Mamma Letizia

Caro direttore,
avendo un figlio missionario
della Consolata, ricevo
la rivista da tanti anni. Nel
passato, a causa della famiglia
numerosa, non avevo
sempre il tempo di leggerla
con attenzione. Ora
che sono sola, alla bella
età di 83 anni, ho tanto
tempo e provo un vero
piacere nel leggere Missioni
Consolata dalla prima
all’ultima pagina. Sono
pure riuscita ad abbonare
delle mie conoscenti, sicura
che la apprezzeranno.
Trovo la rivista ricca di
valori cristiani, che mi
riempiono il cuore e mi
aiutano anche a dialogare
meglio con i figli e nipoti…
Il Signore vi ricompensi
per tutto quello che
fate e vi accompagni nel
vostro non facile lavoro.
Io vi assicuro la mia matea
preghiera.

Mamma di padre Luciano
(missionario e professore
universitario in
Kenya), Letizia è missionaria
pure lei. Come ogni
mamma di missionario.

Letizia F. Mattei




Bandito padre Stefano

Caro direttore,
sapendoti sensibile ai temi
russi ti comunico una notizia
allarmante. È possibile
farla arrivare anche ai lettori
di Missioni Consolata?
Padre Stefano Caprio,
un sacerdote legato alla
fondazione Russia Cristiana,
da 12 anni in Russia, si
è visto stracciare il visto e
rifiutare il permesso di
rientrare nel paese.
Viene da pensare che il
fatto sia da ricondurre al
recente conflitto tra il Patriarcato
ortodosso di Mosca
e la Santa Sede circa la
creazione di diocesi cattoliche
in territorio russo.
Possibile che la Chiesa ortodossa
ricorra a metodi
stalinisti pur di sbarazzarsi
di sacerdoti cattolici intraprendenti?
Padre Stefano,
infatti, ha ricostruito due
chiese (di cui è parroco), è
attivo presso la Caritas locale
e insegna in due università.

Il trattamento subìto
mostra in quale conto siano
tenute le libertà della
persona presso il governo
di Putin. Che fastidio vedere
i baci e gli abbracci
che gli riservano i governanti
dell’occidente!

I rapporti tra la Santa
Sede e il Patriarcato ordosso
di Mosca non sono
mai stati facili: oggi meno
che mai. E, di fronte ai diritti
umani, la Realpolitik
è talora spregiudicata.

Biancamaria Balestra




Se le bombe cadessero su di noi

Spett. redazione,
complimenti a MASSIMO
VENEZIANO per il «Battitore
libero» (Missioni
Consolata, gennaio 2002).
Mai un articolo così breve
è stato tanto eloquente. In
poche righe ha messo a
fuoco le vere realtà sociali
del mondo, evidenziando
il mal comportamento dei
«benpensanti».
È un caso che le riviste
missionarie ospitino articoli
di questo tipo? O è
perché i missionari subiscono,
con le popolazioni
del terzo mondo, il frutto
delle azioni dei nostri governi
che noi, forse, non
immaginiamo?
Mi è piaciuta la dizione
«capitalismo compassionevole
», che prima sfrutta
l’uomo e, poi, con le briciole,
finge di aiutarlo. Padre
Alex Zanotelli, al 19°
Congresso nazionale Aifo,
ha ricordato che la somma
stanziata dal G8 a Genova
è stata una presa in giro:
infatti, se divisa tra gli
ammalati di Aids, equivale
a 0,31 euro pro capite.
Sarebbe stato meglio se avessero
chiesto alle case
farmaceutiche (che di soldi
ne hanno fatti abbastanza)
di abbassare i
prezzi dei farmaci per permettere
a tutti di curarsi.
Nel 1954 Raoul Follereau
asseriva che, con il
costo di un aereo da guerra,
si poteva debellare la
lebbra. È rimasto inascoltato,
perché non c’è volontà
di aiutare i bisognosi.
E Paolo VI dichiarava
che i poveri ci sono, perché
fanno comodo ai ricchi.
Inoltre le statistiche
dicono che i poveri sono
sempre più poveri e i ricchi
sempre più ricchi: il
che vuol dire che pure noi,
cristiani, facciamo solo
finta di seguire l’insegnamento
di Gesù.
Inoltre, finché una buona
parte dell’utile di molti
paesi è determinato dalla
vendita di armi, non ci
sarà scampo: le guerre si
inventano, si provocano,
si cercano. Ora poi, che
non abbiamo una controparte,
che non rischiamo
granché, che (pur in guerra)
possiamo continuare
la nostra bella vita, ci sentiamo
giudici del mondo.
Ma se le bombe cadessero
sulle nostre teste, distruggessero
le nostre case e
uccidessero i nostri familiari,
quanti degli attuali
interventisti troverebbero
giuste certe guerre?
Continuate, vi prego, a
scrivere articoli sulla vera
realtà socioeconomica del
mondo: servono ad una libera
informazione, tendente
a risolvere la iniquità,
e anche a smascherare
i falsi cristiani.

Il risultato «briciole»
del G8 di Genova fu
stigmatizzato pure da noi
(Missioni Consolata, ottobre-
novembre 2001).
E, a proposito di armi,
Missioni Consolata (giugno
2001) ricordava che
l’Italia è terza al mondo
nella vendita di armi leggere,
nonostante le restrizioni
della legge 185/90.
Oggi c’è il disegno di
legge 1.927 che prevede
un allentamento dei vincoli
della legge 185/90…
Confidiamo nell’opposizione
di alcuni parlamentari
della Margherita, dei
DS, di Forza Italia, ecc.,
affinché il disegno non
diventi legge.

Dante Busetti




«Nuova Colombia»

Cari missionari,
benché sia stato volontario
in Africa, oggi faccio
parte dell’associazione
Nuova Colombia, che ha
come scopo di aiutare il
paese nei diversi problemi
che l’affliggono e che sono:
povertà (problema comune
a tutti i paesi sudamericani),
coltivazione di
coca e guerra civile. Vi
chiedo cortesemente di
dedicare un po’ di spazio
alla nostra associazione.
Nuova Colombia è capeggiata
dall’avvocato
Wainer. Al suo interno diversi
giuristi (tra cui il sottoscritto)
hanno contatti
con il governo colombiano
per tutelare i diritti umani
nell’attuale conflitto
che vede opposti militari e
paramilitari ai movimenti
guerriglieri Farc e Eln.
Si sta programmando
anche una collaborazione
con l’associazione contadina
Arauca, per creare un
allevamento di polli e
maiali. Tale allevamento è
una delle tante iniziative
volte a sostituire la coltivazione
di coca, di cui i
missionari della Consolata
sono stati antesignani.
Al progetto partecipano
altre associazioni.

Per maggiori informazioni
su Nuova Colombia:
-ancjos@tiscalinet.it
– gtonti@comune.it
– vburani@libero.it.
– panepacelavoro@tin.it

avv. Alessio Anceschi




Quell’«insalata mista»

Spettabile redazione,
ho letto su Missioni Consolata
dello scorso dicembre
di quel don Pietro che,
se è vero, ha lasciato fare a
due «bravi ragazzi» un
presepio in cui hanno
completamente falsato la
santa verità dell’anniversario
della nascita di Gesù,
dandogli come genitori
Fatima e Francesco!!!
Per piacere, i sacerdoti
educhino i loro giovani
parrocchiani a rispettare
le verità del Nuovo Testamento,
senza giocarci con
cervellotici arrangiamenti.
E, invece di benedire un
buonismo di dialogo interreligioso
(di cui non compare
traccia negli insegnamenti
del divino maestro),
propongano sì l’affetto
verso i fratelli non cristiani,
ma questo sia volto ad
aprire i loro occhi alla verità
e non a fare «insalate
miste» fra le religioni.
O – lo ripeto – si è persa
per strada la parola di Gesù
«andate e predicate al
mondo la buona novella»?
Non mi pare che il Salvatore
abbia detto di dialogare
coi sacerdoti di Iside
e Osiride!
Inoltre, nella bella pensata
del presepio, c’è pure
un errore storico: come
può Fatima convertirsi al
cristianesimo con Gesù
ancora in culla e Maometto
lontano 622 anni?… O
volevano far nascere Gesù
nel 2001 coi re magi in
jeep?
Non si dica che certi atteggiamenti
sono pieni di
buone intenzioni, perché
si sa che di queste è lastricata
la via dell’inferno. E
se il re Davide danzava davanti
all’arca dell’alleanza,
non è una buona ragione
per cantare al presepio filastrocche
da fiera paesana.
Scherza coi fanti e lascia
stare i santi.

Oggi, non raramente, il
linguaggio è o astruso o
volgare; nel primo caso ci
rimette la comprensibilità
e, nel secondo, la serietà.
Però il problema di una
comunicazione efficace
ed incisiva «oggi» perdura,
specialmente quando
si vuole trasmettere non
solo «un» messaggio, ma
«la» verità che libera,
converte e consola.
La questione coinvolse
lo stesso Gesù. Egli, per
essere convincente, ricorse
alle parabole, cioè ad
esempi, immagini, allegorie,
non sempre riconducibili
a fatti accaduti. Ma
l’ascoltatore gradiva e capiva
le sue allusioni.
Forse anche il presepio,
con i suoi personaggi (talora
di fantasia), è una parabola
per i tempi modei…
Anni fa un bambino,
Mariuccio, colpito da una
statuina del presepio
tradizionale allestito dal
parroco, domandò: «Don
Pietro, che ci fa in montagna
il pifferaio, a piedi
scalzi e in canottiera, nel
buio e freddo della notte?
». Ciò detto, il bambino
fece due passi indie-
tro, temendo forse uno
scapaccione.
Ma il sacerdote rispose:
«Mariuccio, un giorno
capirai che, grazie a Gesù,
tutto è cambiato nella
vita degli uomini. Si può
persino suonare il piffero,
di notte e a torso nudo,
su una montagna coperta
di neve».

dott. Benedetta Rossi




In attesa della legge sull’immigrazione

Caro direttore,
gradirei alcuni chiarimenti
sul vostro editoriale di
marzo e, in modo particolare,
sul secondo punto
dove si parla delle politiche
migratorie.
Certamente gli immigrati
sono prima persone e
poi «forza lavoro», ma intendo
richiamare la sua attenzione
perché sembra
che nel nostro paese debba
entrare chiunque, anche
se non in regola.
Perché la chiesa si batte
solo ed esclusivamente
per difendere i diritti degli
extracomunitari e molto
poco o niente per i giovani
disoccupati italiani? Secondo
voi, il nostro governo
non deve emanare delle
regole precise per regolare
il fenomeno
dell’immigrazione?

