CATASTROFI INNATURALI?

Esistono le catastrofi naturali?
La risposta è ovviamente sì.
Moltissime potrebbero però essere
evitate grazie ad un migliore,
e minore, utilizzo
delle risorse e ad una
pianificazione
territoriale coerente
con il creato.
In poche parole
con il buon senso.

Da gennaio a settembre
2002, si sono verificati
526 disastri naturali significativi:
195 in Asia, 149 nelle
Americhe, 99 in Europa, 45 in
Australia, 38 in Africa; a causa di
questi eventi sono morte 9.400
persone, delle quali 8.000 solo in
Asia, centinaia di migliaia sono i
senzatetto e milioni i feriti. Le
maggiori perdite economiche
sono state subite dall’Europa:
circa 33 miliardi di euro. Un terzo
dei 526 eventi è legato alle
piogge: inondazioni in Cile, Giamaica,
Nepal, Spagna, Francia e
anche Germania, dove le medie
delle precipitazioni annuali sono
state raggiunte in uno o due giorni.
L’intensità delle piogge ha
raggiunto livelli unici, facendo
segnare record mai registrati nelle
statistiche dei meternorologi.
Queste sono solo alcune delle
conclusioni di uno studio della
compagnia assicurativa Munich
Re, membro dell’Unep (Programma
ambientale delle Nazioni
Unite), presentato a Nuova
Delhi in concomitanza dei negoziati Onu sui cambiamenti climatici.
Il numero delle calamità naturali e
l’intensità di molti eventi estremi sono
in continuo aumento, con conseguenze
che possono essere rilevanti
sull’ambiente e ecosistemi, agricoltura,
benessere delle popolazioni, salute
e incolumità delle persone.
Cosa si intende per «disastro naturale
» o «emergenza ambientale»?
Esiste una differenza tra «catastrofe
naturale» e «catastrofe ecologica»?

UNA DEFINIZIONE
I termini «catastrofe» e «disastro
naturale» fanno immediatamente
balzare alla mente immagini di terremoti,
eruzioni vulcaniche, maremoti,
uragani, cicloni, conseguenti perdite
umane, edifici crollati e allagati,
colate di fango che permeano gli abitati,
paesaggi urbani e agricoli devastati
dalla furia della natura.
In realtà, definire cosa si intenda
per catastrofe naturale non è semplice.
Un terremoto che si verifica in
pieno deserto, per esempio, può provocare
nessun effetto sugli uomini né
su altri esseri viventi di quel determinato
habitat; eventi che, invece, provocano
la morte di molte vite umane
possono non influire sugli ecosistemi
interessati; mentre calamità che, al
contrario, non danneggiano direttamente
le popolazioni possono causare
gravi alterazioni all’ambiente naturale.

