Condiscendenti verso la prostituzione?

Cari missionari,
rieccomi per l’ennesima
puntualizzazione. Sicuramente
la vista della mia
grafia non vi entusiasma.
Scusatemi… Ma l’articolo
«Quasi mai ragazze, quasi
sempre vittime» di Missioni
Consolata (aprile
2002) mi ha lasciata perplessa.
D’accordo nel non criminalizzare
la tenutaria
peruviana della casa di
prostituzione, vittima prima
di essere colpevole. Se
ne parla, però, come di una
persona che svolge la
sua attività con professionalità,
rigore, attenzione
ai «diritti» delle «dipendenti
»: sembra quasi che
sia una benemerita.
Poi non è affatto chiaro
nell’articolo che la prostituzione,
per quanto garantita
e protetta, sia
quanto di più degradante
possa fare una donna, oltre
ad essere un grave peccato,
sempre. Pare invece
che l’attività, esercitata
così, sia accettabile. E
non si dice che è un male
evitabile, non ineluttabile;
non si dice che la ragione
e la volontà possono controllare
le pulsioni.
D’accordo: quelle persone
vivono in ambienti moralmente
degradati. Ma
non sarebbe meglio fare opera
di educazione e prevenzione?
O siamo nell’ottica
delle «case di tolleranza
», inevitabili come le
catastrofi naturali? Crediamo
o non crediamo che
l’uomo, redento da Gesù
Cristo, non è una bestia?
Occorre solo educarlo.
Mi sembra, infine, che
nell’articolo pubblicato ci
sia una velata condiscendenza
verso «un’attività
ben regolamentata». Mi
auguro di aver frainteso.
Giulia Guerci
Castellazzo (AL)

Signora Giulia, lei è tra
le poche persone che ancora
scrivono ricorrendo
alla penna. La sua è una
grafia chiara, elegante,
che desta ammirazione.
Il tema «prostituzione»
non ci vede affatto condiscendenti.
Non lo siamo
neppure considerando le
«attenuanti sociali» presenti
nei paesi del sud del
mondo. «La denuncia del
fenomeno – scriviamo nel
sommario dell’articolo citato
– è scontata quanto
necessaria».
È il «mestiere» più vecchio
del mondo, perché
non sono mai mancati i
«clienti». Tutti lo dicono,
ma non tutti ne tirano le
debite conseguenze.

Giulia Guerci




RACCONTARE TUTTO PER FILO E PER SEGNO?

Sono una studentessa di Scienze
politiche della facoltà di Torino.
Leggo la vostra rivista da
tempo; mia madre è abbonata da
anni e abbiamo avuto missionari
anche nella nostra famiglia.
Ogni volta rimango sorpresa
dalla chiarezza, dalla cura, dalla
oggettività, dalla profondità con
cui componete il giornale. Purtroppo
siete fra i pochi in questa
realtà italiana e anche mondiale a
dire veramente in quale misero
stato versa il mondo.
Ho in mente soprattutto il dossier
«Ferite per sempre» di ANGELA
LANO. Non ho mai, mai letto da nessuna
parte una pubblicazione così
cruda, reale e obiettiva del problema
dell’ infibulazione.
Allora complimenti a tutti voi!
E grazie.
PAOLA BIZZARRI – TORINO

PAOLA BIZZARRI




RACCONTARE TUTTO PER FILO E PER SEGNO?

Reverendo padre, ho 72 anni.
Ricevo la rivista Missioni Consolata,
ne sono affezionata e
vi ringrazio per il bene che fate all’umanità.
Vi amo da una vita. Parlo
così, perché ho anche trascorso
parte della mia gioventù accanto
al vostro istituto.
Ma veniamo al «dunque» della
mia lettera. Sono piuttosto istintiva:
quello che mi colpisce devo estearlo.
Il mio pensiero va a ciò
che ho letto sul dossier di maggio:
«Mutilazioni genitali femminili.
Ferite per sempre». Era proprio necessario
raccontare ogni particolare
per filo e per segno?
Gente mia, occorre prudenza, su
tutto! Ciò che si scrive rimane, sì,
sulla carta per sensibilizzare… ma
noi (che forse non siamo all’altezza
di interpretare giustamente le
notizie) possiamo restare scioccati,
specialmente di fronte ai problemi
descritti in modo troppo specifico.
Una volta gli scandali non si dovevano
palesare a nessuno, eppure
c’erano… Oggi le cose sono cambiate
e si può dire tutto: pedofilia,
omosessualità… Anche il Vaticano
non è da meno nel mettere in evidenza
certi scandali.
Caro padre, vuole il mio parere?
Se sì, eccolo. Forse il tema delle
«mutilazioni genitali femminili»
si presta per un documentario,
ben preparato e con storie raccontate
dalle interessate, presentato
sui canali televisivi (magari ad
un’ora tarda della notte), con la
possibilità di intervenire in diretta
e aprire un dialogo. Sarà forse
possibile ascoltare anche i modi adatti
per capire come certi usi e
costumi potranno scomparire nel
tempo.
Più che uno sfogo, caro padre,
vorrei che lo prendesse come un
consiglio. Dello stesso parere sono
pure alcune mie conoscenti, in
quanto faccio girare Missioni Consolata.
Risentiamo di un ambiente
troppo chiuso e riservato? Forse.
Tuttavia ritengo che non si devono
sbandierare apertamente
certi comportamenti della natura.
Sono cose delicate. Purtroppo sono
una realtà per chi vive in alcuni
paesi. Noi, direttamente, non
possiamo farci niente. Non credo
che basti sensibilizzare: anche
perché non penso che, facendo girare
sui giornali tutti i particolari
di alcuni usi e costumi, faccia piacere
a quei popoli.
Parlae in generale è giusto.
Ma è bene usare riservatezza, pudore,
modestia. E il fatto lo si capisce
ugualmente; inoltre è meglio
accettato, perché presentato con
«leggerezza».
Se io le dicessi: «Mia madre
morì di parto a soli 25 anni e mi
lasciò orfana a due anni, lei rimarrebbe
indifferente». Tutt’al più direbbe:
«Poverina!». È una notizia
qualsiasi. Se le raccontassi che fu
una fine tremenda (che nessuno
ha mai saputo), la cosa cambierebbe?
No. Siccome solo io so la
verità, ho pensato di vivere il fatto
rifuggendo dallo sbandierare
tutto in pubblico in termini scabrosi.
Mi scuso di queste righe, padre.
Ne faccia quello che vuole, liberamente.
Però tenga conto dell’essenziale…
Vi faccio i complimenti
per la vostra perseveranza. Anch’io
cerco di fare il bene, senza vergognarmi,
in mezzo a quelli che non
lo fanno.
CHERUBINA LORUSSO – MILANO

Grazie, signora Cherubina, dell’affettuoso
invito alla prudenza,
specie quando si affrontano temi
scabrosi e drammatici. Le mutilazioni
genitali femminili lo sono.
La rivista accennò al tema nel
1996. Allora la «persecuzione» infieriva
su 80 milioni di donne: una
cifra enorme. Oggi sono 130 milioni.
Che fare?
La collaboratrice Angela Lano ci
ha consegnato un dossier, solo con
testimonianze dirette. «L’ho scritto
con l’angoscia nel cuore» ci ha
confidato. Poi abbiamo sottoposto
lo scritto a diverse signore (non
giovani), rimaste inorridite. Però
hanno aggiunto: «È un tabù che bisogna
infrangere!»… Per «alleggerire
il peso», abbiamo scelto dei disegni
come foto.
Certamente la sola informazione
non basta a superare un costume
atavico, discutibile. Ma giova
il silenzio?… Un tempo i portatori
di handicap venivano nascosti,
perché ritenuti un disonore. Oggi
vanno a scuola e in chiesa, salgono
sui treni e gareggiano alle olimpiadi.
Qualcosa è mutato, dopo
avee parlato.
Fino a ieri, fra le pareti domestiche,
si sono consumati incesti e
atti di pedofilia con… «guai a te se
parli!». Al presente qualcuno parla.
Speriamo che lo faccia con spirito
costruttivo, e non per incuriosire
in modo morboso.
È in tale ottica che va letto «Ferite
per sempre». Una grave violazione
dei diritti della persona.

CHERUBINA LORUSSO




I MUSULMANI? CHE TORNINO A CASA LORO!

Leggo su Missioni Consolata la corrispondenza dei
lettori e trovo, in generale, odio per la globalizzazione
e odio verso i nordamericani. La lingua è
marchiata e si parla a vanvera!… Però, quando succedono
terremoti e distruzioni, è molto comodo ricevere
coperte, medicine e alimenti. E se non ci fosse
chi li produce? Inoltre è troppo complicato ciò che
tanti scrivono: si capisce poco! Benedetto Padre Pio
che scriveva semplice e chiaro! Ed era di una intelligenza
straordinaria. Trovo che anche i preti e i missionari
siano complicati, anche se non tutti. Per favore,
scrivete più semplice! Ritengo, inoltre, che tante
lettere contengano delle contraddizioni.
Riguardo alla lettera, intitolata «I “puntini” sui
musulmani» (Missioni Consolata, aprile 2002), dico:
lasciamoli stare i musulmani. Rispettiamoli, e non
facciamo confronti con i cattolici (cattolici veri e non
quelli solo di nome).
I musulmani sono superbi e ignoranti, trattano
malissimo le donne e sono falsi. Penso che Dio abbia
voluto far nascere Gesù da Maria, proprio per fare
rispettare le donne, mentre i musulmani le sfregiano…
E quelle maestre che levano il crocifisso dalle
scuole… sono state soggiogate dai musulmani;
oppure li hanno sposati e, quindi, devono obbedire.
Che tornino a casa loro! Fuori del loro ambiente,
rovinano solo il mondo. Sono crudeli, tagliano le mani
ai ladri, e chi le taglia chi sa quanto egli stesso ha
rubato! Se si può, aiutiamo i musulmani a capire; altrimenti,
che vadano a farsi benedire! Pregano più
di noi? Non vale nulla, se non diventano più umani.
Anni fa un musulmano, vicino di casa, cercò di insegnarmi
la sua religione e convincermi delle sue idee.
Tra l’altro mi domandò: «Come può Gesù essere
figlio di Dio… se questi non ha moglie?». Risposi:
«Dio ha creato il mondo e tutti noi, e può certo
aver fatto nascere Gesù Cristo da Maria».
Grazie a Dio, se n’è andato via!
MARIA C