L’editoriale di marzo fu
sottoscritto da 150 missionari/
e di 16 istituti.
In aprile, poi, abbiamo
accennato al disegno di
legge sull’immigrazione,
approvato dal senato, che
ha suscitato riserve anche
nel cardinale Camillo
Ruini. «In particolare – ha
dichiarato l’11 marzo
scorso il presidente della
Conferenza episcopale italiana
– risulta discutibile
sia il collegare in modo
troppo stretto e automatico
il permesso di soggiorno
con il contratto di
lavoro, sia il limitare severamente
le possibilità dei
ricongiungimenti familiari
»… fermi restando «la
doverosa tutela della legalità
e il rispetto delle
compatibilità nell’accoglienza
degli immigrati».
Condividiamo questo
giudizio.
Il tema «lavoro giovanile
» è stato affrontato dai
vescovi in almeno due significativi
documenti: «Evangelizzazione
e testimonianza
della carità»
(1990) e «Comunicare il
vangelo in un mondo che
cambia» (2001).

Giorgio Gagliardo




Vincere l’integralismo

Spettabile redazione,
ho letto l’editoriale di gennaio.
Avete ragione: la
guerra porta solo guerra…
Ma, allora, dovremmo farci
invadere e colonizzare
senza reagire? Perché
questo vogliono gli integralisti:
prima immigrare,
poi il rispetto dei loro usi
(il che comporterebbe, ad
esempio, l’infibulazione)
e, infine, imporsi (come
fecero nel Medio Oriente
secoli fa e come già fanno
quelli che sputano sulla
carta d’identità italiana o
uccidono mogli e figlie
perché si vestono come le
nostre ragazze, cioè, secondo
loro, «da puttane»).

L’integralismo non si
combatte né si vince opponendone
un altro, ma
con l’arma della ragione e
«la giustizia dei fatti».

Mauro Mavea




I NERI NEL SANTUARIO DEI BIANCHI

Torino. Accompagnati dal rettore Franco
Peradotto, entriamo nel santuario della
Consolata rinnovato e ripulito. La fantasia
delle decorazioni, lo splendore dei marmi e il tripudio
dei colori sono esaltanti. Lo sguardo si attarda
con una preghiera sulla «nota immagine», che sovrasta
l’altare maggiore.
Giriamo a destra, per salire i pochi gradini che immettono
alla prima cappella laterale. «Guarda in alto!
» quasi ci comanda il rettore puntando il dito.
Sulla volta spicca un dipinto. Sorprendente.
«È un’opera di Luigi Morgari – spiega monsignor
Peradotto -. Ma è stata completamente ignorata da
tutti. Questa pittura è come se non esistesse.
Infatti, fino ad oggi, nessuno s’è accorto».
«Come mai?» chiediamo.
«Bella domanda!».
Il dipinto fu eseguito in occasione dell’ampliamento
del santuario della Consolata, terminato
nel 1904. La pittura ritrae una scena di evangelizzazione:
da un lato due missionarie davanti ad una
capanna e, dall’altro, tre missionari sul fronte di una
cappella con un quadro della Consolata. E uomini,
donne, bambini. In alto campeggia la litania mariana
«Virgo praedicanda» (Vergine da predicare).
Siamo in Kenya fra il popolo dei «kikuyu», raggiunto
dai missionari della Consolata nel 1902, un
anno dopo la fondazione del loro istituto ad opera di
Giuseppe Allamano, rettore pure del santuario
della Consolata. Ciò significa che la pittura fu
voluta certamente da lui.
Una pittura audace: e per il soggetto insolito
e perché ricordava un’impresa ai primi
passi, che poteva sgonfiarsi come una
bolla di sapone. Infatti la casa di formazione
dei missionari della Consolata,
che nel maggio 1902 si era rallegrata
per la partenza dei primi quattro evangelizzatori
per il Kenya, era subito piombata
nella solitudine per l’abbandono
delle reclute restanti. Però fu una pausa
brevissima. L’avventura ripartì subito con
nuovi missionari.
Ma la prudenza non era mai troppa, e il bene era da
compiersi bene. I neri nel santuario dei bianchi ci
stavano, eccome! Ma senza paparazzi. Per questo (ed
altro) l’immagine fu ignorata.
Giuseppe Allamano mise piede al santuario
della Consolata nel 1880. E trovò «il cuore
» religioso di Torino «asfittico» e brutto.
Urgeva dargli aria: e così fu con l’ampliamento
del santuario. Bisognava pure che la Madre lasciasse
le pareti domestiche per incontrare i suoi figli in fabbrica,
al mercato, nelle scuole, sui campi. Tutti i suoi
figli, compresi quelli più «poveri» della savana africana
e della foresta amazzonica, o quelli più «ricchi»
all’ombra di pagode: e così fu, grazie ai missionari
della Consolata oggi in quattro continenti.
Infine occorreva che i figli della Consolata le restituissero
la visita in casa sua, nel santuario…
Ci piace pensare (forse esagerando) che l’Allamano
abbia anticipato la sfida degli emigrati in Italia. Da
profeta, intuì che un giorno il santuario della
Consolata avrebbe pure accolto la «Salve Regina»
degli extracomunitari, essi soprattutto «esuli… piangenti
in questa valle di lacrime»: specie se clandestini
e senza contratto di lavoro.
E volle quella scena, ieri curiosa. Oggi vera.

FRANCESCO BERNARDI




DOSSIER: mutilazioni genitali femminili


Circa 130 milioni di donne, soprattutto nel sud del mondo,
sono sottoposte a scioccanti mutilazioni: l’operazione si pratica su
bambine in tenera età. Un atto contro i diritti dell’integrità della
persona. Una sua manipolazione. E la denuncia è doverosa.


Persone in
corpo e anima

Lo scrisse
su Missioni Consolata, nell’aprile 1996, la ricercatrice Anna Bono.

La piaga
riguardava allora 80 milioni di donne, mentre oggi ne investe 130 milioni.
Il dato al rialzo è dovuto a maggiori informazioni acquisite negli ultimi
anni: informazioni non facili, trattandosi di un tabù.

Nel giugno
1996 il Tribunale di Washington riconosceva che l’escissione, ad esempio,
è una persecuzione: quindi motivo sufficiente per concedere asilo alle
donne che lo richiedono.

In Italia
le mutilazioni femminili sono vietate,in base all’articolo 5 del Codice
civile e agli articoli 582 e 583 del Codice penale.

Missioni
Consolata ritorna sul tema con un dossier, perché ritiene che la sua
conoscenza sia fondamentale per debellare la piaga. È una violazione dei
diritti umani.

Secondo la
teologia morale cristiana, «l’uomo è unità»: di qui l’importanza anche del
corpo-soggetto. La persona si apre al mondo attraverso il corpo. Ma, se
l’individuo è corpo, è pure vero che non si identifica con esso. «Il
soggetto umano è il proprio corpo e tuttavia più del proprio corpo»
(Tullio Goffi, Problemi e prospettive di teologia morale, Queriniana,
Brescia, 1976, p. 335).

In nome di
una presunta supremazia (complici tradizioni culturali discutibili),
l’uomo può trattare i suoi simili da oggetto. A fae le spese sono spesso
le donne. Donne ferite, nel corpo e nella mente, anche attraverso le
mutilazioni genitali. Una gravissima manipolazione.

Non
l’unica oggi.

Francesco
Beardi


Storie
drammatiche sulla propria pelle

 E
non sei più come prima


 «Io urlavo come un animale al macello… Non permetterò
mai che le mie figlie possano subire un torto simile» (Aisha). «Sono stata
cucita con spine senza anestesia. La ferita mi bruciava» (Basma). «Ci
hanno dato dei regali: ma con quello che abbiamo patito non sarebbe
bastato tutto l’oro del mondo» (Fatima).

Prende
fiato Aisha, una bella ragazza somala di 30 anni, mentre inizia il suo
racconto percorrendo, a ritroso nella memoria, i ricordi di un evento
traumatico. «Avevo otto anni – continua -, stavo giocando a pallone con
alcune amiche e cuginette, in mezzo alla strada, davanti alla casa di mia
nonna. All’improvviso arrivò correndo mia sorella, Zahra, che disse:
“Vieni, dài, stiamo per essere infibulate…”. Era felice. Ci avevano
detto che era un grande evento e che, per l’occasione, avrebbero ucciso un
pollo e ci avrebbero offerto dei dolci. Quindi mi alzai e, felice, corsi
via con lei. Entrammo in una casa poco distante, dove abitava una vecchia
levatrice. Toccò per prima a mia sorella, di un anno più grande di me. La
donna, con l’aiuto di mia madre e mia nonna, fece stendere la sorella su
una stuoia. Io rimasi nella stanza a fianco, seduta per terra, silenziosa,
come paralizzata. La sentii urlare. Il suo dolore mi sembrava atroce: mi
entrava nelle orecchie e mi impediva di respirare. Ero terrorizzata. Una
violenta ribellione si impossessò di me. Feci per fuggire.

Non capivo
bene che cosa stesse accadendo, ma certamente, regali o no, non volevo
soffrire. “Non voglio più essere cucita” gridai con quanto fiato avevo in
gola. Ma la nonna mi afferrò stretta e, aiutata da una vicina, mi adagiò
su un materasso. Poi si sedette dietro di me e mi tenne aperte le gambe,
come in una morsa. La vecchia ostetrica aveva terminato il lavoro di
ricucitura. Mia sorella ora se ne stava quieta, come un animale ferito,
senza forze e senza volontà, sulla stuoia ancora insanguinata.

