Non sono terrorista. Ma…

Ramallah, Nablus e soprattutto Jenin. Morte, distruzione e, purtroppo,sentimenti d’odio che crescono e si radicano negli animi.
Il racconto del nostro inviato nei territori occupati dalle truppe di Ariel Sharon non lascia spazio alla fantasia.

Mai mi sarei aspettato di trovarmi
di fronte ad una devastazione
del genere: Ramallah
è distrutta parzialmente,
Nablus e il campo profughi di Jenin
lo sono quasi completamente.
Lavorare è difficile. Non abbiamo
il permesso di entrare da nessuna
parte: i soldati sembrano quasi
divertirsi ad inseguire i giornalisti.
«It’s like a play: sometime you
win, sometime you lose», spiega
l’anziano riservista che ci ferma su
una stradina di campagna, mentre
per l’ennesima volta cerchiamo di
raggiungere il campo di Jenin. Da
sempre i signori della guerra non
amano fotografi e
giornalisti. E la
guerra di Sharon
non fa
eccezione, come subito possiamo
rendercene conto.
Al quarto tentativo, dopo aver attraversato
quasi tutto il territorio
palestinese occupato dalle truppe
israeliane, riusciamo a raggiungere
la periferia del campo profughi di
Jenin.
Qui si sta ancora sparando.
Torkam, un palestinese di
50 anni, ci offre rifugio nella
sua casa. Pur avendo perduto
quasi tutto, ci prepara una tazza di
caffè.
«Ho lavorato 20 anni in Arabia e
sono tornato in Palestina per vivere
una vecchiaia tranquilla» ci dice.
E prosegue: «Il 3 aprile i soldati sono
entrati con la forza nella mia casa.
Ci hanno legato le mani con il
nastro adesivo, hanno separato
gli uomini dalle donne e i bambini;
questi ultimi sono stati fatti
sdraiare nel prato dove sono
rimasti fino alla sera del giorno
dopo. A noi è toccata la sorte
peggiore: ci hanno bendati e fatti
uscire. Pur non vedendo, mi
sono reso conto di trovarmi
di fronte ad
un plotone d’esecuzione.
Quando ho
sentito che venivano
caricati
gli M16, ho
pensato che
fosse arrivata
la mia
ora». Fortunatamente i soldati al
momento decisivo hanno sparato
in aria. Ma Torkam ci assicura che
lo spavento è stato grande. Non
stentiamo a crederlo…
Poco più in là troviamo riparo in
un’altra casa, mentre i soldati continuano
i pattugliamenti antigiornalista.
Abdala, il più anziano della
famiglia, inizia a parlare: «La mia
casa è stata occupata per due giorni
da più di cento soldati». Entriamo.
L’abitazione è stata ripulita,
ma sono ancora bene evidenti le
scritte in ebraico sui muri e sulle
porte. Le finestre dell’ala sud sono
distrutte. «La mia casa è in una posizione
ideale per sparare sul campo
», ci spiega Abdala, mostrandoci
un bidone pieno di bossoli.
«Siamo senza acqua, cibo, luce,
elettricità e telefono. Solo una volta
le Nazioni Unite sono riuscite a
portarci un po’ di latte in polvere
per i bambini. Io voglio vivere in
pace, non sono un terrorista; ma la
verità è che adesso li odio». Fissa lo
sguardo nel vuoto e trova ancora
la lucidità di ripetere: «Odio Sharon
e i suoi soldati».
Pare che i tanks si siano spostati.
Con altri tre colleghi decidiamo
di tentare la sorte e correre
per i pochi metri che ci separano
dal campo. Appena dentro,
quello che si presenta ai nostri occhi
è indescrivibile: centinaia di case
completamente distrutte, l’acqua
scorre senza sosta dai tubi spezzati,
il fetore è insopportabile. Mi vedo
costretto a strappare un pezzo della
mia maglia per coprirmi naso e bocca.
Il centro del campo e la zona di
Haret Hawashin non esistono più.
È come se tutta la zona fosse stata
colpita da un terremoto al massimo
grado della scala Mercalli.
Dove sorgeva il quartiere di Harat
Sbedi ci sono solo ruderi. In
quello che resta di una casa vediamo
i primi cinque morti. La puzza
è sempre più insopportabile e perdiamo
la lucidità. Quello che notiamo
ci sembra strano: sul muro i
buchi delle pallottole sono concentrati
ad altezza uomo, quasi tutti
in un angolo della stanza. Un
dubbio atroce ci assale: che sia stata
un’esecuzione?
La moschea ci pare, a prima vista,
in buone condizioni, ma quando
entriamo ci dobbiamo ricredere.
È tutto completamente devastato:
sono stati sparati centinaia e
centinaia di colpi. All’uscita incontriamo
Sonia, che appena ci vede
inizia a piangere e, singhiozzando,
ci domanda: «Dove sono gli arabi,
i musulmani, gli stranieri?».
«Hai ragione Sonia, ma non ho
una risposta!». È in questi momenti
che chi fa questo mestiere si
sente completamente impotente:
personalmente, provo che siamo
tutti colpevoli!
La presenza di alcuni sparuti
giornalisti e fotografi che circolano
per il campo danno il coraggio alle
poche persone rimaste di uscire allo
scoperto e a quelli che sono scappati
nei villaggi vicini di tentare di
rientrare nel campo.

IMMIGRATI, RISfidando
tanks e cecchini israeliani,
appostati chissà dove, iniziano
ad arrivare le prime donne. Pare
che ci sia stata una sospensione
del coprifuoco per alcune ore; ma
cercare di entrare è ancora difficile
e bisogna affidarsi alla sorte.
Reada piange disperata su ciò
che resta della sua casa: «Ci ho
messo quasi vent’anni a costruirla
e in un giorno gli israeliani l’hanno
distrutta. Non ho più nulla. Non so
dove sia mio marito; mio figlio è
stato colpito da un cecchino e nessuno
ha potuto soccorrerlo. Credo
che sia qui sotto da qualche parte.
Io sono scappata con i miei due figli
più piccoli, ma adesso sono tornata
e, anche se dovrò ricominciare
da capo, ricostruirò tutto. I miei
genitori sono dovuti scappare da
Haifa nel 1948. Io, che sono nata
qui da due profughi, dovrei forse
andarmene per essere profuga una
seconda volta? Quando me ne andrò
da Jenin è solo ed esclusivamente
per tornare ad Haifa».
Sembrano naufraghi. Si aggirano
in lacrime cercando di ricordare
dove fosse la loro casa; scavano a
mani nude fra le macerie. «Qui c’era
la mia casa», dice una donna. Le
macerie ricoprono, per quasi 3 metri,
quello che una volta era il manto
stradale.
«I soldati hanno sfondato la porta
dei miei vicini. Questi, non avendo
via di uscita, si sono riparati in
una stanza. Poco dopo i bulldozer
l’hanno tirata giù; è lì che dovete
cercare quelle cinque persone», ci
racconta un’altra donna che si ritiene
fortunata, perché è riuscita ad
uscire in tempo dalla sua di casa.
Seduto su un cumulo di macerie,
Amhed sostiene che lì sotto ci siano
due suoi amici: «Non cercate
troppe fosse comuni. Il vero cimitero
è Jenin». Un’altra donna:
«Qui è passato il diavolo e, quando
parlo di diavolo, parlo di Israele,
dell’America e di tutto il mondo».
Può anche essere vero che, come
dice Sharon, il 50 per cento
dei kamikaze palestinesi
arrivasse da questa zona, ma da
quello che vediamo non si è fatto
assolutamente nulla per ridurre i
morti civili.
Non dovevano essere quelle che,
con enfasi, si chiamano «operazioni
chirurgiche»? Nelle strade e all’interno
delle case rimaste in piedi
tutto è stato demolito. Ovunque ci
sono abiti, pentole, frigoriferi, giocattoli…
Qui, con la morte, è arrivato anche
il disprezzo.

Davide Casali




Simmetria fatale

Lei opera nell’ebraismo italiano dall’età di 15 anni; si riconosce nel movimento
«Shalom Achshav» (Pace adesso); è segretaria di redazione di «Ha-Keilà»
(La comunità), giornale ebraico, edito a Torino.
Lui, consulente aziendale, è agnostico in seguito alle tragedie
che hanno colpito la sua famiglia durante le «leggi razziali» (fascismo);
è impegnato nel dialogo interculturale.
L’opinione di Alda Segre e Franco Debenedetti, ebrei di Torino.

Signora Alda e signor Franco, voi
contate numerosi parenti in
Israele. Come vivono e come vivete
l’attuale dramma del paese?

Alda: con il terrore che succeda
la tragedia. Quando avviene un attentato,
non telefono più, perché è
inutile… I parenti in Israele divergono
dalle mie idee politiche; quelle
poche volte che ci telefoniamo,
discutiamo. In Israele alcuni conoscenti
(che credevano nella strategia
di «Pace adesso») oggi concordano
con la politica di Ariel Sharon,
perché esasperati dal terrore
quotidiano.
Franco: c’è forte preoccupazione
per i giovani che hanno già fatto il
servizio militare e che, tuttavia, possono
essere richiamati nell’esercito.
Però ammiro le loro famiglie, perché
vivono la precarietà quasi con
normalità, continuando a lavorare.
Gli ebrei hanno patito la «shoa»
(olocausto), che ha coinvolto anche
le vostre famiglie. Esiste oggi
un serio pericolo di un ritorno all’antisemitismo?</b<
Alda: il pericolo esiste, anche se
non nelle dimensioni della «shoa»;
questo perché c’è lo stato di Israele
e le comunità ebraiche nel mondo si
sono rafforzate. È da temere l’antisemitismo
politico-religioso: gli attacchi
contro gli ebrei in Francia
(circa 400 in 20 giorni) sono eloquenti.
Vi sono pericoli anche in
Russia, Polonia, Germania. In Italia
noi ebrei ci sentiamo tutelati dallo
stato; però non siamo tranquilli.
Franco: con la globalizzazione si
possono diffondere, ad enorme velocità,
delle informazioni fittizie sugli
ebrei: informazioni che influenzano
negativamente i comportamenti
di molti «che non sanno».
Esiste anche il pericolo di un antisemitismo
verso persone che non
hanno niente a che fare con lo stato
di Israele. Il privilegiare immagini
virtuali (non fatti) genera sentimenti
ostili con conseguenze imprevedibili.
Ciò serve politicamente a qualsiasi
estremista (nazisti, integralisti
musulmani o di altro credo), per acquisire
un forte ascendente su masse
insoddisfatte, per gestie le frustrazioni
al fine di ottenere potenza
e ricchezza. Servono capri espiatori,
colpiti e criminalizzati indiscriminatamente
senza alcun presupposto
razionale.
Ecco un esempio: «Un signore
cammina nella civilissima Parigi dei
Champs Elisées tra fiumi di turisti;
porta una borsa di plastica con il disegno
del candelabro rituale, presa
in una boutique del Marais. Tre magrebini
sui 15 anni, i capelli rasi, lo
affiancano, sputano per terra e gridano
“sporco ebreo!”, guardando-
lo dritto negli occhi. Poi il più giovane
gli torce la guancia sinistra ridendo
come un matto. I passanti distolgono
lo sguardo. Un plotone di
giapponesi non si accorge di nulla.
La polizia non c’è. Potrebbe ora arrivare
uno che ha votato per Le Pen
e godere dello spettacolo…».
In altri casi e momenti si sono colpiti
i curdi, gli armeni e gli stessi palestinesi…
Il 15 aprile a Roma si è celebrato
l’«Israel day». È stata una marcia
che ha rivendicato il diritto di esistere
per Israele. E che dire della
Palestina?

