IRAQ incontro con la gerarchia cattolica

«QUANTI PRETESTI PER ATTACCARCI!»

Saddam Hussein e le armi sono soltanto pretesti per controllare le ricchezze dell’Iraq.
Perché si attua una politica di 2 pesi e 2 misure? Israele è libero di non rispettare
le risoluzioni dell’Onu senza subire conseguenze, l’Iraq no.
Dichiarazioni fatte da esponenti del governo di Saddam? No, da due alti prelati
della gerarchia cattolica irachena: mons. Warduni, patriarca vicario di Baghdad,
e mons. Isaak, segretario del sinodo caldeo e rettore dell’università.
Due personaggi diversi nel valutare la situazione dei cristiani in Iraq, ma identici
nel denunciare l’ingiustificata aggressione al paese.

INTERVISTA/1: MONS. WARDUNI
Monsignor Ishlemoun Warduni è
patriarca vicario della chiesa cattolica
caldea, a Baghdad.
Monsignore, qual è la situazione
dei cristiani in Iraq oggi?
«Parlare della situazione dei cristiani
in Iraq vuol dire parlare non
di persecuzioni, quanto piuttosto di
restrizioni.
Nel 1980 la comunità cristiana irachena
contava circa un milione di
fedeli, ma proprio da quell’anno,
con l’inizio della guerra contro l’Iran,
la sua situazione ha cominciato
a peggiorare. La guerra del Golfo e
l’embargo imposto nel 1990 l’hanno
fatta poi precipitare, producendo
varie conseguenze come l’emigrazione.
Oggi il numero di cristiani
in Iraq è sceso a 600.000 fedeli.
Con due ulteriori problemi: il fatto
che, nella percezione comune, i cristiani
vengono sentiti come alleati
degli occidentali, piuttosto che come
iracheni; e la progressiva trasformazione
dell’Iraq da paese laico
a paese musulmano, complice la
“Campagna di fede” lanciata dal
governo a metà degli anni 90».
Eppure in Iraq, a differenza dell’Arabia
Saudita per esempio, i cristiani
hanno libertà di culto…
«Per questo parlo di restrizioni e
non di persecuzioni vere e proprie.
Le restrizioni che il governo cerca
di imporre hanno spinto tutti i
vescovi cristiani a protestare, e questa
protesta ha portato alla creazione
di una commissione mista, formata
da rappresentanti del ministero
del culto, dell’istruzione, degli
interni e da vescovi. La commissione
ha prodotto un documento consegnato
al Consiglio supremo della
rivoluzione, e firmato da monsignor
Hawa, vescovo siro-ortodosso e da
me, che non ha avuto però ad oggi
(25/09/2002) nessuna risposta da
parte del governo.
I punti di discussione sono vari.
Alcuni riguardano l’identità dei cristiani
iracheni. Un recente decreto,
per esempio, vieta l’imposizione di
nomi stranieri ai bambini, costringendo
a scegliere tra i nomi “arabi,
iracheni ed islamici”. Sebbene si sia
ancora in attesa di una lista ufficiale
dei nomi permessi, per adesso si
possono usare i nomi biblici riconosciuti
anche dall’islam, ma la loro
forma deve essere quella araba:
Mariam e non Maria, quindi.
Un altro decreto, già applicato
pur non essendo ancora ufficiale, riguarda
più specificatamente la religione.
Se fino ad ora sui documenti
di identità era possibile dichiarare la
propria fede religiosa scegliendo tra
musulmano e cristiano, adesso la
scelta è solo tra musulmano e “non”
musulmano. Un decreto che trasforma
l’identità dei cristiani, che
passano da un “essere” ad un “non
essere” quanto mai incerto nelle eventuali
conseguenze future».
Direbbe quindi che sta diventando
sempre più difficile essere cristiani
in Iraq?
