I GRANDI MISSIONARI: padre Giovanni De Marchi

È scomparso l’1 gennaio 2003, ma non è troppo presto per annoverarlo tra
i grandi missionari: Giovanni De Marchi è uno di quei personaggi
carismatici che suscitano
simpatia, ammirazione e venerazione, per semplicità, naturalezza e
molteplicità di azione. Innamorato di Maria, pioniere di tre continenti,
fece cose straordinarie
«nell’ordinario», come voleva il beato Allamano.

Nato ad Arsiè (Belluno) nel
1914, Giovanni De Marchi
entrò tra i missionari della
Consolata nel 1926 e fu ordinato prete
nel 1937. Licenziato in teologia e
sacra scrittura, insegnò tali materie
nel seminario teologico di Torino e,
nel 1941, fu nominato direttore della
casa di Roma. Riprese gli studi all’Istituto
biblico, ma non poté finirli,
perché fu inviato in Portogallo.
Nel 1940, il Concordato e l’Accordo
missionario tra Portogallo e
Santa Sede aveva allargato le porte
dei territori d’oltremare ai missionari
stranieri; un’enciclica di Pio XII esortò
i vescovi lusitani ad accogliere
nel paese ordini e istituti religiosi
stranieri, «per moltiplicare gli operai
dell’evangelo destinati alle colonie».
I missionari della Consolata furono
invitati ad approfittae e il vescovo
di Aveiro si dichiarò disposto
ad accoglierli. Dopo lunghe trattative
diplomatiche, il 10 giugno 1943,
in piena guerra mondiale, padre De
Marchi atterrò a Lisbona, con passaporto
vaticano, e iniziò la sua avventura
di missionario innamorato
di Maria.

COME UN PELLEGRINO
«Dopo quattro giorni di cammino
da Lisbona, giungo a Leiria – scriveva
padre De Marchi del suo “primo
pellegrinaggio” -. Ad ogni costo voglio
arrivare a Fatima prima di notte.
Ancora 25 km: 5 ore di cammino
». Trattenuto a lungo dal vescovo,
fu a destinazione a tarda sera, con
l’auto del prelato.
Era il 13 giugno: la spianata del
santuario brulicava di una marea di
pellegrini. Finita la cena, il padre si
diresse al santuario, per fare le sue
devozioni. Ma fu subito abbordato
da un gruppetto di pellegrini che gli
chiesero di confessarli. «Voi si» disse
agli uomini, lasciando le donne
costeate: a quei tempi era proibito
confessarle al calar della notte.
Pensava di cavarsela in fretta. Invece
si formò una coda che, quando
sembrava esaurirsi, si riproduceva
come file di formiche. Alle due di
notte poté entrare nel santuario. Avrebbe
voluto passare tutta la notte
in «veglia d’armi»; ma fu vinto dal
sonno e si ritirò nella sua stanza.
Il giorno dopo padre Giovanni si
sedette di nuovo nel confessionale,
per ascoltare le confidenze dei pellegrini,
mescolando spesso le sue lacrime
con quelle dei penitenti: alcuni
avevano le ginocchia sanguinanti;
tutti erano lì per adempiere un voto
per grazia ricevuta o chiedere un favore
per un familiare.
Il primo impatto col mistero di Fatima
restò indelebile; fu subito preso
da un impulso irresistibile: scrivere una
storia sulle apparizioni, diversa
dalle altre.
La signora Soledade Freitas, sua
insegnante di portoghese, cercò di
dissuaderlo o, almeno, convincerlo a
procrastinare, dato che masticava
appena la lingua lusitana. E gli riferiva
quanto Ti Marto, il padre dei
veggenti Francesco e Giacinta, diceva
a tutti i giornalisti: «È già tutto
contenuto nei libri». Alla fine fu anch’essa
travolta dal suo entusiasmo.
Padre Giovanni cominciò a leggere
i libri già scritti su Fatima; fece investigazioni
sui luoghi delle apparizioni;
raccolse informazioni sulla vita
dei tre pastorelli; ebbe frequenti
colloqui con Lucia, unica superstite
dei veggenti; interrogò ripetutamente
i testimoni più qualificati. Ridendo,
cantando e commuovendosi, si
metteva alla pari con i suoi interlocutori,
ne guadagnava la confidenza
e li faceva parlare.
Nacque così Era una signora più
splendente del sole, un’opera suggestiva
e completa sulle apparizioni di
Fatima, scritta con vivacità da reporter
e rigore storico, testimonianze
nella forma in cui le aveva ricevute e
fatti inquadrati nella coice dell’ambiente
e storia del paese.
Pubblicata in portoghese nel 1945,
l’anno seguente era già alla terza edizione;
oggi è alla 18a. Stesso successo
ebbero le traduzioni: 15 edizioni in italiano,
13 in inglese, 11 in spagnolo,
8 in francese e varie ristampe in altre
tre lingue. Analoga fortuna riscosse
la versione per ragazzi: La Madonna
parlò così ai tre pastorelli.