Odio verso la globalizzazione e i nordamericani? No,
bensì «critica costruttiva», anche verso i sistemi politico-
culturali degli africani, dei sudamericani, degli asiatici,
degli australiani.
A proposito di contraddizioni… Come si possono rispettare
i musulmani se si giudicano superbi, ignoranti,
falsi, crudeli?
Che restino a casa loro! Impossibile. Nessun popolo
l’ha fatto. Quanti emigrati italiani vivono in Canada?
Maestre soggiogate? Forse. L’intimidazione psicoreligiosa
lede la dignità della persona.
Articoli e lettere con un linguaggio più comprensibile?
D’accordo al 100 per cento. I nostri lettori e collaboratori
sono avvisati. A tutti grazie!
Sulla globalizzazione e sul rapporto cristiani-musulmani
(e non solo), è significativo quanto ci ha
scritto il vescovo di Treviso PAOLO MAGNANI.
«È nata la proposta di sensibilizzare la nostra chiesa
diocesana anche attorno alle nuove sfide della
globalizzazione, compresa quella del dialogo interreligioso
e dell’annuncio di Cristo ai musulmani…
Abbiamo maturato una nuova consapevolezza delle
relazioni tra musulmani e cristiani e sul significato
del terrorismo e di ogni violenza. Abbiamo fatto un
incontro con loro, confrontandoci soprattutto nel
dialogo e nella preghiera.
L’arrivo tra noi di immigrati da diverse parti del
mondo ci avvia a nuove relazioni umane e religiose,
da coltivare e da tradurre nello stile della prossimità
verso gli emarginati e gli esclusi».

MARIA C. – MONTREAL (CANADA)




NON DI SOLO CALCIO

Giugno 2002 passerà alla storia per i
goals di Ronaldo, che hanno laureato il
Brasile pentacampione mondiale di futebol.
Nell’euforia si è esclamato: «Ora anche
Dio è brasileiro!».
A noi, tuttavia, preme ricordare due altri eventi:
il Vertice mondiale sull’alimentazione, svoltosi
a Roma il 10-13 giugno presso la Fao, e il
Summit dei G 8 sulle Montagne Rocciose del
Canada dal 26 al 28 giugno. Incontri apertisi tra
perplessità e conclusisi nella delusione.
Idubbi sul vertice di Roma avevano un fondamento:
primo, perché la Fao è un’agenzia delle
Nazioni Unite che, mentre lotta contro la
povertà nel mondo, spende ogni anno 500 milioni
di euro per mantenere i propri apparati burocratici;
secondo, perché promette di sanare la
piaga di 800 milioni di affamati… a parole,
esattamente come nel vertice del 1996.
Accanto (o in contrapposizione) al vertice
Fao, se n’è svolto un altro con 2.000 delegati
di Organizzazioni non governative
(Ong), impegnate nel Sud del mondo. Nel
documento finale hanno osservato che il
piano della Fao del 1996 «è fallito… perché
si è basato su politiche che incentivavano
la fame nel mondo e la liberalizzazione
economica». L’errore è stato di «avere
forzato i mercati al dumping [con prezzi
stracciati, inferiori persino al costo
di produzione, per vincere la concorrenza],
alla privatizzazione di terreni
e risorse pubbliche: acqua, foreste,
aree di pesca». Inoltre c’è stata la
repressione di movimenti sociali.
Per le Ong la via di uscita è la
«sovranità alimentare»: ossia il
diritto dei popoli ad autodefinire
le proprie politiche produttive,
abbattendo la concentrazione di
proprietà, riconoscendo il ruolo
delle donne, investendo a favore
di piccoli produttori. Ma, per questo,
urgono riforme agrarie, l’esclusione
dell’Organizzazione mondiale
del commercio dalle politiche agricole, la moratoria
sugli organismi geneticamente modificati
(omg).
Il Summit in Canada è stato definito da Silvio
Berlusconi «un vertice concreto» con un piano
di azione per l’Africa povera. Ma, secondo
Sergio Marelli (direttore di 56 movimenti di volontariato
internazionale di ispirazione cristiana),
si tratta di un piano di inazione. Per dimezzare la
povertà entro il 2025, servono ogni anno 54 miliardi
di dollari: lo sostiene la Banca Mondiale,
mentre i G 8 si sono impegnati con 12 miliardi di
dollari: troppo poco rispetto ai 300 miliardi di debito
estero dell’Africa. Né si profila un piano di
aiuti, pari allo 0,7% del prodotto interno lordo,
da parte dei paesi ricchi a favore di quelli poveri.
Questi, nell’ultimo decennio, hanno aumentato
le esportazioni del 40%, vedendone però diminuire
il valore del 30%.
I leaders africani chiedono una collaborazione
collettiva, forte e responsabile, mentre i G 8
sembrano selezionare i paesi da soccorrere,
senza investirvi risorse. Il presidente del
Sudafrica, Thabo Mbeki, ha fatto buon viso a
cattiva sorte, affermando: «Il piano dei G
8 per l’Africa non è che il punto di partenza.
Però la forza non sta nelle risposte
che essi daranno, bensì nella convinzione
con cui gli africani si assumeranno la responsabilità
diretta di fare decollare
il continente».
E che dire dei milioni e milioni
di morti, uccisi da guerre? Al
riguardo, Berlusconi ha ricordato
che l’Africa è arretrata
anche per i conflitti armati.
Verissimo.
Ma, allora, come si può accettare
che, alla Camera dei
deputati italiani, la maggioranza
abbia approvato la
riforma della legge 185/94,
che allarga le maglie del traffico
di armi in Africa?

FRANCESCO BERNARDI




È giusto scegliere tra lavoro e profitto?

ETICA ED ECONOMIA / A proposito di cristiani e comunisti
Perché chi desidera un posto sicuro e una retribuzione decorosa viene denigrato? Perché la flessibilità è un concetto sacro? Perché speculare è più importante che produrre? «Missioni Consolata» ospita le considerazioni di un suo vecchio abbonato, che (ancora una volta) faranno discutere.

