaro»
è una parola razzista come «negro»,
«vù cumprà», «barbaro», ecc.
Spesso nel parlare quotidiano si
usano espressioni del tipo: «una casa
di zingari», per dire che è disordinata;
«essere come uno zingaro»,
cioè vestito male e sporco; «ti faccio
portare via dagli zingari», per
dire che sono cattivi (come l’«uomo
nero»).

UN POPOLO
SENZA VINCOLI,
«PADRONI»
E AMICI

DALL’INDIA ALL’EUROPA (1400)
Qualcuno li ha chiamati i «figli del vento»
perché il popolo zingaro è un popolo che
non ha vincoli né confini riconosciuti (stato,
caste sacerdotali, norme giuridiche, tribunali).
Vive della sua libertà e nella sua concezione
del tempo che è principalmente basato
sul presente e fortemente condizionato
dal nomadismo.
La loro cultura è sempre e solo stata trasmessa
oralmente da una generazione all’altra
attraverso leggende, consuetudini
che si svolgono durante le veglie intorno
al fuoco, come abitualmente le varie famiglie
sono solite fare, specie nei momenti
di festa.
La loro è una storia principalmente scritta
da altri, avvolta nel mistero, un rompicapo
anche per storici e studiosi.
L’origine del nome «zingaro» (o «zigano») deriva
probabilmente dal termine greco «athingano» cioè
«intoccabile» attribuito ad una sètta proveniente dalla
Frigia (regione storica dell’Asia minore), oltre che
a maghi ed indovini.
Le origini geografiche degli zingari sono state individuate
nel nord dell’India. Da qui si spostarono verso
la Grecia e l’Europa sud-orientale intorno all’anno
1000 d.C., si presume a causa dell’espansione islamica
o forse per una carestia. La loro lunga
migrazione attraverso l’Asia e l’Europa si svolse con
una lunga sosta in Persia (circa due secoli): dalle lingue
di questi paesi acquisirono i tratti della loro lingua,
il romanés. L’arrivo in Europa e in seguito nei
vari paesi europei si ebbe intorno al 1400.

PERSEGUITATI
Proprio il carattere sfuggente e misterioso di questo
popolo ha dato origine a pregiudizi, atteggiamenti
di ostilità e rifiuto che sono confluiti anche in vere e
proprie persecuzioni. Tutti i paesi europei adottarono
nei loro confronti, come minimo, bandi di
espulsione. In Francia vennero pressoché estinti. Di
fatto il nomadismo divenne una perenne fuga.
Nel secolo XVII li troviamo nelle Americhe deportati
come schiavi. Durante la seconda guerra mondiale
l’opera di sterminio di Hitler li condannò (come
gli ebrei) al genocidio (non meno di 500 mila zingari
vennero ammazzati).
Il loro principale torto è sempre stato quello di non
costituire uno stato, non avere una rappresentanza
diplomatica, non fare riferimento ad una terra chiusa
da confini.
Così essi sono divenuti nell’immaginario collettivo
dei «gagè» (termine con cui gli zingari definiscono
coloro che non appartengono al loro popolo) degli
untori, propagatori di malattie, ma anche degli inafferrabili,
primitivi, trasgressivi, ladri, delinquenti,
fattucchieri.
Non si riesce quindi a distinguere se queste opinioni
siano il frutto di uno stile di vita corrispondente a
questi termini oppure se gli zingari abbiano finito col
comportarsi ed agire nel modo con il quale essi venivano
identificati.
Una ricerca condotta in Inghilterra su un campionario
di letteratura per ragazzi (libri scritti negli ultimi
170 anni) rileva che in essa gli zingari sono rappresentati
come figure disprezzate, e si confermano
i pregiudizi ricorrenti. Così pure raramente la letteratura
ed il cinema deviano da questa visione stereotipata.
Recentemente il regista Emir Kusturica ci ha proposto
alcuni film («Gatto nero gatto bianco» e «Il
tempo dei gitani») in cui si evidenzia il mondo colorato,
fantastico e «fuori dagli schemi» dei gitani, trasmettendoci
la loro cultura fatta di: sogni, sangue,
barbare passioni che lasciano intravedere una umanità
ricca di vitalità.