Franco: la Palestina ha ogni diritto
di essere uno stato.
Quanto all’«Israel day», non sono
stato affatto d’accordo con la marcia.
Marce del genere alimentano l’antisemitismo
e vengono manipolate:
così si confonde, ad esempio, «israeliano
» con «ebreo»; il che è grave.
Gli ebrei che hanno preso parte
all’«Israel day» l’hanno fatto sotto
l’impulso di emozioni; dovrebbero
ragionare di più. Però non sono
estremisti, come è apparso in tivù.
Alda: il diritto dei palestinesi di
avere uno stato è fuori discussione.
Ma sono manovrati dai paesi arabi
vicini e sono vittime dei loro stessi
musulmani.
La risoluzione dell’Onu 181 del
29 novembre 1947 prevedeva la divisione
della Palestina in uno stato
ebraico e uno stato palestinese. Gli
ebrei l’hanno accettata, mentre gli
stati arabi l’hanno rifiutata, convinti
di «poterli buttare in mare» in pochissimo
tempo. Da qui è cominciato
il dramma dei profughi palestinesi.
Poi si sono compiuti errori da par-
te sia degli israeliani che dei palestinesi.
L’«Israel day» è stata una risposta
sbagliata (manipolata da Giuliano
Ferrara) alla manifestazione per la
pace che si era svolta a Roma, aperta
da palestinesi vestiti da «kamikaze
», e con mons. Capucci sul palco;
tanto che i sindacati, DS e Margherita
si sono allontanati dal corteo.
Abbiamo bisogno dell’apporto di
persone, non coinvolte emotivamente,
in grado di dire a ragion veduta
«questo è giusto» e «questo è
sbagliato»: persone che non sfruttino
né Israele né Palestina a loro uso
e consumo.
Pertanto ne consegue un dialogo
fra sordi.

Spesso sì.
In tale contesto come valutate i
«kamikaze» palestinesi e le rappresaglie
di Sharon?

Franco: il binomio kamikaze-rappresaglia
in psicologia si chiamerebbe
«simmetria»: tutti vogliono avere
ragione. Allora c’è una sovrapposizione
continua, che non finisce mai.
Purtroppo in Israele manca un
anti-Sharon, come Yitzhak Rabin.
Egli fu il generale che vinse tutte le
guerre e stava per vincere pure quella
della pace; fu ucciso da un cretino
su commissione di estremisti
israeliani o arabi. Data la «simmetria
», Rabin era scomodo a tutti.
Quanto ai «kamikaze» suicidi che
uccidono innocenti, essi sono manipolati;
la colpa non è loro, ma di chi
li manda al macello. Siamo di fronte
ad un completo lavaggio del cervello
per fini religiosi.
Alda: i «kamikaze» riguardano
un problema politico-religioso. Sono
dei «disgraziati» manovrati: mi
spaventano per la mancanza di rispetto
verso la vita umana, da parte
loro e delle loro famiglie.
Se non c’è rispetto per la vita, dove
si va a finire?
Signora Alda e signor Franco, è
possibile uscire, una volta per sempre,
dal conflitto Israele-Palestina,
che perdura da oltre 50 anni?

Alla domanda, scontatissima, gli
intervistati ammutoliscono abbassando
lo sguardo con un triste sorriso.
Poi…
Franco: secondo la mia formazione
ingegneristica (quindi limitata),
penso che bisogna uscire dalla simmetria.
Ciò dipende dagli Stati Uniti
e dai grandi stati arabi. Però dubito
che ne escano facilmente.
Ma che intende, signor Franco,
per simmetria in questo caso?

Rispondo mostrandole
un disegno: sono
due biciclette unite,
che pedalano
in direzione opposta;
rappresentano
Israele-Palestina
e Stati Uniti-
Stati Arabi.
Tuttavia mi auguro
che sorga un nuovo Rabin,
oppure che entri in scena un
nuovo e forte stato catalizzatore…
Nella simmetria giocano le grandi
forze di potere. Israele e Palestina,
da soli, non possono sciogliere il nodo
che li strangola.
Signora Alda, il nodo israelo-palestinese
non si può proprio sciogliere?

Ne abbiamo parlato anche nella
nostra comunità ebraica di Torino.
E un oratore diceva: «È difficilissimo
uscire dal conflitto, perché si è
di fronte a due individui… che hanno
entrambi ragione».
E si ricade nella simmetria.
Purtroppo!… Ma il ritiro di Israele
dai territori occupati non giova
molto ai palestinesi, perché si trovano
senza lavoro, senza infrastrutture
e con pochissime possibilità di
sviluppo. Questa è stata già una grave
colpa di Yasser Arafat e del suo
entourage: nei loro territori bisognava
per prima cosa creare scuole,
ospedali, posti di lavoro. Si parla dei
profughi di Jenin: da circa 30 anni
sono tali! A Gerico l’autorità palestinese
ha costruito un casinò, frequentato
anche da israeliani danarosi.
Francamente, troppo poco!
I leaders palestinesi non incarnano
l’idea di uno stato democratico,
dove tutti i cittadini possono e devono
esprimersi. I palestinesi hanno
ogni diritto e possibilità di farlo,
senza essere in balia di qualche potente
stato arabo.
D’altro canto, Israele stesso è a sovranità
limitata… E anch’io, come
Franco, sogno un nuovo Rabin per
vincere la battaglia della pace.

La tattica del «souk»
«Mi sia consentito – ha detto ALDA SEGRE al termine dell’incontro rivolgendosi
all’intervistatore – aggiungere tre osservazioni. La prima: mi ha stupito,
positivamente, che lei abbia parlato di Israele e non di “terra santa”. Per
noi, ebrei, questo è l’approccio giusto. Parlare di “terra santa” può portare a speculazioni.
Seconda: non so fino a che punto le nostre idee su Israele possano interessare
gli italiani: stando ai mass media, essi sono più interessati alla chiesa
di Betlemme, alla Madonna che è stata colpita, ai frati che fanno la fame, ecc. E
si dimentica il dramma dei palestinesi che stanno intorno.
Ultima considerazione: dobbiamo guardarci dal voler risolvere il “problema palestinese”
con la mentalità europea, mentre in loco predomina quella araba. L’arabo
si comporta diversamente; usa la tattica del souk (mercato): si annuncia il
prezzo, che poi viene scontato una, due, tre volte… A mio parere, la mentalità
del mercato ha danneggiato anche Arafat nelle sue scelte politiche».

Integralismi alleati
«Anch’io aggiungo qualcosa – ha affermato FRANCO DEBENEDETTI -. Quale
migliore alleato potevano trovare i potenti integralisti islamici se non il piccolo
e miope Sharon?».

Francesco Beardi




I CUMULI DELL’ODIO

«Sembra che in Terra Santa sia stata dichiarata guerra
alla pace! Ma la guerra nulla risolve, né servono
ritorsioni o rappresaglie…
Cristo impegna noi, suoi discepoli
a rimuovere ogni causa di odio e vendetta
»
(Giovanni Paolo II, Pasqua 2002).
«Un tempo i cardinali si chiudevano in conclave e
non uscivano finché non avevano eletto il papa.
Facciamo la stesso con Arafat, Sharon e Bush:
che non escano senza aver sottoscritto prima
la pace
» (Susan George, Missioni Consolata,
dicembre 2001).

«No, non siamo perfetti»

Gerusalemme, 28 settembre 2000:
Ariel Sharon sale sulla «spianata delle moschee» (per i palestinesi)
o sul «monte del tempio» (per gli israeliani).
È la goccia che fa traboccare il vaso, per l’ennesima volta.
Però «questa volta» non scatena solo l’«intifada» delle pietre,
ma attacchi terroristici a pioggia, con autobombe e «kamikaze»,
ai quali l’esercito israeliano risponde con carri armati, assedi alle città, stragi.
Da ambo le parti le vittime sono troppe.
È dal 1948 che il «nodo israelo-palestinese» attende di essere sciolto…
Nell’ultima «tragedia annunciata» alcuni scrittori israeliani
ci sorprendono, positivamente, per la loro lucidità intellettuale.

a cura di Silvana Bottignole

Alcune voci rappresentative di
scrittori d’Israele hanno fatto
conoscere all’Italia una
letteratura rigogliosa e sorprendente.
Infatti, negli ultimi 10 anni, sono
state tradotte nella nostra lingua oltre
100 opere di una quarantina di
scrittori israeliani.
Come spiegare questa esplosione
creativa in Israele, un paese poco più
grande del Piemonte? E che cosa
raccontano gli scrittori? Come vivono
i drammi del passato e del presente,
pesanti macigni per il popolo
della «terra santa» e per tutta l’umanità?
A Torino gli autori Batya Gur, Etgar
Keret e Dorit Rabinyan, presentati
da Elena Loewenthal (esperta di
letteratura israeliana e editorialista di
«Tutto Libri» per La Stampa), ci
hanno resi partecipi degli ideali, dei
drammi e delle speranze del popolo
d’Israele, ispiratore dei loro racconti.
Loewenthal ha inquadrato il fenomeno
letterario d’Israele con alcune
magistrali pennellate, capaci di introdurci
in un paesaggio «dai toni
cangianti».
«La letteratura israeliana – ha affermato
Loewenthal – è una letteratura
militante accanto alla storia, che
critica anche la storia stessa. Da tanti
anni lavoro per amore di questa
letteratura. Nei primi tempi, allorché
proponevo agli editori italiani
opere israeliane, mi accorgevo che
per loro si trattava di un corpo alieno
che non destava nessun interesse,
se non uno sguardo sbigottito.
Adesso la letteratura israeliana è entrata
nel circuito dei lettori italiani in
tutta la sua varietà e i suoi colori cangianti».
«Vorrei evocare la strana nostalgia
che si prova quando si ascolta o si
legge di Israele: una nostalgia che
prende anche chi non c’è mai stato,
come pure chi è già lì. Rapporto strano,
che forse deve qualcosa a questa
lingua, dalla storia e dal cammino
lunghissimo, che provoca una sensazione
intraducibile, una nostalgia
allegra, vivace».
Perché Israele, così piccolo, abbia
una produzione letteraria così varia
e significativa è, per alcuni versi, un
mistero; e, come tutti i misteri, è utile
per porsi delle domande.
«Nella bibbia sta scritto: “Non ti
farai alcuna immagine – dice Dio all’uomo -”.
Questo comandamento
ha implicato moltissimo sul piano
della storia, della coscienza di sè e
del rapporto della cultura e lingua
ebraica con il mondo che ci circonda.
Come è noto, l’arte figurativa ha
avuto scarsa eco e produzione nel
mondo ebraico. Ritengo che la sua
comunicazione sia fatta esclusivamente
di parole. Come con il cielo si
comunica attraverso la parola (e non
con la contemplazione e il silenzio),
così l’ebraismo comunica da sempre
con il mondo attraverso le parole».
Le suggestioni, i simboli e i significati
dell’ambiente esterno vengono
manifestati e trovano spazio sulla pagina.
La letteratura israeliana rappresenta
un modello forte di rapporto
con il paesaggio; e la sua descrizione
avviene più attraverso le
parole che l’arte figurativa. La pittura
e la scultura stanno arrivando in
Israele; però la scrittura ha una tradizione
millenaria.
«Il gioco dei contrasti è una caratteristica
forte e una grande dote della
letteratura; ambientata in uno spazio
geografico ridotto, offre numerose
immagini geografiche. Si va
dalla vita in kibbutz
(con prati quasi all’inglese, che declinano
verso il Mediterraneo dalle
spiagge selvagge) al deserto lunare
ed impalpabile di Giudea e la depressione
del Mar Morto».
«Gli autori spaziano con le loro
descrizioni: si passa da un ambiente
rurale e quasi atavico, come quello
nei libri di Shalev, al mondo urbano,
suburbano e metropolitano in cui
nuota Etgar Keret; dalla periferia
delle città alla vita di provincia in
tante altre località, come quelle scelte
da Yehoshua per rappresentare
Haifa, che sente i vizi e le virtù della
città provinciale. Ci sono boschi, deserti,
mari. C’è una varietà di orizzonti
che fa sì che le culture diverse,
approdate in terra d’Israele, incontrino
quelle europee e quelle che
stanno emergendo.
Dorit Rabinyan, una delle scrittrici
più rappresentative, ci trasporta in
un Israele che proviene dall’ebraismo
orientale, ma inserito in un contesto
islamico o arabo».
«Questa letteratura – ha detto ancora
Loewenthal – ha la capacità di
dilatare il paesaggio e fae vivere
ogni sfumatura, offrendoci orizzonti
geografici e dell’anima estremamente
ampi».

