Secondo la cultura oggi dominante una società è tanto più sviluppata quanto
più consuma. Il benessere degli individui è misurato in termini di consumo
e di accumulo di merci. Gli stili di vita dei paesi industrializzati sono
incompatibili sia con i limiti fisici del pianeta (risorse e capacità
di assorbimento dei rifiuti limitate) sia con gli ideali di equità. L’attuale
modello di sviluppo non solo produce ingiustizia per l’80% della popolazione
mondiale, ma mette a rischio il benessere delle generazioni future.
«Il mondo – diceva il Mahatma Gandhi – è abbastanza ricco per soddisfare
i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno».
Nelle puntate precedenti (1) si è accennato in
termini qualitativi al legame esistente tra ambiente
e società, tra emergenze ambientali ed
emergenze sociali, tra sistema economico e risorse
naturali, tra crescita economica e limiti fisici alla crescita
stessa. Ci si è avvalsi di principi fisici, di nozioni
storico-filosofico-etiche, ma anche di semplici analisi
del funzionamento del sistema economico, nonché
di considerazioni di buon senso.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti, basati su leggi
della fisica, della matematica e della statistica, in
grado di evidenziare perché sia necessario ridurre
considerevolmente le quantità di materiali e di energia
prelevate dall’ambiente e destinate all’attuale
sistema economico. Esistono cioè degli strumenti
utili per capire se ci stiamo orientando verso uno
«sviluppo sostenibile».
I DOGMI DEL MODELLO
Sviluppo è certamente un concetto ambiguo e
soggetto ad interpretazioni anche molto diverse tra
loro.
In biologia, il termine descrive il processo attraverso
il quale un organismo raggiunge la sua forma
completa: nel linguaggio comune esso indica la crescita
degli animali o delle piante. Nella seconda metà
del Settecento, con la rivoluzione industriale e l’emergere
del capitalismo, il termine viene trasferito
anche alle scienze sociali, identificandosi sempre
più con il concetto di progresso. Mentre nelle civiltà
greche e romane la crescita era considerata come un
processo ciclico e in quelle medievali come degenerazione
e decadenza, nel pensiero occidentale moderno
«il progresso implica che una civiltà sia progredita, stia progredendo e progredisca
nella direzione desiderata».
L’influenza darwiniana fa sì che sviluppo
e progresso diventino sinonimo
di evoluzione, ossia processo
verso forme sempre più perfette. Lo
sviluppo, quindi, da processo nascita-
morte, viene ora concepito come
qualcosa di «direzionale, cumulativo,
irreversibile e volto ad uno scopo».
La cultura dominante, che
confonde tra loro i termini sviluppo,
crescita, progresso ed evoluzione,
impone che «i diversi paesi si sviluppino
secondo stadi successivi,
dalla società tradizionale a quella dei
consumi di massa, lungo una direzione
lineare verso la modeizzazione».
Tre sono i dogmi su cui si basa tale
pensiero:
1) esiste un unico modello di sviluppo,
che ha come fine la società
capitalista avanzata dei consumi;
2) l’unico fine è quello della crescita
economica;
3) il benessere deve essere inteso come
consumo e accumulo di merci
(Cuhna, 1988).
Secondo questo approccio, quindi,
lo sviluppo economico, inteso
come sviluppo industriale e tecnologico,
assicura da solo il progresso
sociale e il benessere dell’uomo.
ECONOMIA
CONTRO ECOLOGIA?
Nei primi anni Sessanta iniziano
ad emergere, in molteplici ambiti,
danni ecologici irreversibili dovuti
alla grande crescita economica ed
industriale. La percezione dei problemi
ambientali è limitata ai fenomeni
di inquinamento locale e le soluzioni
proposte consistono nella
definizione di livelli di emissione relativi
a determinate sostanze, nella
dispersione degli inquinanti, nella
protezione di spazi circoscritti. È
l’approccio della «protezione e riparazione
ambientale».
Nel corso degli anni Settanta, grazie
al miglioramento delle conoscenze
scientifiche e alla crescente
sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
le preoccupazioni ambientali
iniziano ad estendersi su scala internazionale.