LE CATASTROFI GEOFISICHE
I disastri naturali che più colpiscono
l’immaginario collettivo sono
sicuramente i terremoti. Le cause di
questi fenomeni sono puramente
geofisiche, legate cioè ai fenomeni fisici
che avvengono sulla superficie e
all’interno della terra. Anche se possono
sembrare fenomeni improvvisi,
sporadici e casuali, i sismi sono un
evento naturale diffuso come pochi
altri: in un anno, sulla terra, gli strumenti
registrano circa un milione di
terremoti: 1 ogni 30 secondi. Solo
qualche migliaio di essi è abbastanza
forte da essere percepito dall’uomo,
e solo qualche decina causa gravi
danni a persone e cose.
Se nel tempo questi fenomeni si
verificano in continuazione, nello
spazio essi si manifestano all’interno
delle cosiddette «zone sismiche»;
nelle «zone asismiche», invece, non
si generano i terremoti, ma se ne possono
sentire gli effetti, dovuti al propagarsi
delle vibrazioni provenienti
dalle zone sismiche vicine.
La conseguenza fondamentale dei
terremoti sulla superficie è l’oscillazione
del suolo, che si trasmette agli
oggetti sovrastanti: case, ponti e altre
costruzioni possono vibrare fino
al crollo totale. Le cause di questi fenomeni
sono puramente naturali,
ma le conseguenze sono difficili da
classificare.
Gli effetti dipendono, da una parte,
dall’intensità e durata complessiva
delle oscillazioni e dalla natura del
suolo (i danni sono maggiori se il terreno
è incoerente, cioè costituito da
sabbie e ghiaia); dall’altra, dall’inosservanza
delle indicazioni dell’edilizia
antisismica nella costruzione di edifici
in zone note come particolarmente
sismiche, come è accaduto a
San Giuliano di Puglia.
Anziché promettere di impiegare
milioni di euro in grandi opere (probabilmente
non necessarie), è forse
più opportuno utilizzare gli stessi
soldi per la previsione di tali fenomeni,
per un’oculata politica di gestione
del territorio e, soprattutto,
per la prevenzione del rischio, sia elaborando
piani di soccorso, sia applicando
l’ingegneria antisismica; e
ciò non solo nelle nuove costruzioni,
ma anche nella ristrutturazione dell’esistente
e nella costruzione di dighe,
vie di comunicazione, grandi
complessi industriali.
Molte vittime e danni possono essere
inoltre causati dalla rottura di linee
elettriche e condutture del gas,
con conseguenti incendi difficilmente
domabili per la contemporanea
interruzione delle condutture
dell’acqua.
Bisogna inoltre ricordare la formazione
di fratture nel terreno, il sollevamento
o abbassamento del suolo,
in grado di provocare dislivelli lungo
strade e ferrovie e addirittura capaci
di deviare il corso dei fiumi. A questo
punto la gravità delle conseguenze
si dirama: la situazione può tornare
alla «quasi-normalità» in breve e
medio termine, oppure trasformarsi
in catastrofi a lungo termine, quali carestie
ed epidemie, a seconda delle
condizioni iniziali della popolazione
colpita (situazione di benessere, ristrettezza
o estrema povertà).
Queste considerazioni sulle cause
e conseguenze dei terremoti possono
essere estese, a grandi linee, anche
ad altri fenomeni di natura geofisica,
come maremoti ed eruzioni
vulcaniche, uno dei segni più evidenti
dell’irrequietezza del pianeta.
Più di 500 sono i vulcani attivi, fonti
di lava e gas ad alta temperatura,
di materiale fuso lungo gli oltre 60
mila km delle dorsali oceaniche.
Le eruzioni vulcaniche sono forse
l’emblema più spettacolare di un affascinante
paradosso: se da un lato i
vulcani possono rappresentare veri e
propri disastri naturali, d’altro canto
rappresentano uno dei processi fondamentali
attraverso cui si è svolta, e
continua a svolgersi, l’evoluzione della
terra. Basti pensare all’imponente
trasferimento di materiali dall’interno
all’esterno del pianeta, in grado di
accrescere la stessa crosta della superficie
terrestre, formare e mantenere
gli equilibri dell’atmosfera e degli
oceani, rendere fertili i suoli derivanti dalle ceneri vulcaniche.
Anche l’Italia non è risparmiata da
questi tipi di fenomeni: pensiamo al
maremoto dovuto all’eruzione dello
Stromboli (anche se non paragonabile
agli tsunami dell’Oceano Pacifico),
o all’attività dell’Etna. Proprio
quest’ultimo evento può porci di
fronte a un interrogativo ignorato
dai media: è «colpa» dell’Etna se il
Rifugio Sapienza e gli impianti sciistici
sono abbattuti dalla forza devastatrice
della lava?