GUR: «LA MIA PATRIA
NEL BENE E NEL MALE»

Nata a Tel Aviv
nel 1947, Batya
Gur ha pubblicato
il suo primo romanzo
poliziesco
a 39 anni e non
ama che i suoi
scritti siano definiti
«di evasione». Gur abbraccia le teorie del poeta
W.H. Holden, che dichiara: «Le
persone leggono romanzi polizieschi
non tanto per scoprire il “colpevole”,
ma per rafforzare il loro senso di
innocenza». Perciò «sappiamo che
il romanzo poliziesco è tipico delle
società coloniali con una mutua colpevolezza
nazionale».
La scrittrice israeliana con molta
franchezza dichiara: «Ho condotto
un’esistenza parallela a quella dello
stato d’Israele (creato nel 1948). Sono
nata e cresciuta quando fu fondato
e ho creduto nel suo “ben sperare”
per offrire un “giusto focolare”
agli ebrei. Non posso dire di
essere anti-sionista e non posso affermare
che sia stato tutto un grande
sbaglio o qualcosa del genere.
Israele è la mia patria nel bene e nel
male. Nella fase attuale sta più dalla
parte del male.
Quando parlo di colpa nazionale,
penso al fatto che si desiderava creare
un movimento socialista con ideali
di purezza per coltivare il suolo della
“terra santa”, e iniziare una società
giusta ed uguale. Questo è stato fatto
con così tanti peccati e così terribili
eventi che non ha permesso a
questa forma pura di vivere, a causa
della colpa nazionale.
Il mio romanzo poliziesco Omicidio
nel kibbutz, per esempio, è stato
ambientato in questa società chiusa
d’Israele per investigare su un delitto.
Il libro, scritto nel 1990-91, è
emerso inconsciamente dal desiderio di erigere un “monumento” ad
un fenomeno che si stava estinguendo
o distruggendo: il nuovo stato
d’Israele iniziava a diventare colonialista…
Penso che, se avessi scritto
il libro 10 anni prima, sarei stata
crocifissa nello stato d’Israele, perché
la società del kibbutz rappresentava
il 10% del paese ed era considerata
la parte migliore dell’ideologia:
rappresentava i grandi ideali
di uguaglianza, di parità tra i generi,
di giustizia. Tutto questo si è realizzato
nei kibbutz dagli anni ’50 sino
all’inizio degli anni ’90.
Non ho mai vissuto in un kibbutz,
ma non si può vivere in Israele senza
visitare e conoscere un kibbutz,
perché ha veramente riassunto tutti
i desideri e i grandi ideali che hanno
ispirato quella società chiusa. I nuovi
sviluppi nello stato d’Israele hanno
trasformato i kibbutz in una coice
senza contenuti.
Da quando il libro è stato scritto
ad oggi il kibbutz è in bancarotta. Da
un punto di vista ideologico si è trasformato
in un ente privato: si pagano
salari ai dipendenti, la gente nel
kibbutz può acquistare i propri appartamenti
e deve pagare il cibo nel
refettorio. Quando scrissi il libro si
era solo all’inizio di questo processo.
Ho, perciò, raccontato come i bambini
dormivano insieme, accuditi da
una governante, e come erano cresciuti
insieme, lontani dalle famiglie.
Ho cercato di raccontare come si
sentivano. Il libro è un confronto tra
la vecchia e la nuova generazione
della società dei kibbutz».

KERET: «LA PACE È BUONA,
LA GUERRA È…»

Anche Etgar Keret
è nato a Tel
Aviv nel 1967 (generazione
successiva
a Batya Gur).
Scrive per la televisione
israeliana
e lavora per la Tel
Aviv University
School of Film. Ci ha raccontato come
nascono i suoi racconti, a detta
dei critici, pervasi da «ironia corrosiva
». «Il tempo tra il risveglio
(quando ancora ci si deve lavare la
faccia) e la tazza di caffè è il periodo
in cui molte delle mie storie hanno
luogo. Momenti in cui uno si ritrova
tra l’essere una persona normale,
pronta ad andare al lavoro, ed un
pezzo di argilla che il Signore volle
trasformare senza molto successo in
un essere umano.
Le ragioni si trovano nel fatto che
il Dio degli ebrei non ha una forma
corporea, al contrario di Gesù che si
può vedere. Da questo discende tutta
una cultura astratta. Anche il sionismo
(2), conosciuto da bambino,
è stato per me un’ideologia astratta,
difficile da sentire: mi è sempre sembrata
piena di contraddizioni e di
grande ansietà per gli scampati dall’olocausto.
Tutti i nostri libri per ragazzi erano
pieni dei grandi eroi d’Israele; ce
n’era uno in particolare, Danet
Dean (parlo del 1950-60), che era
speciale. Era un personaggio eroico
che lottava sempre per la sopravvivenza
di Israele ed aiutava il suo paese,
spiando le nazioni arabe o salvando
bambini dall’essere rapiti. Ma
aveva una particolarità: era invisibile.
Credo non per caso. Per tantissimi
bambini israeliani come me, la figura
letteraria ideale è stato appunto
un personaggio invisibile:
nessuno sapeva com’era fatto.
Tanti della mia generazione si trovano
a far parte di una società che è
stata plasmata da un’ideologia; ma
tale ideologia ci è diventata invisibile,
come il personaggio a cui accennavo
prima. Per lo più la società
sembra fare riferimento al grosso
buco di una ciambella. A partire da
tale buco, noi cerchiamo di ricostruirci
un’identità e un futuro per
mezzo di strumenti di alta spiritualità
(come lo studio della bibbia) o
cose pratiche e pragmatiche (come
risolvere i problemi del Medio
Oriente).
Alcuni scrittori, come Dorit ed io,
cercano di ricostruire qualcosa del
nostro passato. Infatti siamo nati e
vissuti in una nazione che ha preso
la sua gente da paesi diversi e, ciò facendo,
ha sradicato le persone. I
nonni di Dorit sono immigrati dalla
Persia; i miei nonni sono immigrati
in Israele dalla Polonia dopo la seconda
guerra mondiale. Ciò ha comportato
uno sradicamento, oltre che
un trasferimento, un’immigrazione.
Dorit Rabynian in Spose persiane
racconta, con successo, una storia
che si svolge in un paese straniero,
ricollegandola attraverso le generazioni
femminili alla sua storia personale.
Io non ho altrettanto successo
nel tentare di ricostruire il mio passato,
ma penso di riuscire a raccontare
il presente. Nella Poetica di Aristotele
si legge che l’arte dovrebbe
imitare la vita così com’è. La vita è,
però, assai più complessa di qualsiasi
manifesto politico.
Anni fa scrissi un racconto (pubblicato
da un giornale), ambientato
nei territori occupati, che descriveva
lo scontro violentissimo tra un
soldato israeliano ed un palestinese.
Ricevetti moltissime lettere, in cui i
lettori mi accusavano delle cose più
varie ed estreme: uno mi ha accusato
di essere un estremista di sinistra,
affetto da una sindrome di odio verso
se stesso; un altro mi ha accusato
di essere un estremista di destra, un
fascista.
Ora il fatto che ci fosse questa diversità
di interpretazioni, per me, è
stato un complimento. Si può, perciò,
scrivere un racconto provando
empatia per un personaggio o per
un altro. Se in Israele facessimo così
nella vita di ogni giorno (cioè simpatizzare
e fare propria in parte la
causa dell’uno, ma anche dell’altro),
non saremmo arrivati al punto in cui
siamo. È stato scritto che l’arte ha
due ruoli: estraniare ciò che ci è familiare
e renderci familiari a ciò che
ci è estraneo.
Frasi ovvie come “la pace è buona,
la guerra è brutta e non bisogna
farla” sono slogan da scrivere sugli
adesivi che si appiccicano sui paraurti
delle auto. La verità è che ci
sono tante storie che si possono raccontare,
inviando al lettore un messaggio
altamente morale, sovente assai
più pragmatico di quello che è
contenuto in qualsiasi manifesto politico».
ETGAR KERET: Mi manca Kissinger
(Theoria 1997); il racconto La triste
storia della famiglia Nemalim in
«Nuovi narratori israeliani» (Theoria
1998); il racconto Paride e Venere,
in «Amori, raccontati dai più
grandi narratori israeliani» (Stampa
Alteativa 1999)

RABINYAN: «NOI
ISRAELIANI IMMIGRATI…»

Dorit Rabinyan,
nata nel 1972 a
Kfar Saba da una
famiglia emigrata
dall’Iran, vive a
Tel Aviv. Ha
scritto due romanzi,
un libro
di poesie e la sceneggiatura
di un
film per la televisione. Con il romanzo
Spose persiane, in cui rievoca
le sue radici iraniane, rivela una
forte empatia con il mondo arabo.
«Noi israeliani non abbiamo solo
un passato glorioso, ma anche un
presente terribile; lo dobbiamo affrontare
ogni volta che ci sediamo al
computer per scrivere le storie che
vengono dal nostro cuore. Le brutte
notizie, trasmesse ogni giorno dalla
radio e televisione israeliana, non
sono una gabbia, ma solo un momento
di quel male che viene fatto
da anni contro un altro popolo in cui
tutti quanti noi viviamo immersi.
Noi non siamo in una gabbia; ma il
senso di colpa continua a ferire chi,
come noi, non ha muscoli irrigiditi
della coscienza.
La nostra scrittura è veramente in
contrasto con quella della generazione
di Batya Gur e il messaggio inculcato
a quella generazione: il messaggio
sulla creazione dello stato di
Israele, che voleva essere il centro
verso cui far convergere gli immigrati
provenienti da tutto il mondo,
pretendendo però che si adeguassero
per essere degni di essere chiamati
israeliani.
Per me (e credo di interpretare il
pensiero di Keret) scrivere è cercare
di rifiutare la pretesa del sionismo
di creare una figura ideale di ebreo,
per restare invece noi stessi
per quanto possibile:
senza dover
per forza convergere e sentire di doverci
uniformare, ma restare la voce
di una minoranza che si esprime.
Non tutti devono per forza essere
israeliani perfetti per appartenere a
questo paese. Voglio anche pensare
che sia possibile per noi appartenere
ad Israele, pur restando noi stessi.
Siamo israeliani fatti in un modo
diverso, forse alternativo».
DORIT RABINYAN: Spose persiane
(Neri Pozza 2000)

Elena Loewenthal ha terminato
la presentazione degli
scrittori commentando:
«Tutti gli israeliani fanno parte di
uno sradicamento, eccetto Yehoshua,
che si sente una pianta e non
uno sradicato, perché appartiene alla
generazione del paese.
C’è pure la coscienza, più o
meno vasta, che lo sradicamento
è la condizione della
sopravvivenza. Ogni
israeliano sa che, se il
padre o il nonno o egli
stesso non fosse stato
sradicato (vuoi dalla Persia,
vuoi dalla Polonia, vuoi
dal resto del mondo), non esisterebbe
più. Questo senso di
essere dei sopravvissuti, anche
a due o tre generazioni di distanza
dagli eventi storici più diversi
(non mi riferisco soltanto
alla shoa/olocausto), è parte di un
comune destino ebraico, che è quello
di essere comunque tutti dei sopravvissuti.
Primo Levi ci ha raccontato quale
groviglio emerge, nella coscienza
di ciascuno di noi, quando si tenta
di esplorare il senso di essere dei
“sopravvissuti”. Tutto questo si riflette
nella letteratura israeliana, anche
a distanza, in forme e rifrazioni
estremamente varie con i risultati
che vediamo.
Non vorrei, però, che si creasse
nel lettore che si avvicina per la prima
volta alla letteratura israeliana un
equivoco: pensare che qualunque libro
proveniente da Israele non contenga
altro che la profonda lacerazione
della coscienza, dovuta al fatto
di vivere in un paese come questo.
Questa letteratura è grande, anche
a prescindere da quello che si è costretti
a vivere ogni giorno: entrare
magari in un supermercato e… non
uscie vivi, perché un kamikaze si
butta dentro ed ammazza numerose
persone.
La letteratura israeliana è (forse
anche per questo e a prescindere da
questo) una grande letteratura, ricca
di diversità e pluralismo. Non a
caso ho parlato di “paesaggi cangianti”,
di varietà di toni, di colori e
orizzonti che regalano alla letteratura
una varietà ed un impegno piuttosto
unici. Ci troviamo di fronte a
scrittori capaci di riflettere criticamente
sulla realtà che li circonda».

