L’India del Gange, il Nepal della dea «Kumari»,
il Vietnam delle tribù. Istantanee da tre paesi asiatici,
osservati e fotografati con grande interesse. Rispettando e apprezzando le diversità religiose e culturali.
S ono partita con l’amico
RENZO MILANESIO,
scrittore ed esploratore.
Destinazione: Varanasi, città
santa dell’India. Abbiamo
proseguito verso Katmandu,
capitale del Nepal. Siamo stati
anche in Vietnam, con un
itinerario da Hanoi ai villaggi
nord-occidentali abitati da
minoranze etniche.
Renzo ed io viaggiamo sempre
alla scoperta di nuove realtà. I
nostri ultimi viaggi ci hanno
fatto percorrere la grande steppa
della Mongolia.
Ed è ancora l’oriente la nostra
meta, con l’obiettivo di ritrarre la
vita infantile. L’esperienza
rientra in un progetto, ideato da
Renzo, che ha come protagonisti
i bambini nel mondo: la loro
condizione e quotidianità,
nonché il futuro che loro si
prospetta.
Abbiamo ammirato bambini
dagli occhi grandi camminare
sicuri e liberi per i sentirneri della
loro terra, abbiamo assistito ai
loro giochi fantasiosi. Abbiamo
constatato il loro ruolo sociale
nel lavoro dei campi, nella cura
degli animali, nelle faccende
domestiche. Abbiamo lasciato
una parte del nostro cuore a chi
ha bisogno di tenerezza e amore.
L’oriente, respirando i profumi
e l’atmosfera densa dell’India o
percorrendo le strade tortuose
del Vietnam, ci ha fatto
conoscere altri stili di vita,
rivelandoci l’essenza di culture
diverse. La cultura, che è
l’insieme delle manifestazioni
della vita materiale, sociale e
spirituale di un popolo, può
essere studiata in libri, ascoltata
in racconti o osservata nelle
scelte delle persone di fronte alla
loro esistenza.
Conoscere le culture di altri
popoli è un’esperienza che
arricchisce mente e spirito e
permette di comprendere le tante
possibilità di realizzazione di
ogni essere umano.
IL FIUME DELLA PURIFICAZIONE
Varanasi, nella regione dell’Uttar
Pradesh, sorge sulla riva del fiume
Gange ed è uno dei luoghi sacri
dell’India. È una città santa sia per
l’induismo sia per il buddismo: infatti
nella mitologia induista si ritiene
che la terra dove sorge la città sia
stata generata, nella notte dei tempi,
dagli dèi Shiva e Parvati; mentre a
10 chilometri da Varanasi, nel villaggio
di Saath, si recò il Budda,
dopo aver raggiunto l’«illuminazione
», per diffondere il suo messaggio.
Importante centro culturale da 2
mila anni, Varanasi è antichissima;
alcune sue descrizioni compaiono in
testimonianze buddiste e nel poema
epico induista Mahabharata, composto
tra il IV secolo a.C. e il IV secolo
d.C.
Varanasi era conosciuta in passato
con il nome di «Kashi», città della
luce spirituale (da kas, splendere).
In seguito fu chiamata Benares. Il
nome indù, Varanasi, si riferisce alla
posizione della città tra i fiumi Varana
e Assi. È dedicata a Shiva, dio
dalle infinite manifestazioni che, all’interno
della «trimurti» (Brahma,
Visnu e Shiva), crea e distrugge. Per
questo Shiva è considerato il dio della
morte.
Per gli induisti morire a Varanasi
è di enorme importanza, perché significa
congiungersi a Shiva e mettere
così fine al ciclo delle rinascite
o samsara. La morte è il passaggio ad
un’altra vita o la cessazione dell’esistenza
nel mondo; pertanto è «vissuta
» come un nuovo inizio e una
possibilità di evoluzione.