CATASTROFI AMBIENTALI
E TECNOLOGICHE

Se i disastri geofisici derivano esclusivamente
da fenomeni naturali,
esiste al contrario una classe di eventi
catastrofici che hanno come unica
causa l’azione dell’uomo.
Quali sono? L’opinione pubblica
risponderebbe immediatamente: «I
grandi disastri industriali». Molte,
troppe, infatti, sono state le situazioni
più o meno recenti nelle quali, da
attività finalizzate a scopi utili, sono
scaturiti danni gravissimi per la collettività
e l’ambiente circostante. Alcune
catastrofi ecologiche, dovute a
incidenti industriali, sono state causate
da un utilizzo affrettato e approssimativo
della tecnologia; altri da
eventi accidentali, che hanno evidenziato
l’inadeguatezza delle misure
di sicurezza e l’entità sproporzionata
dei rischi ai quali si era sottoposti;
altri ancora da una scoperta più o
meno improvvisa di problemi, le cui
cause operavano da molto tempo.
Basti pensare ad alcuni disastri del
secolo appena terminato: tragedia
della diga del Vayont (1963), emissione
di diossina a Seveso (1976),
Acna di Cengio (1988) ed emissione
di anidride solforosa al confine tra
Piemonte e Liguria; mercurio fuoriuscito
a Bhopal, in India (1984),
per un livello di 6 milioni di volte oltre
la soglia di tolleranza, tuttora causa
di contaminazione del territorio
circostante; disastro di Cheobyl
(1986), definito «la peggiore catastrofe
tecnologica della storia umana
», il cui rilascio di radioattività è
200 volte superiore alle esplosioni di
Hiroshima e Nagasaki insieme e nei
cui territori vigono ancora restrizioni
all’uso del cibo locale, a conferma
dell’alterazione profonda dell’ecosistema
interessato.
Exxon Valdez (1989, Golfo dell’Alaska),
Haven (1991, Mar Ligure),
Erika (1999, Bretagna-Francia),
sono solo alcuni dei nomi che rievocano
un’altra tipologia di disastri ecologici
provocati esclusivamente
dall’uomo: la fuoriuscita di petrolio
dalle ormai troppo tristemente famose
«carrette del mare».
Anche in questo ambito, uno degli
ultimi disastri petroliferi è dovuto
a controlli e sanzioni insufficienti
e a normative assolutamente inadeguate,
che permettono la circolazione
a flotte di petroliere che non dovrebbero
viaggiare: si tratta in questo
caso della Prestige, petroliera
vecchia e a scafo unico, affondata
nelle acque della Galizia. Le conseguenze
sono sempre le stesse: danni
incalcolabili alle acque e coste, spesso
di grande bellezza e valore naturalistico,
migliaia di tonnellate di olio
combustibile pesante giacenti a
migliaia di metri di profondità, migliaia
di uccelli marini destinati a
morire, insieme a pesci, cetacei, fino
ad alghe e molluschi, primi anelli
della rete di relazioni fra le specie viventi.
Se il disastro ecologico non commuove gli animi, è bene sottolineare
che i danni sono enormi anche a livello
economico e occupazionale:
come nel caso della Prestige, se la popolazione
vive sulla pesca e maricoltura,
l’economia locale può cadere in
ginocchio; lo stesso vale ovviamente
per il turismo.
L’entità del rischio appare immensa
se si leggono le cifre legate al petrolio:
60 milioni sono i barili di petrolio
trasportati in mare ogni anno,
3.400 circa le petroliere; il trasporto
di greggio rappresenta il 40% del
traffico marittimo mondiale di materie
prime e quasi il 73% delle importazioni
di petrolio dell’Unione
Europea avviene proprio via mare;
dal 1955 sono stati più di 1.300 gli incidenti,
dei quali più di 20 gravissimi;
l’età media della flotta petrolifera
mondiale è di 15 anni, mentre per
il 25% delle carrette, di età superiore
ai 20 anni, non esiste più un margine
di sicurezza.
C’è ancora un tipo di disastro ecologico
causato dall’uomo e mai considerato:
le conseguenze ecologiche
e sanitarie delle guerre.
In senso lato, la guerra non provoca
solo l’annientamento di vite umane
e beni materiali, ma anche un enorme
degrado dell’ambiente, con
indubbie conseguenze sulla salute.
Sostanze tossiche e radioattive utilizzate
nei bombardamenti espongono
l’ambiente a una contaminazione
che si protrae nel tempo: inquinamento
atmosferico a breve e
medio termine, inquinamento del
sottosuolo a lungo termine, specialmente
delle falde acquifere.
La conseguenza inevitabile è l’esposizione
della popolazione a rischio
sanitario per molti anni: la non
disponibilità di acqua pulita, l’entrata
nel ciclo alimentare di molte sostanze
nocive, con la caratteristica di
concentrarsi in piante e animali, costituisce
infatti un grande rischio per
la salute, compreso l’aumento della
frequenza di tutti i tipi di cancri e
malformazioni congenite.
Tutto questo senza considerare il
flagello delle mine, nemico invisibile
che, se non uccide, condanna a una
vita minorata.
Incidenti industriali, petroliere,
guerre e mine. Anche se l’emozione
sollevata nell’opinione pubblica è indiscussa,
questi eventi rappresentano
nel lungo periodo una minaccia
forse meno pericolosa dell’azione
degli inquinanti di natura antropica
immessi nell’aria, acqua e suolo.
È vero che l’inquinamento dell’ambiente
da parte dell’uomo non è
un fatto recente; tuttavia, dalla rivoluzione
industriale, la velocità delle
conoscenze scientifiche e dello sviluppo
tecnologico, la crescita incessante
del consumo di energia e materiali,
la produzione di un numero
sempre maggiore di composti sintetici,
hanno conferito al problema una
dimensione planetaria: inquinamento
atmosferico e dell’acqua,
piogge acide, buco dell’ozono, effetto
serra, sono solo alcuni dei fenomeni
antropici che minacciano gli ecosistemi
e la stessa salute degli uomini.
Solo in Italia, l’inquinamento
da traffico, non riconosciuto, causa
6 mila morti all’anno.