Si passa ad un approccio diverso,
quello della «gestione delle risorse»:
nel 1972, infatti, il rapporto del Club
di Roma «I limiti dello sviluppo»,
pubblicato dal Mit (Massachusetts
Institute of Technology), affianca al
problema dell’inquinamento quello
del depauperamento delle risorse
del pianeta, la cui gravità viene amplificata
dalla crisi petrolifera del
1973. È anche l’approccio della «gestione
del rischio»: dopo alcuni eventi
catastrofici di origine industriale
(Seveso, Bhopal…), nasce l’esigenza
di saper affrontare situazioni
nelle quali il rischio non è completamente
eliminabile a priori e le conseguenze
sono spesso irreparabili.
Nonostante numerose critiche, il
rapporto del Club di Roma ha avuto
il merito di sollevare il dibattito
internazionale sulle questioni ambientali
e di avanzare il concetto di
limiti fisici alla crescita. Le due posizioni
estreme, all’interno delle
quali si è sviluppata la discussione,
sono l’economia di frontiera e l’ecologia
profonda, analoghe rispettivamente
all’approccio tecnocentrico
ed ecocentrico:
1) l’economia di frontiera assegna
alla natura un valore strumentale, in
virtù dei numerosi servizi che essa
offre all’uomo; la considera, inoltre,
come fonte inesauribile di risorse
(materie prime, energia, acqua, suolo,
aria) e come deposito illimitato
dei sottoprodotti derivanti dall’attività
di produzione e consumo (rifiuti,
inquinamento e degrado ecologico);
ritiene quindi l’economia
completamente separata dall’ambiente
e conserva un’assoluta fiducia
nella tecnologia e nel mercato; lo
sviluppo è inteso esclusivamente in
termini quantitativi, ossia come crescita
economica;
2) l’ecologia profonda riconosce alla
natura un valore intrinseco, al di
là dei suoi servizi, per il quale va tutelata
e rispettata; evidenzia aspetti,
completamente ignorati dalla precedente
posizione, quali elementi etici,
sociali, culturali, basati sul concetto
di sviluppo in armonia con la
natura.
A questa corrente di pensiero appartiene
l’ipotesi Gaia, formulata
da J. Lovelock, secondo la quale il
pianeta costituisce un grande organismo
vivente in grado di autorganizzarsi
ed autorinnovarsi, non però
necessariamente in materia ottimale
per la specie umana…
LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1987, con il rapporto Brundtland
(3) inizia ad imporsi il concetto
di sviluppo sostenibile, affermatosi
a livello internazionale con la
«Conferenza mondiale su ambiente
e sviluppo», svoltasi a Rio de Janeiro
nel giugno 1992.
Secondo la definizione originale,
è sostenibile uno «sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri
». Nonostante il proliferare di interpretazioni
anche molto lontane
tra loro, vi sono alcuni concetti peculiari
alla base di questo nuovo approccio.
1) Il capitale naturale. Si possono
distinguere tre forme di capitale:
quello prodotto dall’uomo (infrastrutture,
macchinari…), quello umano
e quello naturale (atmosfera,
ecosistemi, flora…). Ogni tipologia
di capitale, da sola o insieme alle altre,
genera dei servizi, necessari all’uomo
per aumentare il proprio livello
di benessere: il capitale umano
rappresenta la forza lavoro; i macchinari
permettono, ad esempio, le
trasformazioni delle materie prime
in beni di consumo.
L’uomo utilizza i materiali, l’energia
e l’informazione contenuti nel
capitale naturale combinandoli con
le altre due forme. Ne consegue che
il capitale naturale è essenziale per il
benessere umano, nonché per la sussistenza
stessa del capitale prodotto
dall’uomo (i macchinari e le infrastrutture
sono costituiti da risorse
prelevate dalla natura…) e del capitale
umano (alcuni servizi offerti
gratuitamente dalla natura e indispensabili
alla sopravvivenza sono,
ad esempio, la purificazione naturale
di aria e acque, la protezione dai
raggi ultravioletti, la stabilizzazione
del clima, la rigenerazione del suolo,
la preservazione della fertilità, il
mantenimento della biodiversità, la
decomposizione dei rifiuti, ecc.).