(1) Kibbutz: insediamento di un gruppo
israeliano con i beni in comune.
(2) Sionismo (da Sion): movimento politico-
culturale all’origine della nascita
del moderno stato di Israele. Antisionismo
e antisemitismo non coincidono.

NON COMBATEREMO PIÙ
QUESTA GUERRA

Noi, ufficiali e soldati di riserva della Forza di difesa di Israele,
siamo cresciuti con i principi del sionismo, del sacrificio e del
dono per il popolo di Israele; abbiamo sempre servito in prima linea
e siamo stati i primi a terminare qualsiasi missione, leggera o
pesante, per proteggere e rinforzare lo stato di Israele.
Noi, ufficiali e soldati di combattimento, abbiamo servito Israele
per tante settimane. Ogni anno, a scapito delle nostre vite, abbiamo
operato da riserve in tutti i territori palestinesi occupati e abbiamo
ricevuto ordini
che non hanno niente
a che vedere con la sicurezza
della nostra
nazione, ma mirano
solo a mantenere il
controllo sul popolo
palestinese.
Noi abbiamo visto
con i nostri occhi il
prezzo di sangue che
questa occupazione
esige da entrambe le
parti.
Noi sentiamo che gli
ordini ricevuti nei territori
palestinesi distruggano
ogni valore
assorbito crescendo
in questa nazione.
Ora noi sappiamo che
il prezzo, pagato all’occupazione,
è la
perdita di umanità da
parte della Forza di
difesa di Israele e la
corruzione dell’intera
società locale.
Noi sappiamo che i
territori occupati non
sono Israele e che gli
insediamenti sono destinati
ad essere evacuati.
Pertanto dichiariamo
che non combatteremo
più la
guerra degli insediamenti. Non dobbiamo continuare a combattere
al di là dei confini di Israele del 1967, con lo scopo di dominare,
espellere, affamare e umiliare un popolo intero.
Continueremo il servizio nella Forza di difesa di Israele in ogni
missione utile alla sua salvaguardia. Ma le occupazioni e oppressioni
non servono a questo scopo e noi non avremo più parte alcuna
in esse.
Dichiarazione del 16 marzo ’02, sottoscritta da 451 soldati (6-05-’02)
Testo (in ebraico e inglese) apparso sul sito
www.seruv.org.il

S. Bottignole Francesco Beardi D. Casali




SANTONI, DEE BAMBINE E CIOTOLE DI RISO

L’India del Gange, il Nepal della dea «Kumari»,
il Vietnam delle tribù. Istantanee da tre paesi asiatici,
osservati e fotografati con grande interesse. Rispettando e apprezzando le diversità religiose e culturali.

S ono partita con l’amico
RENZO MILANESIO,
scrittore ed esploratore.
Destinazione: Varanasi, città
santa dell’India. Abbiamo
proseguito verso Katmandu,
capitale del Nepal. Siamo stati
anche in Vietnam, con un
itinerario da Hanoi ai villaggi
nord-occidentali abitati da
minoranze etniche.
Renzo ed io viaggiamo sempre
alla scoperta di nuove realtà. I
nostri ultimi viaggi ci hanno
fatto percorrere la grande steppa
della Mongolia.
Ed è ancora l’oriente la nostra
meta, con l’obiettivo di ritrarre la
vita infantile. L’esperienza
rientra in un progetto, ideato da
Renzo, che ha come protagonisti
i bambini nel mondo: la loro
condizione e quotidianità,
nonché il futuro che loro si
prospetta.
Abbiamo ammirato bambini
dagli occhi grandi camminare
sicuri e liberi per i sentirneri della
loro terra, abbiamo assistito ai
loro giochi fantasiosi. Abbiamo
constatato il loro ruolo sociale
nel lavoro dei campi, nella cura
degli animali, nelle faccende
domestiche. Abbiamo lasciato
una parte del nostro cuore a chi
ha bisogno di tenerezza e amore.
L’oriente, respirando i profumi
e l’atmosfera densa dell’India o
percorrendo le strade tortuose
del Vietnam, ci ha fatto
conoscere altri stili di vita,
rivelandoci l’essenza di culture
diverse. La cultura, che è
l’insieme delle manifestazioni
della vita materiale, sociale e
spirituale di un popolo, può
essere studiata in libri, ascoltata
in racconti o osservata nelle
scelte delle persone di fronte alla
loro esistenza.
Conoscere le culture di altri
popoli è un’esperienza che
arricchisce mente e spirito e
permette di comprendere le tante
possibilità di realizzazione di
ogni essere umano.

IL FIUME DELLA PURIFICAZIONE

Varanasi, nella regione dell’Uttar
Pradesh, sorge sulla riva del fiume
Gange ed è uno dei luoghi sacri
dell’India. È una città santa sia per
l’induismo sia per il buddismo: infatti
nella mitologia induista si ritiene
che la terra dove sorge la città sia
stata generata, nella notte dei tempi,
dagli dèi Shiva e Parvati; mentre a
10 chilometri da Varanasi, nel villaggio
di Saath, si recò il Budda,
dopo aver raggiunto l’«illuminazione
», per diffondere il suo messaggio.
Importante centro culturale da 2
mila anni, Varanasi è antichissima;
alcune sue descrizioni compaiono in
testimonianze buddiste e nel poema
epico induista Mahabharata, composto
tra il IV secolo a.C. e il IV secolo
d.C.
Varanasi era conosciuta in passato
con il nome di «Kashi», città della
luce spirituale (da kas, splendere).
In seguito fu chiamata Benares. Il
nome indù, Varanasi, si riferisce alla
posizione della città tra i fiumi Varana
e Assi. È dedicata a Shiva, dio
dalle infinite manifestazioni che, all’interno
della «trimurti» (Brahma,
Visnu e Shiva), crea e distrugge. Per
questo Shiva è considerato il dio della
morte.
Per gli induisti morire a Varanasi
è di enorme importanza, perché significa
congiungersi a Shiva e mettere
così fine al ciclo delle rinascite
o samsara. La morte è il passaggio ad
un’altra vita o la cessazione dell’esistenza
nel mondo; pertanto è «vissuta
» come un nuovo inizio e una
possibilità di evoluzione.
Ogni giorno a Varanasi giungono
centinaia di pellegrini per bagnarsi
nelle acque del Gange e purificarsi
dai loro peccati: bambini, donne e
uomini siedono sulle scalinate che
conducono al fiume, portando vestiti
da lavare, fiori da offrire; lasciano
che l’acqua invada ogni parte del
corpo e pregano in silenzio; stanno
insieme senza parlare, ognuno compreso
della sua pace interiore. Sui
volti si scorge un’espressione di serenità
e di consapevolezza dell’importanza
del momento.
Percorrendo il fiume con una barca
a remi, è possibile avvicinarsi alle
gradinate o ghat (ce ne sono 840).
Di solito si parte da Dasaswamedh
Ghat, il ghat principale. Qui, sotto
ombrelloni, i bramini siedono su un
tappetino con il necessario per celebrare
i rituali: fiori, riso, lumini e una
polvere rossa con cui tracciano
un segno di benedizione sulla fronte.
I sadhu (santoni) stanno accovacciati
in disparte: hanno una veste
colore zafferano, una lunga barba e,
spesso, il corpo è cosparso di cenere;
sono girovaghi e conducono una
vita austera; ma, per farsi fotografare,
allungano la mano e con lo sguardo
lasciano capire che l’offerta è doverosa.
Allorché, dalla riva opposta del
Gange, il sole inizia a sorgere e una
scia luminosa attraversa l’acqua, chi
è di spalle si volta e saluta l’astro nascente.
Il gesto commuove.
Lasciato il ghat principale e spostandosi
a destra si giunge ai buing
ghat, cioè i luoghi dove avvengono
le cremazioni dei cadaveri. Non è rispettoso
avvicinarsi troppo, ma si riconoscono
immediatamente per il
fumo e le cataste di legna. Ogni pira
ammassa 550 chili di legno, il cui
costo è abbastanza elevato.
La cremazione è il rito funebre induista
attraverso il quale il corpo ritorna
agli elementi di cui è composto.
Vengono in mente le parole di
una liturgia cattolica: «Ricordati che
sei polvere e polvere ritoerai».
Il rito è in parte sconcertante, perché
avviene a poche decine di metri
da un gruppo di ragazzini che giocano
tra una fila di panni stesi ad asciugare
e centinaia di persone che
compiono abluzioni: proprio come
se non ci fosse un confine tra vita e
morte, ma tutto appartenesse ad un
ciclo che continua a scorrere.
È altresì importante ricordare che
la composizione batteriologica dell’acqua
del Gange è stata studiata da
numerosi scienziati. È infatti difficile
accettare la «purezza» di un fiume
che ospita brandelli di cadaveri,
schiume di saponi ed escrementi di
vacche e bufali (anch’essi si lavano).
Ebbene, prelevando un campione
d’acqua per lasciarlo in un barattolo
chiuso, si è accertato che solo dopo
due anni nascono dei microrganismi
e il liquido incomincia a marcire.
La mattinata è trascorsa. Nel pomeriggio
la vita continua sulle
sponde del Gange. Dopo alcune ore
trascorse in questo luogo magico,
anche i venditori ambulanti sembrano
essersi stancati di offrire la loro
merce. «Bei colori con timbrini…
Ah, italiano! Bene, compra: colori
bellissimi…».
Mi domando come avrà fatto questo
ragazzo ad acquisire un accento
così spiccatamente romano. Ma il
turismo fa miracoli… Sono simpatici
questi venditori: sembrano più
appagati dall’intrattenere lo straniero
che dal fare affari.
Per il visitatore occidentale assistere
a scene di povertà crea un forte
senso di colpa. Si è abituati a pensare
che chi non possiede un paio di
scarpe o chi ha una maglietta logora
sia infelice. Personalmente ritengo
che chi sa vivere senza possedere
troppo conosce sicuramente la felicità.
Per noi, provenienti da una società
in cui l’economia detta legge, il
denaro è diventato indispensabile:
sarebbe impossibile immaginare una
vita senza soldi. Certamente il
denaro è una risorsa importante:
senza di esso non avrei potuto, per
esempio, compiere l’esperienza che
sto descrivendo. Ma la ricchezza interiore,
in occidente, non sembra essere
cresciuta in modo proporzionato
a quella esteriore.
Culture diverse, mi dico. Da un
lato, la cultura occidentale, che
ha rivolto attenzione ed energia, studio
e ricerca all’esterno e ha ottenuto
progresso, scienza, tecnologia, dimenticando
però i valori propri dell’umanesimo;
dall’altro, la cultura
orientale, che ha coltivato il sé interiore,
raggiungendo una profondità
spirituale… a scapito di impianti fognari,
tubature idrauliche, cure mediche
e alfabetizzazione.
Riconoscere le contraddizioni e
superarle in una visione d’insieme è
crescere. E sapere che ogni esistenza
ha un senso e un fine, perché appartiene
alla Vita ed è mossa dall’Energia
che tutto permea, significa diventare
consapevoli…
Varanasi mi ha accolta, chiedendomi
di restare in ascolto. Qualcosa
è accaduto dentro di me ed io continuo
ad ascoltare, in silenzio.