Dalla lettura di Missioni Consolata di aprile
(pag. 7,8,9) ho avuto la conferma che l’ostilità
contro i comunisti è più viva che mai.
È un atteggiamento che non posso condividere. Se
un comunista tradisce Marx e cerca di imporre un
modello di società basata sul culto della personalità
del dittatore o una partitocrazia dove non solo si nega
Dio, ma non c’è neppure rispetto per la vita e la dignità
umana, il cristiano ha il dovere di ribellarsi; ma,
quando un comunista afferma principi retti e onesti,
il cristiano non è un buon cristiano se snobba o contesta
codeste affermazioni in quanto pronunciate dal
membro di un partito a lui non gradito.
Vorrei citare a questo proposito l’intervento dell’onorevole
Diliberto il quale, durante il dibattito parlamentare
seguito al vile assassinio del prof. Marco
Biagi, ha equiparato il terrorismo dei brigatisti a quello
che caratterizza certi rapporti di lavoro e si è spinto
ad affermare che «anche chi licenzia una persona
senza giusto motivo commette violenza…».
Condivido questa affermazione, perché la ritengo
in linea con il vangelo e con la dottrina della chiesa.
Se gli esperti, i tecnici, i consulenti, i supervisori che
collaborano con il ministero del lavoro hanno un po’
di etica professionale e vogliono davvero far sì che il
sacrificio del prof. Biagi non diventi un sacrificio inutile,
si astengano dal collaborare con quelle che l’anti-
lingua del capitalismo criminale chiama «riforme».
Abbiano invece il coraggio di replicare agli ultra-liberisti
che il vero nemico da battere non è il welfare,
ma la sfrenata rincorsa al profitto finanziario, dove
tutto diventa lecito perché non solo il lavoro vale più
dell’uomo, ma il capitale vale più dell’azienda e speculare
diventa più importante che produrre.
In nome della competitività oggi si licenzia non perché
si produce male o troppo o troppo poco, ma perché,
se non si licenzia, il valore delle azioni quotate in
borsa… non sale!
Se invece si investono centinaia di milioni di euro
per acquistare un Zidane o per «non lasciarsi scappare
» un Vieri (o Ronaldo, Totti, Batistuta, Nesta,
Shecchenko), allora la risposta positiva della borsa arriva.
Marco Biagi sapeva queste cose fin troppo bene,
perché era anche un appassionato di calcio (tutte le
volte che il Bologna aveva impegni casalinghi, andava
allo stadio assieme ai suoi due figli…), ma sapeva
pure, da cristiano, che l’attaccamento allo sport significa
disponibilità a lottare contro le intollerabili
sperequazioni retributive che vigono tra una categoria
e l’altra, tra una squadra e l’altra e, non di rado, tra
giocatori che militano nella stessa squadra. Sapeva
che il calcio non è solo serie A e conosceva il drammatico
fenomeno delle «morti bianche del pallone».
Una semplice regola dell’economia dice: «Per ogni
persona che percepisce un reddito che non produce,
c’è almeno un’altra persona che produce un reddito
che non percepisce».
Se, per esempio, le gambe di certi calciatori della
Juventus, la società di calcio più blasonata d’Italia,
valgono tanti soldi (lo facevano amaramente notare
alcuni anni fa i curatori di un reportage dal Kurdistan
iracheno) è anche perché le gambe di un pastore kurdo,
di una contadina cambogiana, di un bimbo somalo o angolano non godono di alcuna forma di tutela
e, se vengono dilaniate da una mina prodotta dalle fabbriche
dello stesso colosso imprenditoriale e finanziario
che controlla la Juventus, nessuna borsa crolla, nessuno
stadio si svuota, nessun mercato si «deprime»…
Se un allenatore di serie A riesce a percepire milioni
di euro anche dopo esser stato esonerato, perché il contratto
firmato a suo tempo gli dà ragione, è chiaro che
questo denaro dovrà in qualche modo essere recuperato
dai suoi ex padroni e sponsor vari, anche perché
una cifra pressappoco uguale sarà finita, nel frattempo,
nelle tasche del nuovo trainer. Allora è inevitabile che,
prima o poi, liquidazione d’indennità, diritto alla riassunzione
con l’articolo 18, diritto alla contribuzione,
diritto alla pensione vengano negati (o messi in seria discussione)
alle migliaia di persone il cui stipendio mensile
era o è 1.000 – 10.000 volte inferiore a quello percepito
da ognuno dei 2 allenatori.
Per risolvere queste contraddizioni e
molte altre, i rimedi non sono e non
potranno mai essere quelli proposti
dal governo Berlusconi o da Confindustria.
Non è colpa dello «Statuto dei lavoratori
», se certe industrie non attraversano
un buon momento e se le casse dello stato
non sembrano più in grado di pagare altre
pensioni, ma del fatto che questo Statuto
(a cominciare dall’articolo 18) raramente
è stato applicato. Ci si è comportati come
se non esistesse. In Italia troppe leggi non
vengono rispettate e troppi trasgressori
non vengono puniti; troppo facilmente i
furbi vengono premiati e c’è troppo incoraggiamento
a forzare i testi legislativi in
modo che il male diventi bene e il bene
male.
Le cifre astronomiche che lo stato ha speso a causa
degli incidenti sul lavoro (prima dell’avvento dell’euro,
la rimessa annua si aggirava attorno ai 55 mila miliardi
di lire), degli incidenti stradali (prevalentemente provocati
da alta velocità), delle alluvioni, del dissesto idrogeologico,
dell’inquinamento di aria, acqua, suolo…
non si recuperano mostrando i muscoli ai sindacati, irrigidendo
la mascella davanti ai microfoni e ripetendo
all’infinito: «Il governo andrà avanti per la sua strada,
la maggioranza del paese è con noi…».
L’abusivismo edilizio, le tangenti, la mafia degli appalti,
il racket non si contrastano con la flessibilità. La
mortalità e gli infortuni nei cantieri, nelle fabbriche, nei
campi, sulle navi e sui pescherecci non diminuiranno
abolendo l’articolo 18; è assai più probabile che aumenteranno
e lo stesso avverrà col mobbing, col caporalato,
coi ricatti e le molestie a sfondo sessuale e con i
controlli-burletta da parte degli ispettorati del lavoro.
Contro il lavoro minorile (in Italia almeno 300 mila
bambini che non dovrebbero lavorare vengono costretti
invece a farlo), le tratte delle cinesi e delle nigeriane,
dei kurdi e dei singalesi, le prepotenze degli scafisti
e di tutti i nuovi schiavisti, la risposta non può essere
la desindacalizzazione…
Le evasioni fiscali, i paradisi fiscali, le bande degli
estorsori e degli usurai sono realtà che le ricette
del liberismo e della «deregulation» possono solo
aiutare a espandersi, come è accaduto in tanti altri
paesi, compresi gli Stati Uniti.
Il terrorismo, la dipendenza da droga e alcornol, da lotterie,
quiz (adesso in Argentina, con 5 milioni di disoccupati
il posto di lavoro è diventato la… posta in gioco
tra i concorrenti che partecipano ai telegiochi) e video
poker, il tabagismo, l’imbarbarimento delle relazioni
all’interno dell’istituzione familiare, il fascino perverso
che le attività criminali esercitano sulle giovani generazioni…
non si prevengono deridendo «il mito del posto
fisso» e bollando come «sognatori» e «nostalgici»
coloro che aspirano semplicemente a un lavoro sicuro
e dignitoso e lottano perché una retribuzione decorosa
sia garantita a tutti.
Le ecomafie, le zoomafie, le piccole e grandi truffe ai
danni dello stato e dei singoli consumatori, le frodi alimentari
non si debellano con le privatizzazioni, i condoni,
la riduzione delle superfici dei parchi nazionali e
con la denigrazione di chi «osa» suggerire una politica
di rilancio dei lavori socialmente utili…

Fonti:
«Licenziano la madre, suicida a 14 anni» (in Corriere della Sera,
13/10/1999, pag.19); «Non fermiamo il girotondo» (whs
Retebrescia Handicap Inteational, 1995); «Lo sdegno di
Cacciatori» (in la Repubblica, 16/11/2000, pag. 57); «Quando
Biagi veniva in Africa» (in la Repubblica/Bologna, 24/03/2002,
pag. 1); «Il meno flessibile? D’Amato» (in Avvenire, 17/04/2002,
pag. 3); «Circus» (RaiTre, 11/01/2000).

Francesco Rondina




si fanno IN QUATTRO

L’esperienza di solidarietà missionaria in Brasile
dell’«Associazione di volontariato Ancona-Pocinho» (Avap).
Sono in pochi, ma…

Siamo un gruppo di animazione missionaria
nella parrocchia di Pietralacroce
ad Ancona: un gruppo assai
modesto. I membri si contano sulle dita di
due mani.
Consci della nostra esiguità, cerchiamo
confronti e contributi formativi in varie direzioni:
incontriamo, per esempio, persone
che a vario titolo operano nel campo della
solidarietà internazionale. Così sono stati
nostri graditi ospiti anche Feanda,
Maddalena e Giorgio; con Pina e Francesca
(la moglie di Giorgio, rimasta però a casa
con Lorenzo di appena cinque mesi), sono
i fondatori di Avap. L’acronimo sta
per: «Associazione di volontariato
Ancona-Pocinho».
Pocinho è
un modesto villaggio nello stato del
Paranà, nel sud del Brasile: una comunità
agricola di appena 350 persone.
La contiguità di Pocinho con
Ancona ha una storia breve e lunga
insieme, ennesima prova di come le
vie del Signore siano veramente infinite.
In una parrocchia di Ancona arriva,
nel 1992, una vivace suora brasiliana,
Isabelita, la quale stringe amicizia
con i ragazzi di Azione cattolica,
fra cui Maddalena e Giorgio, ma
pure con Feanda che di Giorgio è
la mamma.
Suor Isabelita ritorna in Brasile,
ma a Salvador, nel nord del paese.
Accade però che ella visiti di lì a poco
Cipriano, uno dei suoi numerosi
nipoti, che vive a Pocinho. Cipriano,
dopo una devastante esperienza in
una favela, è ritornato alla terra; ora
ha una piccola azienda agricola, dove
alleva bachi da seta e vive bene
con la sua famiglia. Intoo a lui,
però, Isabelita vede miseria e degrado
enormi.
Parte una lettera, secca secca, per
l’Italia: «Cari amici, chissà quante
cose voi avete in più nelle vostre case.
Qui invece i bambini sono nudi
e scalzi; non c’è una sola benda per
fasciare le ferite. Mandateci quello
che non vi serve. Però, se la mia richiesta
è per voi un peso, non importa.
Restiamo amici come sempre…
».
Invece «importò»
moltissimo a Maddalena, Feanda,
Pina, Francesca e Giorgio, gli ultimi
due allora ancora solo fidanzati.
Partirono i primi pacchi di aiuto.
Poi fu più conveniente inviare denaro;
e nacquero le adozioni a distanza
di alcune famiglie brasiliane.
Maddalena e amici furono fortunati:
Cipriano si rivelò un referente locale
capace e solidale con i suoi e
con coloro che erano ormai i suoi
amici italiani. Scriveva lettere e inviava
foto; registrava con scrupolo
l’arrivo dei pacchi, l’acquisto dei
beni di prima necessità, i gruppi familiari
adottati da altrettante famiglie
anconetane.
Giunse pure il bel momento dell’incontro:
Feanda, Francesca e
Giorgio volarono in Brasile. Prima
di arrivare a Pocinho, suor Isabelita
mostrò loro la realtà contraddittoria
del paese: gli hotel a cinque stelle
sulla spiaggia di Copacabana e le
favelas, i bambini di strada e i rampolli
delle famiglie grandi latifondiste,
i manganelli della polizia e l’azione
dei «senza terra» che lottano
per il possesso di un campo con il
quale vivere.
Dai termini con cui Giorgio ci ha
parlato del Brasile, abbiamo capito
che è nata in loro una «passione diversa
»: aiutare i fratelli poveri del
Brasile, sì, ma con intelligenza.
Mentre continuava l’opera di sostegno,
il gruppo è diventato Onlus
(Organizzazione non lucrativa di
utilità sociale), con il nome «Avap»
appunto. I componenti hanno avuto
contatti con realtà più grandi nel
campo della solidarietà internazionale
e hanno avuto l’umiltà di ascoltare
per imparare.
Oggi l’Avap si muove anche a livello
di istituzioni locali e regionali:
si fa conoscere, presenta progetti,
ottiene contributi, è affidabile e cerca
sinergie con altri movimenti di
volontariato.
Feanda
in gennaio ha trascorso un mese in
Brasile. Infatti l’Avap non vuole che
i suoi progetti cadano a Pocinho dall’alto,
cioè da «saccenti europei».
Feanda ha discusso con la popolazione
di Pocinho in assemblea: ha
proposto e ottenuto che delle commissioni
studiassero la fattibilità di
una cornoperativa agricola e di altri
quattro microprogetti; ha chiesto
l’intervento di un agronomo locale.
Ora il primo progetto, elaborato a
Pocinho, è giunto ad Ancona per essere
finanziato; sarà tradotto dal portoghese,
perché Maddalena, economista,
possa valutae con esattezza
la ricaduta economica e sociale sulla
comunità di Pocinho.
Giorgio sa già che le difficoltà non
mancheranno, perché – dice – «voi
non sapete quanto sia difficile aiutare
bene e quanti errori si possono
fare».
I viaggi in Brasile hanno fatto capire
che, se le zone agricole sono povere,
le periferie delle città lo sono di
più. La conoscenza diretta della gente
di Pocinho e della favela di San
Camillo, nello stato di San Paolo,
verso cui è diretta l’azione ha fatto
comprendere quanto la psicologia e
cultura di quella gente siano lontane
dall’efficientismo occidentale.
Come dire: l’Avap si sta inculturando.
Senza dimenticare che i cinque
sentono l’urgenza di imparare
il portoghese, perché la comunicazione
con i loro amici lontani sia ancora
più rapida ed efficace.
Di ciò che ci hanno
raccontato Feanda, Maddalena e
Giorgio potrei scrivere molto. Ma
vorrei, soprattutto, parlare di loro:
per esempio della generosità con
cui svolgono l’impegno di volontariato.
Una civiltà (civiltà?) fondata
sul profitto ci ha abituati a considerare,
dietro ogni gesto, l’interesse
personale, il vantaggio. Qui invece
c’è solo donazione.
Giorgio, Maddalena, Francesca e
Pina (ingegnere, economista, avvocato
e collaboratrice scolastica) sono
specialisti che, senza rimpianti, dedicano
molto tempo all’Avap; lo fanno
con la stessa competenza con cui
svolgono le loro professioni; e sono
ammirevoli. Lo è pure Roberto, che
ha deciso di condividere la scelta di
vita di Maddalena.
Come degna di viva ammirazione
è stata Feanda, quando ci ha raccontato
il suo incontro con la prefetta
dell’area in cui sorge Pocinho.
Feanda non aveva verità da dare;
ma sapeva anche giudicare da cristiana
la mala fede dei politici che
«assistono» un popolo, mentre dovrebbero
invece farlo «crescere».
Feanda, Maddalena, Giorgio,
Francesca, Pina… Che siano
questi i laici cristiani cui i missionari
potranno passare il testimone,
senza temere che la grandezza
incommensurabile della loro opera
secolare vada smarrita?