«Direi di sì. Un esempio è quello
che riguarda i figli minorenni di una
coppia in cui uno dei genitori decida
di convertirsi all’islam. I figli,
che prima potevano attendere il
compimento del diciottesimo anno
di età per diventare musulmani, ora
vengono forzatamente e immediatamente
considerati come appartenenti
all’islam. I vescovi hanno
chiesto che a questa conversione
forzata possa almeno far seguito la
libertà di ritorno al cristianesimo alla
maggiore età, una richiesta che
però è stata respinta dato che dall’islam
non si può tornare indietro.
Oltre a ciò, sebbene la costituzione
irachena garantisca la libertà di
culto, il governo a volte chiude un
occhio su episodi che mettono in
dubbio tale libertà. Nella zona di
Mosul, per esempio, un tempo culla
del cristianesimo iracheno e ora
spopolata dai nostri correligionari
per l’emigrazione verso l’estero o
verso la capitale, e dove si sta imponendo
l’islam wahabita di stampo
saudita, ci sono molte pressioni psicologiche
affinché i cristiani rimasti
si convertano all’islam. Pressioni sui
giovani da parte dei loro coetanei di
fede musulmana, e pressioni più
forti, fatte di biglietti attaccati nottetempo
alle porte delle case dei cristiani
e dove è scritto: “Diventa musulmano
e sarai salvato”».
Allora le fonti che parlano di violenze
nei confronti dei cristiani non
sono false. Si citano episodi di incendi
di negozi appartenenti a cristiani,
di una suora uccisa a Baghdad
lo scorso agosto…
«Il governo iracheno ha indagato
su alcuni episodi di violenza, e li ha
imputati alla delinquenza comune,
che affligge questo paese come il resto
del mondo.
Per quanto riguarda la suora uccisa
a Baghdad è successo proprio
vicino alla mia chiesa di Mariam al
‘Adhra. Sorella Cecilia, di 71 anni,
era sola nella casa dove abitava. Le
consorelle erano assenti e lei aveva
rifiutato l’invito dei familiari a fermarsi
a dormire a casa loro. Non voleva lasciare la casa incustodita. È
stata una cosa terribile, hanno chiamato
me e sono stato io a trovarla.
Era svestita, mani e piedi legati insieme,
era stata picchiata… non mi
faccia dire di più, è troppo penoso,
aveva 71 anni e l’hanno uccisa barbaramente.
Hanno portato via i soldi
che aveva in casa, 35 dollari in
tutto e alcuni oggetti d’oro.
La polizia ha indagato e ha trovato
i colpevoli. Sono tre, tutti di questa
zona, uno abita proprio qui dietro
la chiesa. Le autorità hanno assicurato
che subiranno la giusta
punizione per quello che, malgrado
la ferocia con la quale è stato perpetrato,
è stato considerato un atto
di rapina. Un reato comune quindi…».
Una situazione non tranquilla
quindi…
«Sì. Il controllo delle chiese cristiane
è ora passato completamente
al ministero degli affari religiosi,
e la protesta che tutti i vescovi hanno
elevato nei confronti di questa
pesante ingerenza nella vita ecclesiale
non ha ancora avuto risposta.
In più dobbiamo registrare l’aumento
di attacchi nei confronti dei
cristiani apparsi su varie riviste e
giornali, come Babel, il quotidiano
più diffuso a Baghdad e controllato
dal governo, gli insegnamenti anticristiani
che si diffondono in ambito
scolastico, dove spesso si ricorre
alla similitudine: cristiani = crociati,
e il tentativo di minare i fondamenti
della nostra fede, per esempio
censurando i libri e le riviste che
contengano il riferimento a Gesù
come Figlio di Dio, in favore della
visione islamica della stessa figura
di Gesù: non più Figlio di Dio, ma
semplice profeta anteriore a Maometto».
Come influiscono i 12 anni di embargo?
«L’embargo ha colpito tutti gli iracheni,
indipendentemente dalla
fede. Ha creato una situazione di
tensione sociale prima sconosciuta,
nella quale valori consolidati, come
il rispetto per il credo altrui, si stanno
perdendo, e la Campagna di fede
varata dal governo sta ulteriormente
allontanando il paese dalla
laicità che lo contraddistingueva.