UNA BAMBINA DIVENTTA DEA

I monti innevati e l’aria pungente
ricordano che il Nepal è, soprattutto,
l’Himalaya. I volti delle persone
hanno segni indiani, ma gli occhi
allungati guardano ad… oriente.
AKatmandu, capitale del paese,
arriviamo con cinque ore di ritardo
e il dubbio che un importante appuntamento
sia stato annullato. Ma
la guida contattata che ci aspetta all’aeroporto
ci rassicura: «Sì, visiteremo
anche la Kumari, sebbene l’incontro
fosse stato fissato per la mattina».
La Kumari è una bambina dea. È
ritenuta la reincarnazione della
dea Durga, una delle manifestazioni
di Devi o Parvati, così come di
Kali. Durga e Kali impersonano
la forza distruttrice della divinità;
Durga viene spesso raffigurata
a cavallo di una tigre o un
leone che sconfigge i demoni;
rappresenta la potenza dell’energia
femminile.
Esistono delle leggende sulla
nascita della Kumari e sul perché
una bimba sia onorata quale
dea durante la sua infanzia.
La tradizione risale, con probabilità,
all’epoca di Jaya Prakash
Malla, l’ultimo sovrano della
stirpe Malla, il cui regno finì nel
1768. Però non ci sono certezze.
Ciò rende ancora più inspiegabile
e misteriosa la presenza
della dea bambina.
«Kumari si diventa», se una
bambina (anche di soli quattro
anni), candidata dalla famiglia,
ha un quadro astrale in armonia
con l’oroscopo del re del Nepal,
possiede 32 requisiti fisici (dal
colore degli occhi alla perfezione
della pelle, senza nei e cicatrici)
e se supera una prova. Ovvero:
si porta la bimba in una stanza
buia, dove sono stati sgozzati
degli animali e alcuni uomini, camuffati
con teste di animali e ossa,
cercano di spaventarla; se nella
bambina è presente Durga, essa
chiaramente non si spaventa.
La Kumari ha un ruolo religioso:
consacra il re durante una
cerimonia nel mese di settembre
e benedice chi si rivolge a lei
(ormai è diventata un importante
simbolo); per il resto delle giornate
vive in casa con la famiglia, lontana
dai giochi degli altri bambini.
Quando la bambina diventa donna
(con la comparsa delle mestruazioni),
se per un incidente perde del
sangue o se, mentre è portata sulla
portantina ad incontrare il re, cade
e tocca il suolo con i piedi, cessa di
essere Kumari… La vita di un’ex Kumari
è simile a quella di una ragazza
coetanea, ma con maggiori possibilità,
perché l’offerta a lei elargita è una
dote sostanziosa, da investire per
studiare o intraprendere un’attività
commerciale.
Una (dea vivente) indica che siamo
arrivati. La porta è stretta e il soffitto
dell’anticamera basso; tutto è
buio. Dopo esserci tolti scarpe e cinture
di cuoio, saliamo una scaletta a
pioli di legno e ci troviamo al secondo
piano in una stanza dipinta di azzurro,
dalle pareti tappezzate di foto
di ex Kumari e nuove Kumari.
In questo frangente vengo a sapere
che di Kumari ne esistono attualmente
tre: una a Katmandu (la
Kumari Royal, la più importante,
impossibile da incontrare se non si
è induisti o buddisti), una a Bhaktapur
e una a Patan.
Noi siamo a Patan, in presenza di
una bambina di sette anni, vestita da
principessa e dallo sguardo immobile.
Seduta su una specie di trono,
la Kumari non parla; la madre e la
nostra guida rispondono e traducono
eventuali domande.
Chiedo se, tra le mura domestiche,
la bambina viene chiamata
con il suo nome o Kumari; mi rispondono:
«Kumari!». Chiedo
quale consapevolezza ha la
bambina di essere una dea, e la
risposta è che la consapevolezza
nasce da ciò che gli altri vedono
in lei.
Non c’è niente da fare, penso. È
proprio una dea, e la osservo.
Poi mi guardo intorno meravigliata
di questo strano e unico
posto in cui sono capitata. Evidentemente
lei mi trova buffa,
perché, dopo istanti di silenzio,
un sorriso un po’ malizioso
compare sul suo viso imperturbabile.
«Ce l’ho fatta!» mi dico!
Almeno è dimostrato che è viva!
Prima di andarcene, la Kumari
accetta di benedirci: uno alla volta
ci inginocchiamo; con un gesto
veloce e sicuro applica sulla
nostra fronte una tintura grumosa
di colore rosso e depone
sulle nostre mani fiori e riso
spruzzati d’acqua, che poi riprende
e pone in un piattino di
ferro.
Facciamo l’offerta, grati per la
benedizione, oltre che per l’esperienza:
infatti pare che la Kumari
possa rifiutarsi di benedire
e che ciò comporti gravi disgrazie.
Per questo motivo l’ultimo
discendente della stirpe dei Malla
perse il trono e la vita.

TRIBÙ DI MONTAGNA
Una canna di bambù che sorregge
una ciotola di riso: così i vietnamiti
descrivono la forma del perimetro
della loro terra… Siamo, dunque,
in Vietnam.
Da Katmandu ad Hanoi, capitale
del paese, ci sono poche ore di volo.
Durante il viaggio cerco di immaginare
la prossima destinazione. Per
me pensare al Vietnam è ricordare
film di guerra, villaggi incendiati da
bombe al napalm e il coraggio di un
popolo. La guerra contro il dominio
della Francia a Dien Bien Phu
(1946-1954) e quella contro gli Stati
Uniti negli anni 1960-70 sono difficili
da dimenticare. Di tale passato
sono visibili gli elmetti verdi e le divise
militari che gli uomini ancora
indossano.
Della colonizzazione francese, allorché
il Vietnam si chiamava Indocina,
si trova traccia nell’architettura
delle case e nei caratteri dell’alfabeto.
Poiché la scrittura con ideogrammi
è stata sostituita dall’alfabeto latino,
è possibile leggere i cartelli lungo
le strade… e capisco che com pho
significa ristorante. Quando si leggono
queste due parole, è assicurata
una ciotola di riso o di noodle
(spaghetti orientali). I com pho sono
tanti: un’insegna ben visibile, qualche
tavolino e sempre qualcuno che
mangia.
Insieme agli involtini vegetariani,
e all’immancabile riso, ordino patatine
fritte (unica pietanza di provenienza
occidentale), ma senza maionese
o ketchup: ogni cibo si intinge
nel chili o in una salsa di soia utilizzando
bastoncini di legno… anche se
per gli stranieri più imbranati arriva
in soccorso una forchetta.
Da Hanoi imbocchiamo la statale
numero 6. Il primo tratto è
asfaltato, ad una corsia e a doppio
senso di circolazione. Mentre il paesaggio,
dalle dolci sfumature di verde
e i grandi specchi d’acqua delle
risaie in cui si riflette il cielo, è rilassante,
la strada è alquanto ingrata.
Dopo circa otto ore, siamo a Bac
Ha, con la sensazione di essere stati
velocemente «centrifugati» ad acqua
fredda! Infatti la temperatura è scesa
notevolmente e fa freddo; ma le
stelle sono così tante e splendenti
che ci riscaldano occhi e cuore.
Abbiamo deciso di invertire l’itinerario
abituale: siamo partiti per il
nord per scendere verso ovest, perché
a Bac Ha, prima tappa, si tiene
alla domenica un mercato che riunisce
numerosi abitanti della zona.
Non vogliamo perderlo.
Dalle montagne scende la gente,
chiamata montagnard dai francesi;
ha vestiti coloratissimi e porta in gerle
di bambù cibo, oggetti e animali
domestici da vendere.
Il mercato prende vita al mattino
presto. Ognuno dispone la sua mercanzia;
gli animali vengono radunati
in un’area a parte; al centro, sotto
un porticato, si imbandisce un banchetto
a base di carne, sanguinaccio,
da fumare collettivamente e da aspirare
poco, per non tossire troppo!
Nessuno parla inglese o francese,
ma con gesti è possibile comunicare
e contrattare il prezzo di ogni merce.
Le tribù del Vietnam nordoccidentale
sono in maggioranza di
origine cinese; hanno subìto diverse
persecuzioni e, durante il dominio
francese, furono espropriate del loro
territorio.
Un tempo gli abitanti erano seminomadi,
con un’agricoltura che si
avvaleva di terreni montagnosi disboscati,
bruciati e coltivati per un
breve periodo; poi lo stato ha cercato
di convincerli a scendere verso le
pianure e a praticare un’attività sedentaria.
Oggi la popolazione vive isolata
e coltiva la terra, tenendo per
sé la parte del raccolto necessaria al
sostentamento; il resto è proprietà
dello stato; alleva animali, costruisce
case, fabbrica utensili e confeziona i
capi di abbigliamento che indossa.
I vietnamiti considerano «selvaggi
» i tribali, perché alle città preferiscono
le montagne, lontani dalla civilizzazione…
I tribali sono semplici,
schivi, riservati, avvolti in abiti
sapientemente intessuti e decorati;
custodiscono e si tramandano le tradizioni.
Nei loro villaggi sembra che
il tempo si sia fermato. Ma ecco il ritratto
di Ho Chi Minh (l’anima della
lotta contro gli Stati Uniti) o la foto
sbiadita di un parente scomparso
in guerra: ricordano che anche le
tribù hanno partecipato alla storia
del Vietnam.
Il vietnamita è laborioso, pragmatico,
guarda al futuro con speranza;
è ricco di sole e acqua, di foreste
e montagne coltivate come mosaici
dalle morbide geometrie. È un contadino
nascosto da un cono d’ombra…
Il Vietnam è pure il cimitero di
Dien Bien Phu, con 2 mila lapidi
senza nome. È un popolo che, nei
grandi conflitti che agitano
il mondo, rimane al
centro della vita.

La reincarnazione, sebbene esistano varie interpretazioni, è il ciclo di esistenze
attraverso il quale si manifesta l’energia cosmica cui ogni essere è
sottoposto per poter tornare alla fonte originaria.
Il karma (legge di causa ed effetto) è il principio che guida il ciclo delle
reincarnazioni; in base a come un essere si è comportato nella sua esistenza,
si reincarnerà in una forma o in un’altra nella vita successiva. Strettamente
connesso al karma, perché da questa legge è determinato, è il sistema
castale. Quattro le caste in cui si divide la società indiana. Ancora
oggi alcuni divieti che il sistema in caste impone, come il matrimonio tra
uomo e donna di caste diverse, sono ritenuti immodificabili, come una legge
di natura.
Il dharma è la legge del dovere, il dovere di ogni essere di accettare, agire
e compiere il proprio destino per poter evolvere spiritualmente.
Questi concetti non appartengono ad un sapere filosofico speculativo,
ma sono linee guida per la condotta quotidiana.

Alessandra Bocchi




L’ARGENTINA UCCISA DAL «TERRORISMO ECONOMICO»

Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…

«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?

«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».

NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.

Paolo Moiola




LA MALEDIZIONE DEL DOLLARO


«Adesso non si capisce più niente: non c’è lavoro,
non ci sono medicine, non c’è cibo nel paese
che era il granaio del mondo».
Dal colloquio con la gente in fila davanti
alle odiate banche emerge la drammaticità
della situazione argentina. In tanti avevano
i loro risparmi nella valuta statunitense.
Ora si ritrovano (forse) dei «pesos».
A parte coloro che sono riusciti ad esportare
i capitali all’estero, per una somma complessiva
pari a 130 miliardi di dollari, quasi quanto
l’intero debito estero del paese.
C’è da stupirsi che gli argentini siano furiosi?