Ogni giorno a Varanasi giungono
centinaia di pellegrini per bagnarsi
nelle acque del Gange e purificarsi
dai loro peccati: bambini, donne e
uomini siedono sulle scalinate che
conducono al fiume, portando vestiti
da lavare, fiori da offrire; lasciano
che l’acqua invada ogni parte del
corpo e pregano in silenzio; stanno
insieme senza parlare, ognuno compreso
della sua pace interiore. Sui
volti si scorge un’espressione di serenità
e di consapevolezza dell’importanza
del momento.
Percorrendo il fiume con una barca
a remi, è possibile avvicinarsi alle
gradinate o ghat (ce ne sono 840).
Di solito si parte da Dasaswamedh
Ghat, il ghat principale. Qui, sotto
ombrelloni, i bramini siedono su un
tappetino con il necessario per celebrare
i rituali: fiori, riso, lumini e una
polvere rossa con cui tracciano
un segno di benedizione sulla fronte.
I sadhu (santoni) stanno accovacciati
in disparte: hanno una veste
colore zafferano, una lunga barba e,
spesso, il corpo è cosparso di cenere;
sono girovaghi e conducono una
vita austera; ma, per farsi fotografare,
allungano la mano e con lo sguardo
lasciano capire che l’offerta è doverosa.
Allorché, dalla riva opposta del
Gange, il sole inizia a sorgere e una
scia luminosa attraversa l’acqua, chi
è di spalle si volta e saluta l’astro nascente.
Il gesto commuove.
Lasciato il ghat principale e spostandosi
a destra si giunge ai buing
ghat, cioè i luoghi dove avvengono
le cremazioni dei cadaveri. Non è rispettoso
avvicinarsi troppo, ma si riconoscono
immediatamente per il
fumo e le cataste di legna. Ogni pira
ammassa 550 chili di legno, il cui
costo è abbastanza elevato.
La cremazione è il rito funebre induista
attraverso il quale il corpo ritorna
agli elementi di cui è composto.
Vengono in mente le parole di
una liturgia cattolica: «Ricordati che
sei polvere e polvere ritoerai».
Il rito è in parte sconcertante, perché
avviene a poche decine di metri
da un gruppo di ragazzini che giocano
tra una fila di panni stesi ad asciugare
e centinaia di persone che
compiono abluzioni: proprio come
se non ci fosse un confine tra vita e
morte, ma tutto appartenesse ad un
ciclo che continua a scorrere.
È altresì importante ricordare che
la composizione batteriologica dell’acqua
del Gange è stata studiata da
numerosi scienziati. È infatti difficile
accettare la «purezza» di un fiume
che ospita brandelli di cadaveri,
schiume di saponi ed escrementi di
vacche e bufali (anch’essi si lavano).
Ebbene, prelevando un campione
d’acqua per lasciarlo in un barattolo
chiuso, si è accertato che solo dopo
due anni nascono dei microrganismi
e il liquido incomincia a marcire.
La mattinata è trascorsa. Nel pomeriggio
la vita continua sulle
sponde del Gange. Dopo alcune ore
trascorse in questo luogo magico,
anche i venditori ambulanti sembrano
essersi stancati di offrire la loro
merce. «Bei colori con timbrini…
Ah, italiano! Bene, compra: colori
bellissimi…».
Mi domando come avrà fatto questo
ragazzo ad acquisire un accento
così spiccatamente romano. Ma il
turismo fa miracoli… Sono simpatici
questi venditori: sembrano più
appagati dall’intrattenere lo straniero
che dal fare affari.
Per il visitatore occidentale assistere
a scene di povertà crea un forte
senso di colpa. Si è abituati a pensare
che chi non possiede un paio di
scarpe o chi ha una maglietta logora
sia infelice. Personalmente ritengo
che chi sa vivere senza possedere
troppo conosce sicuramente la felicità.
Per noi, provenienti da una società
in cui l’economia detta legge, il
denaro è diventato indispensabile:
sarebbe impossibile immaginare una
vita senza soldi. Certamente il
denaro è una risorsa importante:
senza di esso non avrei potuto, per
esempio, compiere l’esperienza che
sto descrivendo. Ma la ricchezza interiore,
in occidente, non sembra essere
cresciuta in modo proporzionato
a quella esteriore.
