«Sono malato di Aids…»

Quante volte mi sorprende
il constatare che,
nel mio andare in missione,
«Uno» è già passato:
questo Dio che ci ama tutti
in uguale maniera, e che
solo la gioia di testimoniare
questa realtà ci fa diventare
contagiosi…
È sera in questo lembo
di Kenya. Il sole sta scomparendo,
in un breve tramonto
senza crepuscolo, e
illumina con i suoi raggi
gli alti alberi di eucaliptus
che circondano la missione,
facendo capolino tra i
rami… Un uomo, esile e
mingherlino, con occhi
grandi e lucidi, è seduto
sul muricciolo, vicino alla
nostra casa, e chiede di
parlare con una sister.
«Sorella – mi dice -, sono
un malato di Aids: come
vedi, ho già le piaghe
che sanguinano. Ho 35
anni; mia moglie è morta
tre anni fa; ho quattro figli
tutti sieropositivi e vivono
a Kitale con la nonna. Io
sono dovuto venire a Nairobi,
per essere più vicino
all’ospedale Kenyatta e
sono stato ospitato da amici
nella baraccopoli di
Karinde, qui vicino a Karen.
Oggi l’ospedale mi ha
congedato: non c’è più
nulla da fare. Ho dovuto
dirlo agli amici che mi
hanno ospitato, i quali mi
hanno risposto che è meglio
che ritorni dai miei figli
a Kitale, anche perché,
se muoio qui, è molto costoso
trasportare il mio
corpo a Kitale, dove c’è la
mia terra e dove è già sepolta
mia moglie…
Sorella, le chiedo un bicchiere
d’acqua e i soldi
per il biglietto del pullman;
partirò stasera stessa
da Karen alle ore 20 e
arriverò a Kitale domani
mattina verso le 6. Vado a
morire a casa mia…».
Le lacrime mi scendono
silenziose e, senza volerlo,
osservo le mie mani se
hanno una qualche (anche
minima) ferita, per poi
mettergliele sulla spalla e
di cuore dirgli: «Non aver
paura, fratello mio!».
Una tale sofferenza esige
solo rispetto, presenza
silenziosa, un gesto di appoggio
e di accoglienza…
«Sono cristiano – continua
l’uomo -. Pensi, sorella,
che andrò in paradiso?
». «Non avere il minimo
dubbio!» rispondo
con un nodo che mi stringe
la gola. E lui: «Quando
sarò là, pregherò per te,
sorella». Si rimane ammutoliti
di fronte a simili esperienze,
che incidono
profondamente il cuore e
che fanno meditare seriamente.
Chi accoglie il Signore
sono proprio questi
umili crocifissi della storia,
che accettano il Suo
intervento nella loro vita.
Sono proprio questi coloro
che, per misericordia
divina, possono chiamare
Dio «padre» e ti insegnano
a fare altrettanto.

Sr. Adriana Prevedello