TRE DOMANDE

1. Quante delle cose che fa la chiesa oggi nel mondo
(dal papa ai vescovi, parrocchie, istituti missionari,
associazioni di laici, ecc.) sono «comunicazione
del vangelo»? Quante di esse non sarebbero
fatte da ogni buona religione o ente
umanitario? Esigenza di riscoprire l’essenziale, di
tornare al nocciolo della questione. «Marta, Marta,
tu ti affanni per troppe cose! Di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte buona e nessuno gliela
porterà via» (Lc 10,41-42). Le nostre riviste «missionarie» sono comunicazioni di vangelo? Come?
2. Il problema principale della comunicazione
del vangelo è dato dal fatto che esso è legato
alla nostra vita. Teologicamente la cosa ha uno
spessore molto più grande
di un banale invito alla
coerenza: noi siamo il
Cristo risorto! Certo,
non solo noi, ma il «corpo
esteso» del risorto è la
chiesa nel mondo, dalla
«prima domenica» alla
fine della storia («Ecco,
io sono con voi tutti i
giorni fino alla fine…»
Mt 28). La resurrezione
di Gesù va mostrata,
non dimostrata. Quindi
non c’è che una strada:
la conversione, la costante riforma della chiesa, il
tornare ad essere comunità cristiane.
Oggi il più grande problema missionario è una
chiesa che non intende convertirsi al vangelo. Ogni
discorso missionario – anche sulle nostre riviste – non
può che essere un discorso di radicalismo evangelico
(per esempio, sulla nonviolenza, ma anche sulla
povertà, lavarsi i piedi gli uni gli altri, perdono dei
nemici, sull’indissolubilità del matrimonio…).
Queste due domande potrebbero far nascere il sospetto
di un certo fondamentalismo (nec nominetur
in nobis!), se non fossero accompagnate da una
terza domanda, la più profonda e la più disattesa.
3. Continuiamo a concepire l’incarnazione, e
quindi la missione, come la venuta di Dio nel
mondo, per cambiare il mondo («il Verbo si è
fatto carne» Gv 1,14; «Dio ha tanto amato il mondo
da mandare il suo figlio unigenito… perché il
mondo si salvi per mezzo di lui» Gv 3,16.17; «Dio
ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo, perché
avessimo la vita per mezzo di lui» 1 Gv 4,9).
Questa è la teologia giovannea, che esprime senza
dubbio una realtà fondamentale della nostra fede.
Ma l’abbiamo un po’ assolutizzata. In qualche
modo confondiamo la preesistenza del Verbo con la
preesistenza di Gesù Signore.
La prospettiva dei sinottici e specialmente di Paolo
è diversa: è quella di un Dio che prende un uomo
concreto, storico, Gesù di Nazaret, e lo assume all’interno
della Trinità. Un Dio che prende un volto
umano. Abbiamo mai pensato che, con l’incarnazione,
l’uomo Gesù è entrato in Dio e ha cambiato
il volto di Dio? Dio si è reso permeabile a tutto ciò
che passa nella storia
umana e nel cosmo.
È una riflessione, questa,
che cambia tutta la
rigidità dell’istituzione
ecclesiastica: la chiesa
non preesiste all’assunzione
della realtà
umana nel suo divenire.
La chiesa si forma come
un bambino nel seno
della madre e il sangue
che gli porta
nutrimento è ciò che
succede nel mondo.
Certo l’essere è già prefigurato, ha un codice (il codice
è Cristo, è il vangelo), ma non sappiamo ancora
quello che sarà. Della chiesa non abbiamo scoperto
che un lembo: sappiamo ciò che è stata, non
ciò che sarà.
Le riviste missionarie sono un po’ quel cordone
ombelicale che portano sangue all’«embrionechiesa
»: esse non devono avere solo la prospettiva
del «portare la chiesa al mondo», ma anche quella
di «portare il mondo alla chiesa».
Portare il mondo alla chiesa significa in concreto valorizzare
tutto ciò che è salvabile nel mondo d’oggi,
anche in un mondo così dissacrato e dissacrante, ateo
e disumano. Le riviste missionarie sono riviste di denuncia,
ma anche di annuncio di tutto ciò che di buono
il mondo d’oggi presenta; a servizio di un dialogo
esistenziale difficile, pluriforme, spesso rifiutato, ma
essenziale al divenire della chiesa-regno di Dio.

Francesco Grasselli

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