Culture diverse, mi dico. Da un
lato, la cultura occidentale, che
ha rivolto attenzione ed energia, studio
e ricerca all’esterno e ha ottenuto
progresso, scienza, tecnologia, dimenticando
però i valori propri dell’umanesimo;
dall’altro, la cultura
orientale, che ha coltivato il sé interiore,
raggiungendo una profondità
spirituale… a scapito di impianti fognari,
tubature idrauliche, cure mediche
e alfabetizzazione.
Riconoscere le contraddizioni e
superarle in una visione d’insieme è
crescere. E sapere che ogni esistenza
ha un senso e un fine, perché appartiene
alla Vita ed è mossa dall’Energia
che tutto permea, significa diventare
consapevoli…
Varanasi mi ha accolta, chiedendomi
di restare in ascolto. Qualcosa
è accaduto dentro di me ed io continuo
ad ascoltare, in silenzio.
UNA BAMBINA DIVENTTA DEA
I monti innevati e l’aria pungente
ricordano che il Nepal è, soprattutto,
l’Himalaya. I volti delle persone
hanno segni indiani, ma gli occhi
allungati guardano ad… oriente.
AKatmandu, capitale del paese,
arriviamo con cinque ore di ritardo
e il dubbio che un importante appuntamento
sia stato annullato. Ma
la guida contattata che ci aspetta all’aeroporto
ci rassicura: «Sì, visiteremo
anche la Kumari, sebbene l’incontro
fosse stato fissato per la mattina».
La Kumari è una bambina dea. È
ritenuta la reincarnazione della
dea Durga, una delle manifestazioni
di Devi o Parvati, così come di
Kali. Durga e Kali impersonano
la forza distruttrice della divinità;
Durga viene spesso raffigurata
a cavallo di una tigre o un
leone che sconfigge i demoni;
rappresenta la potenza dell’energia
femminile.
Esistono delle leggende sulla
nascita della Kumari e sul perché
una bimba sia onorata quale
dea durante la sua infanzia.
La tradizione risale, con probabilità,
all’epoca di Jaya Prakash
Malla, l’ultimo sovrano della
stirpe Malla, il cui regno finì nel
1768. Però non ci sono certezze.
Ciò rende ancora più inspiegabile
e misteriosa la presenza
della dea bambina.
«Kumari si diventa», se una
bambina (anche di soli quattro
anni), candidata dalla famiglia,
ha un quadro astrale in armonia
con l’oroscopo del re del Nepal,
possiede 32 requisiti fisici (dal
colore degli occhi alla perfezione
della pelle, senza nei e cicatrici)
e se supera una prova. Ovvero:
si porta la bimba in una stanza
buia, dove sono stati sgozzati
degli animali e alcuni uomini, camuffati
con teste di animali e ossa,
cercano di spaventarla; se nella
bambina è presente Durga, essa
chiaramente non si spaventa.
La Kumari ha un ruolo religioso:
consacra il re durante una
cerimonia nel mese di settembre
e benedice chi si rivolge a lei
(ormai è diventata un importante
simbolo); per il resto delle giornate
vive in casa con la famiglia, lontana
dai giochi degli altri bambini.
Quando la bambina diventa donna
(con la comparsa delle mestruazioni),
se per un incidente perde del
sangue o se, mentre è portata sulla
portantina ad incontrare il re, cade
e tocca il suolo con i piedi, cessa di
essere Kumari… La vita di un’ex Kumari
è simile a quella di una ragazza
coetanea, ma con maggiori possibilità,
perché l’offerta a lei elargita è una
dote sostanziosa, da investire per
studiare o intraprendere un’attività
commerciale.
Una (dea vivente) indica che siamo
arrivati. La porta è stretta e il soffitto
dell’anticamera basso; tutto è
buio. Dopo esserci tolti scarpe e cinture
di cuoio, saliamo una scaletta a
pioli di legno e ci troviamo al secondo
piano in una stanza dipinta di azzurro,
dalle pareti tappezzate di foto
di ex Kumari e nuove Kumari.