Era il mio
tuo. Sentivo crescere la disperazione e la rabbia. In ginocchio, di
fronte a me, la vecchia mi guardava sicura e severa. Con un esperto colpo
di coltello mi tagliò la clitoride e le piccole labbra, senza anestesia.
Allora non si usava ancora; ora sì, in ospedale, dove l’infibulazione è
praticata dai medici.

Furono
minuti indescrivibili: il coltello grondava sangue, mentre io urlavo come
un animale al macello; non capivo perché mi stessero facendo quel male.
Mia madre e mia nonna mi rassicuravano dicendo che stavo per diventare una
donna, che avremmo festeggiato tutti insieme l’evento, che erano
orgogliose di me, della sorella e che, qualche anno dopo, avrei potuto
sposarmi e fare dei bambini.

“Sposarmi?
Fare figli?” domandavo a me stessa mentre mi tagliavano, e pensavo ai
giochi lasciati per strada… Mi cucirono con ago e filo, lasciando
un’apertura sottile per far defluire l’urina e il sangue mestruale. Poi mi
lavarono e disinfettarono con erbe e unguenti. Infine mi legarono le gambe
strette tra loro e mi portarono a casa della nonna, insieme a mia sorella,
dove rimanemmo immobili, distese su stuoie, per due settimane. “La ferita
si deve rimarginare bene – ci spiegarono -; altrimenti, quando
partorirete, si lacererà”.

In quei
giorni arrivarono familiari, parenti e amici a congratularsi con noi.
Portarono dolci e doni, ma a me non interessava nulla: ero mortificata e
scioccata. Mia sorella sembrava invece gradire tutte quelle attenzioni; si
sentiva importante. Io ero piena di rabbia: “Mai – mi ripetevo –
permetterò che le mie figlie possano subire un torto simile”.

Pochi anni
dopo, fui data in moglie ad un uomo molto più vecchio di me… La notte
delle nozze avrei voluto morire. Provai un dolore atroce. Per il marito,
invece, fu un grande onore, una prova di virilità, avere rapporti con una
sposa così cucita. È anche una sicurezza sulla sua fedeltà: con chi altri
potrebbe mai tradirlo?

Rimasi
incinta. Andai in ospedale a Mogadiscio. Là mi aprirono per farmi
partorire, e mi ricucirono. Avevo 14 anni e avevo appena terminato le
scuole. All’età di 18 arrivai in Italia con mia sorella…».

Da 12 anni
Aisha vive in Piemonte con delle connazionali e si prende cura della
figlia. Il marito è in America a lavorare.

A
Mogadiscio ha frequentato, finché ha potuto, scuole italiane, come la
maggioranza delle sue coetanee benestanti, e in Italia si è laureata in
medicina, mentre lavorava come assistente domiciliare per anziani. La sua
attività più importante è quella di sensibilizzare le sue connazionali,
giovani mamme e ragazze, contro la pratica delle mutilazioni genitali,
affinché quelle giovani vite non debbano patire torture atroci in nome
della tradizione e del controllo dell’uomo sulla donna.

Una donna
grossa mi bloccava tra le sue gambe, mentre mi bendavano gli occhi con un
foulard nuovo. Mi hanno operato senza anestesia (sono solo 20 anni che
hanno iniziato ad usarla, ad operare su tavoli e a chiamare un’ostetrica).
Sono stata cucita con le spine. La ferita mi bruciava. Mia madre mi ha
lavata con acqua calda. Dopo aver scavato una buca per terra e deposto
della carbonella con delle erbe che producevano fumo, mi hanno fatta
appoggiare sopra per disinfettare e seccare la cucitura, che è diventata
scura. Ho contratto un’infezione, perché mi sfregavo la ferita: sono stata
male per un mese, avevo la febbre…».

Nonostante
il ricordo ancora vivo della sofferenza causatale da tale pratica, Basma
si dichiara pronta per lo stesso intervento: sua figlia è stata infibulata
e vorrebbe che anche le nipoti seguissero la tradizione.

Per
Fatima l’esperienza non è da ripetersi. «Sono stata circoncisa a sette
anni, insieme ad una sorella di nove. Altro che festa! Quel giorno ho
subìto uno shock che non dimenticherò più. Sono stata operata senza
anestesia, senza niente. Ho sofferto moltissimo. Eravamo sette bambine da
sei a nove anni; c’erano le figlie dei vicini di casa, nel tempo di
chiusura delle scuole. Le donne si erano dette: “Facciamo ciò che dobbiamo
fare, perché le ragazze sono ormai grandi”.

Hanno
chiamato una donna anziana e siamo state operate in una casa vicina. La
prima ad essere sottoposta ai ferri è stata la più piccola, mentre noi
guardavamo terrorizzate, in lacrime. La mamma era fuggita, perché non
voleva sentire i nostri pianti.

Mi
hanno deposta nuda su un tavolo grande, mentre tre donne mi tenevano
legate mani e piedi. Non ho visto con che cosa mi hanno tagliata, se con
un coltello o una forbice (si nascondono gli strumenti, perché la pratica
incomincia ad essere criticata). Mi hanno asportato la clitoride e le
piccole labbra. Poi sono stata cucita con filo, perché eravamo in città, e
non con spine, come avviene in campagna. Il dolore è durato ben sette
giorni. Sono rimasta con le gambe legate (dalla vita fin sotto le
ginocchia) per due settimane. Non si può mangiare… Io sono riuscita a
fare pipì, mentre a mia sorella (che non l’ha fatta per tre giorni) si è
gonfiata la pancia. Ha sofferto di più, perché era più grande.

Mamma e
papà, una volta guarite, ci hanno dato dei regali: ma con ciò che abbiamo
patito non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo a consolarci! Per fortuna
non sono sorte infezioni, perché papà ci portava tintura di iodio e
antibiotici.

Prima
dell’operazione correvo, giocavo a pallone, ma dopo non l’ho più fatto.
Mia madre mi diceva sempre: “Attenta, ora sei diventata grande, ti
strappi!”.

Non ero
più libera. Non era più come prima. Mi hanno lasciato un buco
strettissimo. Prima del contatto con l’uomo, le mestruazioni erano molto
dolorose. I primi rapporti sessuali mi hanno fatto schifo. Poi è andata un
po’ meglio».

 



Il parere medico sulle mutilazioni

 Igiene?

C’è ben altro!

 «L’infibulazione
è un rapporto tra schiava


e padrone, dove, in accordo a schemi primitivi,

si dona
tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è zero. Esse non valgono
nulla» (dott. Mascherpa).


«È un rito iniziatico: la donna rimane un oggetto e, nello stesso tempo,
viene allontanata da lei ogni tentazione» (dott. Bracco).



E le conseguenze sono clamorose.


 Abbiamo interpellato il dottor Franco Mascherpa, medico presso la clinica
ginecologica universitaria di Torino, a suo tempo impegnato in Somalia,
sulle mutilazioni genitali femminili.


Dottore, cosa s’intende per mutilazione sessuale femminile?


«Attualmente sono circa 130 milioni le donne che hanno subìto pratiche di
mutilazione sessuale. Sono interventi laceranti, che si effettuano sui
genitali estei delle bambine prepubere.

Sono
possibili tre tipi di operazione. La più diffusa è quella sudanese o
faraonica (infibulazione), che risulta la più mutilante e dà origine a
tanti problemi medici e psicologici. Essa consiste nell’asportazione della
clitoride e delle piccole labbra, nella cruentazione (con incisioni
verticali, scaificare) della parte intea delle grandi labbra, della
parte mediana della vulva e nella cucitura delle labbra. Le tecniche di
sutura sono diverse: nelle zone rurali si possono usare spine di acacia,
tenute insieme da fili di cotone.

La
clitoridectomia (escissione) è meno diffusa: prevede l’asportazione della
clitoride e della parte superiore delle piccole labbra. La ferita non
viene mai suturata, bensì tamponata con erbe. Le bambine vengono fasciate
con le gambe strette.

La
sunnah (circoncisione), diffusa nei paesi arabi, ma anche in Somalia) è
una pratica meno cruenta della clitoridectomia: comporta minori
conseguenze permanenti sul piano fisico. Consiste, nei casi più radicali,
nella asportazione di una parte della clitoride. Nelle varianti minori
vengono prodotte piccole ferite superficiali nella regione paraclitoridea.
Lo scopo di tale pratica è di produrre una fuoriuscita di sangue.
Solitamente viene utilizzato un coltello rituale, oppure una lametta da
barba. Vengono anche impiegate sostanze anestetiche.

Dopo
l’intervento, le gambe delle bambine vengono saldamente legate con fasce
all’altezza delle caviglie, delle ginocchia e delle cosce, e mantenute in
questa posizione per dieci giorni, durante i quali seguono una particolare
dieta. Talvolta cospargono la ferita con una sostanza a base di incenso e
mirra, che ritengono svolga un’azione antisettica e cicatrizzante.

Un
altro aspetto del fenomeno è la reinfibulazione post partum. Una
missionaria mi raccontò che, in Somalia, la praticavano alle donne che
avevano appena partorito per evitare tensioni familiari».

Come
sono considerate le donne non circoncise?

«In
Somalia le donne non circoncise sono ritenute orfane, meticce e fanno di
mestiere le prostitute: questo perché perdono dignità, valore sociale ed
economico; non sono più sposabili e hanno perciò poche speranze di
sopravvivenza. In un paese povero come la Somalia, infatti, le poche
risorse sono legate alla presenza di un uomo. Le donne, se non c’è un
maschio a fianco che abbia qualche attività commerciale, da sole non
possono sopravvivere. Per la stessa ragione vogliono essere sempre
incinte: il marito, che ha mogli sparse qua e là, è più propenso ad
andarle a trovare spesso e portare loro da mangiare. Se la donna è
sterile, rischia di non ricevere mezzi di sussistenza».