Di conseguenza, non è più sufficiente
diminuire o rimuovere l’inquinamento
diretto verso l’ambiente
naturale, ma è necessario soprattutto
impedire trasformazioni
irreversibili degli ecosistemi a causa
dell’azione dell’uomo, cioè è necessario
conservare il capitale naturale.
2) L’equità sociale. Uno sviluppo sostenibile
richiede sia l’equità intragenerazionale,
cioè all’interno di una
stessa generazione, sia l’equità intergenerazionale,
cioè rispetto alle
generazioni future.
3) Distinguere tra sviluppo e crescita.
Mentre la «crescita» è un concetto
di tipo quantitativo, il termine
«sviluppo» vuole indicare una trasformazione
soprattutto qualitativa:
non solo economica, quindi, ma
comprendente tutti gli aspetti della
sfera sociale.
4) La sostenibilità. È un concetto
che comprende contemporaneamente
e allo stesso modo tre dimensioni:
economica, ambientale e sociale.
Lo sviluppo economico non è ritenuto
prioritario rispetto a quello
sociale, ma il raggiungimento dell’uno
non può prescindere dall’altro.
Lo sviluppo sostenibile ha quindi
il merito di aver contribuito al
passaggio da una visione settoriale
dei problemi (sviluppo economico
visto indipendentemente dall’aspet-
to sociale ed ambientale) ad una visione
integrata, multidisciplinare e
complessa. In questo contesto l’ambiente
non è più considerato un vincolo
o un aspetto marginale, ma diventa
parte integrante e strategica
dello sviluppo.
In un intreccio così complesso di
componenti (economiche, ambientali
e sociali), uno sviluppo sostenibile
dovrebbe riconoscere l’importanza
di concetti come l’incertezza,
il limite, e quindi la prudenza nel valutare
le conseguenze sull’ambiente
delle azioni umane, specialmente se
numerose e concomitanti; dovrebbe
ottimizzare l’uso delle risorse
scarse del pianeta e ridurre inquinamento
e rifiuti prodotti, per garantire
l’esistenza di tutti gli esseri viventi;
dovrebbe mirare non solo al
benessere economico ma anche e
soprattutto al miglioramento della
qualità della vita.
Dato che ogni paese possiede peculiari
caratteri sociali, ambientali
ed economici, si dovrebbe abbandonare
la «psicosi spaziale», ossia la
presunzione, propria delle culture
dominanti, di poter applicare ovunque
lo stesso modello di sviluppo.
A livello pratico, però, lo «sviluppo
sostenibile» rischia di essere solo una
formula pubblicitaria; nel momento
in cui la definizione teorica
deve essere tradotta a livello operativo,
interpretazioni molto diverse
tra loro ne ostacolano la concreta
realizzazione.
L’IMPRONTA ECOLOGICA
Come si accennava all’inizio, esistono
strumenti, detti «indicatori»,
basati su principi fisici, biologici,
matematici, statistici ecc…, in grado
di misurare il livello di sostenibilità
dello sviluppo. Gli indicatori rivelano
se stiamo migliorando le condizioni
ambientali, sociali ed economiche
del pianeta (o di una nazione,
di una comunità…) o, al contrario,
se le stiamo peggiorando. Uno strumento
di calcolo potente dal punto
di vista didattico (perché relativamente
semplice e molto intuitivo) è
quello dell’«impronta ecologica».
L’impronta ecologica stima, in ettari,
la superficie terrestre ed acquatica
necessaria, da un lato, alla produzione
delle risorse naturali richieste
dall’economia per la produzione
di beni e, dall’altro, all’assorbimento
dei rifiuti prodotti.
È quindi possibile calcolare l’impronta
ecologica di qualsiasi nazione
(popolazione, comunità o individuo):
essa rappresenterà l’area di
terra produttiva e di acqua richiesta
per produrre le risorse consumate
da quella stessa nazione e per assorbire
i rifiuti generati. Tale superficie
viene stimata attraverso varie
metodologie.
Il metodo dell’impronta ecologica
si basa sulle seguenti considerazioni:
1) ogni prodotto o servizio ha bisogno
di materiali ed energia provenienti
dalla natura;
2) ogni bene genera scarti (nella produzione,
nell’uso, nello smaltimento
finale), e sono necessari
sistemi ecologici che li
assorbano;
3) tutti gli insediamenti abitativi
e le infrastrutture
occupano spazio, sottraendo
suolo agli ecosistemi
naturali e alle loro
funzioni.