In questo frangente vengo a sapere
che di Kumari ne esistono attualmente
tre: una a Katmandu (la
Kumari Royal, la più importante,
impossibile da incontrare se non si
è induisti o buddisti), una a Bhaktapur
e una a Patan.
Noi siamo a Patan, in presenza di
una bambina di sette anni, vestita da
principessa e dallo sguardo immobile.
Seduta su una specie di trono,
la Kumari non parla; la madre e la
nostra guida rispondono e traducono
eventuali domande.
Chiedo se, tra le mura domestiche,
la bambina viene chiamata
con il suo nome o Kumari; mi rispondono:
«Kumari!». Chiedo
quale consapevolezza ha la
bambina di essere una dea, e la
risposta è che la consapevolezza
nasce da ciò che gli altri vedono
in lei.
Non c’è niente da fare, penso. È
proprio una dea, e la osservo.
Poi mi guardo intorno meravigliata
di questo strano e unico
posto in cui sono capitata. Evidentemente
lei mi trova buffa,
perché, dopo istanti di silenzio,
un sorriso un po’ malizioso
compare sul suo viso imperturbabile.
«Ce l’ho fatta!» mi dico!
Almeno è dimostrato che è viva!
Prima di andarcene, la Kumari
accetta di benedirci: uno alla volta
ci inginocchiamo; con un gesto
veloce e sicuro applica sulla
nostra fronte una tintura grumosa
di colore rosso e depone
sulle nostre mani fiori e riso
spruzzati d’acqua, che poi riprende
e pone in un piattino di
ferro.
Facciamo l’offerta, grati per la
benedizione, oltre che per l’esperienza:
infatti pare che la Kumari
possa rifiutarsi di benedire
e che ciò comporti gravi disgrazie.
Per questo motivo l’ultimo
discendente della stirpe dei Malla
perse il trono e la vita.
TRIBÙ DI MONTAGNA
Una canna di bambù che sorregge
una ciotola di riso: così i vietnamiti
descrivono la forma del perimetro
della loro terra… Siamo, dunque,
in Vietnam.
Da Katmandu ad Hanoi, capitale
del paese, ci sono poche ore di volo.
Durante il viaggio cerco di immaginare
la prossima destinazione. Per
me pensare al Vietnam è ricordare
film di guerra, villaggi incendiati da
bombe al napalm e il coraggio di un
popolo. La guerra contro il dominio
della Francia a Dien Bien Phu
(1946-1954) e quella contro gli Stati
Uniti negli anni 1960-70 sono difficili
da dimenticare. Di tale passato
sono visibili gli elmetti verdi e le divise
militari che gli uomini ancora
indossano.
Della colonizzazione francese, allorché
il Vietnam si chiamava Indocina,
si trova traccia nell’architettura
delle case e nei caratteri dell’alfabeto.
Poiché la scrittura con ideogrammi
è stata sostituita dall’alfabeto latino,
è possibile leggere i cartelli lungo
le strade… e capisco che com pho
significa ristorante. Quando si leggono
queste due parole, è assicurata
una ciotola di riso o di noodle
(spaghetti orientali). I com pho sono
tanti: un’insegna ben visibile, qualche
tavolino e sempre qualcuno che
mangia.
Insieme agli involtini vegetariani,
e all’immancabile riso, ordino patatine
fritte (unica pietanza di provenienza
occidentale), ma senza maionese
o ketchup: ogni cibo si intinge
nel chili o in una salsa di soia utilizzando
bastoncini di legno… anche se
per gli stranieri più imbranati arriva
in soccorso una forchetta.
Da Hanoi imbocchiamo la statale
numero 6. Il primo tratto è
asfaltato, ad una corsia e a doppio
senso di circolazione. Mentre il paesaggio,
dalle dolci sfumature di verde
e i grandi specchi d’acqua delle
risaie in cui si riflette il cielo, è rilassante,
la strada è alquanto ingrata.