In
Occidente consideriamo affascinanti le somale: la loro bellezza, la
fierezza e la sensualità del portamento sembrano giustificare tale
considerazione. Ma come vivono il rapporto con il proprio corpo?

«In
Somalia, come ginecologo e sessuologo, ho cercato di capire come le donne
si rapportavano alla propria sessualità: l’unica risposta che ne ho
dedotto è che essa ha una pura funzione riproduttiva. La loro grande
sensualità non è genitale, perché da quegli organi ricavano solo molto
dolore. Dal punto di vista ginecologico, hanno sempre mal di pancia e
problemi vari. Per loro il benessere non è vivere bene la sessualità nel
matrimonio, bensì avere un marito che le mantenga.

Le
bambine di soli cinque anni, che sanno di essere infibulate, aspettano con
ansia il momento di passaggio all’età adulta. Se una ragazzina grandicella
non ha ancora subìto tale operazione, viene emarginata dal gruppo di
amiche.

Il
corpo della somala è un corpo doloroso. Infatti i racconti sui primi
rapporti sessuali sono agghiaccianti, traumatici: lei si presenta a lui
“cucita”. Sono poche le mogli che, d’accordo con il marito, si fanno
scucire. In genere lui vuole constatare di persona che lei sia chiusa. La
regola è quella del grano di mais: se passa un grano è ben cucita. Da quel
foro fuoriescono urine e mestruazioni, ma con gran ristagno di liquidi.

Al
momento della penetrazione sorgono i problemi: la cucitura deve essere
aperta o con il pene o un oggetto qualsiasi (un coltello, una lametta, la
parte superiore di una lattina di coca-cola).

L’atto
sessuale, più che un rapporto intimo, è un gesto di valorizzazione sociale
delle velleità maschili: io, uomo, la posso penetrare anche se è
difficilissimo. È una prova, mentre alla donna è richiesta una
superverginità. Spesso questa ha il primo rapporto in modo strumentale,
non naturale: vetri, coltelli, forbici, frammenti di latta che lacerano le
suture. Una donna facile da avere è vista come una prostituta, con
sospetto. Una donna non infibulata può essere ripudiata immediatamente. Se
il marito non riesce a deflorare la moglie, può sempre dire di aver
sposato una donna ben cucita, quindi di grande moralità.

In
Somalia si porta ad estreme conseguenze questo aspetto antropologico: “io
sono così preziosa che sono inaccessibile; però quando mi conquisti mi dai
tutto”. È un rapporto tra schiava e padrone, in cui, in accordo a schemi
primitivi, si dona tutto e si riceve tutto. Il rispetto per le donne è
zero. Esse non valgono nulla.

Se
l’orgasmo femminile è seducente per l’uomo in un contesto occidentale, è
superfluo, negativo, privo di interesse in società maschiliste e sadiche.
“Perché una donna mi deve sedurre? Faccio io quello che voglio di lei.”
Innamoramento, amore non esistono. La donna è un mezzo attraverso il quale
l’uomo realizza la propria discendenza.


Comunque, a livello sessuale, donna e uomo hanno strategie diverse: la
prima deve essere prudente, poiché ne può conseguire una gravidanza; il
secondo invece cerca di sedurre più donne possibile, perché la poligamia è
la forma di famiglia più diffusa nel mondo (come numero di culture, non di
persone). In Occidente si espleta attraverso numerosi rapporti
extraconiugali, che coinvolgono l’80% delle persone».

Ci sono
donne somale che chiedono di essere deinfibulate perché sono fidanzate ad
italiani?

«Dove
sono? Si sposano solo tra loro. Da me arrivano donne con complicazioni
mediche… Un somalo non sposerebbe mai una connazionale, anche se
infibulata, arrivata qui molto tempo fa, perché pensa che abbia ormai
assunto la mentalità occidentale. Tutte le donne che hanno avuto
“contaminazioni” con l’Occidente non si sposano più».

Tutte
le giovani somale in Italia sono qui sapendo che perdono la possibilità di
trovare marito?

«Se non
trovano subito un fidanzato somalo, con il passare del tempo perdono la
propria accettabilità sessuale».

 


 Abbiamo brevemente intervistato anche il ginecologo Roberto Bracco.


Dottore, in certi contesti culturali l’infibulazione è considerata
un’usanza igienica, che rende più bello e pulito il corpo della donna.
Cosa ne pensa?


«L’infibulazione non è una pratica igienica. In tutti i casi che ci sono
capitati, quando abbiamo riaperto la ferita, abbiamo trovato l’assenza
totale di igiene. L’urina e il sangue mestruale ristagnano all’interno
della cucitura».

Come
intervenite?


«Introduciamo una pinza a becco e tagliamo i punti. In certi casi è
necessario operare con anestesia totale».

Come
definire allora l’infibulazione?

«Un
intervento mutilante che, dal punto di vista sanitario, non ha nulla di
igienico. È un rito iniziatico: l’asportazione della parte erettile della
donna. La clitoride, infatti, ha la stessa struttura anatomica dei corpi
caveosi del pene; rappresenta il centro del piacere sessuale femminile,
che viene così ad essere mutilato. Se in un rapporto di coppia si toglie
alla donna la parte di piacere, essa rimane un oggetto e, nello stesso
tempo, viene allontanata da lei ogni tentazione. Il controllo dell’uomo è
così veramente efficace.

La
circoncisione femminile, praticata alle donne egiziane, è invece più
blanda e permette loro di avere una vita sessuale normale.

Nei
casi estremi si può intervenire chirurgicamente con una plastica delle
piccole labbra».

 

La
pratica delle mutilazioni genitali femminili può comportare delle
complicazioni mediche immediate e a lungo termine.


Nell’immediato: shock post-operatorio, infezione locale, setticemia,
tetano, emorragia, lesioni delle vie urinarie e della regione perianale,
ritenzione di urina e infezioni urinarie…

A lungo
termine: proliferazione fibrosa del tessuto, cisti e ascessi, malattia
infiammatoria pelvica, ritenzione di sangue nella vagina e cavità uterina,
defibulazione cruenta al momento della deflorazione e del parto, parto
distocico, fistole vagino-vescicali e rettali post partum, rapporti
sessuali difficoltosi e dolorosi, infezioni uro-genitali ricorrenti…


mancano ripercussioni psicologiche: paura e angoscia infantile,
lacerazione in infanzia/età adulta, senso di inevitabilità del proprio
destino, senso di inferiorità sociale, morale e spirituale della
condizione femminile, disturbi della sfera sessuale, restringimento di
interessi e perdita di intraprendenza, senso di offesa alla propria
integrità psico-fisica, caduta di autostima, malattie mentali (nevrosi
cenestopatica, stati depressivo-reattivi).

 


I dati riportati sono stati desunti dalla ricerca della professoressa
Silvana Borgognini Tarli, docente di antropologia all’università di Pisa,
e della dottoressa Elisabetta Marini, ricercatrice in scienze
antropologiche, pubblicata dalla rivista «Sapere», maggio-giugno 1994.

 

 



Altre dichiarazioni e precisazioni

 Tra
dovere



e vergogna

 


Alia: sono stufa di sentirmi chiedere se approvo o meno l’infibulazione e
se la ripeterei sulle mie figlie… Mariam: l’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna; è una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci…Giovanna: i seni, i glutei e altre
parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse altrettante
forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al maschio o
di tenersi il marito?

 

Alle
donne somale dà spesso fastidio l’interesse dell’Occidente verso
l’infibulazione: sentono una ingerenza nella loro vita, nelle loro
tradizioni, nei loro corpi.

Alia,
studentessa somala, dichiara: «Noi non andiamo a sindacare sulle abitudini
sociali, sessuali o estetiche delle donne europee. Sono fatti loro, come
la tradizione dell’infibulazione è affare nostro. Sono stufa di sentirmi
chiedere se approvo o meno questa usanza e se la ripeterei sulle mie
figlie. L’Occidente non può sempre esportare i suoi valori e il suo
modello di vita agli altri paesi. Credo che ogni popolo vada lasciato
libero di scegliere il suo modello di sviluppo e di seguire le proprie
tradizioni, senza per questo essere accusato di barbarie o di inciviltà».

Di
opinione differente si dimostra Mariam, mediatrice culturale presso uno
sportello sociosanitario di Torino: «Sono contraria alla pratica delle
mutilazioni genitali, anche se l’ho subìta e non me ne vergogno, come
invece accade ad alcune mie connazionali. È parte della nostra cultura e
non c’è da vergognarsene. Anche sul termine “mutilazioni” non sono
d’accordo. Si può condividere o meno l’uso di tale pratica, ma non credo
che si tratti di una mutilazione. Certo, i danni causati sono molti. Da
noi infatti arrivano donne infibulate, che hanno sviluppato seri problemi
clinici e hanno timore di essere visitate, ma anche madri che chiedono
consigli sulla scelta di fare infibulare (o circoncidere) le proprie
figlie.

In
Somalia tutte le bambine sono sottoposte a tale intervento. Vengono
preparate dalle madri ad accettare ciò che dovranno subire come un momento
importante nella loro vita: è un “rito di passaggio” che si manifesta
anche attraverso la festa, i regali e l’aspetto gratificante del
riconoscimento pubblico. Le mamme chiedono alle figlie di non esteare
dolore e pianto, perché altrimenti disonorano la famiglia: infatti la
parte coinvolta del corpo è “vergognosa”, e non può essere menzionata. Il
dolore, dunque, va nascosto, segregato, represso.