Per calcolare l’impronta
ecologica, si valutano le risorse
naturali consumate
per l’alimentazione,
l’abitazione,
i trasporti, i
beni di consumo
e i servizi. I sistemi
ecologici produttivi,
dai quali
provengono le risorse,
sono il suolo coltivabile, le zone
di pascolo, le foreste gestite, le foreste
naturali, il suolo necessario alla
produzione di energia, gli ambienti
marini. L’impronta ecologica
individuale, locale o nazionale dipende
da fattori come il reddito, i
valori e i comportamenti personali,
i modelli di consumo, le tecnologie
usate.
Dividendo le terre emerse e il mare
biologicamente produttivo (12,6
miliardi di ettari, al 1996) per il numero
degli esseri umani (5,7 miliardi,
al 1996), si ottiene che ogni individuo
ha a disposizione circa 2,2 ettari
di territorio produttivo all’anno.
Considerando che il 10-12% di spazio
naturale dovrebbe rimanere intatto
per conservare la biodiversità
e i processi ecologici (i biologi
suggeriscono il 25%!),
l’impronta ecologica pro capite
diventa di 2 ettari (4). Ogni
individuo, quindi, ha a disposizione
circa 0,2 ettari di
terreno agricolo, 0,8 ettari
di terreno da pascolo, 0,6
ettari di foreste, 0,5 et-
tari di aree oceaniche.
Le stime relative al 1996, invece,
dimostrano che l’impronta media
mondiale effettiva era pari a 2,85 ettari
di superficie pro capite. Dal
punto di vista ambientale ciò significa
che stiamo sfruttando un’area
superiore di almeno il 30% rispetto
all’area disponibile. Tale eccedenza
provoca l’impoverimento del capitale
naturale del pianeta. Per fare
un’analogia con il capitale monetario,
è come se, anziché utilizzare solamente
gli interessi maturati, noi
spendessimo anche parte del capitale
investito, cosa che porterebbe
ad un’inesorabile progressiva diminuzione
dello stesso e, di conseguenza,
alla sempre minor disponibilità
di interessi.
La crescita dei consumi e la crescita
della popolazione (7 miliardi di
persone nel 2012, 8 miliardi nel
2026 e 9 miliardi nel 2043) porteranno
inevitabilmente ad una sempre
maggior erosione del capitale
naturale, con conseguenze non facilmente
prevedibili sugli equilibri
naturali e, di conseguenza, sulla nostra
stessa sopravvivenza. Già oggi
si parla di cambiamenti climatici, di
aumento della frequenza dei fenomeni
estremi (siccità, alluvioni), di
desertificazione, emergenza acqua,
piogge acide, diminuzione della biodiversità…
SE TUTTI
CONSUMASSERO COME…
I più recenti calcoli informano che
uno statunitense medio ha un’impronta
ecologica di 12,22 ettari pro
capite, un canadese 7,66, un tedesco
6,31, un italiano 5,51, un colombiano
1,90, un indiano 1,06, un cambogiano
0,83, un afghano 0,58, un
abitante della Namibia 0,66, un eritreo
0,35. Gli individui non hanno
quindi lo stesso «peso» sulla Terra.
Ci sono popolazioni che superano
di gran lunga la loro legittima «fetta
» di terra a disposizione (i 2 ettari
di superficie), altri che ne utilizzano
una piccolissima parte.
Due considerazioni: innanzitutto,
se tutti gli abitanti del pianeta consumassero
come uno statunitense
medio, avremmo bisogno di almeno
3 pianeti come la terra! Lo stile di
vita dei paesi industrializzati non
può quindi essere esteso a tutti gli abitanti
del mondo, semplicemente
perché le risorse del pianeta e la capacità
di assorbimento dei rifiuti sono
limitate e non infinite come si
pensava in passato. Secondo aspetto:
il 20% della popolazione mondiale
sfrutta l’80% delle risorse del
pianeta. Questi dati mostrano quindi
una forte ingiustizia sociale, non
solo rispetto alle generazioni future,
ma anche nei confronti delle generazioni
presenti.