Dopo circa otto ore, siamo a Bac
Ha, con la sensazione di essere stati
velocemente «centrifugati» ad acqua
fredda! Infatti la temperatura è scesa
notevolmente e fa freddo; ma le
stelle sono così tante e splendenti
che ci riscaldano occhi e cuore.
Abbiamo deciso di invertire l’itinerario
abituale: siamo partiti per il
nord per scendere verso ovest, perché
a Bac Ha, prima tappa, si tiene
alla domenica un mercato che riunisce
numerosi abitanti della zona.
Non vogliamo perderlo.
Dalle montagne scende la gente,
chiamata montagnard dai francesi;
ha vestiti coloratissimi e porta in gerle
di bambù cibo, oggetti e animali
domestici da vendere.
Il mercato prende vita al mattino
presto. Ognuno dispone la sua mercanzia;
gli animali vengono radunati
in un’area a parte; al centro, sotto
un porticato, si imbandisce un banchetto
a base di carne, sanguinaccio,
da fumare collettivamente e da aspirare
poco, per non tossire troppo!
Nessuno parla inglese o francese,
ma con gesti è possibile comunicare
e contrattare il prezzo di ogni merce.
Le tribù del Vietnam nordoccidentale
sono in maggioranza di
origine cinese; hanno subìto diverse
persecuzioni e, durante il dominio
francese, furono espropriate del loro
territorio.
Un tempo gli abitanti erano seminomadi,
con un’agricoltura che si
avvaleva di terreni montagnosi disboscati,
bruciati e coltivati per un
breve periodo; poi lo stato ha cercato
di convincerli a scendere verso le
pianure e a praticare un’attività sedentaria.
Oggi la popolazione vive isolata
e coltiva la terra, tenendo per
sé la parte del raccolto necessaria al
sostentamento; il resto è proprietà
dello stato; alleva animali, costruisce
case, fabbrica utensili e confeziona i
capi di abbigliamento che indossa.
I vietnamiti considerano «selvaggi
» i tribali, perché alle città preferiscono
le montagne, lontani dalla civilizzazione…
I tribali sono semplici,
schivi, riservati, avvolti in abiti
sapientemente intessuti e decorati;
custodiscono e si tramandano le tradizioni.
Nei loro villaggi sembra che
il tempo si sia fermato. Ma ecco il ritratto
di Ho Chi Minh (l’anima della
lotta contro gli Stati Uniti) o la foto
sbiadita di un parente scomparso
in guerra: ricordano che anche le
tribù hanno partecipato alla storia
del Vietnam.
Il vietnamita è laborioso, pragmatico,
guarda al futuro con speranza;
è ricco di sole e acqua, di foreste
e montagne coltivate come mosaici
dalle morbide geometrie. È un contadino
nascosto da un cono d’ombra…
Il Vietnam è pure il cimitero di
Dien Bien Phu, con 2 mila lapidi
senza nome. È un popolo che, nei
grandi conflitti che agitano
il mondo, rimane al
centro della vita.
La reincarnazione, sebbene esistano varie interpretazioni, è il ciclo di esistenze
attraverso il quale si manifesta l’energia cosmica cui ogni essere è
sottoposto per poter tornare alla fonte originaria.
Il karma (legge di causa ed effetto) è il principio che guida il ciclo delle
reincarnazioni; in base a come un essere si è comportato nella sua esistenza,
si reincarnerà in una forma o in un’altra nella vita successiva. Strettamente
connesso al karma, perché da questa legge è determinato, è il sistema
castale. Quattro le caste in cui si divide la società indiana. Ancora
oggi alcuni divieti che il sistema in caste impone, come il matrimonio tra
uomo e donna di caste diverse, sono ritenuti immodificabili, come una legge
di natura.
Il dharma è la legge del dovere, il dovere di ogni essere di accettare, agire
e compiere il proprio destino per poter evolvere spiritualmente.
Questi concetti non appartengono ad un sapere filosofico speculativo,
ma sono linee guida per la condotta quotidiana.
Alessandra Bocchi