Alcuni
fanno ricoverare le proprie figlie in ospedale, affinché l’operazione sia
eseguita in modo corretto e igienico; altri si rivolgono a “mammane”, che
tagliano senza anestesia e in condizioni sanitarie pessime. In entrambi i
casi, tuttavia, la ferita rimane: nel corpo e nella mente. Ed è difficile
da rimarginare. Crescendo sorgono grossi problemi ginecologici, che si
manifestano soprattutto durante i rapporti matrimoniali, la gravidanza e
le mestruazioni. Le donne, qui in Italia, hanno paura di farsi visitare:
temono di essere scucite. A Firenze opera un medico somalo, che con il
laser deinfibula coloro che glielo richiedono.

Prima
della notte di nozze, qualche donna accetta di farsi scucire per evitare
lacerazioni e sofferenze eccessive; ma la maggioranza rifiuta tale
pratica, temendo il giudizio negativo del marito. Si dice che venga a
mancare la sensibilità femminile durante il rapporto sessuale; non è vero.
Ad essere asportata è solo la parte superiore della clitoride. Io ritengo,
comunque, che noi donne abbiamo il dovere di ribellarci a questa pratica.
Dobbiamo dire “no”. Dobbiamo porre fine a tale cultura.

Prima
della guerra civile, il presidente Siad Barre (1) aveva promosso una
campagna contro l’infibulazione, ma con il conflitto tutto è andato
perso…

Le
donne somale in Europa, ad esempio, si pongono il problema se fare
tagliare o meno le proprie bambine e pensano: “Adesso siamo qui e tutto va
bene. Ma, se torniamo nel nostro paese, cosa accadrà alle nostre figlie?
Verranno prese in giro dai coetanei, additate come prostitute e non
troveranno mai marito“.

A
Torino le donne somale sono oltre un migliaio, e sono poche quelle che si
rifiutano di ricorrere all’infibulazione. È sentita come un retaggio
culturale da mantenere.

Io non
l’accetto. Che senso ha? Perché mai è necessaria? Nel passato era forse
usata come una sorta di “cintura di castità”… L’unico suo significato è
quello di controllo, di potere da parte dell’uomo sulla donna. È una forma
di maschilismo cui dobbiamo opporci».

 


 Abbiamo avuto pure l’occasione d’incontrare Giovanna Zaldini, di origine
somala, vicepresidente dell’Associazione torinese Alma Terra.

Ci sono
famiglie, in Italia, che richiedono di infibulare le proprie figlie?

«A
Torino non sono mai state registrate, finora, richieste di
infibulazione/circoncisione.

Chi ha
scelto di emigrare in Italia ha pure scelto di mettere in discussione le
proprie origini e tradizioni, diversamente da chi è stato costretto a
lasciare il proprio paese a causa della guerra. Questa seconda tipologia
di persone si sente più sradicata e non è in grado di operare scelte
contro la propria cultura e tradizione… In ogni caso, se in Italia vi è
stata richiesta di infibulazione, non troverà risposta da parte dei
medici.

Il
problema più evidente è quello delle conseguenze sulla salute delle donne
già infibulate. A livello sanitario nazionale, permane ancora una grande
impreparazione nell’affrontare casi di pazienti infibulate e nel prestare
loro soccorso e cure adeguate. Quando, ad esempio, in ospedale arrivano
delle partorienti infibulate nessuno pensa di scucirle prima del parto. Il
personale sanitario ricorre automaticamente al taglio cesareo.

Inoltre
le donne giovani non si sottopongono a visita ginecologica per paura del
dolore, ma anche perché si vergognano e non si sentono capite dai medici.
Qualcuna ha raccontato di avere provato molto disagio, perché si sentiva
studiata, osservata.

Anche
per questa ragione va posta molta enfasi sulle nefaste conseguenze
cliniche di tale pratica e sulle ragioni che spingono certi poteri ad
infibulare le proprie donne; così facendo, sottopongono queste ultime ad
umiliazioni e mortificazioni ulteriori.

In
Occidente si parla di “mutilazioni” sessuali. Già! Ma i seni, i glutei e
altre parti del corpo sottoposte a chirurgia estetica non sono forse
altrettante forme di tortura a cui la donna si sottopone pur di piacere al
maschio o di tenersi il marito? Altrimenti se ne cercherebbe una più
giovane, più bella o più “nuova”…

Il
comune denominatore tra “noi” e “voi” resta sempre la sottomissione al
desiderio maschile. Abbiamo tutte subìto un lavaggio del cervello. Siamo
dipendenti dagli uomini, in un modo o nell’altro, a livello sociale,
economico, psicologico.

Per una
donna somala non essere infibulata significa non trovare marito; per una
occidentale non possedere un bel seno vuol dire non essere neanche
guardata. Per la paura di non trovare un uomo che le sposasse, nel mio
paese erano le bambine stesse a chiedere alle mamme più liberali di essere
cucite.

In
Somalia, durante il 1986-90, è stata portata avanti una campagna di
sensibilizzazione contro l’infibulazione, che non ha inciso molto.
Tuttavia, la massiccia emigrazione porterà per forza al confronto con
altre culture e al cambiamento di mentalità nei confronti di questa
pratica.

Se si
supera l’età più a rischio, che va fino a 12-13 anni, le ragazze saranno
fuori pericolo e le mamme avranno un alibi per evitare loro l’intervento.

Presso
gruppi somali, residenti all’estero da lungo tempo, si è visto come il
fenomeno dell’infibulazione si stia trasformando in un’azione puramente
simbolica, iniziatica (pungere la clitoride in modo che fuoriesca del
sangue), finalizzata alla purificazione».


Come dire: l’incontro fra culture diverse può essere liberatorio.

 

(1)
Siad Barre, presidente-dittatore, fu al potere in Somalia dal 1969 al
1991.

 

 


Mutilazioni
sessuali femminili nel mondo

Sono
circa 130 milioni le donne che, nel mondo, hanno subìto mutilazioni
sessuali: circoncisione (clitoridectomia), escissione, infibulazione.

La
circoncisione consiste nella rimozione del prepuzio della clitoride; tale
pratica, nei paesi arabi che la eseguono, è chiamata anche «sunnah».


L’escissione prevede la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole labbra (interamente o in parte), ma lascia intatte le grandi
labbra e il resto della vulva.


L’infibulazione è la rimozione del prepuzio, della clitoride, delle
piccole e grandi labbra, la sutura delle due estremità della vulva (viene
lasciata una piccola apertura per permettere al flusso dell’urina e del
sangue mestruale di scorrere).

 

Queste
pratiche mutilatorie sono largamente diffuse in Africa, Asia, Mondo Arabo,
America Latina ed Europa.

n
Africa: nella costa occidentale, dal Camerun alla Mauritania, nelle zone
centrali e nel Ciad, nel nord dell’Egitto, in Kenya e Tanzania
(circoncisione ed escissione), in Mali, Sudan, Somalia, Etiopia e nel nord
della Nigeria (infibulazione).

n Asia:
Filippine, Malesia, Pakistan e Indonesia (tra i gruppi musulmani).

n Mondo
Arabo: Emirati Arabi Uniti, Yemen del sud, Bahrain, Oman.

n
America Latina: la circoncisione femminile è praticata in Brasile, in
Messico e Perù (presso gruppi di origine africana).

n
Europa: a causa della numerosa presenza di immigrati provenienti dai
sopracitati paesi, il fenomeno delle mutilazioni genitali, dall’antichità
dov’era sepolto, è ritornato alla luce e interessa una vasta fascia di
donne e bambine straniere. Una nuova tendenza, al riguardo, è stata
introdotta da ricchi africani che portano le loro figlie in Europa per
sottoporle a circoncisione, sotto anestesia e in condizioni
igienico-sanitarie migliori di quelle presenti nei loro paesi.

(cfr.
«The circumcision of women. Strategy for eradication», Zed Books ltd,
London).

 


E il
nostro paese?

 L’
Italia è interessata al fenomeno, insieme al resto dell’Europa, anche se
non è possibile risalire a dati certi e reali: certamente esistono casi
(forse qualche centinaio), dal 1992 ad oggi, di bambine, figlie di
immigrati, che hanno subìto mutilazioni sessuali nel nostro paese o in
patria. Quando i genitori non decidono di accompagnarle al paese
d’origine, le piccole vengono operate qui, in cliniche private o in case,
dove medici italo-somali o personale paramedico eseguono l’intervento.

Per
un’infibulazione la famiglia giunge a pagare oltre 1.000 euro. L’età delle
bambine si aggira tra 5 e 12 anni.

Molto
più alto è, invece, il numero di donne straniere, residenti in Italia, che
sono state sottoposte, anni addietro e nel paese d’origine, a
circoncisione o infibulazione.

Oggi
qui, in terra di immigrazione, manifestano varie patologie, fisiche o
mentali, o semplicemente profondo disagio psicologico.

 

 



Infibulazione: è possibile cambiare?

  

Di
questa pratica, delle sue origini, motivazioni e degli strumenti per
sradicarla totalmente dall’uso comune in molte aree dell’Africa, si è
occupato il seminario internazionale «Mutilazioni dei genitali femminili.
Una questione di relazioni tra uomini e donne», organizzato nel giugno
scorso a Torino, presso il Centro internazionale di formazione, dall’Aidos
(Associazione italiana donne per lo sviluppo). Numerosi gli interventi di
esperte africane (giuriste, psicologhe, medici, sociologhe e
antropologhe), da anni impegnate in prima fila nella lotta contro il
fenomeno.

«ll
nostro intento è quello di promuovere scambi di informazioni e conoscenze
fra le associazioni africane ed occidentali – ha detto Cristiana Scoppa,
dell’Aidos e una delle organizzatrici del corso – e di fornire strumenti
formativi e didattici per facilitare l’opera di prevenzione nei villaggi e
nelle città dell’Africa.


Cerchiamo di aiutare a sviluppare una consapevolezza sulle motivazioni
personali, non solo sociali e tradizionali, alla base del radicamento di
tale pratica. È solo prendendo coscienza di sé, del proprio ruolo di
donna, del proprio valore e dei modelli familiari di appartenenza
(centrati sul controllo della donna da parte del clan familiare maschile)
che è possibile apportare un cambiamento a tradizioni antiche e radicate.

