DIALOGO il «laboratorio» delle scuole

«MAMMA, IL MIO COMPAGNO DI BANCO È…»

… latinoamericano, marocchino, albanese, cinese, nomade. La convivenza con l’altro è ormai un dato di fatto: sull’autobus, per strada, nei luoghi di lavoro.
Ma come si fa a passare dalla «convivenza» (dettata dalle circostanze) all’«incontro» (dettato dall’essere persona)?
L’esperienza nelle scuole, dove i bambini italiani condividono i banchi con coetanei
provenienti da ogni paese, è fondamentale per costruire la società del futuro, in cui «l’altro» sia accettato nella sua diversità, senza «se» e senza «ma».

Quale significato ha ancora
oggi il nostro essere cristiani?
Se ci analizziamo senza
veli, ci accorgiamo che siamo sempre
più influenzati dal vivere secondo la
nuova fede emergente, l’economia,
il mercato, e sempre meno secondo
il significato più profondo della nostra
fede, l’amore e la fratellanza per
i nostri simili.
Il consumismo sfrenato, il consumismo
ad ogni costo è ciò che detta
legge al nostro agire, anche ora che
da tutti i pori traspira aria di crisi, aria
di recessione.
Consumismo come unico piacere
che ci rimane, che ci illude perché
abbiamo perso il gusto per la gioia di
vivere vera, quella che scaturisce dalle
piccole cose, dall’incontro con gli
altri, dal vivere insieme.
Se siamo persone che hanno ancora
valori saldi in cui credere, dobbiamo
cercare di disinquinarci da
questo mondo, ritornare all’essenza
delle cose, a ciò che vale profondamente,
anziché autornassolverci sempre
perché… «tanto così fan tutti».
Ed è proprio per questo che noi,
come occidentali e specie in quanto
cristiani, abbiamo ancora qualcosa
da imparare e questo qualcosa lo
possiamo scoprire ricercando l’incontro
con l’altro, il diverso da noi,
con il quale conviviamo ormai gomito
a gomito: sull’autobus, per la
strada, nei luoghi di lavoro.
Tuttavia convivere non vuol dire
ancora incontrarsi per davvero; anzi,
spesso è solo un passarsi a fianco
di stranieri e italiani che si guardano
furtivamente, a volte con fastidio.
LA SCUOLA, LUOGO PRIVILEGIATO
La scuola, in particolare, è uno dei
luoghi privilegiati in cui la molteplicità
delle culture è chiamata a convivere.
I nostri istituti scolastici sono
sempre più popolati da bambini di
tutte le nazionalità: albanesi, senegalesi,
marocchini, cinesi, latinoamericani,
nomadi.
Noi insegnanti siamo chiamati ad
accogliere i bambini di queste famiglie
straniere: non avere atteggiamenti
di chiusura o
rifiuto, dettati dal pre-giudizio,
è già un primo passo.
Ma cosa vuol dire accogliere
veramente?
Spesso è, ancora una
volta, qualcosa che sta
sulla carta (il progetto
bello, che produce finanziamenti),
lontano
dalle persone reali.
Così non spostiamo di
una virgola la nostra
progettualità, non mettiamo
in discussione noi
stessi.
Si dice: «La nostra cultura
è quella cui loro si devono
adeguare. Non c’è altro da
aggiungere». Al massimo si
chiede al genitore di fede islamica
di tradurci in arabo
una frase augurale per il nostro
natale. Quale umiliazione
può essere più grande?
Negare la loro fede è negare
la loro identità.
Noi occidentali siamo abituati
da ormai lungo tempo ad esistere
come se fossimo il centro del
mondo e poi, suvvia, «sono loro che
sono venuti qui da noi… a rompere…;
che lavorino e stiano zitti… è già
tanto che li ospitiamo…».
Queste persone popolano i nostri
ambienti, la scuola in modo umile e
silenzioso, non ci si accorge di loro,
a meno che non si voglia aprire gli
occhi.
Se li apriamo e li guardiamo anche
con il «cuore», ci viene voglia di incontrarli
e conoscere la loro vita. Se
poi ti fermi un attimo e fai parlare loro
cominci a… vergognarti di essere
italiana.
Ti vergogni di far parte di una nazione
che ha approvato una legge
razzista com’è, di fatto, la legge Bossi-
Fini.
È capitato così un giorno di novembre.
Dopo aver aderito all’appello
per la giornata del «Dialogo
cristiano-isl-Amico» indetta per il
29/11/02, mi rileggo l’appello (vedere
riquadro) e penso che quanto si sta
organizzando è bellissimo. Occorre
tuttavia che ciascuno di noi concretizzi
questi ideali, calandoli nella
realtà quotidiana in cui opera. Ovvero:
dobbiamo dare risvolti sempre
più concreti alle nostre parole.
A scuola si parla di fare il presepe
perché «non dobbiamo rinnegare le
nostre tradizioni…» (anche se spesso
dentro di noi la fede è qualcosa di
così appiccicaticcio che, per sentirci
cristiani, dobbiamo accendere tutte
le luci e addobbarci come tanti alberi
di natale: non sarà perché siamo
spenti dentro?).
Va bene per il presepe, ma propongo
di dare spazio anche al ramadan.
La proposta inaspettatamente
passa. Così incontro e conosco Yasine,
la madre di Dalal, e le altre.