Buenos Aires. Avenida Rivadavia
sembra la via di una grande
metropoli occidentale:
marciapiedi affollati, insegne luminose,
boutiques, librerie e bar eleganti.
Eppure, a ben guardare, le
differenze ci sono e non sono poche.
Ad esempio, i cartelli «se alquila»
e «se vende» esposti sui balconi delle
case: non sono tanti, sono troppi.
La gente, strangolata dalla crisi, tenta
di vendere i propri appartamenti,
ma nessuno ha i soldi per comprare.
Le banche sono tantissime. Alcune
sono argentine, ma la gran parte
sono straniere: Banco de la Nacion
Argentina, Banco Galicia, Banco
Sudameris, Banco Francés, Banco
Rio, Boston Bank, Citibank, Banca
Hsbc, Banca Nazionale del Lavoro
e molte altre. Qualche anno fa arrivarono
qui in massa, attratte dai mirabolanti
guadagni promessi dal sistema
ultra-liberista messo in piedi
dal presidente Carlos Menem. Oggi
tutte le banche vorrebbero chiudere
i battenti e scappare dal paese.
Gli istituti di Avenida Rivadavia
sono stati più fortunati di quelli localizzati
in centro, non lontano da
Plaza de Mayo. Là le banche si sono
trasformate in fortini assediati, qui
la gente si è limitata ad imbrattare
qualche vetrata: «bancos ladrones»,
«maldidos bancos».
A poca distanza dalla Banca Nazionale
del Lavoro, si dipana una
lunga fila di persone. Copre largamente
l’angolo della via che sbocca
su Rivadavia e si allunga per molti
metri fino all’entrata del Banco Piano.
Stretto tra un negozio di scarpe
e uno di elettrodomestici, a due passi
da un McDonald’s, il Banco Piano
non è un vero istituto di credito,
ma una «casa di cambio». E, in
quanto tale, ha meno restrizioni di
una banca normale.

ITALIANI
Mi avvicino per fare qualche domanda.
«Cosa vuole che le racconti?
– mi dice una coppia di signori
immigrati da Genova -. Lo può vedere
con i suoi occhi quello che sta
succedendo. Qui ci sarà la coda per
tutto il giorno, fino alla chiusura. La
gente ha lavorato tutta la vita, ha
messo i risparmi in banca ed ora che
succede? Le banche non ti restituiscono
il denaro. Il tuo denaro!
A Genova abbiamo fratelli e sorelle,
ma non toeremo in Italia,
perché, grazie a Dio, nostro figlio ha
un lavoro e così la sua famiglia».
Nel giro di pochi minuti si avvicinano
altre persone; quasi tutte parlano
o intendono l’italiano e vogliono
dire la loro.
«Tutta l’Argentina ormai è un manicomio.
Non si capisce più niente:
non c’è lavoro, non ci sono medicine,
non c’è cibo nel paese che era il
granaio del mondo. E i poveri sono
sempre più poveri, oltre che in costante
crescita…».
Un signore di una certa età mi tira
per la maglietta e mi mette sotto
gli occhi la sua carta d’identità. Leg-
go: Francesco Costanzo, nato a Reggio
Calabria.
«Arrivai in Argentina nel 1948.
Ma ho ancora molti familiari in Italia;
in Calabria, ma anche a Volpiano,
in provincia di Torino, dove vivono
i miei due nipoti». Pensa di
tornare in Italia, signor Francesco?
«Non ha visto quanti anni ho? Ne
ho 80. Comunque vada, ormai starò
qui».
La voce di Francesco è ferma, ma
gli occhi tradiscono l’emozione.

IL GRANDE FURTO
«Sono qui – racconta l’anziano immigrato
– per vendere i pochi dollari
che mi sono rimasti. Debbo vendere
per pagare i debiti, ma anche
per mangiare. Nessuno ha fiducia
nella nostra moneta, ma dopo la
“pesificazione” dell’economia non
c’è altra soluzione per vivere».
Quanto ha influito la parità tra peso
e dollaro in vigore dal 1991 fino
all’inizio di quest’anno? «La convertibilità
doveva essere una misura
temporanea per salvarci dall’iperinflazione.
Una volta raggiunto lo scopo,
avrebbe dovuto sparire e il cambio
essere flessibile, con il dollaro libero
di fluttuare».
Pare che in poco tempo siano usciti
dal paese qualcosa come 130
miliardi di dollari, una somma quasi
pari al debito estero argentino. È
così?, chiedo a Francesco.
«Già un anno fa, fiutando il crollo
del sistema, le imprese locali, le
multinazionali, i politici hanno iniziato
a portare all’estero i loro depositi
bancari. Altre somme rilevantissime
sono state prestate dalle banche
ad uno stato che si sapeva a rischio
insolvenza. A questo punto,
per evitare il crollo del sistema bancario,
il ministro Cavallo ha dovuto
instaurare il corralito, in base al quale
ogni correntista non può prelevare
il proprio denaro, se non in misura
minima».
E poi tutti i depositi in dollari sono
stati trasformati in pesos… «Ovvio,
i dollari sono oramai tutti fuori
dal paese. Tutta questa vicenda è un
grande furto ai danni del popolo argentino,
prima da parte del governo
e poi delle banche». Senza dimenticare
il Fondo monetario internazionale…
«Sì, ovviamente. Ma l’Fmi fa il suo
lavoro. Lui dice: io ti do i soldi a
queste condizioni. Chi è il Fondo
monetario? Gli stati più industrializzati,
che non ti danno mai nulla
per nulla».

ALLA RICERCA DI «UN» FUTURO
In Italia si fa un gran parlare
dei movimenti popolari dell’Argentina:
prima i piqueteros,
poi i cacerolazos.
Insomma, sembra che la
sventura abbia molto unito
la gente. Francesco, è d’accordo?
«No, non lo sono. Fino a poco
tempo fa, ognuno pensava soltanto
a se stesso e non si preoccupava degli
altri. Adesso inizia la solidarietà,
perché la crisi sta colpendo tutti i ceti
e non soltanto quelli più bassi.
Se il popolo fosse stato intelligente, i governi non avrebbero potuto
approfittae. E invece, finché c’era
da mangiare, nessuno si è interessato
della situazione. E i signori deputati,
senatori, presidenti hanno potuto
governare per i loro interessi».
La chiesa argentina che cosa fa?
«La chiesa sta cercando delle soluzioni
attraverso la cosiddetta “mesa
di dialogo”. Ma non si conclude nulla,
perché tutti si limitano a chiedere
sussidi. Come si fa a dare sussidi
se nel paese non c’è più niente! L’unica
soluzione per uscire dalla crisi
sarebbe di ridare agli argentini il lavoro
». Altrimenti la gente cerca di
abbandonare il paese…
«Se potessero – conferma Francesco
-, in tanti scapperebbero. Io sono
tornato due volte in Italia, nel
1986 e nel 1994. L’ho trovata molto
cambiata rispetto al 1948, anche se
il paese non ha le risorse naturali
dell’Argentina. Qui siamo appena in
36 milioni, ma per l’estensione potremmo
essere in 150. Eppure siamo
ridotti in miseria. Il perché si dovrebbe
chiedere ai nostri politici,
che sono… Ma lasciamo perdere; è
inutile dire cose che tutti sanno».
Ottant’anni, ma quanta grinta ha
ancora in serbo quest’uomo! Ancora
una domanda, Francesco: come
vede il futuro dell’Argentina?
«Ma quale futuro? Adesso non c’è
futuro in questo paese. Con il 25%
di disoccupazione e le fabbriche che
non ci sono più, che futuro può esistere?
Un paese che non produce e
non ha commercio, che cosa può fare?
Prova a domandare a questo ragazzo
che futuro ha…».
«È vero – risponde subito il giovane
interpellato -: qui nessuno può avere
un futuro e la gioventù meno
ancora. Hanno venduto tutto».
Sei uno studente?, chiedo. «No, in
questo momento lavoro, ma non so
per quanto tempo. Sono venuto a
sostituire mia nonna nella fila». Il
tuo nome? «Adrian».
Grazie Francesco, buona fortuna
Adrian.

«PATACONES»
Lascio la fila davanti al Banco Piano
e, a piedi, mi incammino lungo
Avenida Rivadavia.
C’è molta gente e si muove in fretta,
proprio come avviene nella maggior
parte delle città occidentali. Ma
poi le difficoltà del presente tornano
a manifestarsi. Come in quegli
avvisi appiccicati sulle vetrate dei
negozi: «Confianza en el pais: aceptamos
patacones».
Che sono i patacones? Il nome è
quasi onomatopeico ed evoca le patacche,
ovvero cose di nessun valore.
I patacones tecnicamente sono
dei «pagherò» emessi dalle tesorerie
delle province argentine; in pratica,
rappresentano la dimostrazione tangibile
del fallimento dello stato.
Come faceva quella famosa canzone?
«Non piangere Argentina…».

CACEROLA: è «la pentola da cucina»;
da cui il nome di «cacerolazo», manifestazione
di protesta popolare
durante la quale la gente si fa sentire
picchiando sulle pentole; ha avuto
un’eco internazionale con le
proteste del dicembre 2001
CORRALITO: letteralmente è «il recinto
»; il corralito bancario, introdotto
dal ministro Cavallo, limita
fortemente i prelievi bancari
da parte dei clienti, stimati in più
di 3 milioni; la misura, confermata
dal governo
Duhalde, mira ad evitare
il tracollo del sistema
finanziario
ESCHRACE: significa mettere
in piazza la storia di una persona
compromessa con la dittatura
militare, ma rimasta a
piede libero; sono varie le modalità
dell’eschrace: manifesti affissi
per le strade, assembramenti rumorosi
sotto la casa della persona,
ecc.
GATILLIO FÁCIL: letteralmente il «grilletto
facile» della polizia argentina,
mostrato anche durante le proteste
dello scorso dicembre (con
30 morti); nel 2001 hanno perso
la vita per spari «facili» delle forze
dell’ordine 220 persone
PATACONES: sono buoni cartacei emessi
dalle province argentine al
posto del denaro reale; attualmente
ci sono in circolazione 20
tipi di buoni (ciascuno con un proprio
nome), quasi uno per provincia
(sono 23 le province argentine)
PIQUETEROS: indica i disoccupati
che protestano con picchetti
che bloccano le
strade principali; il
movimento è
nato nel
1996, all’epoca delle privatizzazioni
del presidente Menem (*)
TRUEQUE: è una forma evoluta
di baratto; i «club di trueque
» (nodi) sono luoghi dove le
persone (produttrici e consumatrici
al medesimo tempo) si
scambiano beni e servizi senza utilizzare
il denaro (**)
VILLAS MISERIAS: così sono chiamate,
in Argentina, le baraccopoli alle
periferie delle città

(*) Dei «piqueteros» parleremo nella
puntata di luglio-agosto di questo reportage
dall’Argentina.

(**) Al «trueque» dedicheremo l’articolo
di settembre.