L’INFATICABILE
Ma lo scopo della venuta in Portogallo
era quello di aprire un seminario
per la formazione di missionari
della Consolata portoghesi. La meta
era chiara, il percorso tutto da
inventare, tanto più che si era nei
tempi difficili della guerra.
Era la prima congregazione religiosa
maschile che si stabiliva a Fatima.
Ma la calorosa accoglienza del
vescovo di Leiria e del rettore del
santuario furono per il missionario
un segno di speciale favore da parte
della Madonna, alla quale affidò tutti
i suoi progetti. E non restò deluso.
Padre De Marchi aveva fretta: a
quattro mesi dal suo arrivo, voleva
già iniziare l’anno scolastico con alcuni
aspiranti missionari. Ma il superiore
generale frenò il suo entusiasmo
giovanile, esortandolo a studiare
bene i piani.
Il padre comprò un terreno a un tiro
di scoppio dalla basilica, tracciò il
progetto di un grande seminario e
studiò i mezzi di finanziamento; fece
stampare cartoline e biglietti con
il bozzetto del progetto e li distribuì
a tutti coloro che credevano nella sua
avventura.
Al tempo stesso, per veicolare l’ideale
missionario, diede sfogo alla
sua vena letteraria. Sotto la guida
della signora Soledade, scrisse due
romanzi, Titìri e La figlia del Bramino,
il primo ambientato nel nord del
Mozambico, campo di apostolato
dei missionari della Consolata, l’altro
in India. Pubblicati a puntate su
due differenti mensili religiosi, videro
la luce come libri, rispettivamente
nel 1944 e 1946.
Tanta produzione letteraria non
deve far pensare che padre De Marchi
fosse un uomo da tavolino. Si
spostava da una parte all’altra del
Portogallo in treno, auto o una vecchia
bicicletta per allacciare contatti
e rastrellare fondi. La fama dei suoi
scritti lo precedeva; la rete di amici e
sostenitori si allargava sempre più,
tanto che la costruzione del seminario
non era più un’iniziativa venuta
dall’estero, ma sentita come una necessità
nazionale, per dare continuità
alla vocazione missionaria del popolo
portoghese. Riuscì perfino a ottenere
un sussidio dal governo.
Guerra e burocrazia diplomatica
non permettevano d’inviare rinforzi;
da solo aprì il seminario: il 3 ottobre
del 1944 accolse 11 ragazzi in una
casetta provvisoria. Per la scuola
si fece aiutare dalla signora Soledade
e da un seminarista imprestato
dalla diocesi di Aveiro.
L’anno seguente entrarono altri 12
aspiranti e arrivò il primo confratello;
altri sei nel 1946, segno che la direzione
generale dell’Istituto credeva
nel sogno del dinamico missionario.
Quello stesso anno fu benedetta
la prima pietra del nuovo seminario.
Aumentando gli studenti, nel 1947
furono affittati altri due edifici, per adibirli
a cappella, dormitorio e residenza
dei padri. I seminaristi più
grandi furono dislocati in una casa ad
Alenquer, a pochi chilometri da Lisbona.
Nel 1949 era pronta la prima
parte del grandioso seminario e gli
studenti tornarono tutti a Fatima.
Approfittando delle conoscenze di
pellegrini stranieri che transitavano
nel seminario, padre De Marchi si
spinge in Irlanda e Inghilterra e Stati
Uniti in cerca di sterline, dollari e
vocazioni.
Nel 1951, dopo sette anni infaticabili,
padre Giovanni vedeva consolidata
la presenza di missionari
della Consolata in Portogallo: il seminario
fu ufficialmente inaugurato;
la casa di Albuquer ospitava sei aspiranti
fratelli; a Fatima veniva aperto
il noviziato internazionale per
giovani di lingua inglese.