YASINE: MAMMA E IMMIGRATA
Queste mamme sono tutte persone
timide, umili, silenziose. Non ti rivolgono
la parola se tu non lo fai per
prima; caso mai un timido cenno di
saluto col capo.
Insieme cerchiamo di raccontare
semplicemente cos’è il ramadan: è un
piccolo spiraglio per favorire l’incontro
tra famiglie di culture diverse.
È un’opportunità da sperimentare.
Parlando e dialogando scopro e
ammiro la serenità, la forza, la convinzione
con cui queste persone vivono la loro fede. Penso a quanto abbiamo
da imparare noi cristiani sempre
più tiepidi, sempre meno praticanti
o praticanti per abitudine. Forse,
se c’è una cosa che dobbiamo
temere, è questa: la forza con cui
queste persone sostengono la loro fede
che a sua volta rafforza la volontà
di non perdere le proprie radici e la
propria identità.
E la serenità con cui vivono un periodo
di digiuno e sacrificio com’è il
ramadan fa a pugni con la realtà quotidiana
che sono costretti a vivere.
La mamma di Dalal, per esempio,
colta e istruita, qui in Italia non è nulla.
Il marito e lei hanno perso il lavoro,
perché la cornoperativa ha chiuso;
così da luglio in avanti tirano a campare.
«Come non so – mi dice -, ma
di certo… tutti i risparmi se ne sono
andati».
Hanno 2 figli: il più piccolo quest’estate
l’hanno lasciato in Marocco:
«…perché qui… come faccio a sfamarlo?». Poi il cuore ha battuto più
forte; così papà e mamma si sono fatti
imprestare i soldi da amici e l’hanno
riportato in Italia, con loro.
Ora pensano di vendersi la vecchia
macchina. Se hanno la macchina gli
vengono negati i sussidi, ma senza
come fare se capitasse al marito di
trovare un lavoro anche distante?
Per fortuna hanno il permesso di
soggiorno, ma questa vita quanto
può durare? E quanti sono quelli che
vivono nelle medesime condizioni?
Le insegnanti della vicina scuola elementare
hanno ripreso una vecchia
abitudine da tempo dimenticata:
riempire cartelle e zaini di diversi dei
loro alunni stranieri con i resti delle
merendine avanzate. In silenzio le famiglie
accettano queste offerte che
tamponano i loro enormi bisogni,
ma purtroppo sono ben lungi dal risolverli.
Le difficoltà del vivere tornano ad
essere sempre più presenti. Ce ne
stiamo accorgendo anche noi, o meglio
lo stanno sperimentando con
sempre più angoscia gli operai della
Fiat: di colpo le loro vite sono allo
sbaraglio.
Incertezza e insicurezza si fanno
strada. Forse questo ci dovrebbe far
capire, in questi momenti, che sono
più le cose che ci uniscono che quelle
che ci dividono.
Dobbiamo iniziare ad incontrarci
tra fratelli al di là delle religioni, delle
culture, delle appartenenze, cercare
quanto ci unisce e non quanto
ci divide.
Ed è stato questo l’obiettivo che ha
spinto molti credenti cristiani, in diverse
città d’Italia, ad attivare una
giornata di «Dialogo amico» tra persone
di fede cristiana e islamica.
Il 29 novembre vuole diventare a
tale scopo una ricorrenza per gli anni
a venire.
Le difficoltà della vita ci conducono
ormai a capire che, anziché strapparci
dalle mani una coperta sempre
più stretta, dobbiamo imparare a lottare
e costruire insieme.
Così anche le nostre fedi, in apparenza
così diverse, ci accomunano nei
valori che sono alla loro base: «… la
ricerca e costruzione della pace, della
giustizia, della dignità umana per
tutti, il rifiuto dell’oppressione del
debole, dell’emarginato».