Un
altro aspetto altrettanto importante è quello dell’informazione
nell’ambito sanitario: medici e infermieri, infatti, sempre più spesso in
Italia e a Torino, si trovano di fronte a donne infibulate o escisse, in
procinto di partorire, ed è impensabile che possano operare alla rimozione
della sutura al momento delle doglie. Bisogna intervenire prima,
altrimenti si creano lacerazioni o complicazioni gravi e tanto disagio,
sia per le pazienti sia per i medici».

 

Il prezzo … della
sposa

Le
mutilazioni genitali femminili (mgf) hanno radici lontane e ancora oscure.
Qualcuno le fa risalire ai faraoni di Egitto (circoncisione faraonica),
altri all’antica Roma (in-fibulare, chiudere con fibbia: è l’usanza di
applicare ai genitali estei maschili o femminili fermagli o anelli per
evitare i rapporti sessuali).

Molti
sono gli studi sull’argomento, a livello sia antropologico-sociologico sia
medico-scientifico, che tuttavia non hanno scalfito il silenzio e il
disagio che gravitano attorno a questo diffusissimo fenomeno.

 Scrive
Carla Pasquinelli nella ricerca «Antropologia delle mutilazioni dei
genitali femminili», curata dall’Aidos (Associazione italiana donne per lo
sviluppo): «Dietro questo silenzio ci sono molte cose: c’è un mondo di
donne chiuso su se stesso, un mondo di interni, sospeso tra l’attesa e il
timore di togliare via una parte del corpo delle proprie bambine nel corso
di cerimonie di cui per secoli le madri sono state le grandi registe, e
c’è un mondo esterno, un mondo di uomini che si mantiene estraneo e
distante, e che però su questo disciplinamento dei corpi femminili ha
fondato le proprie strategie di potere. A tenere insieme e dare coerenza a
questi due mondi così distanti tra loro c’è una pratica cruenta, che
stringe in una morsa tutta la fascia dell’Africa subsahariana, e che
costituisce l’espressione simbolica di un complesso sistema economico e
sociale di strategie matrimoniali diffuso in maniera capillare in tutta
l’area.

Si
tratta di un meccanismo di dominio fondato sul prezzo della sposa, cioè
sul compenso che la famiglia del futuro marito versa alla famiglia della
futura moglie in cambio di una donna illibata, il che vuol dire circoncisa
(escissa o infibulata che sia), pronta a rispedirla al mittente e a
riprendersi il compenso versato… se la donna non è operata come si deve.
Il valore di una sposa dipende infatti dalla sua verginità e le mgf sono
una forma di protezione che inibisce nella donna desideri e tentazioni di
rapporti prematrimoniali, ma che soprattutto la preserva e la difende da
violenze e stupri».

 

Fra
tanta incertezza circa l’origine del fenomeno delle mutilazioni genitali
domina una certezza: l’islam non ha nulla a che vedere con la diffusione
in territorio africano di questa antica pratica ad esso antecedente.

Scrive
ancora Carla Pasquinelli: «L’attribuzione che spesso viene fatta
all’islam… è probabilmente dovuta alla facilità con cui si è saputo
adattare al tessuto tradizionale conformandosi al modo di vita locale.

La sua
penetrazione, infatti, è stata resa possibile dalla presenza nelle culture
africane di alcuni elementi (come le strutture patrilineari e la
concezione di Dio fondata su un forte senso di dipendenza), che ne hanno
favorito l’accettazione, permettendogli di radicarsi nel tessuto
tradizionale molto più di quanto non siano riuscite a fare le varie chiese
cristiane che si sono impegnate alcuni secoli più tardi
nell’evangelizzazione del continente africano…

Questo
diverso atteggiamento della religione islamica e di quella cristiana si
riflette anche nella percentuale di donne sottoposte alla mutilazione dei
genitali nei due contesti. Le cifre parlano chiaro: mentre in area
cristiana (dove predomina la clitoridectomia) le percentuali oscillano tra
il 20 e il 50, in area islamica (in particolare nel Coo d’Africa, dove
l’infibulazione è di rigore) si toccano punte che vanno dall’80 al 100%.

Con il
tempo l’identificazione dell’islam con la tradizione indigena non ha fatto
che rafforzarsi, a tal punto che è stato il maggior responsabile della
diffusione delle mutilazioni genitali femminili fuori dell’Africa,
esportandole tra l’altro in Indonesia e Malesia».

 

Bibliografia

– The
circumcision of women, a strategy for eradication (a cura di Olayinka
Koso-Thomas), Zed Books Ltd, London


Antropologia delle mutilazioni dei genitali femminili, una ricerca in
Italia (a cura di Carla Pasquinelli), Aidos


Special needs of ritually circumcised women patients (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein – Evelyn Shaw), in «Jognn, principles & practice»


Figlie d’Africa mutilate. Indagini epidemiologiche sull’escissione in
Italia (a cura di Pia Grassivaro Gallo), Editrice L’Harmattan Italia, 1998

– Nous
protégeons nos petites filles (a cura de la «Prefecture d’Ile-de-France»)

– Il
corpo offeso, in «Sapere», 1994

– The
sexual esperience and marital adjustment of genitally circumcised and
infibulated females in the Sudan (a cura di Hanny Lightfoot-Klein), in
«The Joual of sex research», 1989


L’histornire de Fatoumata (a cura di «Campagne pour l’éradication des
mutilations génitales féminines»)


Mutilazioni dei genitali femminili. Una questione di relazioni tra uomini
e donne, diritti umani e salute (convegno), Torino, luglio 2001, OIL


Figlie d’Africa mutilate, anche in Italia (convegno), Torino, febbraio
1999


Infibulazione tra diritti umani e identità culturale (a cura del CSA,
Centro Piemontese di Studi Africani, Associazione Frantz Fanon, Istituto
Avogadro), Torino 1998


Pharaonic circumcision of females in the Sudan (a cura di Hanny
Lightfoot-Klein), in «Medicine and Law», 1983


Observation ethnopsychiatrique de l’infibulation des femmes en Somalie (a
cura di Michel Erlich) in «Terrain Ethnologique»

– La
lunga marcia delle donne contro l’infibulazione, in «Tam Tam», 1995

– Waris
Dirie, Fiore del deserto. Storia di una donna, Garzanti Editore, 2000


L’excision hors la loi (a cura di Karine Sidibe), in «Le Temps de
l’Afrique noire», novembre 1996

– La
salute delle donne e le mutilazioni sessuali: un problema della società
multietnica (a cura di Elisabetta Cirillo), in «Politica del Diritto»,
marzo 1992

Angela Lano




Lettere


Mosca:
dialogo tra

ortodossi e
cattolici

 Egregio
direttore,

quanto
fu affermato da Aleksej Uminskij, prete ortodosso a Mosca, su Missioni
Consolata di marzo 2001, è in contrasto con gli orientamenti del
patriarcato di Mosca. Allego un’intervista ad Ilarion Alfeev del
patriarcato.

Ho
scritto a padre Aleksej, ma la lettera è tornata indietro, perché è un
emerito sconosciuto… Tentate anche voi la rinascita della chiesa
cattolica del beato Leonida Fedorov, esarca bizantino russo.

don
Vito Tedeschi
,

Carife (AV)

 Nel
luglio del 2000 padre Ilarion Alfeev disse che la chiesa ortodossa russa
intende continuare il dialogo con quella cattolica. Ci auguriamo che sia
vero, nonostante qualche passo indietro (anche recente).


 


Pigmei,
come

le scimmie

 Cari
missionari,

per
continuare il discorso sulla Repubblica Centrafricana (Missioni Consolata,
gennaio 2002), aggiungo che nel paese vi sono altre persone che pagano un
tributo ancora più alto di quello denunciato: sono gli aka, un gruppo del
popolo pigmeo.

Autori
di abusi e discriminazioni non sono solo i bianchi, ma anche i neri.
Contro gli aka delle selve centrafricane congiurano un po’ tutti, perché
le foreste fanno gola a tanti, perché tante sono le ricchezze: dal legname
pregiato ai diamanti, dai principi terapeutici contenuti in radici, foglie
e cortecce agli animali; ad esempio, gli elefanti alimentano il traffico
dell’avorio, dei trofei, della bushmeat (selvaggina, che coinvolge pure
africani immigrati in Europa).

Se le
donne del Centrafrica sono vittime di una mentalità maschilista, quelle
aka lo sono di più, perché, per le etnie dominanti, gli aka non sono
esseri umani, come non lo sono i baka e bambuti che vivono in Camerun,
Gabon e nei due Congo.

Se
prostituzione, droga e alcornol sono piaghe per tutti, per i pigmei lo sono
maggiormente, perché la loro semplicità li rende più vulnerabili alle
insidie di chi, col pretesto della civiltà, vuole la loro rovina.

Se per
decine di milioni di africani l’accesso ai farmaci contro Aids,
tubercolosi, oncocercosi, meningiti e lebbra è difficile, per i pigmei lo
è maggiormente; infatti, per molti bantu, la morte di un pigmeo equivale a
quella di una scimmia. «Il primo uomo della nostra tribù – disse un pigmeo
ad un antropologo giunto nella foresta dell’Oubangui/Chari negli anni ’20
– nacque da una cagna, che partorì sotto le bastonate di un negro, suo
padrone».


Leggendo resoconti di missionari e volontari, mi pare che si sia fatto
poco per aiutare i pigmei a superare il loro senso di inferiorità e molto,
invece, per aumentarlo: persone, fiumi e foreste sono alla mercé di
devastatori e depravati.

Ha
ragione chi ritiene l’Aids un castigo di Dio? Non lo so. Ma so che, se
Aids e altre patologie letali (provocate dal virus Marburg o Ebola)
possono tanto, è anche perché alcuni uomini hanno osato molto
nell’alterare sia gli ecosistemi forestali (un tempo vergini) sia i
rapporti interpersonali.