L’INARRESTABILE
A partire dal 1948 padre De Marchi
fece vari viaggi negli Stati Uniti,
per parlare agli emigrati portoghesi
di Fatima, seminario e missioni. Poi
si rivolse a tutti i cattolici americani.
«Padre De Marchi percorre instancabilmente
le arterie degli Stati Uniti
– si legge nel notiziario dell’Istituto
-, illustrando con impareggiabile
competenza il messaggio di Fatima
e l’attività missionaria del nostro Istituto;
ultimamente ha tenuto conferenze
con largo successo a Detroit,
Pittsburg e Boston» (Da Casa Madre,
settembre 1951).
Tali incontri includevano la proiezione
di un documentario sulle apparizioni
di Fatima e diffusione dei
suoi libri: Fatima the Facts (traduzione
inglese di Era una signora più
splendente del sole), The Crusade of
Fatima e The Imaculate Heart, un
trattato teologico diventato subito
un best seller.
Nel 1952 egli si stabilì definitivamente
negli Stati Uniti. Con l’aiuto di
due scrittori americani migliorò la veste
letteraria dei suoi libri; girò un
nuovo film a colori sulle apparizioni
di Fatima; lanciò Rainbow (1954), rivista
in cui combinava il messaggio di
Fatima con le urgenze delle missioni
in Africa e America Latina.
La Madonna di Fatima apriva tutte
le porte, come scriveva lo stesso superiore
generale, padre Domenico
Fiorina: «Già alcune vocazioni missionarie
si affacciano e saranno una
consolante realtà, appena ci sia possibile
organizzare il nostro seminario
missionario. Fu la Madonna di Fatima
ad aprirci queste porte, attraverso
le conoscenze fatte in Portogallo»
(Da Casa Madre, agosto 1952).
L’anno seguente padre Giovanni
aprì un seminario a Washington; tre
anni dopo una casa di studi a Pittsburg
per giovani missionari che, in
vista dell’apostolato in Africa e America
Latina, frequentavano l’università.
Intanto scovava madrine disposte
a sostenere gli studi universitari
di seminaristi e padri. Una di
esse era la moglie di Ford, il padrone
della casa automobilistica.
Furono 10 anni di attività febbrile,
chiamato da un capo all’altro degli
Usa da comunità religiose e parrocchiali,
associazioni e collegi, centri di
trasmissione radiofonica e televisiva.
Si recò più volte in Kenya, Tanzania
e Colombia per girare cinque documentari
sui popoli e sulle missioni.
Alcuni ottennero premi a livello
nazionale; di un documentario la
marina americana acquistò 12 copie
per i suoi centri di addestramento.
Con l’entusiasmo missionario che
sprizzava da tutti i pori, padre Giovanni
ammaliava quanti lo avvicinavano
e li coinvolgeva nel suo ideale.
E quando ne adocchiava uno ben disposto,
lanciava il sasso: «Perché non
diventi missionario?». Così scovò i
primi missionari della Consolata statunitensi
e più di 100 volontari laici
che inviò nelle missioni in Africa.
Al tempo stesso portò negli Stati
Uniti decine di studenti africani, procurò
loro borse di studio e benefattori,
li accompagnò come se fossero
suoi figli, per poi rimandarli a lavorare
per il bene delle loro comunità.
Bussando a uffici governativi e agenzie
filantropiche, inviò alle missioni
del Kenya, durante la rivoluzione
dei mau mau, tonnellate di aiuti
(vestiti, medicine, libri…) e
convinse un organismo parastatale
canadese a spedire contenitori con
generi alimentari non deperibili in
Kenya e Tanzania.