In questo contesto, fatto anche
dei continui attacchi dell’Occidente
(che mira ad impossessarsi delle
risorse del paese) e della politica di
due pesi e due misure applicata all’Iraq
e ad Israele (libero di non rispettare
le risoluzioni delle Nazioni
Unite senza subie alcuna conseguenza),
i cristiani, visti come più
vicini all’Occidente nemico che all’Iraq,
subiscono discriminazioni e
restrizioni. Malgrado, e voglio sottolinearlo,
il nostro essere e sentirci
iracheni. Si può dire che, se come
comunità fossimo sistematicamente
perseguitati, soffriremmo due
volte, in quanto perseguitati e sottoposti
ad embargo; non è così, ma
in quanto minoranza, noi soffriamo
una volta e mezza gli iracheni musulmani.
La sola speranza è che l’embargo
finisca, che l’Iraq riprenda ad essere
un paese normale, e che nella
normalità anche i cristiani, presenti
in questa terra dall’inizio della cristianità,
ritrovino la pace e la sicurezza».

INTERVISTA/2: MONS. ISAAK
Monsignor Jacques Isaak è segretario
generale del Sinodo dei vescovi
caldei e rettore del «Pontifical
Babel College for Philosophy and
Theology», a Baghdad.
Che importanza ha avuto, nell’ambito
del cammino ecumenico tra le
chiese caldeggiato da Giovanni Paolo
II, il decreto sinodale congiunto
del 1997, sottoscritto dal patriarca
della chiesa cattolica caldea, Mar
Raphael Bidawid I, e dall’eminenza
Mar Dinkha IV in rappresentanza
della chiesa assira dell’Est?
«L’ecumenismo è una caratteristica
delle chiese presenti in Iraq, e
in questo senso il decreto sinodale
non fa altro che sancire legalmente
una pratica già applicata normalmente.
Lo stesso fatto che nella nostra facoltà
teologica gli studenti appartengano
a varie chiese, dipendenti
o meno da Roma, pone delle solide
basi per l’ecumenismo vissuto come
condivisione della comune fede in
Cristo.
È capitato, per esempio, che due
seminaristi, uno caldeo ed uno assiro,
siano stati destinati per la loro azione
sacerdotale in due piccoli villaggi
nel nord dell’Iraq. Il fatto di aver
studiato e vissuto insieme per 7
anni, nel nostro collegio, ha cementato
la loro amicizia al punto che
quando uno dei due doveva assentarsi,
l’altro lo sostituiva, con piena
soddisfazione di entrambe le comunità
di fedeli.
Gli ostacoli al ritorno ad una sola
chiesa, com’era prima del 1551, non
esistono nella vita di tutti i giorni;
semmai sono posti dalle gerarchie
delle due chiese. A livello gerarchico,
per esempio, la chiesa assira dell’Est
ha due patriarchi: Mar Dinkha
IV, la cui sede è negli Stati Uniti, e
Mar Addai II, residente a Baghdad.
Se il decreto congiunto è stato ratificato
dal patriarca con sede in America
non è perché il Vaticano gli
riconosca una maggiore autorità,
ma perché Mar Addai è più conservatore,
pone maggiori resistenze all’ecumenismo,
e non intende cedere
l’indipendenza della sua chiesa in
favore di una qualsiasi forma di riconoscimento
dell’autorità papale.
Autorità che, peraltro, noi cattolici
caldei non ci sogneremmo mai di
mettere in discussione».
Nessun problema quindi tra i cristiani
in Iraq… e i rapporti con i
musulmani?
«Tutte le minoranze, in qualsiasi
paese, hanno dei problemi; tutto
sommato però il quadro della situazione
in Iraq è buono. In passato sono
stato per quattro anni vescovo di
Arbil, nel nord del paese, dove mi
trasferii con mia sorella. A Baghdad
rimase solo mia madre che continuò
a vivere in questa casa, in una strada
in cui la nostra era ed è l’unica famiglia
cristiana. Ebbene mia madre
non ha mai avuto nessun problema,
e ha trovato nei musulmani dei buoni
vicini, pronti a darle una mano
quando necessario».