Rita Viozzi Mattei




TRA I SEGUACI DI MORMON

Ufficialmente si chiama «Chiesa di Gesù Cristo dei Santi
dell’Ultimo giorno», ma in tutto il mondo è conosciuta come la «chiesa dei mormoni». Nata nel 1830 negli Stati
Uniti, questa sètta oggi conta circa 11 milioni di fedeli, che debbono attenersi a severe regole di comportamento.
Il loro centro è lo stato dello Utah, negli Stati Uniti. La capitale, Salt Lake City, è salita all’onore delle cronache
per aver ospitato, lo scorso febbraio, le Olimpiadi invernali.

Luglio 1847: la prima carovana
di 1.700 pionieri arriva nella
valle del Grande Lago Salato,
presso una immensa pianura, tra
montagne e specchi d’acqua, e fonda
Salt Lake City, dando inizio all’epopea
mormone nello Utah.
Nasce e si consolida la «Chiesa di
Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo
giorno» (Church of Jesus Christ of
Latter-day Saints), la «chiesa dei
mormoni», considerata, a seconda
della prospettiva, una sètta religiosa
o una confessione cristiana. In
realtà, la maggior parte dei teologi
ritiene che i mormoni non siano una
chiesa cristiana, perché inseriscono
la loro interpretazione della
bibbia entro un quadro deformante
di speculazioni extrabibliche.

CHI SONO I MORMONI?
Il movimento nacque negli Stati
Uniti per opera del metodista Joseph
Smith (1805-1844). Questi, in
seguito a una serie di «visioni», nel
1830 pubblicò il Book of Mormon,
una sorta di trattato profetico-apocalittico
nel quale si narra la storia
del popolo di Dio in America, fondamento
della nuova confessione.
La «chiesa di Mormon», che mirava
a un ritorno alla purezza originaria
del vangelo, si sviluppò dapprima
nell’Illinois, dove i mormoni
fondarono la fiorente città di Nauvoo.
Dopo la morte di Smith (ucciso in
prigione dal popolo avverso alla
nuova confessione religiosa), i mormoni,
scacciati da Illinois, Ohio e
Missouri, costituirono nell’Utah una
comunità teocratica, sotto la guida
di Brigham Young (1801-1877),
successore di Smith e considerato
oggi, dai capi della chiesa di Mormon,
il secondo profeta. Qui, presso
il Grande Lago Salato, fondarono
la città di Salt Lake City, centro
del loro stato, dando alla sètta un’organizzazione
comunistica e dedicandosi
alla pratica della poligamia.
Osteggiati dal governo statunitense,
solo nel 1865 i mormoni entrarono
a far parte della federazione
nordamericana, accettandone dal
1890 anche la legge matrimoniale ed
eliminando la poligamia dai propri
statuti.
Negli ultimi quarant’anni un largo
proselitismo ha portato la chiesa
di Mormon ad una diffusione mondiale,
con forti basi in Europa, Asia
e America Latina, oltre che negli
Stati Uniti.
L’importanza dei mormoni nella
storia americana è notevole: a loro si
deve, tra l’altro, il primo esperimento
di economia pianificata realizzato
negli Stati Uniti, un tentativo riuscito
di legare modeità e tradizione;
l’utilizzo di mezzi e strumenti
della comunicazione sociale.
Dal Far West ai grattacieli, dalla
pratica della poligamia (ormai patrimonio
solo di alcune sètte minoritarie
della chiesa di Mormon), alla
difesa intransigente della famiglia e
della morale (con prescrizioni ferree,
tipiche di movimenti fondamentalisti
e radicali), la storia della
Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo
giorno ha in sé elementi di
grande complessità interreligiosa, in
un angolo dell’America più profonda.

I GIOCHI DI SALT LAKE CITY
E QUELLI DI ROMA
I mormoni e lo Utah sono ritornati
all’onore della cronaca grazie ai
giochi olimpici invernali, svoltisi a
Salt Lake City lo scorso febbraio, una vetrina unica per fare conoscere
al mondo la propria storia, cultura,
tradizione.
Lasciate parlare il silenzio, o quasi.
Questa è stata la saggia consegna
che hanno ricevuto i mormoni dello
Utah, per non impaurire il mondo
durante l’Olimpiade invernale.
Toglietevi le giacche scure da missionari,
mollate a casa il Book of
Mormon, e non infilate opuscoli nelle
tasche degli ospiti: se decideranno
di convertirsi da soli, meglio così.
Altrimenti ci accontenteremo che
vadano via dallo Utah senza considerarci
una sètta di pazzi pericolosi…
Grosso modo sono stati questi
gli ordini impartiti dal presidente
della Church of Jesus Christ of Latter-
day Saints, Gordon B. Hinckley.
Un invito ai fedeli affinché scordino
il proselitismo, almeno per tre settimane.
Sette anni fa, quando Salt Lake
City ottenne le Olimpiadi, alcuni
mormoni presero la decisione del
Cio come il compimento della profezia
di Brigham Young, uno dei
fondatori della chiesa: «In questo
posto costruiremo una città e un
tempio al Dio più alto. Re, imperatori,
nobili e saggi della Terra ci visiteranno,
mentre i deboli e gli infedeli
invidieranno le nostre case
confortevoli e le nostre proprietà».
Era un’occasione enorme per fare
pubblicità mondiale alla Church of
Jesus Christ of Latter-day Saints, di
cui fanno parte 11 milioni di persone,
tra cui il 70% degli abitanti dello
Utah. I capi si erano messi subito
al lavoro. Avevano contattato la televisione
Nbc, che ha trasmesso i
Giochi in esclusiva, per inondarla di
spot positivi sui mormoni, e poi avevano
offerto il Tabeacle Choir per
cantare alla cerimonia inaugurale; avevano
concesso lo spazio a Salt
Lake City per le premiazioni, sullo
sfondo del loro Tempio; avevano inviato
dossier ai giornalisti per suggerire
storie favorevoli alla propria
religione; e avevano finanziato lo
spettacolo «Light of the World»,
con 1.500 attori e musicisti, che è andato
in scena decine di volte durante
le Olimpiadi.
Nel frattempo, però, hanno scoperto
anche che i Giochi non erano
andati allo Utah per intercessione
divina, ma per le mazzette distribuite
dai due capi del Comitato organizzatore,
i mormoni Tom Welch e
Dave Johnson, incriminati, poi assolti
e ora di nuovo sotto la mannaia
del ricorso presentato dal ministero
della Giustizia. Questo infortunio
deve aver instillato il genio della
prudenza nella mente dei leader della
chiesa, che alla fine hanno optato
per un profilo più basso.
Secondo il portavoce Michael Otterson,
«abbiamo scelto una maniera
di fare pubblicità alla nostra religione
con tatto, senza sembrare una
corporation commerciale. La chiesa
è stata attenta, fin dal principio, a
camminare in equilibrio tra il sostegno
dei Giochi e del Comitato organizzatore,
e la necessità di agire in
una maniera che non arrecasse danno
agli sforzi compiuti dall’intera
comunità dello Utah, e non solo dai
mormoni».
Una posizione apprezzata da
mons. George Niederauer, vescovo
cattolico di Salt Lake City, che ha
fatto il paragone col 1960, quando
le Olimpiadi si svolsero nella città
del Papa: «È una sfida stare con grazia
nella maggioranza, così come
nella minoranza».
Per dimostrare che non erano solo
parole, i mormoni hanno accettato
di partecipare all’Interfaith
Round table, un forum che voleva
sottolineare il contributo di tutte le
religioni ai Giochi, anche se loro erano
il gruppo dominante. E il presidente
del Comitato organizzatore,
il mormone Mitt Romney, ha garantito
che nell’America multietnica e
multiculturale ci fosse lo stesso trattamento
per tutte le fedi. Stare nella
maggioranza con grazia, del resto,
sarebbe una sfida per chiunque.
«Noi – disse il presidente Hinckley
durante la Conferenza generale
dei suoi fedeli nell’aprile del 2000 –
siamo profondamente incompresi,
e temo che una larga parte di questo
problema dipenda da noi stessi.
Possiamo essere più tolleranti, più
aperti ai vicini, più amichevoli, più
di esempio di quanto non siamo stati
nel passato. È necessario insegnare
ai nostri figli a trattare gli altri con
amicizia, rispetto, amore e ammirazione.
Ciò produrrà risultati molto
migliori di un atteggiamento basato
sull’egoismo e l’arroganza».
Non male come autocritica per una
sètta che, almeno in casa propria,
rappresenta la stragrande maggioranza.
La Church of Jesus Christ of
Latter-day Saints, infatti, fondò lo Utah
nel 1847, scappando verso l’Ovest
per sfuggire alle persecuzioni a
Est. I seguaci credono in Cristo, a
modo loro, ma lo mettono sullo
stesso piano dei loro profeti, che tra
le altre cose adottavano la poligamia.