Prendiamo l’Italia come esempio:
in base al territorio produttivo, noi
avremmo a disposizione solo 1,92
ettari per i nostri consumi; tuttavia
la nostra impronta pro capite risulta
essere di 5,51 ettari. È evidente che
i restanti 3,59 ettari vengono compensati
dal commercio internazionale:
si parla di deficit ecologico locale
(o debito ecologico, per analogia
con il debito sociale). Questo
però significa che gli stessi 3,59 ettari
sono sottratti a qualche altra popolazione.
Essendo l’economia basata
sulle risorse naturali, è quindi evidente
che la ricchezza materiale
dei paesi del Nord del mondo dipende
dalle ricchezze naturali prelevate
dal Sud del mondo.
È noto che una parte dei problemi
dei paesi poveri siano di origine intea
(corruzione, nepotismo, cattiva
gestione dell’economia, violazione
dei diritti umani…); altrettanto evidente
dev’essere però il fatto che i
paesi industrializzati devono diminuire
in modo considerevole il loro
consumo di materie prime, energia e
natura, non solo tramite l’innovazione
tecnica, ma anche e soprattutto
tramite una rivoluzione culturale basata
su nuovi stili di vita.
Uscendo dalla logica della solidarietà
intesa come beneficenza, è necessario
entrare in una logica di
«giustizia»: non «dare» in misura
maggiore, ma piuttosto «prendere»
in misura minore (5).
Queste considerazioni ci obbligano
quindi a rivedere l’attuale concetto
di «benessere»: un benessere
oggi esclusivamente materiale, basato
su un consumo di risorse che
danneggia gli ecosistemi, la giustizia
mondiale e le generazioni future.
(Fine 3.a puntata – continua)
BIBLIOGRAFIA
NOTE:
(1) Vedi Missioni Consolata di gennaio
2002 e marzo 2002.
(2) Anna Segre-Egidio Dansero, Politiche
per l’ambiente, Utet, 1996.
(3) Il rapporto Our Common Future,
presentato nel 1987 dalla «World Commission
on Environment and Development
» (Wced), commissione promossa
nel 1983 dalle Nazioni Unite, è noto come
«rapporto Brundtland», dal nome
del premier norvegese che al tempo
presiedeva la commissione stessa.
(4) Centre for Sustainable Studies,
Rapporto Living Planet 2000, Redefining
Progress.
(5) Wuppertal Institut, Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999.
Anna Segre – Egidio Dansero,
Politiche per l’ambiente,
Utet, Torino 1996
Wolfgang Sachs (a cura di),
Dizionario dello sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Gruppo di Ricerca
in Didattica delle Scienze Naturali,
I volti della sostenibilità,
Università di Torino, 2002
Mathis Wackeagel
e William E. Rees,
L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra,
Ed. Ambiente, Milano 2000
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Rapporto Living Planet 2000,
Gland, Svizzera, ottobre 2000
Wuppertal Institut,
Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro,
EMI, Bologna 2000
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Ai figli del pianeta,
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Giovanni Salio,
Elementi di economia
nonviolenta. Relazioni
tra economia, ecologia ed etica,
Edizioni del Movimento nonviolento,
Verona 2001
Christoph Baker,
Ozio, lentezza e nostalgia,
EMI, Bologna 2001
E. U. von Weizsäcker, A. B. Lovins,
L. H. Lovins,
Fattore 4,
Edizioni Ambiente, Milano 1998.
Enea,
Atti della Conferenza
nazionale energia e ambiente
(Roma, novembre 1998),
Fabiano Editore,
Canelli (Asti) 1999
Sviluppo
Nel linguaggio comune, accettato da economisti, decisori pubblici ed opinione
pubblica, per «sviluppo» si intende la crescita quantitativa dell’economia,
misurata attraverso vari indicatori economici, primi fra tutti il Pil (prodotto
interno lordo). Lo sviluppo sostenibile, invece, distingue tra «crescita»
quantitativa e «sviluppo», inteso come miglioramento qualitativo, che integri
fra loro gli aspetti economici, sociali ed ambientali.
Indicatori di sostenibilità
Sono strumenti che monitorano il progresso verso uno sviluppo sostenibile.
