Esiste il giornalista «obiettivo»?

Nessuno è obiettivo. L’importante è usare correttezza,
prudenza, onestà. E sottrarsi ai condizionamenti
che assediano questo difficile lavoro.

Mi chiedono spesso come faccio a essere obiettivo. Faccio fatica
a rispondere perché se dicessi di esserlo sarei un bugiardo,
ma so anche che, se dico di non esserlo, passo per un cattivo
giornalista. Spiegare certe cose richiede tempo. E richiede
anche una certa attenzione da parte di chi ascolta. Invece il tempo
è poco e spesso anche chi ha fatto la domanda si stanca presto.
Siamo ormai tutti abituati a risposte brevi, essenziali, le preferiamo
a quelle lunghe, complesse. Spesso anche rendendoci
conto che le risposte brevi, essenziali, sono spesso anche le più
sciocche e cioè le più false. La televisione ci ha abituati tanto alla
stupidità quanto alla falsità.
Invece, in questa mia rubrica per Missioni Consolata ho un po’
di spazio e di tempo per parlarne. Cioè per dire come la vedo io.
E io la vedo così: obiettivi non si può essere. Nessuno è obiettivo.
Direi di più ancora: guardatevi da chi afferma di essere obiettivo,
perché probabilmente sta cercando di piazzare della merce
avariata dandola per buona.
Dire che si è obiettivi nel riferire un evento è come affermare
che ci si può spogliare della propria visione del mondo,
delle proprie idee, della propria storia. È come scrivere, o mostrare
immagini, lasciando a casa la testa, e anche il cuore.
Nessuno lo può fare. Chi dice di poterlo fare è automaticamente
un bugiardo.
Naturalmente il criterio è un altro, come tutti i giornalisti degni
di questo nome hanno sempre saputo: distinguere il resoconto
dei fatti dal commento. Essere quanto più possibile fedeli a ciò
che si è capito, e poi – avvertendone il lettore o lo spettatore – commentare
ciò che si è capito con il corredo delle proprie opinioni,
esplicitamente esposte e non fatte passare come delle verità obiettive.
È la regola aurea che l’autorevole tradizione del giornalismo
anglo-sassone ci ha tramandato.
Ma voi avrete notato che ho messo in corsivo quattro parole. Sono
decisive. Perché oltre alla correttezza con cui si deve riferire, o
mostrare, un evento, c’è anche la prudenza necessaria nell’interpretare
ciò che si è visto. Perché si dà il caso che uno abbia visto
una cosa senza capirla e finirà quindi per riferire e mostrare ai telespettatori
e ai lettori soltanto il suo errore d’interpretazione.
Cioè la correttezza di chi fa il giornalista consiste non soltanto nell’essere
quanto più possibile fedele ai fatti, ma anche poco corrivo
a dare per certe cose che invece certe non sono, perché non le
si è comprese fino in fondo.
Ecco un’altra difficoltà che si erge contro l’obiettività. Ma quanti
sono i giornalisti che fanno esplicita professione di incertezza?
Io ne conosco così pochi che starebbero comodamente sulle dita
di due mani. Di regola si fa il contrario: cioè si manifesta certezza
anche quando si è consapevoli che esiste il dubbio. Anche
perché il signor Direttore non ti permetterebbe di spaccare il capello
in quattro. «La gente – direbbe – non vuole dei cacasenno,
vuole cose chiare, sintetiche, essenziali. Vuole delle verità». Forse
ha ragione il signor Direttore, ma questo rende molto difficile essere
obiettivi, anche a chi volesse provarci.
E poi c’è il problema della complessità. Il mondo è sempre stato
una cosa complicata, ma negli ultimi tempi lo è diventato ancora
di più. Fare bene il giornalista significa sapere un sacco di cose,
studiare molto. Capire comporta un grande sforzo. E una grande
indipendenza intellettuale, una grande capacità di sottrarsi ai
condizionamenti che ti circondano, agli ostacoli che vengono attivamente
frapposti tra il giornalista e la verità e la realtà. Se non
hai tutte queste doti nel tuo bagaglio, cui aggiungere una discreta
dose di coraggio (non sto parlando di sprezzo del pericolo, mi
riferisco alla capacità di tenere la schiena diritta quando cercano
di fartela piegare), difficilmente si può essere obiettivi.
Ecco perché io penso che da un giornalista non si debba pretendere
l’obiettività. Al contrario si pretenda che egli sia onesto, che
dica con franchezza ciò che ha capito, e con altrettanta franchezza
dica ciò che non è sicuro di aver capito. Che esprima le sue opinioni,
apertamente, affinché chi lo legge o lo vede in tv sappia che
sono le sue opinioni e nient’altro che le sue opinioni. Sarà il lettore
a decidere se gli piacciono, oppure non gli piacciono.
Un buon giornalista è un buon educatore. Non nel senso che
deve fare prediche, come quelle che si leggono su certi editoriali
seriosi dei giornali paludati «d’opinione», ma nel senso
che deve aiutare chi legge (e chi guarda la tv) a difendersi dai
finti giornalisti «obiettivi», insegnando ai primi a esercitare il
massimo spirito critico nei confronti di tutto ciò che viene loro
propinato.
A proposito: avrete notato che ho messo in corsivo anche la parola
opinione. Già, perché essa rivela involontariamente che i
giornali d’opinione non sono obiettivi. Fanno opinione proprio
perché non sono obiettivi. Cioè il loro scopo è quello di creare
un’opinione. Che poi è la loro, mica la vostra. Hanno diritto di
farlo, naturalmente, purché non spaccino la loro opinione con
l’oggettività. Il che, invece, purtroppo, è quello che pretendono
di fare. Tutti i giorni.

Giulietto Chiesa

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