AL BANDO ALCOOL E CAFFÈ
È difficile, per un gruppo del genere,
non far sentire il proprio peso
a chi sta vicino.
Per esempio, se la mattina andando
al lavoro ti fermi a bere un caffè
al bar, o a pranzo prendi un bicchiere
di vino, hai già dimostrato di
essere nella minoranza. Le leggi dei
mormoni, infatti, vietano tanto l’alcornol
quanto la caffeina calda, e queste
regole ricadono su tutti gli abitanti
e i visitatori dello Utah. Per andare
a bere in un pub, infatti,
bisogna essere membri presentati da
un membro, e non si può ordinare
più di un drink a sera. Invece i ristoranti,
se hanno la licenza per gli alcolici,
devono tenerli nascosti dall’area
dove mangiano anche gli astemi.
Fare proselitismo con queste
regole, durante una festa come le Olimpiadi,
era difficile in partenza. E
infatti il Cio aveva chiesto ai leader
locali, in grande maggioranza repubblicani,
di rilassare le leggi almeno
nella zona dove si sarebbero
svolti i giochi.
Poi la maggior parte delle gare ha
avuto come epicentro Park City, che
è la gioia e il dolore dei mormoni. È
la gioia, perché come centro turistico
attira tanti visitatori e parecchi
quattrini. Ma è pure il dolore, perché
racchiude un’isola di peccato
dai tempi della sua fondazione.
Park City, infatti, nacque nel 1872,
quando tre soldati scoprirono una
miniera d’argento nella zona. In pochi
anni, la corsa ai minerali preziosi
la trasformò nella meta preferita
di banditi, avventurieri e cacciatori
di ricchezza, che portarono con loro
i propri vizi. Così, mentre i mormoni
dei villaggi vicini si chiudevano
nei loro harem di poligamia benedetta
dalla chiesa, i forestieri
aprivano in città i bordelli, tollerati
dalla complicità degli sceriffi.
Non a caso Robert Redford ha deciso
di riunire ogni anno, proprio a
Park City, il circo variopinto del
mondo dello spettacolo, per il festival
del cinema indipendente che ha
chiamato Sundance, ad onore e gloria
del bandito Sundance Kid, che
veniva dal vicino Wyoming.
A Salt Lake, nel febbraio 2002,
tutto si è svolto nella massima tranquillità.
I mormoni hanno sfoderato
il loro orgoglio nazionale e locale,
fatto riferimenti molto velati alla
religione e accolto con grande pazienza
e buon umore le migliaia di
sportivi e addetti ai lavori che si sono
trasferiti per un mese nella loro
capitale.

INTANTO
IL VESCOVO CATTOLICO…
In realtà, la curiosità del cronista
ha permesso di scoprire un mondo
cristiano molto più vivo e attivo di
quello che all’apparenza potrebbe
sembrare. Vi sono numerose minoranze
cristiane: luterani, episcopali,
metodisti, evangelici, battisti e cattolici
ma anche ebrei e moltissimi
musulmani.
L’esempio più importante è quello
della presenza cattolica a Salt
Lake e nello Utah. Il vescovo della
comunità cattolica è George Niederauer,
pastore di chiare radici tedesche,
cordiale e molto attento nel
conservare ottimi rapporti di vicinato
con i potentissimi mormoni.
Mons. Niederauer è primate della
chiesa cattolica di Salt Lake City dal
1995. Vive nei pressi della chiesa
della Maddalena, a tre isolati dal
Tempio dei mormoni, dove un accogliente
centro missionario offre la
possibilità di ristoro e colloquio per
i pellegrini (cattolici e non) che passano
da Salt Lake City.
I cattolici raggiunsero il lontano
Utah alla fine del Seicento, grazie all’opera
missionaria dei frati francescani;
ma solo nel 1861 nacque la
diocesi. Il vescovo snocciola dati interessanti:
i cattolici negli ultimi cinque-
sei anni sono passati dal 3% al
6-7% della popolazione dello Utah,
grazie ad una fortissima immigrazione
di ispanici provenienti da paesi
dell’America Centrale, in particolare
Messico e Portorico.
I rapporti con i mormoni sono
buoni soprattutto tra la leadership
della Chiesa dell’Ultimo giorno e il
vescovo. Durante l’anno si incontrano
per capire come promuovere
prassi di dialogo e collaborazione.
Più complessa è la situazione a livello
di base; spesso ci sono incomprensioni
soprattutto nelle aree rurali
e tra coloro che hanno una scolarizzazione
elementare.
Niederauer cerca, con insistenza e
abnegazione, di far progredire il dialogo,
soprattutto dopo che il proselitismo
dei mormoni dei primi decenni
sta molto cambiando. Ora è
più rispettoso delle fedi altrui e cerca
di capire ragioni e sentimenti delle
minoranze, anche quelle che vivono
nella «mecca» dei mormoni. I
cattolici dello Utah sono comunque
molto organizzati, ricorda il loro pastore.
Vi sono tre grandi scuole superiori,
10 scuole elementari. L’azione
di evangelizzazione e promozione
della carità si concentra molto
nelle realtà parrocchiali, che spesso
vivono a fianco delle comunità dei
mormoni, in pubblicazioni, movimenti
di riflessione e di volontariato,
in un organizzato e vivace foyer
nei pressi della cattedrale della Maddalena.
Mons. Niederauer ci ricorda che,
sebbene il 90% della popolazione aderisca
alla chiesa dei mormoni, così
come per il resto delle religioni, il
processo di secolarizzazione e modeizzazione
coinvolge anche questa
popolazione. Le rigide prescrizioni
della Chiesa dei Santi dell’Ultimo
giorno sono rispettate, e in se è
un fatto positivo, ricorda il vescovo;
«ma spesso quello che manca è un
discernimento tra realtà temporale
e realtà trascendente, incarnazione
della fede nella storia e separazione
tra fede e politica».
In questo, i pochi ma convinti cattolici,
secondo Niederauer, cercano
di dare un contributo a tutta la popolazione
dello Utah. Ancora di più
dopo la tragedia dell’11 settembre,
che ha consolidato lo spirito nazionale
e la solidarietà, soprattutto
in questa America
profonda.

(*) Luca Rolandi, giornalista, è autore
di alcuni saggi di storia religiosa
e di lavori documentaristici per la
Nova-T produzioni televisive.

Sulla tematica delle chiese nordamericane
si vedano i libri: MASSIMO
INTROVIGNE, I mormoni. Dal Far
West alle Olimpiadi, Elledici,
Torino 2002;
PAOLO NASO, God
Bless America. Le religioni degli
Americani, Editori Riuniti, Roma
2002.

LE OLIMPIADI E LA DIMENSIONE RELIGIOSA
Nel periodo dei giochi olimpici a Salt Lake City erano presenti molti assistenti
spirituali di varie confessioni religiose tra i quali mons. Mazza, cappellano
della nazionale italiana. Il prelato ha notato con soddisfazione l’assoluta
libertà e rispetto dimostrata dai mormoni nei confronti di credenti di altre
religioni o confessioni.
A Lake City si sono, inoltre, svolti incontri e briefing sul tema religioso. Due
pastori evangelici valdesi sono stati invitati a partecipare ad un brief da David
Willson, il quale dirige un’organizzazione che si chiama «Global Events
Group» e che viene finanziata da alcune fondazioni per portare la testimonianza
cristiana nell’ambito dei grandi eventi sportivi mondiali. Per l’Italia erano presenti:
Simone Baccella, Giuseppe Platone (pastore di Torino) e Renato Ribet
(pastore di Pinerolo). Oltre agli italiani erano presenti: un greco in vista delle
prossime olimpiadi estive, un sudafricano (per i campionati mondiali di cricket),
due inglesi di Manchester per i giochi del Commonwealth, un rappresentante
delle Società bibliche, un missionario in Cina per le olimpiadi di Pechino.
Nel corso dei cinque giorni d’incontro è stato illustrato il lavoro organizzato
dalle chiese per queste olimpiadi. Lo scopo è quello di «promuovere» anche
per i prossimi Major Events una presenza simile, col supporto della «Global
Events Group». Il movimento si muove sotto la sigla «More than Gold» (più dell’oro,
Pietro 1,7), che è attiva dalle olimpiadi di Atlanta (1996).

