SENEGAL: viaggio tra le aspirazioni della gente

CAMARÀ O MARABOUT?

Islam, calcio, telenovelas
e tradizione del Senegal.
Come nasce l’antipatia per l’occidente?
Anche da una rovesciata volante.

Camarà e Marabout: chi sono?
Il primo è l’unico vero idolo
nazionale del Senegal, autore
del goal più importante della storia
dei «leoni» contro la Francia nell’ultima
coppa del mondo.
Se c’è una data che un senegalese
mai dimenticherà, questa è il 2 luglio
2002. A distanza di mesi, l’intero
paese freme ancora dalla gioia per la
vittoria sull’ex colonizzatore. Gli articoli
di giornale si sprecano, cartelloni
megagiganti, piazze commemorative,
ricordi da raccontare ai nipotini,
che accrescono il mito.
Non è da escludere che fra qualche
anno il risultato della partita sarà
lievitato dal reale uno a zero a un più
leggendario cinque a uno, gol della
bandiera generosamente concesso ai
francesi.
Il secondo, il marabout, un marabout
qualsiasi, è una figura tipicamente
maliana e senegalese dell’islam:
capo della scuola coranica della
città o villaggio, mezzo muezzino,
mezzo santone, mezzo autorità religiosa,
mezzo chissà cos’altro. Un ibrido,
un biohazard religioso quasi.
Lui, l’ibrido, sta combattendo una
guerra che non gli dispiace perdere;
anzi, più che una guerra, un derby.
Dall’alto dei minareti le nenie continuano
assordanti; la faccia del leader
spirituale della confrateita più
importante del Senegal, Mustafà
Cheick Mouhamadou Bamba, è
stampata in ogni dove; gli adesivi di
Osama Bin Laden sono in bella mostra
su tutti gli autobus… Nonostante
tutto, il marabout (ossia l’islam radicale
e oppressivo) perde d’interesse
soprattutto tra i giovani.
Isani valori dello sport: fatica, sacrificio
e anche la vittoria finale,
gettano nel cestino le cantilene
spacca-cervelli degli invasati, le varie
jihad, l’islam peloso che ingrassa sulle
spalle dei più deboli.
Dove non arriva la guerra del «bene
» contro il «male», di bushiana ideologia,
arrivano gli ubriacanti dribbling
di Henry Camarà e compagni.
Già, così potrebbe essere; ma così
non è: i giovani senegalesi si trovano
in un bel guaio, schiacciati tra il furore
islamico e la nuova religione laica,
spargisogni di plastica.
Parlando con questi ragazzi che
detestano ideologicamente l’occidente,
ma sbavano per tutto ciò che
questo gli propina, la situazione diventa
terribilmente complicata e pericolosa,
quanto un’illusione troppo
inseguita.
L’illusione della ricchezza materiale
trova il suo apice nel calcio e deborda
oltre i limiti della passione, per
diventare ossessione.
E non già tra i giovani poveri o poco
scolarizzati, bensì tra gli studenti
liceali: come prima cosa sognano il
pallone in una squadra italiana; poi,
in successione, il tecnico informatico
in Francia, il designer a Berlino, per
arrivare giù giù in fondo: qualsiasi lavoro,
purché fuori dal Senegal.
Coloro che potenzialmente potranno
guidare questo paese hanno
tutti, letteralmente, il desiderio di andare
via: in Italia soprattutto, ma anche
Francia, Spagna, Germania.
Il calcio, con i suoi stereotipi inossidabili
ricevuti in tutte le case
del Senegal, grazie alle paraboliche
che captano i segnali europei,
diventa una punta diamantata
nel processo di rimbambimento di
una generazione.
Quale può essere il futuro di un
paese dove il padre desidera che almeno
un figlio vada via dal Senegal e
tutti i figli desiderano scappare?
Fuggire non da qualcosa (la situazione
economico-politica senegalese
non è il paradiso, ma neppure l’inferno),
ma verso i peggiori cliché che
l’occidente esporta all’estero a palate:
soldi facili, sesso, dissolutezza,
mancanza di valori, ateismo.
Basta accendere il televisore e
guardare la telenovela più seguita del
Senegal: la storia di una ragazza che
s’innamora di uno spasimante telefonico,
che finge di essere un ricco
emigrato in Italia; è invece uno studente
squattrinato che, svenandosi,