Paolo Moiola




HARRIS: UN PROFETA… SPECIALE

Aveva quasi 50 anni William Wade Harris quando si affacciò
sul litorale della Costa d’Avorio. Era nato nel 1865
nel sud est della Liberia, da etnia grebo, gruppo kru. Predicatore
e responsabile della chiesa metodista di Cape Palmas,
conosceva la bibbia a menadito. Nel 1910 fu imprigionato
per motivi politici. Un’esperienza mistica decise la sua vocazione
profetica: si impegnò di portare il vangelo ai suoi
fratelli.
Nell’estate del 1913 varcò la frontiera della Costa d’Avorio
e cominciò a predicare lungo il litorale, fino alla Costa
d’Oro (Ghana), finché nell’aprile del 1915, scambiato per
un agitatore politico, fu espulso dal governo coloniale
francese.
Alto e corpulento, sguardo vivo e parlantina affascinante,
turbante bianco, tunica candida e fascia nera incrociata sul
petto, un bastone di bambù a forma di croce, la bibbia sfogliata
senza sosta, una zucca piena di semi per ritmare i
canti e una ciotola per battezzare, Harris predicava con impero
e tono dei profeti dell’Antico Testamento.
Anche il suo messaggio era basato sull’antica alleanza: unicità
di Dio, decalogo, lotta all’idolatria. Insisteva sulla necessità
d’imparare a leggere, per conoscere la parola di Dio,
scritta nel libro che sfogliava davanti agli occhi della gente.
Parlava pure del Dio d’amore, che ha mandato il figlio Gesù
Cristo a salvare il mondo, spiegando il significato della croce
che reggeva in mano. Se qualcuno la mirava con lo stesso
terrore e passione con cui si guarda un feticcio, la spezzava
e ne costruiva un’altra, per dimostrare che non era
un talismano, ma un simbolo del peccato umano e dell’amore
divino.
Contro idoli e superstizioni era più focoso del profeta
Elia. Predicava per tre giorni in una località,
concludendo il suo lavoro con un grande
falò, dove i feticci venivano bruciati, e con
il battesimo dei nuovi adepti. Si dice che
abbia personalmente amministrato più di
100 mila battesimi. Una volta, vicino ad
Abidjan, c’era tanta folla che il profeta si
sentì perduto: fece inginocchiare tutti e,
mentre la pioggia inzuppava le loro teste,
pronunciò la formula del battesimo.
Si raccontano pure di malati guariti e paralitici
tornati a camminare. «Dio è grande!
» esclamava con semplicità a ogni fatto
portentoso. Nessuno mai gridò al miracolo.
Harris non voleva attirare l’attenzione sulla
sua persona, tanto meno fondare una nuova
religione. Come il gallo annuncia l’aurora, diceva,
lui annunciava la venuta dei «bianchi
con il libro», i missionari che un giorno avrebbero
portato quella parola di cui egli
era primo testimone.
In ogni gruppo convertito, Harris lasciava
dei predicatori, incaricati della vita
spirituale e del culto, «apostoli», responsabili
dell’organizzazione e condotta morale
della comunità, e un «Pietro», come punto di
riferimento. E raccomandava di attendere i
missionari, riconoscibili dal libro sacro.
Di fatto, la maggior parte dei seguaci di Harris entrarono
nella chiesa cattolica e, soprattutto, protestante. Ma i seguaci
più ferventi rimasero fuori del cristianesimo importato.
Dopo la seconda guerra mondiale, con l’esplosione dell’autenticità
africana, vari personaggi carismatici fondarono
chiese autonome, ispirate ad Harris che, dopo la sua
morte (1929), i fedeli ritenevano più messia che profeta.
Oggi l’harrismo è ancora radicato lungo tutto il litorale
della Costa d’Avorio, con tre centri indipendenti e significative
differenze morali e dottrinali. Una costola dell’harrismo,
inoltre, è costituita dalla religione deima, fondata
dalla profetessa Marie Lalou e diffusa nella regione di Ganoa.
Denominatore comune dell’harrismo è il richiamo alla bibbia,
mescolato con questioni di stregoneria; il culto è molto
vicino a quello protestante; la poligamia è autorizzata.
Alcuni gruppi si caratterizzano per l’impegno nella carità e
solidarietà; altri per le severe esigenze di moralità nei riguardi
di alcornol, denaro e sessualità.
Tutti i fedeli harristi si aspettano dall’intercessione di Harris
una prosperità uguale a quella degli europei.

Benedetto Bellesi




DA BABELE A PENTECOSTE

Fondata negli anni ’60 dai missionari della Sma
(Società missionaria per l’Africa), la missione
di Grand Béréby è stata affidata ai missionari
della Consolata che, oltre a continuare
il lavoro dei predecessori, affrontano
nuove sfide nel campo
dell’evangelizzazione,
sanità e promozione umana.

Dall’alto della collina, dove
sorge la missione di Grand
Béréby, l’oceano sembra a
portata di mano e lo sguardo si estende
all’infinito. Ma tra l’altura e il
mare il panorama non è affatto entusiasmante:
un agglomerato di abitazioni
sgangherate e tetre, come l’asfalto
che le spacca in due, è reso ancora
più triste da un velo di vapori
tropicali che il sole non riesce a
perforare. L’unico edificio che rompe
la monotonia del paesaggio è il
municipio, che spicca con prepotente
dignità per il pulito giallo ocra
della sua tozza mole.
Prima che il sole sparisca nelle acque
dell’oceano, il congolese Rombaut
Ngaba, missionario fratello, mi
accompagna a visitare il paese.

QUASI UN PRESEPIO
Dieu est grand (Dio è grande) recita
la scritta sui parabrezza di scassatissimi
pulmini e taxi, posteggiati ai
bordi della strada. La leggo con devozione,
come una giaculatoria, finché
mi sovviene che è la traduzione
dell’arabo Allah akbar. Continuo a ripeterla
mentalmente, con spirito ecumenico,
ma meno devozione,
mentre osservo botteghe e bottegucce
tuttofare che costeggiano l’asfalto.
L’abbigliamento dei gestori non lascia
dubbi: sono musulmani.
«Commerci e trasporti sono quasi
tutti in mano loro – spiega la mia guida
-. L’amministrazione è appannaggio
dei locali kru; togolesi e beninesi
gestiscono rudimentali ristoranti; ad
altri gruppi stranieri sono riservati lavori
più pesanti o rifiutati dai locali».
«I pescatori vengono dal Ghana»,
continua il fratello, mentre arriviamo
al porto. Alcuni uomini nerboruti
rattoppano le reti; altri, con grosse
ceste sulla testa e acqua alla cintura,
scaricano il pesce dalle barche e lo
ammucchiano sulla terra ferma. I
bambini guardano curiosi e festanti,
mentre un nugolo di donne vocianti
acquistano la merce; altre sono già
al lavoro: puliscono e friggono grossi
pesci per rivenderli al minuto su
banchetti traballanti.
Il sole è tramontato; la notte scende
veloce. Le fioche lampadine penzolanti
nei negozi e le candele delle
bancarelle trasformano il paese in un
presepio. Lo spettacolo è suggestivo,
ma la realtà non cambia. La vita è dura
a Grand Béréby, specie per le donne,
che rimarranno fino a notte fonda
accanto alle loro mercanzie, in attesa
di racimolare qualche centesimo
per sfamare la famiglia.
Altra gente, invece, comincia a divertirsi.
Due discoteche, pomposamente
chiamate «ministeri della cultura
», hanno aumentato il volume
dei giradischi e richiamano i clienti
che, essendo stagione di raccolti,
hanno qualche franco in tasca e tante
cose da dimenticare.
Per i missionari, invece, arriva l’ora
di andare a riposare. Cerchiamo
di chiudere occhi e orecchi, perché
la musica durerà tutta la notte.

PROBLEMI E PROBLEMI
Baciato dalla luce del mattino,
Grand Béréby appare meno scalcinato.
Ma a rituffarmi nella realtà del
luogo arriva Paul Ino, capo tradizionale
e presidente del consiglio parrocchiale.
Parla dell’isolamento della
regione, perché la strada asfaltata
è dissestata e quelle che si addentrano
nella foresta non meritano tal nome;
della vita sempre cara, dal momento
che, fuorché il pesce, Grand
Béréby deve importare tutto da lontano.
Si passa al problema dell’istruzione:
le scuole elementari sono insufficienti;
quella secondaria è praticamente
interdetta alla popolazione
dell’interno, a causa delle distanze e
alla mancanza di alloggi per studenti,
maestri e altri funzionari. Come altri
capi, anche il signor Ino prospetta
l’esigenza di una scuola cattolica.
«Il problema più grave è quello
della sanità – continua il capo -. Comune
di circa 5 mila abitanti e capitale
di regione che si estende per oltre
80 km verso la Liberia e altrettanti
nell’interno, Grand Béréby dispone
di un dottore e un dispensario, con
un reparto di mateità, per decine
di migliaia di persone. Mancano le
medicine essenziali e, per i casi gravi,
bisogna ricorrere a San Pedro, a più
di 50 km di distanza. Ma se i casi sono
più di uno, dato che disponiamo
di una sola ambulanza, la gente deve
servirsi di taxi, che costano un occhio
della testa».
Conoscendo un poco la situazione
creatasi negli ultimi mesi, stuzzico il
capo sul problema dei rapporti sociali.
«Grand Béréby è un paese cosmopolita» attacca il capo, ripetendo
un ritornello che mi ronza nelle orecchie
da parecchi giorni. Dopo aver
sciorinato la babele di etnie e lingue
sotto la sua giurisdizione, continua
imperterrito: «Da Grand Béréby
alla Liberia e oltre i confini, è terra dei
kru, da secoli popolazione di marinai.
Ora che tutto è automatizzato, essi
non hanno più lavoro e neppure i
campi da coltivare, da generazioni in
mano agli stranieri: i kru li rivogliono
indietro».

L’ALTRA CAMPANA…
Quella dei missionari ha un suono
differente: i kru sono sfaticati; per
questo hanno affittato la terra agli
stranieri. I burkinabé, invece, sono
grandi lavoratori: hanno sudato sangue
per dissodare la foresta e organizzare
belle piantagioni; proprio ora
che ne raccolgono i frutti e vedono
realizzarsi il sogno di una vita, si sentono
minacciati di espulsione: non ci
stanno a cedere su un piatto d’argento
tanti anni di fatica.
Se non ci fossero gli immigrati,
specie i burkinabé, l’economia della
Costa d’Avorio crollerebbe all’istante:
sono essi a fare i lavori più pesante
o rifiutati dai locali. «Anche la parrocchia
di Grand Béréby sarebbe ridotta
al lumicino» aggiunge padre
Willy, missionario della Consolata
congolese.
Tra i kru, infatti, i cristiani sono pochissimi:
alcuni sono arruolati nei
gruppi evangelici protestanti; la maggioranza
ha abbracciato l’harrismo,
un movimento sincretista affermatosi
lungo la costa avoriana all’inizio del
1990 (vedi riquadro). «La chiesa cattolica
è arrivata troppo tardi» sentenzia
il capo Ino. «Cultura e tradizioni,
specie la poligamia, ostacolano
la loro conversione al cristianesimo»
spiega invece padre Willy.
L’evangelizzazione della regione fu
avviata negli anni ’50 dai missionari
della Sma, provenienti da San Pedro;
essi si occuparono più di alcune zone
dell’interno che del centro. La
presenza di un missionario a Grand
Béréby è iniziata negli anni ’60.
Dall’aprile del 2000 la parrocchia
è affidata ai missionari della Consolata.
Essa conta oltre 5 mila cristiani,
distribuiti in 21 comunità sparse per
lo più nella foresta. Sotto l’aspetto
geografico il territorio è diviso in 7
zone, in cui i villaggi minori ruotano
attorno alle comunità più grandi. Il
centro di Dobo, per esempio, comprende
vari villaggi per un raggio di
30 km; ha una comunità bene organizzata,
una chiesa più bella di
Grand Béréby e potrebbe diventare
parrocchia indipendente.

MINISTERO DI CONSOLAZIONE
Alle 8 del mattino i primi clienti
sono in fila davanti al dispensario, sistemato
accanto alla chiesa. Dentro,
in maglietta e ventilatore al massimo,
fratel Rombaut, specializzato in infermieristica,
esamina gli occhi di un
uomo magro come un chiodo. Appena
mi vede, indossa il camice bianco
per la rituale fotografia; se lo toglie
e ritorna a interrogare il suo
cliente. «La tua malattia si chiama fame
» sentenzia sorridendo, mentre
ordina alla sua assistente di preparare
alcune confezioni di vitamine e
raccomanda alla moglie del paziente
di cucinargli tanto pesce.
«All’inizio la gente arrivava col
contagocce – racconta il fratello -.
Pensava che il dispensario si prendesse
cura solo dei cattolici. Poi una
mamma musulmana ha portato il
proprio figlio e la fama si è sparsa in
un baleno. Oggi abbiamo una ventina
di pazienti al giorno; il sabato raddoppiano,
attirati anche dal fatto che
diamo medicine a un prezzo più basso
che nelle farmacie e, quando qualcuno
non riesce a pagare tutto, chiudiamo
un occhio».
Il dispensario è parte del progetto
sanitario esteso a tutti i villaggi del
territorio parrocchiale. In ognuno di
essi c’è la «caisse pharmacie», una
specie di pronto soccorso, dotato di
medicinali di prima necessità e gestito
da due «agenti di sanità comunitaria
», appositamente preparati per
far fronte ai casi più frequenti: malaria,
diarrea, ferite e infezioni varie.
Ogni settimana fratel Rombaut visita
i villaggi, per continuare la formazione
degli agenti e fare «animazione
sanitaria» tra la gente, con corsi
d’igiene per mamme e levatrici
tradizionali. Ha iniziato pure una
campagna di vaccinazione dei bambini
contro la poliomielite, difterite,
morbillo, tetano. «Dovrebbe essere
un dovere dello stato – continua fratel Rombaut – ma i responsabili della
sanità non hanno mezzi o voglia di
spingersi nell’interno della foresta
per le vaccinazioni. Mi sono messo
d’accordo col centro sanitario di San
Pedro, offrendomi di fare il suo lavoro;
ho scoperto dei lebbrosi e foisco
medicine pure a loro».
Oltre al lavoro professionale, il fratello
dà una valida mano in quello
prettamente religioso. Il sabato pomeriggio
spiega il catechismo ai giovani
della scuola secondaria di
Grand Béréby; la domenica si reca
in uno dei villaggi per animare la comunità,
spiegare la parola di Dio,
portare l’eucaristia agli ammalati.
«Tale attività mi procura tanta soddisfazione
– conclude -. All’inizio il
lavoro con i giovani è stato duro; ma
ora il contatto è aperto e cordiale.
Nei villaggi, poi, non ci sono mai state
difficoltà: straniero tra stranieri, ci
capiamo di primo acchito».