MORMONI D’ITALIA
Liliana Vercellotti e Sabrina Gironda, native di Vercelli, ma residenti nello Utah,
raccontano la loro storia.
La testimonianza di due ragazze piemontesi

Liliana Vercellotti, 30 anni, conosce i mormoni in
Italia. «Incontrai – ci racconta a Salt Lake City,
dove oggi vive – la chiesa di Mormon a Vercelli attraverso
le sorelle missionarie. Chiesi loro di poter
seguire alcune lezioni che spiegano i principi fondamentali
della “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo
giorno”. Ero attiva e credevo in certi principi
di fede; andavo in chiesa piuttosto regolarmente
la domenica e pensavo di conoscere abbastanza
(anche se ora riconosco che la mia conoscenza era,
invece, piuttosto limitata) la bibbia. Quando iniziai
i colloqui con le sorelle missionarie, nello stesso tempo
mi impegnai a leggere di più la bibbia, in particolare
il vangelo. Iniziai anche la lettura del “Libro
di Mormon”, ovvero il resoconto di profeti antichi e
di come il Signore parlò, dopo la sua resurrezione,
alle persone in America. Le mie prime impressioni
riguardo a ciò che stavo imparando erano di pace e
di interesse. La cosa più bella è che tutto ciò che stavo
imparando non confutava o distruggeva quelle
che erano le mie convinzioni precedenti, ma le integravano
e arricchivano; anzi, a volte le rafforzavano
e mi davano più comprensione su Gesù Cristo.
Cominciai a leggere anche l’Antico Testamento e la
mia comprensione ed amore per Gesù e Dio Padre
è cresciuta. Ho imparato a vivere la mia vita pregando
e cercando ogni giorno di migliorare, di portare
pace e gioia alle persone che mi circondano;
non che prima fossi molto diversa o all’opposto di
questo; solo avevo una fede meno convinta. I membri
di questa chiesa non sono perfetti, ma ogni giorno
cercano di migliorarsi».
Sabrina Gironda, anche lei trentenne, ci lascia
questa testimonianza. «È sempre difficile spiegare
il perché una persona vuole cambiare religione
e vita così drasticamente. Se tu mi avessi conosciuto
a 22 anni, mai avresti pensato che sarei diventata
una persona che va in chiesa ogni domenica,
ma è successo. Conobbi i missionari mormoni tramite
mia sorella. Lei lavorava in una libreria a Vercelli
e i missionari la invitarono a seguire un corso
di inglese gratuito. Così, nel luglio del 1993, io e
mia sorella iniziammo a frequentare quelle lezioni.
Nel gennaio 1994, dopo essere diventate amiche
con i missionari, cominciammo a seguire le 6 lezioni
che tutti i missionari mormoni del mondo impartiscono
agli interessati. Ad aprile, mia sorella decise
di farsi battezzare. Io non avevo mai pensato seriamente
a farmi battezzare. Andavo in chiesa, ma
cambiare la mia vita non era proprio la mia idea. Dopo
il battesimo di mia sorella, mi resi conto che la
mia vita non poteva più essere la stessa. Dovevo sapere
se quello che i missionari mi avevano insegnato
era vero. Così incominciai a leggere seriamente
il libro di Mormon e a pregare per sapere chi aveva
ragione e se avrei davvero dovuto battezzarmi. Passai
alcuni mesi di vera crisi spirituale. Avevo tanti amici
nella chiesa e mi piaceva andare ogni domenica
ad imparare di più riguardo alle scritture; ma non
bastava; dovevo avere una risposta da Dio e così fu.
Capii che quella era la strada giusta per me: il 28 agosto
1994, all’età di 22 anni, mi battezzai. Lasciai
il mio ragazzo che non voleva accettare la legge di
castità; smisi di bere e di fumare.
Nel maggio del 1997 mi trasferii
a Salt Lake City e, tramite un amico
comune, conobbi mio marito.
Ci sposammo in Italia in una
chiesa dei mormoni, ma poi decidemmo
di suggellare la nostra unione
con una cerimonia nel Tempio
di Salt Lake City, che significa
unione per l’eternità. Delle mie
scelte non mi sono pentita nemmeno
per un giorno. Insomma, rifarei
tutto».

Luca Rolandi




POCHI DOLLARI PER TANTI DIRITTI

Torino / Incontro con Beatrice A. de Carrillo (El Salvador)
Italiana e salvadoregna, è procuratore per la difesa
dei diritti umani: una figura istituzionale con un
compito delicato. L’intervistata affronta pure altri
temi cruciali: globalizzazione economica e azione
della chiesa, i «casi» Argentina e Venezuela,
guerriglie, «campagne» di pressione in Italia…

Dottoressa Carrillo, lei è procuratore
per i diritti umani in El
Salvador. Come è avvenuta la
nomina?
Ho avuto la soddisfazione di essere
eletta con 85 voti su 86. C’è stata
una sola astensione. Per la mia nomina
a procuratore si è dovuta modificare
la costituzione nazionale.

Come procuratore, che cosa può
dire sui diritti umani in El Salvador?
L’ufficio di procuratore è importante
e delicato; è previsto dalla costituzione
ed è sorto in seguito agli accordi
di pace del 1992. Il procuratore è il
simbolo del nuovo corso nel paese. Negli
ultimi 10 anni si sono avuti tre procuratori;
l’ultimo è stato destituito dal
parlamento.

Illustri meglio il suo compito.
Il compito è simile a quello, in Europa,
del presidente della corte costituzionale
e del procuratore della repubblica.
Controlla lo stato circa eventuali
violazioni dei diritti umani ad
ogni livello: parlamento, magistratura,
finanza, fisco. Il procuratore ha il
potere di sanzionare lo stesso presidente
della repubblica (mi è già toccato
di emettere sentenze di questo
genere); gode di immunità e solo il
parlamento lo può destituire, dopo un
severo esame. Il procuratore esercita
un superpotere, con 14 funzioni sul
«pubblico» e sul «privato».
In nessun paese dell’America Latina
il procuratore per i diritti umani ha
un potere così vasto come in El Salvador.

Certamente lei si avvale di collaboratori.
Il suo potere è delegabile
a qualcuno di loro?
I collaboratori sono 400. Però la
mia responsabilità non è delegabile:
ogni atto deve essere firmato dalla
sottoscritta. Oggi, mentre sono in Italia,
un collaboratore mi rappresenta
nel campo amministrativo per gli atti
di routine; ma non può firmare alcuna
sentenza senza il mio permesso.

Lei, italiana, come ha potuto
accedere ad una carica così rilevante?
Io sono anche cittadina salvadoregna
e opero nel paese da circa 30 anni.
El Salvador è la mia seconda patria.

El Salvador, dopo gli accordi di
pace del 1992, si è lasciato alle
spalle drammi terribili, che riguardano
proprio la violazione
dei diritti umani. Oggi quali
sono gli ambiti cruciali in cui
lei interviene?
Gli ambiti si riferiscono ai diritti violati
durante l’ultima generazione: i diritti
dei lavoratori, il diritto alla salute,
all’educazione. Recentemente si sono
registrati 8 mila licenziamenti nel
settore pubblico. E non parliamo dell’impresa
privata! Dal 1999 si sono
avuti 15 mila licenziamenti. La gente
ricorre al procuratore perché la difenda
e l’aiuti a riavere il lavoro. Lo scontro
con lo stato è duro e inevitabile,
quando viola i diritti. Le sentenze vengono
inviate alle Nazioni Unite e sono
conosciute in tutto il mondo.
Per il governo io sono una figura
scomoda, perché mostro l’altra faccia
della medaglia.

Lei è autonoma dal governo,
ma non dal parlamento. E chi
le paga il salario?
Il procuratore prescinde dal governo
anche per la retribuzione economica,
che, secondo la costituzione,
dovrebbe essere stabilita dal parlamento.
Ebbene finora non è stato così.
Allora il ministro dell’economia mi
concede uno stipendio di mille dollari
al mese.
Non è molto per un procuratore
della repubblica!
Forse è più esatto dire che è… poco!
Però ci si consola con il «mal comune
mezzo gaudio». Infatti anche i
miei collaboratori non percepiscono
lauti stipendi: una segretaria guadagna
300-400 dollari al mese, mentre
un avvocato, addetto alle denunce,
deve accontentarsi di 500. Con un simile
trattamento, si può ipotizzare
una persecuzione verso la procura.
La mancanza di fondi ci impedisce
di fare delle pubblicazioni, di emettere
comunicati-stampa; e siamo quasi
costretti a misurare con il contagocce
la benzina delle auto a disposizione.
Se c’è un guasto meccanico, i guai sono
seri. Tuttavia, pur nelle difficoltà,
si lavora. Mi sono imposta di risolvere
alcuni casi gravissimi del passato, che
i miei predecessori non hanno avuto il
coraggio di affrontare.

Per esempio?
Per esempio, il caso che risale al 24
marzo 1982, quando fu ucciso l’arcivescovo
Oscar Romero durante la celebrazione
della messa. Ho emesso la
sentenza, che è stata diffusa in tutto
il mondo. Abbiamo avuto l’appoggio e
la stima di molti, ma anche minacce.

Minacce di vita? E da chi?
Sì, minacce di vita. Le più forti le ho
avute nel dicembre scorso: due individui
sono venuti nel mio ufficio per raccontare
«i dettagli di una eventuale
procedura»… Si fa di tutto per destabilizzare
la procura dello stato; poi, se
non si riesce ad intimorire, si giunge
alla diffamazione personale; infine alle persecuzioni fisiche con incidenti
d’auto provocati, sequestri di persona.
In questi giorni, mentre sono fuori
del paese, sono avvenute cose gravi,
che i collaboratori mi hanno segnalato.
Al ritorno in El Salvador mi aspettano
fatti preoccupanti.

Passata la guerra civile degli
anni ’80, quale posto occupa
oggi El Salvador nel campo dei
diritti umani?
Il paese è senz’altro molto migliorato
rispetto agli anni ‘70-80. Forse…
la guerra è servita. Il sacrificio di tanti
è valso la pena, perché ha accelerato
i tempi della rinascita. Oggi in El
Salvador esiste una democrazia stabile;
opera una polizia che, pur con i limiti,
non è la guardia nazionale di un
tempo. Non esistono torture, né desaparecidos.

E il problema dei ricchi sempre
più ricchi, a scapito dei poveri
sempre più poveri?
Questo è un problema aperto. Tuttavia
la causa non è solo dell’élite locale,
quanto di una politica mondiale
che influisce in termini negativi. In
una nazione piccola come El Salvador
l’impatto è molto grave: le politiche
dettate dalla Banca Mondiale e da altri
organismi inteazionali obbligano
il paese a certe politiche piuttosto
che ad altre. Inoltre nel partito al potere
operano uomini d’affari e banchieri
che cercano i propri interessi.

Impera la globalizzazione economica,
rispetto alla quale non
ci sarebbe alternativa. O c’è?
Ci sarebbe: basterebbe attuare politiche
che si avvicinino maggiormente
al modello di uno «sviluppo sostenibile
», che è il punto chiave delle Nazioni
Unite. Oggi però questo discorso
non è più di «moda». Si è imposto un
capitalismo selvaggio, secondo il quale
lo sviluppo del terzo mondo si raggiunge
quando il primo mondo gode
di una sovrabbondanza di ricchezza.
Il che è assurdo.
Di fronte alla sfida della globalizzazione,
il Centro America è svantaggiato,
perché diviso. I singoli piccoli
paesi non riescono a negoziare con i
grandi attori della mondializzazione.
Invece, se nascesse un’area centroamericana
simile all’Unione Europea,
con capacità autonoma di decisione
politica, i vari paesi sarebbero più in
grado di difendersi.