UN SOGNO TIRA L’ALTRO
Ingolfato in tanti progetti e attività,
sembrerebbe che padre De Marchi
non avesse tempo né spazio per i sogni.
Invece, come i gatti sognano solo
topi, egli sognava le missioni, ma
di lavorarci direttamente. Nel 1963
fu destinato al Kenya. Il figlio di un
amico americano, ricordandogli come
alcuni missionari erano stati appena
uccisi in Congo, da poco indipendente,
gli domandò se non avesse
paura. «Certo – rispose il padre
ridendo -. Ma solo un poco. Sono più
felice che spaventato. Essere lì quando
kikuyu, masai e altre etnie, incontrate
nei film, saranno liberi di governare
il proprio paese, è per me la
più bella avventura».
Proprio quell’anno il Kenya raggiungeva
l’indipendenza; ma i problemi
ereditati dalla lunga rivoluzione
mau mau erano enormi. Padre De
Marchi fu chiamato a Nyeri, come
segretario del vescovo africano Cesare
Gatimu e direttore del Centro
sociale diocesano: lavoro e grattacapi
da tenere occupati una decina di
preti; ma padre De Marchi se la
sbrigò da solo. Procurava aiuti per i
poveri di tutte le missioni; realizzò il
progetto della casa per anziani nella
missione di Gaturi; la scuola-collegio
per sordomuti e la «città dei ragazzi
» al Mathari (Nyeri) per centinaia
di orfani sottratti dalla strada.
Questi furono i suoi prediletti: li sfamava,
vestiva, mandava a scuola e,
soprattutto, li circondava di affetto.
E continuava con le sue visioni di
avanguardia: formare catechisti per
lo sviluppo delle comunità nascenti;
promuovere scuole e creare i futuri
leaders africani, sostenendone la formazione
scolastica e accademica.
L’indipendenza aumentava la sete
d’istruzione. Le scuole gestite dalla
diocesi di Nyeri accoglievano 110 mila alunni: c’era bisogno di insegnanti.
Più di una volta padre De Marchi
si recò in Europa, Canada, Usa e tornava
con decine di professori.
Intanto si profilava all’orizzonte lo
stesso sogno del beato fondatore,
Giuseppe Allamano: evangelizzare
l’Etiopia. I missionari della Consolata
vi avevano lavorato con successo
per quasi 30 anni; ma erano stati espulsi
durante la 2a guerra mondiale
e, per 25 anni, non c’era stato verso
di ritornarvi.
Nel 1970, padre De Marchi riuscì
a ottenere il visto per entrare in quel
paese. A sbloccare la burocrazia, raccontava
lui, fu la sua presentazione
come «missionario della Madonna
di Fatima».
Così descriveva il primo impatto:
«Viaggiando in bus, per strade impraticabili,
la vista della povertà di migliaia
di persone, zoppi, ciechi, lebbrosi,
è insopportabile. Avessi la fede
e la fiducia del Cottolengo! Quando
ho un buon pasto e dormo in un comodo
letto mi sento in colpa».
Ma fu il periodo più fecondo e felice
della sua vita. Stabilitosi a Meki,
vicariato di Harrar, con padre Lorenzo
Ori e una suora americana, egli
cominciò il lavoro di evangelizzazione
e promozione umana. Intanto
cercò altro personale: suore etiopiche
e di altre congregazioni e nazionalità,
volontari laici e, naturalmente, missionari
e missionarie della Consolata.
Nel giro di tre anni funzionavano
quattro parrocchie, con relative opere
religiose e umanitarie: scuole elementari
e «laboratorio permanente»
di arti e mestieri, dispensario e scuola
matea a Meki; istituto professionale
maschile e femminile, collegio
per ciechi a Shashemane; casa per
bimbi handicappati, in maggioranza
colpiti da poliomielite, a Gighessa e
Asella; cura dell’ospedale di Gambo,
con annessi lebbrosario, scuola con
500 alunni e fattoria agricola; e poi
scuole elementari e 35 dispensari in
tutta la regione.
Sotto il regime marxista-leninista,
instaurato da Menghistu con la sua
rivoluzione (1973-74), i missionari
della Consolata poterono continuare
l’evangelizzazione in Etiopia grazie
alle opere di promozione umana
avviate in quei tre anni.
Nel 1978 padre De Marchi passò
il testimone della direzione a un confratello
più giovane, padre Giovanni
Bonzanino; ma continuò per altri
10 anni le operazioni di sussistenza:
più volte volò in America e vari paesi
europei in cerca di personale (suore,
laici, dottori, preti fidei donum…)
e aiuti materiali d’ogni genere, specialmente
nei momenti in cui le carestie
infierivano con più furore.