DISASTRI NATURALI
LEGATI ALLA METEOROLOGIA

Tra le due classi di catastrofi esaminate,
da una parte quelle con cause
esclusivamente naturali e dall’altra
totalmente antropiche, esiste una
serie di fenomeni che possono avere
effetti devastanti e le cui cause non
sono facilmente definibili. Si tratta di
due tipologie di fenomeni di natura
meternorologica: da un lato eventi che
si manifestano in maniera improvvisa
e che, negli ultimi anni, hanno fatto
registrare un consistente aumento
di frequenza e potenza: alluvioni
e cicloni in particolare; dall’altro fenomeni
che derivano da fattori di degrado
a lungo termine: siccità, desertificazione,
deforestazione, erosione
del suolo, mancanza d’acqua, carestie,
epidemie.
Mentre i fenomeni geofisici si sono
manifestati negli ultimi anni con
lo stesso numero di eventi, quelli di
origine climatica sono stati invece
più frequenti. Se si classificano gli eventi
catastrofici in base al numero
di vittime per morte violenta, inondazioni
e cicloni superano terremoti,
eruzioni vulcaniche e inquinamento
accidentale. Se questa classifica
si basasse, invece, sulla mortalità
dovuta agli effetti a lungo termine, la
siccità deterrebbe il triste primato e
l’inquinamento dell’ambiente supererebbe le eruzioni vulcaniche.
Proprio inondazioni, cicloni e siccità
sono fenomeni che subiscono le
conseguenze dell’ormai accertato, in
ambito scientifico, cambiamento climatico,
dovuto all’aumento della
concentrazione atmosferica di anidride
carbonica (CO2) emessa dalle
attività umane (riscaldamento, trasporti,
industria). La crescita dei livelli
di CO2 è il risultato del massiccio
utilizzo di combustibili fossili
(carbone, petrolio, gas naturale…) e
rappresenta il principale fattore dell’incremento
dell’effetto serra, ossia
dell’aumento della temperatura media
sul pianeta.
I dati del Goddard Institute per gli
Studi spaziali della Nasa indicano
che i 15 anni più caldi mai registrati,
dal 1867, hanno avuto luogo dopo il
1980. Escludendo una drammatica
caduta delle temperature nel mese di
dicembre 2002, si può affermare che
i tre anni più caldi sono stati registrati
negli ultimi cinque.
Oltre alla lettura dei termometri,
molti altri segnali indicano una crescita
della temperatura media: ondate
mortali di calore, disseccamento
di raccolti, scioglimento dei ghiacci.
Se da un lato una temperatura
media maggiore comporta siccità
più forte e scioglimento dei ghiacci,
dall’altro causa tempeste più violente,
inondazioni più distruttive e aumento
del livello del mare. La conseguenza
principale dell’effetto serra,
infatti, consiste nell’evaporazione
di grandi masse di acqua che determinano
cambiamenti climatici, spesso
imprevedibili, e aumento degli eventi
estremi.
In particolare, Alberto Di Fazio,
del Global Dynamics Institute di Roma,
ha trovato una perfetta correlazione
tra la serie storica dei cicloni
negli ultimi cento anni e l’aumento
di CO2 nell’atmosfera. Tali cambiamenti
a loro volta influenzano sia la
sicurezza alimentare e abitabilità di
aree situate a livello del mare (ne è
un esempio il Bangladesh), e quindi
il possibile propagarsi di carestie ed
epidemie, sia la composizione delle
specie degli ecosistemi locali.