In America Latina l’opposizione
politica è espressa anche da
guerriglie: è il caso della Colombia
o del Perù. È avvenuto
in El Salvador. Ma i guerriglieri
hanno fatto il loro tempo?
Credo di sì. Però la guerriglia salvadoregna
non è da paragonarsi a quella
colombiana o peruviana; queste manifestano
elementi che le rendono più
discutibili, anche eticamente. La nostra
guerriglia è stata un vero esercito
di liberazione, forse il meglio costituito,
il più etico in America Latina. La
guerriglia in Colombia o Perù è più controversa.
Ciò che avviene oggi in America Latina
è preoccupante: si distrugge il sistema
statale democratico; lo si vede
in Venezuela, Argentina e Colombia.
Così si favorisce la politica di «sicurezza nazionale» degli Stati
Uniti, che sono diventati
molto più aggressivi
dopo l’«11 settembre».
Le violazioni del diritto
delle persone avvengono
con sistemi persecutori
e controlli che allontanano
i progressi
raggiunti.

Signora Carillo, lei
ha accennato al Venezuela
e all’Argentina,
due paesi «esplosi
». Esplosi per ragioni
economiche o sociali?
Circa il Venezuela, sono
contenta che si sia ristabilito il
governo costituzionale di Hugo
Chavez: come procuratore per i diritti
umani gli ho dato l’appoggio totale,
anche se il presidente di El Salvador ha
commesso l’errore diplomatico di sostenere
il governo del colpo di stato,
subito fallito. Chavez è «un presidente
dei poveri»; quindi il colpo è stato
fatto dalla finanza, dall’industria, dai
mezzi di comunicazione… Sono però
contenta di vedere che il sistema dei
colpi di stato di un tempo non funziona
più, e mi fa piacere che la OEA (Organizzazione
degli stati americani,
che comprende anche gli Stati Uniti)
si è subito schierata con Chavez.
Quanto alla crisi argentina, essa è
frutto delle pessime politiche
dei governanti: si pensi
alla corruzione, al debito
estero… È stata
una grave violazione
dei diritti umani l’avere
congelato
nelle banche i risparmi
degli argentini.
La Federazione
in-
teazionale delle procure l’ha denunciato.

Di fronte agli abusi dei diritti
umani in America Latina (verso
gli indios del Brasile, ad esempio),
che senso hanno le campagne
di mobilitazione in Italia?
Non credo che il governo del Brasile
si impressioni molto. Bisogna lavorare
in modo più serio, denunciando gli
abusi ai procuratori del Brasile. Ci si
può rivolgere alla OEA, alla Corte interamericana
per i diritti umani (è il Tribunale
del continente americano, molto
potente). C’è la Commissione dei diritti
umani, che è il primo scalino per
accedere al Tribunale con sede in Costa
Rica e a Washington. Le «campagne
» in Italia per i diritti umani in
America Latina lasciano il tempo che
trovano, se non coinvolgono gli organismi
giusti.
Ricordo in El Salvador cinque senatori
italiani, in viaggio verso Cuba per
perorare la causa di due salvadoregni
condannati a morte quali autori di un
attentato a Fidel Castro, durante il
quale morirono pure due italiani. I senatori
speravano nel sostegno del governo
di El Salvador. Fu un fiasco.
Però oggi a El Salvador conviene dimostrare
al mondo che Castro viola i
diritti umani; quindi mi ha incaricata
di fare qualcosa in favore dei due salvadoregni
tuttora in carcere a Cuba.
E lei può fare qualcosa?
Sì, perché il mio compito è internazionale.
Il bello dei diritti è che non
hanno frontiere. Io mi occupo di tutti
i salvadoregni nel mondo.

Qual è la situazione dei salvadoregni
in Italia?
Sono numerosi: oltre 15 mila a Torino
e 50 mila a Milano… Fra i latinoamericani,
i salvadoregni sono i più
stimati: ottimi lavoratori, non coinvolti
in problemi di droga o altro. Fanno
veramente onore alla loro patria.

Chi è?Beatrice A. Carrillo
– Avvocato, docente universitario e procuratore
per la difesa dei diritti umani, Beatrice Alamanni
de Carrillo è nata a Torino.
Dal 1968 vive in El Salvador. È sposata con il salvadoregno
Juan Antonio Carrillo Estrada, ingegnere
elettronico, laureatosi al Politecnico di Torino.
La coppia ha tre figli.
– Ha insegnato diritto pubblico, filosofico e costituzionale
in vari atenei: Universidad de El Salvador,
Universidad Centroamericana, Universidad Tecnologica.
Ha fondato e diretto la facoltà di scienze giuridiche
dell’Universidad Centroamericana.
– Esperta nell’elaborare progetti legislativi riguardanti
i diritti umani in genere, quelli degli emigrati,
della famiglia, della donna, affrontando anche la
violenza fra le pareti domestiche. Consulente nell’Organizzazione
internazionale dell’emigrazione.
È autrice di numerosi saggi sui temi suddetti. Fondatrice
della rivista IDHI-Realidad, rivista di carattere
sociale, politico e giuridico.
– 1975-1978: opera a Monaco (Germania) quale
consulente e investigatrice sulla condizione degli
emigrati latinoamericani, in particolare delle donne.
– 1979-1998: svolge attività accademica e sociale
in El Salvador con frequenti viaggi all’estero.
– 1999 ad oggi: è procuratrice per la difesa dei diritti
umani.

DAVANTI AL LA STATUA
DEL MARTIRE ROMERO

Signora Carrillo, lei è cattolica praticante e insegna pure all’università
dell’America Centrale (Uca), dove è stata amica e collega dei
sei gesuiti uccisi nel 1989 dagli «squadroni della morte». La chiesa cattolica,
ieri all’avanguardia nella difesa dei diritti umani (specialmente
in favore dei poveri), lo è tutt’oggi?
In America Latina la teologia della liberazione è passata di moda
a livello di informazione, diffusione e pratica. Credo che questo
dipenda dalla Santa Sede. Ci sono ancora comunità di base e
non mancano vescovi impegnati, però con meno grinta rispetto agli
anni ’70-80. L’attuale arcivescovo di San Salvador, Saenz Lacalle,
appartiene ad una corrente moderata.
Lei, come procuratore, ha chiesto allo stato di El Salvador di riaprire
il caso dell’assassinio di monsignor Romero. La chiesa come ha
accolto il suo intervento?
Bene. Ho partecipato con monsignor Lacalle alla celebrazione
durante la quale ha scoperto una statua di Romero in una piazza:
ero l’unica persona laica invitata, anche come autorità dello stato.
L’arcivescovo l’ha fatto anche per proteggermi dalle minacce
che ricevo… Stimo molto monsignor Lacalle: è corretto e sa mettere,
con prudenza e abilità, il dito sulle piaghe sociali. Per esempio:
quando ho notificato la lesione dei diritti umani in vari licenziamenti
di lavoratori, mi ha sostenuto nella denuncia.
Quale aria si respira oggi all’università cattolica «Uca»?
Si avverte la mancanza dei professori uccisi nel 1989: padre
Ignazio Ellacuria e i suoi compagni. C’è un vuoto anche teologico.
D’altro canto, le chiese storiche protestanti (in modo particolare
quella luterana) sono molto attive, anche perché ricevono molti
aiuti dagli Stati Uniti e dalla Germania. Hanno assunto una posizione
coraggiosa in termini socio-politici.

Scheda
Superficie: 21.041 kmq.
Popolazione: circa 6 milioni.
Capitale: San Salvador.
Lingua: spagnolo e lingue amerinde.

Gruppi etnici: meticci (89%), amerindi (10%).
Religione: cattolici (74%), protestanti (7,4%), altre fedi
(18%).
Indicatori economici: reddito pro capite annuo $ 1.850;
disoccupazione 7,8%; esportazioni $ 2.738 milioni; importazioni
$ 4.239 milioni; debito estero $ 3.633 milioni;
servizio del debito 10,4% delle esportazioni; aiuti
dall’estero $ 294 milioni; inflazione 8,9%.
Il 48% della popolazione soffre di povertà assoluta.
(I dati si riferiscono al 1998).
Colonia spagnola, El Salvador diviene indipendente nel
1841. Nel 1979 scoppia la guerra civile, che si conclude
il 16 gennaio 1992 con gli Accordi di pace tra il governo
e i guerriglieri del Fronte Farabundo Martí. Costo
del conflitto: 75 mila morti, 8 mila desaparecidos, 1 milione
di profughi.

Alcuni eventi significativi:
– 24 marzo 1980: assassinio dell’arcivescovo Oscar A.
Romero; mandante del delitto è Roberto d’Aubuisson,
esponente militare dell’estrema destra (Arena).
– 25 marzo 1984: è eletto presidente Napoleón Duarte;
le elezioni sono boicottate dai movimenti di sinistra
con un’astensione del 51%.
– 16 novembre 1989: uccisione di sei gesuiti all’università
«Uca». Secondo la Commissione dei diritti umani
(non governativa), tante donne (specie studentesse e
sindacaliste) sono colpite dalla repressione politica.
– 15 febbraio 1993: dopo gli Accordi di pace del 1992,
gli ultimi guerriglieri consegnano le armi; secondo gli osservatori
dell’Onu, la violenza non cessa con gli Accordi.
– 1997: sorge la Commissione per la «memoria storica»,
che indaga sulla scomparsa di oltre 8 mila persone nel
1975-91; sono implicati numerosi militari.
– 7 marzo 1999: Francisco Flores, del partito Arena, è
eletto presidente e capo del governo (è tuttora in carica).
In parlamento, dopo le elezioni del 2000, prevalgono
il Fronte Farabundo Martí con 31 seggi e l’Arena
con 29.
– gennaio 2001: un terremoto provoca 700 morti, 4 mila
feriti e oltre 1 milione di senzatetto;
– maggio 2002: il governo si impegna a fornire più di
1 milione di libri alle 2.500 biblioteche del paese, per
promuovere la lettura tra i bambini e gli adolescenti.