Tentando di ricomprendere tutte le dimensioni della sostenibilità, essi mirano
a sostituire gli attuali strumenti di misura della crescita economica, in particolare
il Pil. Questo non solo considera esclusivamente le attività valutabili in
termini monetari, ma omette aspetti rilevanti e ne comprende altri di paradossali.
Dal punto di vista sociale, infatti, non considera la produzione di beni
e servizi derivanti dal lavoro domestico o dal volontariato, mentre calcola
le spese sanitarie necessarie per affrontare gli effetti negativi della produzione
e del consumo; dal punto di vista ambientale, il Pil aumenta anche grazie
alle spese per la protezione ambientale (alluvioni, terremoti…!) e per il disinquinamento.
Impronta ecologica
Rappresenta la superficie di territorio ecologicamente produttivo (terra ed acqua)
necessaria per fornire le risorse di energia e materia consumate da una
certa popolazione e per assorbire i rifiuti prodotti dalla popolazione stessa.
Mentre il classico concetto di «capacità di carico» indica quante persone può
sopportare la terra, l’impronta ecologica indica quanta terra ogni persona richiede
per condurre il proprio stile di vita.
Zaino ecologico
Detto anche «flusso nascosto», o «fardello ecologico», rappresenta la quantità
di materiali prelevati dalla natura durante le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento
relative ad un prodotto (o servizio). Si tratta di materiali abiotici (sabbia,
ghiaia, minerali, combustibili fossili), materiali biotici (biomassa vegetale
ed animale), terreno fertile, acqua, aria.
L’IMBROGLIO DEI… PANNOLINI SINTETICI
L’abitudine di acquistare pannolini «usa e getta» per i propri bimbi è ormai
consolidata, ma è una tendenza dispendiosa e altamente inquinante che
andrebbe corretta.
Le nostre mamme utilizzavano i ciripà o triangolini, che richiedevano un lavoro
notevole di «manutenzione». Oggi il mercato mette a disposizione del consumatore
consapevole pannolini in tessuti modei, che si mettono e tolgono
come un «usa e getta», ma che non sono destinati alla discarica, in quanto lavabili.
Le motivazioni per una scelta di questo tipo sono di natura ambientale, ma
anche legate a convenienza economica.
Analizzando il ciclo di vita di un pannolino sintetico, vediamo che i pannolini
«usa e getta» sono costituiti in gran parte da plastica ed inquinano pesantemente
l’ambiente già dalla loro produzione: in un anno si utilizzano svariati
galloni di olio, tonnellate di plastica e milioni di tonnellate di polpa di legno,
alla fine del ciclo di uso il pannolino finisce nelle discariche con un periodo di
decomposizione pari a 500 anni.
Se pensiamo all’aspetto economico, vediamo che ogni confezione di pannolini
«usa e getta» ne contiene mediamente 40, per una spesa di circa 10 Euro.
Considerando di consumae almeno un pacco a settimana (in realtà se ne utilizzano
molti di più), si spendono circa 40 euro mensili, il che vuol dire quasi
480 Euro l’anno; una spesa alquanto incisiva per il bilancio familiare. I pannolini
in tessuto esistono per tutte le tasche e anche con i più costosi è possibile
risparmiare quasi 240 Euro l’anno.
Il comune di TORRE BOLDONE nel bergamasco, nella figura dell’assessore
Ronzoni, ha attivato nel ’98 un’attività di sensibilizzazione all’uso dei pannolini
in tessuto, inviando ai neogenitori un pannolino di tessuto. Negli anni successivi
l’attività d’informazione è continuata, inviando una brochure informativa.
Attualmente le famiglie con bimbi che hanno optato per questa soluzione
sono il 20%, con una riduzione notevole alla fonte dei rifiuti.