Quanto
queste due realtà siano correlate è confermato anche da Richard Preston,
che inizia il libro Area di contagio con una storia di promiscuità,
consumata in un ambiente naturale… particolare, dal quale razionalità e
buon senso suggerivano di stare alla larga.


Francesco Rondina
,

Fano (PS)

 


Siamo grati al lettore di aver continuato il discorso sul Centrafrica,
portando alla ribalta anche i pigmei… A quelli della repubblica
democratica del Congo abbiamo dedicato recentemente due articoli (M C,
dicembre 2000; aprile 2001).

 



 Il «post scriptum»

 Spettabile
redazione,

mi
permetto di criticare il post scriptum dell’editoriale di febbraio 2002.
Alcuni dati, relativi allo stipendio e ai privilegi dei parlamentari, si
basano su una «bufala» che sta circolando da mesi su internet. Si possono
trovare molti dettagli a questa pagina: www.attivissimo.net/antibufala/stipendiparlamentari/htm

Con
questo non voglio negare che i nostri deputati guadagnino troppo o che non
abbiano troppi favori. Ma è giusto essere corretti e documentati.

don
Federico Cretti

(via
e-mail)

 


Era quanto si augurava l’autore dell’editoriale, il cui post scriptum era
uno sfogo.

 

 E
chi replica?

 Spettabile
redazione,

trovo
sconcertante che pubblichiate le «voci islamiche sul nuovo scenario
mondiale» (Missioni Consolata, dicembre 2001), senza un commento. Se è
possibile esprimere la propria opinione, è pure doveroso osservare come
essa sia confutata dalla realtà sotto gli occhi di tutti.

p
Stragi negli Stati Uniti: le folle arabo-palestinesi (e pakistane) hanno
dimostrato, con canti e balli, la loro approvazione agli attentati dell’11
settembre e alle folli missioni dei kamikaze.

p
Cristiani in paesi islamici: in quasi tutte le nazioni i cristiani sono
sottoposti a limitazioni, che vanno dal «semplice» impedimento fino
all’arresto e pena di morte per la professione di fede (non risulta che in
Occidente una legge dello stato punisca chi è di altra religione!).

p
Questione femminile: la frase «la donna ha grande dignità nella società
islamica» è smentita dalla realtà (adultere lapidate, donne sottoposte a
divieto di studiare e farsi curare, mogli e figlie dipendenti dalla
volontà insindacabile dell’uomo, ecc.).

Il
vostro compiacimento solleva dubbi su ciò che vi anima: compiacimento nel
dare largo spazio a opinioni antidemocratiche, antifemministe, reazionarie,
nostalgie di un mondo premoderno, tribale e feroce, senza concedere
analogo spazio a precisazioni e doverose confutazioni.

Il
cristianesimo ha il merito di aver permesso all’occidente la conquista più
grande: una società dove, pur tra disuguaglianze e mali, nessuno è ucciso
per le sue idee politico-religiose; dove la donna ha acquisito pari
diritti e dove c’è netta separazione tra religione e stato; dove è
permesso il dissenso, che si esprime nel voto e nel manifestare le proprie
opinioni. Non è così nei paesi arabo-islamici, che nutrono rancore, misto
ad invidia, verso il mondo moderno.

Silvia
Novarese
,

Torino

 



Riteniamo di avere risposto alla sua lettera, commentando quella di
Maurizio Altemani e una «lettera firmata» (MC, marzo 2002; aprile 2002).


Circa la «condizione femminile», il dossier di questo mese ci pare
eloquente.

  



Spaventevoli errori


 Gentile direttore,

sul
numero di gennaio 2002 Cinzia Vaccaneo, di Torino, ritorna sulla mia
lettera, che ho riletto e che, tolti due punti di sarcasmo, riconfermo.

Le
distanze sono al momento incolmabili: quando un’economista scrive che «spesso
le nuove aziende non nascono per dare nuovi posti di lavoro, ma per creare
nuovi ricchi», vuol dire che la malattia che v’ha preso e spargete a piene
mani è molto grave. Non altrimenti potrebbe spiegarsi come e perché, a
confronto di molte vostre tesi, Bertinotti appaia un tranquillo signore
con idee un po’ blasé.

Allora
non ha senso parlare, perché siamo su pianeti diversi; meglio tacere e
attendere. Molto meglio meditare con calma. Pacatezza ci vuole, che non
sussiste scrivendo sulla posta di un giornale o parlando in tivù, essendo
ognuno troppo preso dall’assillo di vincere il duello.


Ricordando certi vostri commenti sui fatti di Genova, allego «Profezie di
Genova», che cominciai un anno fa, presago e sicuro di quel che sarebbe
successo a luglio.

Da una
vita sono circondato da «compagni»… Ho la presunzione di conoscere bene
il vostro sentire, da dove viene, come è penetrato e s’è fatto forte, su
quali equivoci poggia. Ma conservo verso i vostri spaventevoli errori
tutta l’umanità e civile comprensione. Il mio prossimo lavoro metterà a
fuoco il rapporto tra comunismo e cattolici. Missioni Consolata mi è
indispensabile.

Saluti
e salute.


Luigi
Fressoia
,

Perugia

 


Salute pure a lei e grazie per «l’umanità e civile comprensione» verso i
nostri «spaventevoli errori». A proposito, forse ne ha commesso uno anche
lei, non spaventevole come i nostri: la citazione dell’economista Vaccaneo,
staccata dal contesto della lettera, ne inficia il pensiero.


Intanto continuiamo a pubblicare le sue lettere critiche, come quella nel
dossier di aprile.

 

 


I
benpensanti

che fanno?

 Cara
Missioni Consolata, non mollare! Trovo intrisi di valori cristiani, cioè
rispondenti a quanto dice Gesù, i tuoi articoli e le sagaci risposte a chi
ti accusa di essere una rivista fatta da «miscredenti»!


Criticare le multinazionali o il governo americano crea nemici, perché la
gente si aggrappa disperatamente a ciò che ha: teme che chi non ha niente
glielo possa togliere. E dire questo dà molto fastidio. Perciò ci si
trincera dietro l’essere dei «benpensanti»… che ben pensano, appunto, ma
niente fanno, arroccati nei propri averi e incattiviti contro chi fa loro
notare l’evidente ingiustizia.

Cara
rivista, un’altra cosa apprezzo molto di te (che non mi aspettavo essendo
tu cattolica): è il rispetto per le altre religioni. Anche per questa tua
mancanza di «evangelizzazione» alcuni ti criticano, come se si dovesse
aiutare il prossimo in cambio della sua conversione! Il tempo delle
crociate, di cui anche il papa si è scusato, è ancora vicino per troppi!

Che
cosa dovrebbe essere, allora, la solidarietà? Aiutare il prossimo, perché
non è giusto che chi ha avuto la fortuna di nascere nel ricco occidente
diventi sempre più opulento sulle spalle di chi vive in altre parti del
mondo. So che è brutto sentirselo dire. Ma sappiamo tutti che, se possiamo
avere il videoregistratore o la lavastoviglie, è perché in uno sperduto
villaggio africano qualcuno si fa a piedi decine di chilometri al giorno
per avere una tanica d’acqua e… prendersi il tifo o l’epatite, da cui
non può guarire perché non ha soldi: soldi, invece, che noi usiamo contro
la caduta dei capelli o smagliature.

Non è
giusto che la maggioranza delle persone si ammazzi di fatica per
sopravvivere (non dico «vivere»), mentre qui si parla di fitness e
cellulite, mentre si porta il cane a limarsi le unghie! E magari avendo
pure l’insolenza di pensare che la nostra religione (che è pure la mia e
mi ha fatto conoscere tanti valori inopinabili) sia migliore delle altre.
Questo è un pretesto per lavarsi i sensi di colpa.

Cara
rivista, accanto ai cattolici benpensanti che ti rifiutano, hai anche una
«non molto cattolica» che ti apprezza molto.

dott.
Silvana Rocchetti
,

Milano

  



Dalla città della Fiat

 Caro
direttore,

sono
abbonata a Missioni Consolata da molti anni. I suoi articoli fanno
riflettere. Commento la lettera «Lo struzzo e noi», di Teresa C. Frigieri
di Maranello (settembre 2001).

Abito a
Torino, la città della Fiat… che in questi tempi licenzia, non
apertamente, ma con prepensionamenti, cassa integrazione, mobilità e
mancato rinnovo dei contratti ai semestrali. Quante situazioni gravi in
questa parte d’Italia! C’è anche chi, sfiduciato, si è tolto la vita per
avere perso il posto di lavoro… Quando penso agli stipendi dei piloti di
Formula uno (e dei calciatori) e al costo dei loro bolidi (che durano così
poco), mi sento un pugno nello stomaco.

La
lettera della signora Teresa mi suggerisce l’interrogativo: è necessario
essere nel benessere per, poi, aiutare i poveri sfruttati? Non è più
giusto dare a ciascuno il giusto guadagno e permettergli di terminare la
carriera lavorativa?

Quanto
al parroco di Maranello, lodato dalla signora, che conosco solo per il
suono delle campane, mi augurerei che non dimenticasse quanto scritto dal
signor Rondina (MC, aprile 2001).


Giovanna Isacco
,

Torino

  



Più fiducia nel bene

 

Le
lettere di qualche abbonato sono come grida disperate: come se, dopo avere
dato tutto, non si ricevesse nulla… Bisogna avere più fiducia nel fare
il bene; credere che è l’unica soluzione per togliere le ingiustizie e
creare una democrazia. «Non c’è bene che non si faccia!» dice uno
scrittore tedesco.

Solo
con il buon esempio riusciremo ad educare; il resto lo dobbiamo accettare…
Durante una predica ho sentito che un vero cattolico va contro corrente e
io mi chiedo se abbiamo la forza necessaria… Vorrei che qualche lettore
conoscesse i missionari della Consolata un po’ più dal vero, per andare
contro corrente.

Flavio
Azzolini
,

Berlino (Germania)

  


Una figlia mi ha suggerito
l’abbonamento alla vostra rivista. Ora vi dico grazie.