Francesco Beardi




ZIMBABWE «rielezione» di Mugabe e altro… SOLILOQUIO AFRICANO

Robert Mugabe si è proclamato vincitore delle elezioni presidenziali, svoltesi in Zimbabwe dal 9
all’11 marzo scorso, all’insegna di violenze, intimidazioni, brogli e soprusi d’ogni genere. Il paese
è stato sospeso dal Commonwealth per un anno. Fuori e dentro il paese, nessuno scommette
sulla capacità del «dittatore» di risolvere la grave crisi economica e sociale in cui lo Zimbabwe
si dibatte da troppi anni. Per ora si è evitata la guerra civile.
È forse questo «il peggio» a cui allude padre Filipe Couto, rettore dell’Università cattolica del
Mozambico. In una specie di soliloquio, anziché articolo discorsivo, egli presenta una personale
chiave di lettura per capire il mondo della politica «made in Africa».
Non comprendiamo, però, perché certi presunti «padri della patria»
debbano continuare impunemente a commettere delitti e soprusi
contro i propri cittadini, con la complicità dei politici occidentali.

Che cosa pensi dei risultati delle ultime
elezioni presidenziali in Zimbabwe?
Si è evitato il peggio.

Il peggio, come ha più volte detto
Mugabe, sarebbe «l’imperialismo
britannico, la ricolonizzazione del
paese, gli attentati dei nemici della
pace e democrazia per favorire burattini
e servi degli imperialisti»?
In Africa sono necessarie forze di
opposizione. Dobbiamo certamente
sviluppare delle alternative, ma lavorando
a lungo termine e internamente,
tra noi, evitando il più possibile di
essere teleguidati dall’esterno.

Secondo te, le pressioni e sanzioni
«intelligenti», esercitate sui governanti
affinché promuovessero elezioni
libere e democratiche, sono
state interpretate come un tentativo
britannico di ricolonizzare lo Zimbabwe?
Sostanzialmente è stata questa l’interpretazione.
Mi stupisce che la
Gran Bretagna lo abbia ignorato. Se
durante la campagna elettorale gli inglesi
avessero criticato meno Mugabe,
sarebbe stato più utile all’opposizione.
Il loro modo di agire, invece,
ha prodotto l’effetto contrario: la
gente comune ha creduto che gli oppositori
fossero teleguidati dai coloni
bianchi e dalla Gran Bretagna.
Non sarà che Tony Blair abbia appoggiato
Tsvangirai, candidato dell’opposizione,
per far sì che Mugabe
rimanesse in sella? In politica tutto è
possibile.

Eppure il vescovo anglicano Desmond
Tutu ha detto di essere «molto,
molto, molto rammaricato e deluso
che proprio il Sudafrica, sostenitore
di processi democratici, sia
stato tra i primi paesi africani a dichiarare
tali votazioni legittime, libere
e pacifiche…».
I governi africani, secondo me,
hanno giudicato che, tutto sommato,
legittimità, libertà e pace non siano
state totalmente negate nell’esercizio
del diritto di voto del popolo
dello Zimbabwe. Sarebbe potuto capitare
il peggio. In politica si deve fare
il meglio possibile. Ma l’Africa vede
la democrazia come un punto
d’arrivo, da raggiungere attraverso
un lungo processo; non dovrebbe essere
«imposta» dall’alto.

Intanto i paesi occidentali dovrebbero
sborsare miliardi di dollari per
aiutare il continente a coltivare la
propria «via africana» allo sviluppo
e democrazia?
I politici africani affermano che
bisogna lasciare agli africani di sviluppare
le proprie strategie in materia
di buon governo e rispetto dei diritti
umani. Per quanto riguarda i
rapporti tra «Occidente sviluppato
e Africa in via di sviluppo», penso
che la via da percorrere sia quella
della collaborazione, basata su un’uguaglianza
di fondo, anche in fatto
di diritti di manipolazione della politica
a favore dei rispettivi interessi:
su questo punto i politici occidentali
e africani concordano più di quanto
sembri; a scandalizzarsi sono solo
quelli che non sono al potere. Ciò vale
per l’Africa come per gli altri con-
tinenti. Bisogna conoscere meglio
ciò che accade dietro le quinte.

Le elezioni in Zimbabwe sono oramai
storia passata? I tentativi di statisti
europei e africani di riportare
Mugabe dentro confini di saggezza
e migliorare la situazione del paese
sono inutili? Bisogna rassegnarsi al
meno peggio?
Le elezioni non sono storia passata;
così pure i tentativi di non isolare
governo e presidente del paese. Il
leader sudafricano Tabu Mbeki, accettando
il risultato delle elezioni, ha
fatto solo il suo dovere di politico. In
questi giorni Mugabe e l’opposizione
stanno dialogando sotto l’arbitraggio
della Nigeria. Si tratta di una
vera mossa strategica e politica: per
cambiare le cose, in politica, bisogna
lottare per giungere al potere. In tale
lotta, però, bisogna usare mezzi ragionevoli,
fare compromessi. Le opposizioni
devono essere più allenate
a scendere a compromessi.

In Zimbabwe le cose rimarranno
sempre le stesse?
Non credo. Gli osservatori nigeriani,
norvegesi e parlamentari della
Comunità di sviluppo dell’Africa
Australe, incaricati di sorvegliare lo
svolgimento delle elezioni in Zimbabwe,
hanno dichiarato che all’elettorato
non è stato permesso di esprimere
la propria volontà in modo
libero e pacifico; le elezioni si sono
svolte in «un clima di paura e di violenza
»; «troppo spesso le forze dell’ordine
non sono intervenute in casi
di denunce di violenze e gravi intimidazioni
» da parte di «corpi paramilitari,
giovani e gruppi filo-governativi
». Tali critiche lasciano il segno.
Ma in Zimbabwe esiste una crisi
politica: la ridistribuzione delle terre
è un problema reale e sarà superato.
Ma per risolverlo c’è ancora bisogno
del contributo di Mugabe.

In che modo?
Per oltre 20 anni Mugabe è stato
tollerante con i proprietari terrieri
bianchi. Come attore nel teatro politico,
egli non rivela tutto quello che
realmente ha fatto e sta facendo.
Non ha commesso solo degli errori.
Lui e il suo governo sono in comunicazione
con Gran Bretagna, Australia,
Belgio ecc. molto di più di
quanto si dica e si pensi. Tra le classi
politiche di detti paesi esistono
concordanze, che al momento non
vengono rivelate. Persino una parte
della popolazione bianca dello Zimbabwe
non è totalmente contro Mugabe:
alcuni lo vedono come un male
minore. Sarà la storia a dire dove
sia la verità dei fatti.
Perciò su Mugabe non si dovrebbe
fare pressione perché abbandoni
il potere con una sconfitta politica. Il
sostegno che egli gode da parte di
molti leaders africani non è contrario
alla democrazia; essi non arriveranno
mai a giustificare apertamente
una sconfitta del genere: perderebbero
la propria legittimità.

I leaders africani devono restare al
potere per tutta la vita?
C’è una generazione di leaders che
si sentono «padri della patria» e ritengono
intollerabile essere sbalzati
dal potere; solo la morte naturale è
per essi accettabile. Alcuni possono
farsi da parte spontaneamente, come
hanno fatto Julius Nyerere in Tanzania
e Nelson Mandela nel Sudafrica.
Altri sono rimasti fino alla morte,
come Jomo Kenyatta nel Kenya. La
sostituzione di queste figure mediante
le elezioni hanno prodotto
traumi politici, come in Zambia, dove
Keneth Kaunda, primo presidente,
ha perso le elezioni, è stato messo
in prigione e ha rischiato di perdere
la nazionalità zambiana.

Mugabe sarà capace di lasciare il potere
come Nyerere o Mandela?
Se la situazione volgerà al meglio,
Mugabe introdurrà una legge che gli
permetta di nominare un successore
al capo del suo partito e di affidargli
la presidenza del paese, fino al termine
del mandato di sei anni. Sia
chiaro, tuttavia, che egli non ha intenzione
di fare la fine di Keneth
Kaunda: non vuole affrontare rappresaglie,
processi giudiziari o prigione;
perciò non se ne andrà senza
garanzia d’immunità. Ed è saggezza
democratica accordargliela. La democrazia
reale è fatta di compromessi,
non solo in Africa.

In sostanza, ritieni che i «padri della
patria» non accettino di essere rimossi
dal potere, mentre per i loro
successori sarà più facile sottostare
al responso delle ue?
La nuova generazione di politici
sta entrando a poco a poco nel processo
democratico delle elezioni. Il
Tanzania ne è un esempio: il «padre
della patria», Julius Nyerere, ha lasciato
spontaneamente la presidenza
e ha passato il testimone a Mwiny,
che ha governato per due periodi. Il
successore, Nkapa, presentatosi come
candidato in regime di multipartitismo,
è stato eletto presidente, si è
ricandidato e ha vinto nella seconda
tornata elettorale. La costituzione
non prevede una sua terza candidatura.
Sono certo che Nkapa non farà
niente per cambiare la legge.
Così procede l’esercizio di democrazia
in Africa, con tutti i suoi pregi
e difetti. Nel giro di dieci anni i
«padri della patria» saranno scomparsi;
ma con quelli ancora in vita
non bisogna aver fretta di scalzarli
dal potere e, in caso di rinuncia volontaria,
devono avere la garanzia di
vivere in pace nel proprio paese.
In conclusione, gli stati africani sono
avviati sul sentirnero di una certa democrazia.
In politica non sempre si
raggiunge il bene ideale; né tutto è
giusto ed etico. Qualche
volta il compromesso serve
per evitare mali peggiori.

Filipe J. Couto