CINZIA VACCANEO
PER MAGGIORI INFORMAZIONI:
– pannolini «Lotties»:
Berg Eveline Maria, via Lanciano 15 – 47838 Riccione RN,
tel. 054-1691087
– pannolini «Belli come il sole»: Ilaria Proverbio via Solferino 2/c – 37132
Verona, tel 045-8920213 bellicomeilsole@tin.it
– pannolini Disana (Germania) www.disana.com
Possono essere acquistati tramite il catalogo «I PICCOLISSIMI»
via di Eschignano 39 54100 Massa
tel. 0585-488.209; fax 0585-488.378
www.ipiccolissimi.it
UN DECALOGO DI COMPORTAMENTO PER CIASCUNO DI NOI
CONSIGLI PER CONSUMI… SOSTENIBILI
1) COMPRA DI MENO. Non esistono prodotti ecologici, ma solo meno dannosi di
altri. Ogni prodotto (anche un bicchier d’acqua) comporta un invisibile «zaino
ecologico» fatto di consumo di natura, energia e tempo di lavoro.
2) COMPRA LEGGERO. Spesso conviene scegliere i prodotti a minore intensità di
materiali e con meno imballaggi, tenendo conto del loro peso diretto, ma
anche di quello indiretto, cioè dello «zaino ecologico».
3) COMPRA DUREVOLE. Buona parte dei cosiddetti beni durevoli si cambia troppo
spesso. Cambiando auto ogni 15 anni, invece che ogni 7, ad esempio, si
dimezza il suo zaino ecologico (25 tonnellate di natura consumate per ogni
tonnellata di auto). Lo stesso vale per mobili e vestiti.
4) COMPRA SEMPLICE. Evita l’eccesso di complicazione, le pile e l’elettricità
quando non siano indispensabili. In genere oggetti più sofisticati sono più fragili,
meno riparabili, meno duraturi. Sobrietà e semplicità sono qualità di bellezza.
5) COMPRA VICINO. Spesso l’ingrediente più nocivo di un prodotto sono i chilometri
che contiene. Comprare prodotti della propria regione riduce i danni
ambientali dovuti ai trasporti e rafforza l’economia locale.
6) COMPRA SANO. Compra alimenti freschi, di stagione, nostrani, prodotti con
metodi biologici, senza conservanti né coloranti. In Italia non è sempre facile
trovarli e spesso costano di più. Ricorda però che è difficile dare un prezzo
alla salute delle persone e dell’ambiente.
7) COMPRA PIÙ GIUSTO. Molte merci di altri continenti vengono prodotte in condizioni
sociali, sindacali, sanitarie e ambientali inaccettabili. In Europa sta
però crescendo la quota di mercato del commercio equo e solidale
(TRANSFAIR). Preferire questi prodotti vuol dire per noi pagare poco di più, ma
per i piccoli produttori dei paesi poveri significa spesso raddoppiare il reddito.
8) COMPRA PRUDENTE. In certi casi conviene evitare alcuni tipi di prodotti o
materiali sintetici fabbricati da grandi complessi industriali. Diversi casi
hanno dimostrato che spesso la legislazione è stata modellata sui desideri
delle lobby economiche, nascondendo i danni alla salute e all’ambiente.
9) COMPRA SINCERO. Evita i prodotti troppo reclamizzati. La pubblicità la paghi
tu: quasi mezzo milione all’anno per famiglia. La pubblicità potrebbe dare un
contributo a consumi più responsabili, invece spinge spesso nella direzione
opposta.
10) INVESTI IN GIUSTIZIA. Ecco due esempi: finanza etica e impianti che consumano
meno energia. In Italia puoi investire nelle MAG (MUTUA AUTO GESTIONE)
e nella Banca Etica. Investendo poi nell’efficienza energetica puoi dimezzare
i consumi e i danni delle energie fossili come carbone e petrolio.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
«CAMPAGNA BILANCI DI GIUSTIZIA», Segreteria Nazionale Venezia
Tel. 041.538.14.79
www.unimondo.org/bilancidigiustizia, bilanci@libero.it
LO ZAINO ECOLOGICO E SOCIALE
Quando acquistiamo un prodotto è come se ci portassimo
a casa solo la punta di un iceberg. In realtà,
per produrre quel bene è stata movimentata una
massa di materiali, accumulatisi nelle varie fasi della produzione
del bene stesso e depositati come rifiuto in qualche
luogo (in tanti luoghi diversi…). Questi materiali
(ghiaia, sabbia, minerali, petrolio, carbone, gas naturale,
biomassa vegetale ed animale, terreno fertile, acqua,
aria…), che non entrano nel ciclo produttivo e che noi consumatori
non vediamo, costituiscono lo «zaino ecologico»
del prodotto. Siamo abituati a considerare i «nanogrammi»
di inquinanti emessi dai camini, dalle auto…, ma non le
«megatonnellate» di materiali utilizzati a monte del prodotto
consumato e causa di un fortissimo impatto sull’ambiente.