IL RUOLO CENTRALE DELLA FAMIGLIA
Tratto culturale che accomuna e caratterizza tutti gli
zingari è il non riconoscimento della gerarchia salvo
quella che deriva dall’anzianità, dall’essere padre o
madre di famiglia o dall’essere reputato saggio.
La vita degli zingari è incentrata sulla famiglia allargata
attorno alla quale si organizza la vita comunitaria
ed è con essa che vengono prese le decisioni più
importanti quali spostamenti o insediamenti.
Attualmente si sta verificando una sempre maggiore
sedentarizzazione nei campi sosta, questo crea a
volte divisioni e smembramento del gruppo familiare
modificando così l’organizzazione tradizionale.
La famiglia singola ha un’importanza minore, anche
se è il matrimonio che segna l’ingresso nella comunità
degli adulti.
All’interno della famiglia esiste una divisione netta
dei ruoli tra uomini e donne ed è la famiglia che si
occupa principalmente dell’educazione dei figli con
ritmi e modalità propri.
La scuola è vista come un qualcosa di esterno ed
estraneo e per quanto le amministrazioni comunali
e le organizzazioni di volontariato si adoperino da
diversi anni ai fini di favorire al massimo l’integrazione
scolastica di questi bambini, essa resta un luogo
frequentato in modo discontinuo e talvolta conflittuale.

ROM, SINTI, CAMMINANTI
Il popolo zingaro o nomade (come impropriamente
viene chiamato in quanto il nomadismo è ormai assai
limitato: quasi tutti questi gruppi vivono da anni
in campi di sosta stabili) si suddivide a sua volta in
diversi sottogruppi di cui i principali sono: sinti, rom,
camminanti.
Gli zingari chiamano sé stessi «rom» che significa
uomo o anche marito (plurale «roma»). Donna si dice
«romnì» (plurale «romnia»). Attualmente la popolazione
zingara è stimata intorno ai 10-12 milioni
di individui sparsi nel mondo (6 milioni in Europa).
In Italia ci sono attualmente 100 mila zingari: 70 mila
di cittadinanza italiana e 30 mila di provenienza
jugoslava.
SINTI
I sinti sono il gruppo di gran lunga maggioritario. Sono
presenti in Piemonte fin dal XV secolo. I mestieri
sono incentrati da sempre sullo spettacolo viaggiante
(circhi, giostre, acrobati, giocolieri, musicanti) e altre
forme di lavoro meno diffuse quali la fabbricazione di
cesti in vimini, impagliatura di sedie, vendita porta a
porta, lettura della mano, questua.
ROM
I rom sono divisi in numerosi gruppi con caratteristiche
anche molto diverse tra loro. Provengono dall’Europa
centro-orientale: Romania e regioni della ex-
Jugoslavia (Macedonia, Montenegro, Bosnia, Serbia).
Con molta approssimazione possiamo dire che i rom
si dividono in due grandi gruppi: «karakhané» di religione
musulmana, «daxikané» di religione cristiana-
ortodossa.
In questi ultimi anni, sono aumentati i rom «profughi» a causa della guerra nelle regioni della ex-Jugoslavia.
Inoltre, vi è stato un consistente arrivo di
rom rumeni dal 1998.
CAMMINANTI
È una popolazione nomade per gran parte dell’anno,
principalmente insediata in Sicilia. Esercitano
piccoli commerci ed offerte di prestazioni artigianali
a sostegno dell’economia domestica.
Hanno le origini e la residenza nella Sicilia orientale,
in particolare nelle città e province di Siracusa,
Messina, Catania; cospicuo il gruppo che si autodefinisce
«camminanti di Noto».
Sostengono di avere sangue zingaro nelle vene. Riconoscono
di avere «origini sinte», ma ci tengono a
distinguersi dagli altri zingari in quanto il nomadismo
è praticato solo nella buona stagione, mentre in
autunno – inverno vivono in luoghi in cui hanno edificato
case confortevoli.

FONTE DI DISTURBO E DI CONFLITTO
L’impatto tra la cultura di questo variegato popolo
e la società attuale, dominata dal modello tecnologico,
ha dato origine ad una forte crisi d’identità.
Gli zingari presenti alla periferia delle nostre città finiscono
per essere vissuti come fonte di disturbo e
di conflitto sociale. L’attuale bisogno di sicurezza da
parte dei cittadini accentua questi problemi così essi
divengono spesso il capro espiatorio dei problemi
esistenti.
Spesso anche le amministrazioni comunali più attente
ai loro problemi non riescono a fornire risposte
adeguate e soddisfacenti, rispettose delle esigenze
di vita del popolo zingaro. Per questo è fondamentale
il ruolo assunto da diverse organizzazioni di
volontariato che svolgono, in modo difficile e delicato,
un ruolo di mediazione ai fini di favorie l’integrazione.
Tuttavia, mai come ora l’esistenza degli zingari è in
pericolo. Sono un popolo sempre più emarginato,
deprivato della propria identità e ridotto in condizioni
degradanti anche a causa delle rapide trasformazioni
sociali le quali non consentono di adeguare
alle nuove esigenze i moduli tradizionali della loro
cultura.

Silvana Vergnano

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