IN CONCLUSIONE
Alla luce di quanto analizzato, è evidente
che studiare in maniera
scientifica i fenomeni catastrofici significa,
innanzitutto, cercare di distinguerli
in base a due criteri: cause
e conseguenze. Le cause possono essere
rappresentate da fenomeni naturali
(geofisici, climatici…), di origine
umana, oppure da fenomeni naturali,
aggravati da componenti
umani; le conseguenze possono risultare
calamitose per la popolazione,
per l’ambiente o per entrambi.
Un evento può essere definito disastroso
a seconda delle conseguenze
provocate. Per quanto riguarda gli
effetti sulla popolazione, generalmente
una catastrofe naturale di una
determinata intensità provoca molte
più vittime nei paesi poveri che in
quelli ricchi, e questo per varie ragioni:
l’aumento demografico e la
concentrazione altissima della popolazione
in zone fertili o a ridosso delle
grandi città, a causa degli esodi dovuti
allo sconsiderato sfruttamento
delle risorse naturali (generalmente
da parte del Nord), e quindi alla
deforestazione e perdita del territorio
coltivabile; il degrado dell’ambiente,
appunto; la vulnerabilità delle
popolazioni stesse, ossia la capacità
di reagire agli eventi disastrosi, strettamente
connessa alla miseria.
Per quanto riguarda invece gli effetti
sull’ambiente, esiste una linea
sottile e difficilmente definibile, che
delimita gli eventi catastrofici da
quelli che non lo sono. A un occhio
attento, rientrano sicuramente fra gli
eventi catastrofici anche fenomeni
non improvvisi e straordinari, ma subdoli
e insidiosi, che evolvono lentamente
nel tempo e magari in modo irreversibile,
come la desertificazione,
cambiamento climatico, scomparsa
di specie vegetali o animali, rischiando
di alterare gli equilibri degli ecosistemi
e quindi la stessa salute e sopravvivenza
umana.
Certe azioni umane incontrollate,
sottoforma di cambiamento climatico,
di uso smodato delle risorse, cause
essenziali della deforestazione, erosione
del suolo, desertificazione e
scomparsa di specie viventi, hanno
quindi il potere di amplificare alcuni
fenomeni naturali, conferendo loro
una dimensione catastrofica.
Il «potere del consumatore» può
allora agire anche in questa direzione.
Diminuire la nostra impronta ecologica
(MC, giugno 2002) può significare
contribuire alla diminuzione
della dimensione catastrofica di
alcuni fenomeni naturali.

Silvia Battaglia

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