L’indicatore «zaino ecologico» rappresenta, quindi, il carico
di natura che ogni prodotto o servizio si porta sulle spalle
in un invisibile zaino.
Questo argomento sta diventando un importante oggetto
di ricerca. In particolare, si sta studiando per inserire nell’etichetta
di ogni prodotto anche il relativo zaino ecologico,
per dare la possibilità al consumatore di rendersi
responsabile verso le proprie scelte.
Esempio 1
DALLA CIOTOLA ALL’AUTOMOBILE
Una ciotola di legno di tiglio del peso di circa 500 g ha uno
zaino ecologico di 2 kg, mentre una ciotola di rame dello
stesso tipo ha uno zaino di 500 kg. Lo zaino ecologico di
una marmitta catalitica (se il platino in essa presente non
è riciclato) pesa più di 2,5 tonnellate; 1 litro di aranciata,
in base al paese da cui proviene, può avere fino a 100 kg
di materiali nascosti; un giornale quotidiano, del peso di
soli 500 g, ha uno zaino di 10 kg; la costruzione di un’automobile
produce 15 tonnellate di detriti solidi, senza contare
l’acqua utilizzata.
Generalmente, più un prodotto è prezioso o elaborato,
maggiore è il suo zaino ecologico. Ad esempio, il «simbolo
dell’amore», un anello d’oro di circa 10 grammi, necessita
di 3,5 tonnellate di materiale minerale che vengono estratte
dalla miniera e raffinate.
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)
Esempio 2
DIETRO UNA LATTINA
Una lattina di alluminio pesa solo 15 grammi, un peso
apparentemente insignificante. Moltiplicato per il numero
di lattine consumate in un giorno nel mondo (circa 1 milione)
si ottiene una massa di 15 tonnellate di alluminio.
Poiché l’Al si ricava dalla bauxite, per ottenere alluminio
puro bisogna estrarre una massa di materiale che pesa 4
volte tanto, ossia 60 tonnellate. La bauxite si trova ad
esempio nella foresta amazzonica, e per arrivare ai giacimenti
è necessario deforestare una zona per la costruzione
di strade ed infrastrutture. Probabilmente migliaia di abitanti
della foresta sono stati costretti a lasciare le loro terre
e a spostarsi. Intoo alle fonderie si accumulano montagne
di detriti e di altri rifiuti industriali. Inoltre, per la trasformazione
della bauxite in alluminio, è necessaria una
grande quantità di energia elettrica, che ad esempio richiede
gasolio. Anche il gasolio, però, ha la sua storia…
(rielaborato da «Ai figli del pianeta», EMI, Bologna 1998)
Esempio 3
DIETRO L’ESTRAZIONE DELL’ORO
Per la gente di Wasse Fiase, nel Ghana occidentale, non c’è
avvenire. Il loro futuro è stato avvelenato, violentato e
annientato dalle società minerarie. Già oggi la povertà si
legge sulle facce dei senza terra e si palpa nella natura violentata.
«Siamo stati spogliati di tutto, perfino della nostra
vita – si lamenta un giovanotto sulla trentina. – Si sono
presi tutte le nostre terre per far posto alle miniere. Noi le
possedevamo dai tempi dei nostri nonni». Poi, nel 1990, il
governo cominciò ad ordinare l’estrazione di oro, giunsero
le prime società minerarie e la gente venne costretta a
sgomberare. Cominciarono così le deportazioni di massa.
Sia chi è partito, sia chi è rimasto è ridotto alla carità. «La
terra non ci appartiene più e, se ti provi a coltivare qualcosa
su un pezzo di terra abbandonato, c’è sempre il
rischio che arrivi una ruspa e ti distrugga tutto. Siamo
costretti a chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Ma perché
dobbiamo chiedere il permesso alle imprese minerarie
per vivere nella nostra terra?» (The New Inteationalist,
marzo 1998).
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)
Silvia Battaglia