PROVIAMO A PARLARCI
Anche a Torino sono stati organizzati
dal gruppo interreligioso «Insieme
per la pace» e dall’«Istituto islamico
per la pace» due momenti significativi
cui hanno aderito varie
associazioni tra cui: Il Foglio, Pax
Christi, il Centro culturale italo-arabo
Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Centro studi Maitri
Buddha, Meic-Laboratorio islam
«conoscere per dialogare».
Un primo momento a carattere evocativo
e spirituale è stata una preghiera
comune alla moschea di corso
Giulio Cesare che per l’occasione
si è aperta ad accogliere uomini e
donne di fede cristiana. A seguire vi è stata una cena comune
presso il Centro culturale italo-
arabo Dar al-Hikma. Si è così partecipato
alla consueta rottura del digiuno
del ramadan.
In serata vi è stato un vero incontro
e dialogo tra la nostra cultura occidentale
e quella araba, a partire
dalle nostre fedi islamica e cristiana.
La partecipazione è stata notevole,
specie da parte dei musulmani: erano
presenti molti giovani e piccoli
gruppetti di familiari. Si avvertiva un
clima di grande attenzione-interesse
e rispetto per il momento che tutti
i presenti avvertivano come fortemente
significativo.
Hanno preso la parola molti musulmani
ponendo diverse domande
o facendo interventi improntati a capire
noi occidentali e a farsi ascoltare,
raccontando la loro esperienza, le
difficoltà del vivere qui, cercando di
sottolineare i valori di fondo del loro
credo religioso.
Ci sono stati anche interventi rivolti
a comprendere la diversità: tra
questi ampio spazio è stato dato alla
condizione della donna nella loro
cultura. Il dialogo è risultato ricco e
intenso.
Molti giovani hanno proposto agli
organizzatori di dare corso ad altri
momenti analoghi, affinché questa
occasione non rimanga un fatto isolato,
ma possa aprire uno spazio di
vero incontro tra la loro cultura e la
nostra per capirci e incontrarci. E soprattutto
per metterci in atteggiamento
di ascolto. L’unico
che può portare ad un reciproco
rispetto.

(*) SILVANA VERGNANO, insegnante, è
membro di Pax Christi (sito internet:
www.paxchristi.it).

Il dialogo? Forse inizia da qui
Gli avvenimenti politici degli ultimi 16 mesi (l’attacco al World Trade
Center di New York, l’intervento militare in Afghanistan, le minacce di
guerra contro l’Iraq, la drammatica esasperazione della crisi israelo-palestinese
e di quella russo-cecena…) pesano sulle relazioni tra due comunità,
definite cristiano-occidentale e islamica, che ormai da anni convivono nelle
nostre città. Un certo tipo di informazione-spettacolo sta trasformando i
conflitti di interessi economico-politici in una contrapposizione fra due
civiltà e due tradizioni religiose che troppo sbrigativamente vengono presentate
come inevitabilmente contrapposte.
CONDANNIAMO un tale sfruttamento del sentimento religioso e una tale distorsione
delle due espressioni (storicamente e culturalmente differenti) della
fede che ci accomuna nei principi della pace, della giustizia, della dignità
umana per tutti, del rifiuto dell’oppressione del debole e dell’emarginato.
CHIEDIAMO a tutte le parti in causa di trovare soluzioni affinché la città di
Gerusalemme possa esprimere realmente la santità che le attribuiscono tutte
le fedi abramitiche, ma che è stata un punto di riferimento per la religiosità,
secondo l’ordine di Melchisedech, anche per chi si appella a un’immagine
pre-abramitica di Dio.
AFFERMIAMO che in tutte le espressioni religiose – a seconda delle intime scelte
di ciascuno – si possono coltivare i semi della giustizia e della pace che
possono condurre l’umanità a una concorde fratellanza universale, oppure le
radici dell’intolleranza e dell’autoritarismo che si nasconde dietro al nome di
Dio e all’apparente ossequio per le religioni, per provocare divisioni, dominare
e sfruttare i popoli governandoli con la menzogna.
RICONOSCIAMO che nella storia quasi nessuna religione è stata immune da questi
equivoci e ci impegniamo a vigilare affinché, per quanto può dipendere
da ciascuno di noi, non intervengano a guastare la trasparenza delle nostre
intenzioni, nei rapporti con i bambini, con i nostri familiari, con i colleghi
di lavoro, nell’impegno culturale, politico e sindacale.
CHIEDIAMO, soprattutto alle pubbliche amministrazioni (comuni, provincia,
scuola), per quanto di loro competenza, di favorire e promuovere la cultura
del dialogo offrendo spunti, spazi e momenti d’incontro tra coloro che abitano
le nostre città da molto tempo e quelli di più recente immigrazione,
affinché tutti possano meglio conoscersi e meglio conoscere la storia propria
e altrui.
INTENDIAMO impegnarci, inoltre, affinché il dialogo cristiano-islamico porti
effettivamente a un incontro AMICO tra tutte le persone che vivono quotidianamente
le stesse speranze e le stesse angosce, facendoci carico di portare
gli uni i pesi degli altri in una convivenza che sappia dare motivi di serenità
anche nei momenti più difficili.

Pax Christi, Centro culturale italo-arabo Dar al-Hikma, Confrateita sufi
Jerrahi-Kalveti, Meic-Laboratorio islam conoscere per dialogare, Foglio e, inoltre,
Centro studi Maitri Buddha.

Silvana Vergnano

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