EVANGELICA COLOMBA
Professore, pioniere in tre continenti,
scrittore di best sellers, conferenziere,
direttore di rivista, produttore
di film, manager, organizzatore
e amministratore di soldi a palate,
procuratore di vocazioni e collaboratori,
frequentatore di uffici governativi
e organizzazioni inteazionali…
Chi non lo ha incontrato di persona,
potrebbe pensare a padre De
Marchi come a uno di quei personaggi
artificiali, cui ci si presenta a
occhi bassi e cappello in mano.
Niente affatto. Schivo, modesto,
mai preoccupato della propria immagine,
gli bastavano un sorriso e una
battuta ingenua per celare la sua
volontà di acciaio inossidabile, mettere
tutti a proprio agio, allacciare amicizie
indistruttibili.
Nessun missionario della Consolata
ha maneggiato tanto denaro come
lui: ma non un centesimo rimase
attaccato alle sue mani. Nessuno lo
ha mai visto con vestito e scarpe nuove,
eccetto le rare volte in cui, di passaggio
in Italia, faceva visita ai parenti:
lo mettevano a nuovo da capo
a fondo. A chi gli faceva i complimenti
per l’eleganza rispondeva ridendo:
«Mi hanno messo la camicia
di forza».
Sempre sereno e pronto alla conversazione,
alla battuta, allo scherzo,
padre De Marchi si interessava di tutti
e di tutto, specie con i confratelli,
fino a sembrare un ficcanaso; ma vedeva
solo il bene. «Semplice come una
colomba», senza la minima «astuzia
dei serpenti», un giorno confidò
a un confratello: «Quando vedo una
donna, mi viene voglia di inginocchiarmi
e baciarle i piedi, perché in
ogni donna vedo una Madonna».

RITORNO A CASA
«Ho fatto un patto con la Madonna
– confidava ancora -: quando non
potrò più lavorare, per età o salute o
perché cieco, voglio tornare a Fatima
e passare gli ultimi anni ascoltando le
confessioni dei pellegrini».
Non diventò cieco; ma per il resto
fu esaudito. Dopo 18 anni in Etiopia,
forze e memoria cominciarono a traballare:
chiese e ottenne di tornare a
Fatima. Ma il suo cuore continuava
a battere per i lebbrosi e i bambini
handicappati, per i quali chiedeva
continuamente aiuti ai pellegrini.
Finché le forze glielo permisero,
continuò ad aiutare i parroci vicini e
lontani, ascoltare le confessioni in casa
e nel santuario, ad accogliere e intrattenersi
con la gente, sempre col
rosario e breviario tra le mani.
Da novembre 2002 non poté più
camminare: un martirio per un «ficcanaso
» come lui. E si preparò all’ultimo
viaggio, «contrattando» con
la Madonna il definitivo appuntamento:
spirò l’1 gennaio
2003, festa di Maria SS.
Madre di Dio.

Benedetto Bellesi

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