la ricopre di regali e gingilli vari.
Calcio e televisione: episodi di costume,
si dirà. No! Anche il nuovo
presidente, Wade, spinge sui tasti
della religione e del progresso, a noi
tanto caro. Il suo credo si riassume
in due parole: Allah e sviluppo economico.
Progresso che comincia ad avere
aspetti inquietanti: esso potrebbe
essere rappresentato
dalle foreste vergini abbattute a colpi
di bulldozer per fare tamburi da
vendere ai turisti che, a casa, faranno
poi bong bong due volte; oppure dalla
totale sudditanza alimentare dalle
importazioni, a caro prezzo, di qualsiasi
prodotto, dimenticando gli alimenti
senegalesi tradizionali, perché
ormai troppo vecchi, non modei.
E ancora i mari depredati dalle meganavi
giapponesi, che in cambio donano
ai villaggi di pescatori qualche
scuola o fatiscente punto sanitario.
Anche i villaggi turistici per bianchi
sono chicche imperdibili. È particolarmente
istruttivo, ad esempio,
godersi la piscina in riva all’oceano,
oppure l’erbetta all’inglese, innaffiata
tutto il giorno, o ancora le fontanelle
a getto continuo. Però, fuori
dei muraglioni di cinta stile gulag sovietico
dei centri-vacanze, i senegalesi
fanno chilometri per attingere
qualche secchio d’acqua, poiché la
falda è scesa troppo nel sottosuolo.
Certo, tutto questo permette a
molte persone, soprattutto sulla costa,
di mettere insieme il pranzo con
la cena, una televisione e, magari, anche
un’auto. Tutto, però, appare precario
in questa economia, basata sul
desiderio consumistico dei «tubab»
(bianchi). Quest’anno, per esempio,
il mancato arrivo del rally Parigi-
Dakar, spostato sulle più danarose
spiagge egiziane di Sharm ash
Chaykh, ha provocato un tracollo di
entrate agli abitanti di Lac Rose.
E il marabout ride sotto la fluente
barba per questo crollo economico…
Così scorre il tempo e il fatalismo
attendista africano appare
addirittura meno pericoloso
di questo continuo indaffararsi dei
nuovi rampanti senegalesi.
Per tutti arriva il momento della caduta
dei miti e capiscono che non ci
sarà mai la possibilità di essere calciatore
della Juventus, tecnico informatico
a Parigi, designer della Volkswagen;
e nemmeno giù giù in fondo,
nei lavori più umili, li vorranno, perché
l’Europa ha chiuso le porte e non
si passa più.
Peccato che anche le foreste stiano
terminando, il mare diventi giorno
dopo giorno meno pescoso e la
gente dei villaggi adiacenti ai centri
turistici risulti sempre più infuriata,
a causa del viavai di ragazze, talvolta
anche bambine, che varcano le porte
carraie la sera per uscie al mattino
dopo…
Indovinate: nelle braccia di chi finisce
questa massa di disillusi, arrabbiati?
Chi gode per questo crollo
dei sogni made in Europe?
Bravi, avete capito.
Ecco come s’ingrossa l’odio verso
l’occidente (e anche contro i cristiani):
prima esso abbaglia con le sue lucine
e rovesciate volanti; poi lascia
tutti a bocca asciutta e li scaraventa
nelle braccia ben tese del radicalismo
musulmano. Così una generazione
si sente rifiutata da quei luoghi
che un tempo adoravano, ma che ora
disprezzano.
Dove risiede la speranza? Nell’interno
del paese; ed è molto
più di una speranza. Nei
villaggi ove sopravvivono ancora forti
tradizioni e culture antiche; dove
sia Camarà che il marabout altro non
sono che due esseri mal sopportati,
entrambi estranei al Senegal.
Villaggi dove si mangia ancora tutti
insieme, con le mani e dallo stesso
piatto; dove l’economia, sostanzialmente
chiusa, fa rima baciata con sobrietà
e, quindi, con felicità.
Qui nessuno ha l’ossessione della
maglietta del Manchester United;
perciò il marabout ha poco da aizzare
contro l’occidente, predone e infedele,
traditore di tante promesse.
Qui una partita a calcio resta ancora
un momento di svago e la preghiera
un attimo di gioia e
riflessione interiore, non
un giuramento di vendetta.

Maurizio Pagliassotti

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