È un bisogno del cuore quello di ricordare un grande vescovo e un amico indimenticabile. Sì, don Tonino Bello, il profeta dei piccoli grandi gesti, cantore degli umili, innamorato della pace.
Don Tonino Bello, scomparso dieci anni fa è ancora presente in me: quanti ricordi e rimpianti! L’ho sempre considerato uno strumento nelle mani di Dio, per cantare e «portare ai popoli l’annuncio della salvezza», come dice un testo a lui molto caro. Non ho paura di dire che mi è stato maestro e padre, soprattutto nei momenti di discernimento del mio cammino di vita, della vocazione missionaria.
Credo avesse sempre desiderato essere missionario e lo faceva intuire in certe occasioni; come quando una volta, al visitatore della Pontificia unione del clero faceva domande proprio come uno di noi; o le sue lacrime durante la proiezione del film «Molokai»; e ancora il suo entusiasmo travolgente e partecipe nel conferire il mandato missionario a padre Vincenzo Mura (suo alunno e, poi, missionario della Consolata). Ma quanti gesti di pace e missionarietà lo hanno reso… famoso! Basti pensare ai tanti messaggi scritti per la «prima» guerra del Golfo, dove difese a spada tratta la scelta della non-violenza; il suo incarico di presidente di «Pax Christi», succedendo all’amico mons. Luigi Bettazzi; i suoi viaggi all’estero (in Australia, Argentina, Venezuela, U.S.A. per visitare i molfettesi emigrati in quelle terre; o in Etiopia, per un ritiro ai missionari; o a San Salvador, nel luogo del martirio del vescovo Romero); la marcia per la pace a Sarajevo, durante i suoi ultimi giorni, con la malattia che l’aveva già consumato.
Quando decisi di farmi missionario e averne parlato in famiglia, i miei genitori avevano invitato a pranzo don Tonino, non solo perché era nostro grande amico, ma soprattutto con la segreta speranza che mi convincesse a rimanere in diocesi. Quella volta «fallì» nel suo intento (almeno apparentemente), perché le sue parole non mi fecero cambiare idea. Vistomi agitato e piuttosto contrariato, mi confidò l’apprezzamento che aveva per i miei genitori; mi chiese soltanto di non dimenticarmi mai di loro. Il motto del suo episcopato: «Ascoltino gli umili e si rallegrino» (Sal 33,3), non sono state vuote parole, ma espressione concreta del suo cuore ardente e aperto a tutti, cominciando dagli ultimi e dai poveri.
Una sera dell’autunno 1984 ero andato a salutarlo a Molfetta, perché ero in partenza per la Colombia, dove avrei studiato teologia. Lo trovai impegnato a presiedere un incontro: con l’entusiasmo di sempre, raccoglieva consigli e dava suggerimenti per incrementare una pastorale d’insieme. Rimasti finalmente soli, mi offrì una «frisa» (pane tipico della gente del Salento), con olio e sale; poi, in casa e lungo il porto di Molfetta, parlammo a lungo. Mi accennò, tra l’altro, all’idea di prendersi un appartamento, lasciando il palazzo episcopale come dimora per i più poveri e centro culturale e teologico, a servizio della nuova evangelizzazione. Fu la più lunga chiacchierata con lui della mia vita (siamo arrivati alle ore piccole) e sembrava non sentisse la stanchezza della lunga e pesante giornata. Mi regalò anche il suo libro «Sotto la Croce del sud», frutto della sua visita pastorale agli emigrati in Australia, scrivendomi la dedica: «A Rocco, chiamato a essere testimone del Risorto».
Quella sera la ricordo come la celebrazione del mio primo mandato missionario, in un’atmosfera evangelica, presso le barche ormeggiate nel porto. Nel 1993, alla fine di luglio, ormai dopo la sua dipartita, arrivato in Sudafrica, riassaporai la gioia del porto di Molfetta, vedendo la costellazione della Croce del Sud: me lo sentii vicino, mentre mi incoraggiava a non aver paura e a saper «osare» nel mio nuovo lavoro apostolico.
A don Tonino piaceva ricordare i missionari con il versetto «Beati i piedi del messaggero che annuncia la pace», cioè che annuncia Gesù, la sua pasqua, il suo progetto, il suo amore, espressi in azione nella carità quotidiana. La sua parola era sostanziosa pregna di cultura umanistica, saggezza popolare e, soprattutto, imbevuta dello stesso Cristo, sapienza del Padre. Tutti comprendevano la sua parola; i dotti l’apprezzavano, riconoscendone lo spessore culturale; gli illetterati si affezionavano a lui, perché veniva loro offerto un messaggio evangelico di liberazione, capace di incoraggiarli e spingerli ad essere protagonisti nella storia. Soltanto in Colombia, studiando la teologia della liberazione, mi sono accorto di essere già stato introdotto a quel tipo di riflessione (che è anche metodologia missionaria), proprio da don Tonino.
L’unica volta che mi sono trovato a pranzo da lui, insieme a un missionario, ci aveva mostrato la sua piccola cappella; ricordo l’inginocchiatornio di fronte al tabernacolo, e un tavolo, su cui c’era la bibbia aperta, altri libri, la sua penna e manoscritti qua e là. Mi era sembrato di vedere simbolicamente la sapienza umana attenta ad attingere dalla sapienza divina. Don Tonino spendeva ore di adorazione durante le notti, pregando e scrivendo. In lui, la contemplazione diveniva azione e il suo dialogo col Signore era prototipo di nuove relazioni nella chiesa e nella società.
Dopo la visita in cappella, ci fece vedere gli oggetti esposti su un tavolo, parlandoci delle persone di diverse razze, culture e religioni a cui appartenevano. Ogni «pezzo» ricordava qualcuno, con nome e cognome, che lui aveva incontrato nel suo girovagare in diocesi, ma anche per l’Italia e all’estero. In quei segni c’erano persone che aveva aiutato e da cui era stato aiutato. Fu un animatore, un architetto, un poeta e cantore dell’annuncio ai lontani e credo di non esagerare venerandolo come uno dei padri della nuova evangelizzazione.
La scelta dei poveri non fu, per lui, solo una pia formula, ma uno stile di vita. Per questo ebbe a soffrire e, come Gesù, anch’egli non fu capito, ma invidiato e combattuto; eppure non ebbe mai sentimenti di rancore con nessuno. Neanche quando, in televisione, cercò di esprimere un’alternativa di pace alla guerra del Golfo, in una trasmissione condotta da Santoro. In quell’occasione, venne interrotto moltissime volte da interventi in diretta, tanto che non gli fu possibile presentare la sua posizione pacifista e non violenta.
Considerando queste difficoltà, così accentuate in certi momenti, è molto probabile che, se fosse stato missionario in America Latina, o in qualche paese dell’Africa, avrebbe senz’altro pagato con la vita la sua fedeltà al vangelo e la coerenza delle sue scelte, fondate su una fede semplice e filiale. Poche ore prima della sua dipartita, chiedeva di collocare sulle pareti della sua stanza quadri della Madonna (chissà se non c’era anche quello della Consolata), per essere sicuro di morire, fissando lo sguardo su uno di essi. Don Tonino discepolo fedele ha celebrato le nozze dell’Agnello entrando nel suo regno di giustizia e di pace attraverso Maria, sospirando le parole di tanta gente sofferente del Salento: «Mamma mia, Madonna mia!». E fidandosi fino in fondo di quel Dio a cui aveva dedicato, con amore appassionato, tutta la sua vita.
Rocco Marra