Ed i rapporti tra le chiese e il ministero
degli affari religiosi che controlla
ogni aspetto della vita religiosa
del paese, anche quella dei
cristiani, in che termini sono?
«È una disputa, questa, di vecchia
data. Il precedente patriarca, Paul
Checko II, ebbe molti anni fa una
violenta discussione a proposito
dell’indipendenza delle chiese cristiane
dal ministero degli affari religiosi,
con l’allora ministro Faïsal
Chaher.
La faccenda si risolse con la rimozione
dal suo incarico del ministro,
voluta dal governo. Attualmente
il ministro è un laico laureato
in teologia, Abdul Munem, al
quale, sempre a proposito dello
stesso argomento, è stata indirizzata
una lettera di protesta da parte
dei vescovi. Non c’è ancora stata risposta;
per cui adesso la questione
è congelata».
Lei nega l’esistenza di problemi di
convivenza tra la popolazione, e mi
cita l’esempio di sua madre, a Baghdad.
La situazione è uguale nel
resto del paese? Cosa dice della dislocazione
forzata che colpisce le
popolazioni non arabe della zona
di Kirkuk?
«Tale processo esiste, ma non riguarda
i cristiani, bensì i kurdi ed i
turcomanni. Ai cristiani, anzi, il governo
ha concesso delle terre proprio
in quelle zone…».
Perché questo favoritismo nei confronti
dei cristiani?
«Perché il governo tiene alla cultura
dei cristiani, perché la preservazione
di una piccola, ma comunque
colta comunità cristiana, può
essere utile a fronteggiare il vero pericolo,
quello degli integralisti islamici.
Dopo i fatti dell’11 settembre anche
l’Occidente si è accorto del pericolo
che un certo islam può rappresentare.
Noi lo dicevamo da anni
con il risultato di essere stati
tacciati di fondamentalismo cristiano».
Questo interesse comune tra governo
e cristiani contro il fondamentalismo
islamico spiegherebbe
l’ordine del governo iracheno di
punire eventuali attacchi ai cristiani
all’indomani dell’inizio della
guerra in Afghanistan. Ora che l’Iraq
si trova ad affrontare «direttamente
» il pericolo di una guerra, lei
pensa che tale protezione ai cristiani
verrà di nuovo accordata?
«Sì. Il governo è il partito Baath.
E il Baath è laico e, se non accordasse
la protezione ai cristiani, negherebbe
la sua stessa essenza. Il governo
è contro l’islam fondamentalista,
tanto è vero che la censura
colpisce di più i libri provenienti
dall’estero di matrice islamica che
quelli di argomento religioso cristiano.
È vero che per decreto non si può
menzionare in un libro Gesù come
figlio di Dio, ma il controllo non è
così severo. Recentemente la commissione-
censura del ministero degli
affari religiosi ha preteso la cancellazione
di tale riferimento in un libro
sulla santissima Trinità, ma l’autore,
che è un sacerdote, ha reinserito la
formula e lo ha dato alle stampe nella
versione originale, e per adesso
nessuno ha trovato niente da dire.
Una situazione tranquilla quindi…
Ma allora perché le fonti d’informazione
estere sui cristiani iracheni,
americane soprattutto, parlano
di persecuzioni e violenze?
«L’esagerazione dei problemi è
volta a favorire la fuga dei cristiani
verso l’estero; cristiani che possono,
nella loro ricerca di una nuova patria,
fare appello alle persecuzioni
religiose. Tale esagerazione, però, è
dannosa per i cristiani che rimangono
in Iraq, tanto è vero che io
stesso, durante il mio ultimo viaggio
in America, ho accusato la nostra
comunità di egoismo, di non
pensare a chi, qui, potrebbe essere
danneggiato da una tale campagna
denigratoria verso il nostro governo.
Non c’è ragione per cui i cristiani
abbandonino il paese.
Se il nostro futuro è incerto è per
la guerra che il mondo ci muoverà,
per controllare le nostre ricchezze.
Il nostro petrolio è ciò che l’Occidente
vuole; tutto il resto (il governo
guidato da Saddam Hussein,
le armi di distruzione
di massa) sono
solo pretesti».

Luigia Storti

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