Con i miei 85 anni, le
relazioni si sono ridotte all’osso; mi resterebbe la televisione, ma sto
imparando a fae a meno, tanto mi disgusta. Così il mio sguardo sul mondo
passa attraverso la vostra bella rivista. Non sono andata molto a scuola (però
ho fatto laureare i miei tre figli); così apprezzo la semplicità con cui
scrivete, le belle fotografie e, soprattutto, la carità con cui trattate
tutti gli uomini e le donne del mondo.


Un materno abbraccio a lei,
caro direttore, e a tutta la redazione.


Pia Montebelisciani


Fermo (AP)


 

Signora
Pia, ricambiamo confusi l’abbraccio… e riproduciamo in «
verde»
la sua lettera, perché ci carica di speranza.

Da noi
tutti grazie.

 

Pro e Contro una lettera



Ma nessuno è imbecille

In
merito alla lettera «Chi è imbecille?» e relativa risposta (Missioni
Consolata, febbraio 2002), esprimo due considerazioni.


L’autore indubbiamente è andato oltre le righe. È però evidente che il suo
limite di sopportazione, di fronte al dilagante masochismo (in ogni
aspetto della vita) e all’appannamento dell’identità cristiana, tesa forse
a capire più le altre identità che la propria, palesa una abbondante
saturazione. La lettera ha posto sul tappeto problemi non indifferenti, di
fronte a generale malessere ed apprensione.

La
risposta non fa onore al direttore, che si è defilato con battute di
dubbio gusto e che, forse, appaiono impertinenti. Che ne sa lui di chi fa
le offerte?… E sorridere sulle scuse (non dei mea culpa) del papa non mi
sembra tanto disdicevole, se penso alle strumentalizzazioni che sulle
stesse si sono imbastite e che, pure recentemente, dal rabbino capo di
Roma continuano ad essere oggetto di biasimo.

Luisa
Milani – Roma

 


I missionari ricevono offerte da chi è «povero davanti a Dio». Se tale
affermazione è stata impertinente, ce ne scusiamo… Mutatis mutandis
anche Giovanni Paolo II ha riconosciuto gli errori dei cristiani e della
chiesa e ha chiesto scusa. Il gesto non è stato gradito da alcuni, che
hanno «sorriso» o strumentalizzato il fatto. A noi non piacciono né i
sorrisi né le strumentalizzazioni.


Riteniamo «verbale» la distinzione tra «mea culpa» e «scusa»: infatti
entrambe, per essere salutari, esigono un comportamento diverso rispetto
al passato. È ciò che più conta.


Psicologicamente la «saturazione» è comprensibile; ma non lo è nello
spirito evangelico, soprattutto se diventa ritorsione. È necessario
credere nel dialogo. Il papa afferma: «Il modo appropriato e più consono
al vangelo, per affrontare i problemi che possono nascere nei rapporti tra
popoli, religioni e culture, è quello di un paziente, fermo quanto
rispettoso dialogo».

La
lettera dell’«imbecille» è vergognosa. L’autore offende il direttore della
rivista «sapendo che, da bravo prete, cestinerà schifato» il suo scritto;
ma si vanta di essere nipote di un grande prete, di avere una sorella e
una figlia missionarie.

Signor
direttore, lei ha avuto la discrezione di non rivelare il nome del
mittente… altrimenti zio, sorella e figlia arrossirebbero di vergogna;
se defunti, certamente si rivoltano nella tomba di fronte agli
sragionamenti del loro parente.

Carlo
Mannino – Brindisi

 


Signor Carlo, non cada in trappola usando gli stessi toni dell’«imbecille».
Anche perché nessuno lo è del tutto.

 

 Apprezzo
Missioni Consolata fin dal 1955. Caro direttore, continui così, con una
rivista sempre più ben fatta e ricca di articoli documentati, con
informazioni pacate ed obiettive, che consentano ai lettori di
controbilanciare una «civiltà» basata solo sull’apparenza, sui sondaggi e
sulla ricchezza.

Un
plauso anche per essere diventati Missioni Consolata Onlus; così le
offerte ai missionari si possono detrarre nella denuncia dei redditi.

Da
ultimo, un commento alla lettera «Chi è imbecille?». Mi sembra che
l’autore ritenga che la storia si sia fermata all’Antico Testamento… con
l’osservanza formale della legge. Egli forse dimentica che sono passati
2000 anni da quando un certo Gesù ha insegnato e dimostrato con la vita
che ciò che conta è amare Dio e i fratelli.


Riccardo Cignetti – Caluso (TO)

 

Solidarietà,
solidarietà, solidarietà a lei, direttore, e «pollice giù» verso «Chi è
imbecille?». L’autore ha tanti missionari in famiglia e vi attacca
duramente. Io ne ho uno solo e faccio parte di un gruppo di azione
missionaria.

Insegno
anche italiano ai giovani extracomunitari che arrivano in città privi di
tutto, persino di manifestare il desiderio di condizioni di vita più umane
rispetto a quelle che hanno lasciato. Senza retorica, la gioia che provo
con questi ragazzi, la ricchezza che mi danno sono difficilmente
raccontabili. La scorsa lezione eravamo 13, di 13 nazioni e 4 continenti.


Religione? Non chiedo mai quale sia la loro. Ci sono anche Rachid e Adel:
durante lo scorso ramadan, al tramonto, mi hanno chiesto con esitazione di
uscire un attimo per mandar giù un boccone.

Anche a
nome dei miei amici immigrati, non le dico «resista, resista, resista»,
perché potrebbe sembrare partigiano. Dico semplicemente «grazie!».

Rita
Viozzi – Ancona

 

Penso
che Missioni Consolata sia sempre un appuntamento con l’umanità. Ogni
numero porta con sé un carico di  gioia e dolore, di speranza e angoscia
che allarga gli orizzonti e va oltre i soliti circuiti di notizie: le
patinate serie di ovvietà e le ciniche ricerche di questa o quella verità
cui, i media «tradizionali» ci hanno abituato.

Non ci
sono giudizi, sentenze, né posizioni integraliste nei vostri articoli, ma
piccole-grandi storie, che possono essere definite «micromodelli di
universalità»: parlano di persone e fanno parlare le persone.

Uno dei
vostri pregi è quello di rendere ordinaria (non occasionale) la voce dei
semplici, di coloro che non hanno spazio nei network, senza per questo
costruire barricate ideologiche contro ricchi e potenti. I paradigmi
conflittuali non vi appartengono e chi li intravvede ha forse gli occhi
appannati.

La
scelta dei semplici non è ideologia. Ricordarlo è un dovere della
comunità-umanità cristiana.

Amici,
andate avanti così…


Gianmarco Machiorlatti

Albano
(RM)

 


Il signor Gianmarco termina con la seguente citazione: «Le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti quelli che soffrono, sono pure le giornie e le
speranze, i dolori e le angosce dei discepoli di Cristo» (Gaudium et Spes,
1).


Straordinario!

 

 


Il buon
samaritano



non
è… comunista

 Su
Missioni Consolata di gennaio 2002 leggo con amaro disappunto la lettera
di Giancarlo Telloli, che strumentalizza in chiave marxista la parabola
del buon samaritano. Il direttore, sempre compiacente in questi casi,
avrebbe dovuto avere il buon senso di non pubblicarla o farla seguire dal
commento di un sacerdote preparato, che chiarisse la portata spirituale e
temporale della parabola ben diversa da quanto scritto, che offende Nostro
Signore e ogni credente.

Il
signor Telloli ignora la storia (o finge di farlo). I comunisti Lenin,
Stalin, Mao, Pol Pot, Milosevich… hanno tanto «amato» il prossimo da
causare decine di milioni di vittime con i campi di concentramento e di «rieducazione»
(iniziati da Lenin nel 1918, e continuati da Stalin e da emulatori), lo
sterminio di intere popolazioni, le fosse comuni, le deportazioni in
Siberia (anche di sacerdoti e credenti), ecc. Esistono molteplici prove
storiche inoppugnabili: basti pensare ad Arcipelago Gulag di A. Solzenicyn,
alle opere dello studioso di statistica I. Kurgemov e ai documenti di
molti altri.

Mi
fermo per non stimolare l’autornironia del direttore, che, alle domande dei
lettori che inchiodano vescovi, preti e fanatici o interessati esaltatori
del marxismo, non risponde mai.

Dove
vuole arrivare? Ad una chiesa come quella di stato cinese o quella
ortodossa di Mosca del periodo comunista? Diventare così funzionari di
partito e di chiesa con stipendio e pensione? Siamo in molti a sperare di
meglio.

Per la
regola dell’alternanza, non sarebbe meglio che direttore e compagni
lasciassero la redazione ad altri, per andare o ritornare nelle missioni?

Con
amore per la verità

Piero
Gonella – Torino

 


Al «buon samaritano… comunista» abbiamo risposto su Missioni Consolata
di aprile. Abbiamo riflettuto un po’ sulla coerenza.


Circa il nostro giudizio su Lenin, Stalin e Mao, forse il lettore non ha
avuto modo di leggere i nostri numeri monografici su Urss e Cina (ottobre
1988 e aprile 1981). Ci siamo pure ricordati di Pol Pot (aprile 1983),
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan (dicembre 1989 e febbraio 2002)
e dell’Est europeo (marzo 1990). Né abbiamo scordato Milosevich (luglio
1999).


Ogni lettera (e sono tante) trova spazio, cui rispondiamo (talora) con
poche righe. La ragione è semplice: lo spazio è ridotto e, pertanto,
preferiamo lasciarlo il più possibile ai lettori, che tra l’altro
dimostrano di sapersi rispondere molto bene…


Pienamente d’accordo sulla «regola dell’alternanza»… E magari avessimo
autornironia! Autornironia, che il martire inglese san Tommaso Moro
(1477-1535), vittima del potere, chiedeva ogni giorno al Buon Dio come
grazia.

AAVV