INSEGNARE A «PESCARE»

«Il progetto sanitario ci fa conoscere
come evangelizzatori – aggiunge
padre Willy -. È un servizio di
consolazione concreta, anche se con
dei limiti, poiché per i casi più gravi
bisogna ricorrere all’ospedale. Molte
altre realtà umane sfidano la nostra
presenza, ma non possiamo abbracciarle
tutte. Siamo appena arrivati;
le domande su cosa fare sono
più delle risposte».
Nonostante la modestia, a Grand
Béréby c’è già molta carne al fuoco.
I missionari hanno avviato una scuola
di alfabetizzazione, dove i giovani
imparano a leggere e scrivere e qualche
parola di francese. «È umiliante
per un giovane dover dire di non saper
leggere, quando è invitato a fare
una lettura nei nostri incontri – continua
il padre -. E sono molti i ragazzi
analfabeti, perché la scuola costa
e i genitori non hanno la possibilità
di mandarvi i figli».
Le donne hanno chiesto di fare
qualche cosa anche per loro: nella sede
parrocchiale si tengono corsi di
taglio e cucito e maglieria, in cui un
gruppetto di signore imparano il mestiere
e, tornate nei propri villaggi, lo
insegnano ad altre donne, si aiutano
a vicenda e organizzano una piccola
cornoperativa. La missione, quando
può, fornisce lana e materiale che arriva
dai benefattori.

Buona parte del tempo è assorbito
dall’organizzazione delle comunità
di base e dalla formazione umana
e religiosa di animatori e catechisti.
Ogni anno si tengono tre corsi
sistematici. «È una formazione continua,
poiché la gente va e viene –
spiega padre Willy, incaricato di tale
compito -. A Grand Béréby abbiamo
già qualche catechista locale; ma
nei villaggi sono tutti immigrati dall’interno
del paese e da altre nazioni,
specie il Burkina Faso. Se un leader
torna a casa, bisogna procurare un
sostituto. Grazie a Dio, non è difficile
trovare persone motivate per
servire la comunità; resta sempre il
problema di prepararle adeguatamente.
Intanto la chiesa cresce. Ogni
anno abbiamo circa 400 battesimi
» sospira padre Willy.

IL SOFFIO DELLO SPIRITO
La catechesi è l’attività principale
della parrocchia; il catecumenato
quella dei singoli villaggi. I catecumeni
sono coinvolti in tutte le attività
comunitarie: s’incontrano, pregano,
cantano, giorniscono insieme agli
altri cristiani.
Una volta al mese le cappelle minori
si uniscono alla comunità più
grande, dove il padre si reca a celebrare
la messa. Così tutti gli animatori,
catechisti e comitati ecclesiali
della zona si ritrovano e discutono
tutto ciò che riguarda la loro vita cristiana:
catechesi, catecumenati, formazione
e altre attività.
Tutte le domeniche l’eucaristia diventa
un evento pentecostale. Anche
se il francese fa la parte del leone, le
letture vengono fatte anche in altri idiomi,
a seconda della consistenza
dei gruppi linguistici presenti. Così
pure l’omelia viene tradotta in tre o
quattro lingue.

Dopo la celebrazione, i vari gruppi
linguistici si radunano dentro e
fuori la chiesa e, sotto la guida del catechista,
riprendono e approfondiscono
quanto è avvenuto nella liturgia
domenicale. Così gli autoctoni ascoltano
il messaggio di Dio in lingua
kru; quelli del Burkina Faso in moré,
gourcy e dogary; i gruppi avoriani in
baoulé, bété, abron, koulango; i ghanesi
in fantis. «Non bisogna avere
fretta – conclude serafico padre Willy
-, perché si ripeta anche qui il miracolo
della pentecoste, quando tutti
i popoli “udirono annunciare nella
propria lingua le grandi
opere di Dio” (cfr Atti 2,
6-11)».

Benedetto Bellesi




II pomodorro dei caporali

Leggo con molto interesse la rubrica «Il mondo
in un libro», a cura di Benedetto Bellesi, dedicata
alle pubblicazioni dell’Editrice missionaria italiana
(Emi). I libri sono uno strumento importante
per far compiere un salto di qualità a chi accetta
di impegnarsi per la costruzione di una società più
cristiana e più umana. Apprezzo, in particolare, i
libri che denunciano le ingiustizie e gli abusi nella
produzione e nel commercio di beni, alimentari
e no, provenienti dai paesi del Sud del mondo e
che invitano i consumatori a scelte responsabili
quando fanno la spesa nei supermercati.
Però mi domando: l’Emi ha la stessa attenzione
al Sud d’Italia? Siamo sicuri che ananas, banane,
cacao e caffè delle multinazionali debbano essere
boicottati più dei pomodori e dei loro derivati prodotti
nel nostro meridione?
Non siete convinti anche voi che il latifondismo
e il caporalato (che flagellano Campania, Puglia,
Basilicata) siano da condannarsi almeno quanto i
fazendeiros del Brasile e i loro squadroni della morte?
Non credete che il consumatore coerente con
la sua morale cristiana, prima di acquistare conserve
e passate di pomodoro, debba fare una riflessione
sulle vittime dei caporali nel brindisino
e nel napoletano, così come le fa sui lavoratori,
sulle donne e sui bambini vittime della Nestlé, Chiquita
o Del Monte in Nigeria, Guatemala e Kenya?
Dico la verità: dopo aver letto alcuni articoli e
visto diversi filmati, non sono affatto sicura che
certe pappe al pomodoro, così esaltate da alcuni
vegetariani ed ambientalisti, siano innocue come
una bistecca ricavata con i metodi rispettosi della
tradizione agroalimentare nostrana.
Insomma: dico NO all’hamburger dei fast-food,
condannato nei libri dell’Emi, ma dico NO anche al
pomodoro dei caporali di Oria, Foggia e Sao, che
umiliano (e talvolta uccidono) le donne, avvelenano
i fiumi e sconvolgono l’assetto idrogeologico del
territorio, creando i presupposti per nuove calamità,
nuove stragi, nuove speculazioni da parte delle
organizzazioni di stampo mafioso.

CHIARA BARBADORO




1 PECCATORE PENTITO E 99 GIUSTI

Grazie per la coraggiosa impostazione
di Missioni Consolata… La rubrica
«Cari missionari» è uno spazio veramente
aperto, al servizio delle idee (e
coscienze) di tutti, senza distinzioni di
opinione e forma.
Ho letto il numero di aprile, con le tre
lettere che criticano la mia rilettura della
parabola del «buon samaritano» alla
luce della guerra in Afghanistan; in
particolare, del sostegno (votato dai
partiti cristiani del parlamento italiano)
all’intervento militare in quel martoriato
paese. Ringrazio le persone che
hanno scritto: hanno esteato il loro
dissenso e sdegno, senza limitarsi a coltivarli
nel proprio animo (come spesso
succede), rendendo così il proprio giudizio
inappellabile ed elevando piccole
barriere di incomprensione e diffidenza,
che possono diventare muraglie invalicabili
(Kosovo, Palestina e «Brigate
Rosse» insegnano).
Quanto è difficile parlarsi! E, invece,
com’è facile essere fraintesi, anche nelle
migliori intenzioni! Ma, proprio per
questo, è vitale insistere su tale strada
senza scoraggiarsi, facendo dell’ascolto
e del dialogo una priorità assoluta,
anche (e soprattutto) quando gli interlocutori
sono scomodi.
Non era mia intenzione fare l’apologia
del comunismo. Anche Gesù, con la
sua parabola, non voleva fare l’apologia
dei samaritani, bensì mettere in crisi le
coscienze degli ebrei del suo tempo, invitandoli
a riflettere su un punto cruciale:
non la dottrina o l’abito o la carica
o l’appartenenza ad un gruppo, ma i
comportamenti (e solo questi) qualificano
come giusta di fronte a Dio un’azione;
e ogni azione è giusta o ingiusta
di per sé, non in funzione dei meriti o
demeriti del passato. «Non chi dice “Signore,
Signore” entrerà nel regno dei
cieli, ma colui che fa la volontà del Padre
mio» (Mt 7, 21).
Il giorno in cui si decideva se andare
o non andare in guerra ad uccidere (in
risposta ad altri che già avevano ucciso)
chi ha fatto la volontà del Padre?
Non mi risulta che nel vangelo esista
una parola a legittimazione di uccisioni
a scopo di difesa o a giustificazione
di guerre per costruire la pace. Mi
chiedo: siamo consapevoli di cosa significhi
la Croce, elevata a simbolo della
nostra fede? Non significa forse che
Qualcuno si è lasciato calunniare, umiliare,
torturare ed uccidere (senza invocare
«bombardamenti chirurgici» da
parte delle sue schiere celesti), per insegnarci
nella sua carne (non a parole)
la via per arrivare, noi tutti, alla vera
pace, cioè a Lui stesso?
Affermo questo con l’umiltà di chi si
sforza di compiere ciò che ci è stato richiesto
come cristiani, rendendo testimonianza
agli insegnamenti ricevuti. E
con la consapevolezza dell’enormità di
quanto ci viene domandato, di quanto
sia «contro natura», di quanto sia fuori
da questo mondo. Però non ci è chiesto
di capire, ma di avere fiducia e di
non vergognarci di chiedere aiuto a Colui
che ci indica tale via, anche quando
essa sembra fuori della nostra portata.
Sta scritto: «Non si può servire insieme
Dio e mammona» (Lc 13, 16). Oggi,
parafrasando, potremmo dire: non si
può servire, nello stesso tempo, Dio e
Machiavelli. Nel vangelo non esistono
fini che giustifichino i mezzi.
Too ai comunisti che votano contro
la guerra. Se oggi qualcuno (che si
riconosce in una ideologia che, per quasi
un secolo, ha predicato l’ateismo e la
legittimità di contrastare con la violenza
le violenze subite) si batte contro la
guerra, questo non dovrebbe essere motivo
di gioia? Oppure preferiamo cercare
conforto ai nostri tentennamenti,
coltivando il dubbio che sia ipocrita ed
agisca per sordidi secondi fini?
Non dovrebbe essere nostro dovere di
cristiani incoraggiarlo a proseguire sulla
buona strada, invece di disprezzarlo
per gli errori che, tra l’altro, non lui, ma
il suo gruppo può avere commesso? Se
un ateo crede nella solidarietà, nella
giustizia e nella pace, non sarà forse
che crede pure in Dio, anche se ancora
non lo dice?
«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore
convertito che per 99 giusti che
non hanno bisogno di penitenza» (Lc
15, 7)… Cerchiamo anche noi, almeno,
di desiderare questa gioia.

GIANCARLO TELLOLI