Gli altri popoli dei missionari
Nel «deserto di pietre»
di Marsabit, nel nord
del Kenya, ecco
i pastori seminomadi
SAMBURU, come pure
i TURKANA, i RENDILLE,
gli EL MOLO, i BORANA,
i GABBRA.
Attoo al grande lago Victoria,
vivono i dinamici e numerosi
LUO.
A differenza dei bantu kikuyu
e meru, questi popoli sono
nilotici, cusciti e nilo-camiti.
Altre culture dunque.
SAMBURU
il popolo dalla «schiena dritta»
Viso ovale e altero, corpo robusto
e armonioso come una
statua greca, dritto come un
fuso su una gamba e l’altra sollevata
nella tipica posizione dell’airone, la
destra appoggiata alla lunga lancia, il
guerriero samburu è l’esemplare tipico
dei popoli pastori, che disprezzano
con orgoglio il «lavoro a schiena
curva» dei popoli agricoltori.
Anche la danza tradisce tale orgoglio:
i guerrieri si divertono saltando,
pettoruti e a piedi pari, come canguri,
librandosi nell’aria come farfalle,
per ricadere sugli stessi centimetri di
suolo da cui prendono lo slancio.
ORIGINE
Proprio la farfalla avrebbe dato il
nome ai samburu, per quel senso di
raffinata armonia, sconfinante nell’effeminatezza,
che sprigiona dalla
loro vita (*). Per alcuni tale nome deriverebbe
da «coloro che hanno il
borsellino» (ampur); per altri da «coloro
che vanno in guerra» con la sacca
dei viveri, per fare razzie o combattere
i razziatori.
Un tempo erano conosciuti come
burkineji, corruzione di loibor kineji,
cioè «possessori di capre bianche».
Tra di loro, però, preferiscono chiamarsi
lookop, «possessori della terra
». Di fatto occupano un territorio
di oltre 20.000 kmq a sud del lago
Turkana, costituito dal Distretto
Samburu e alcune frange del Distretto
di Marsabit.
Da dove siano giunti non si sa. Gli
anziani raccontano di provenire da
un luogo chiamato Pagaa, probabilmente
nell’attuale Sudan, spinti da
grave fame e carestia. Una cosa è certa:
i samburu sono cugini stretti dei
masai, dai quali si sono staccati, non
sappiamo quando, formando un
gruppo autonomo e omogeneo: entrambi
i popoli sono nilo-camiti, nomadi
e pastori, parlano la stessa lingua,
hanno usi e costumi assai simili.
Il termine in-kishu per i samburu
significa sia «bestiame» che «persona
»: l’identificazione è totale e sacrale,
vivendo in profonda simbiosi,
sul piano esistenziale e psicologico,
soprattutto col bestiame bovino, il
cui latte e sangue giocano un ruolo
essenziale anche nella simbologia religiosa.
Bovini, capre, pecore e qualche
dromedario costituiscono la base
dell’economia, della sussistenza e del
prestigio familiare. Il bestiame fornisce
cibo e pelli, che servono per
fabbricare oggetti di uso domestico
e ricoprire le abitazioni. La quantità,
più della qualità, oltre a costituire
motivo di orgoglio dell’allevatore, è
strategia di sopravvivenza. Le mandrie,
divise in piccoli nuclei, vengono
dislocate in varie zone del territorio:
sull’altopiano e nelle pianure
orientali, dove abbondano corsi
d’acqua e vegetazione forestale, nella
savana delle pianure occidentali e
nel semideserto delle pianure centrali
ed orientali. Con tale dislocamento
i samburu garantiscono la sopravvivenza,
in caso di grave crisi,
come razzie, epidemie, siccità, di almeno
un piccolo nucleo di animali
da cui ricominciare.
Ovviamente, il bestiame costituisce
la base dell’alimentazione. Ma esso
non è visto in funzione della resa di
carne, che viene consumata solo raramente,
in occasioni di celebrazioni
sociali, rituali e familiari. La dieta è
quella classica dei popoli nomadi: il
saroi, cioè latte unito a sangue.
ORGANIZZAZIONE SOCIALE
Il popolo samburu è diviso in otto
grandi famiglie: cinque sono dirette
discendenti di altrettanti progenitori;
tre sono nate da conflitti e divisioni
tribali. All’interno d’ogni clan
esistono varie segmentazioni, che
rafforzano le relazioni personali, legami
di solidarietà e senso di parità.
Elemento portante dell’organizzazione
sociale e politica sono le classi
di età, con funzioni e mansioni specifiche
simili al modellato dei masai.
Nel sistema samburu tali classi sono
sei. Ma poiché ogni classe è racchiusa
nel ciclo di circa 15 anni e si entra
nella prima all’età di 15-20, le classi
più importanti sono quattro, con rari
superstiti della quinta e sesta, vegliardi
quasi ottuagenari e oltre.
La prima classe di età è formata dai
giovani iniziati e circoncisi durante
lo stesso ciclo di 15 anni: essi sono
chiamati moran, cioè guerrieri. La
loro funzione, infatti, è militare: hanno
il diritto e dovere di difendere il
territorio e gli armenti che vi pascolano;
di iniziativa propria passano all’attacco
per battute di caccia contro
animali predatori o per razzie del bestiame
alle popolazioni vicine. Non
hanno potere decisionale, ma i moran
seniori hanno il compito di comunicare
la loro esperienza ai coscritti
più giovani e ai primi gruppi
di iniziati della classe successiva.
«Non c’è classe di circoncisi senza
il proprio nome» dice un proverbio
samburu. Il nome è importante: conferisce
identità a individui e gruppi.
Per questo tutti gli iniziati di un determinato
ciclo ricevono un nome
speciale, che li distingue dalle classi
precedenti: lkishili sono quelli della
classe iniziata nel 1960; lkiroro dal
1975; lmoli dal 1990.
La seconda classe è formata da uomini
sposati o in procinto di sposarsi.
Essi devono badare alla famiglia e
soprattutto accudire al bestiame, la
cui crescita procura prosperità e prestigio
personale e serve ad avere nuove
mogli e figli. La fortuna economica
e familiare toerà utile per acquistare
più autorità nel passaggio
alla classe successiva.
La terza classe possiede il potere
politico e decisionale. È la classe dei
padri: i loro figli sono ormai entrati
nella prima classe, dei moran, e ne
controllano movimenti e attività militari.
Le decisioni vengono prese nei
consigli degli anziani, cui fanno parte
anche i membri delle classi successive.
Essi hanno uguale potere
politico; ma il prestigio e successo
personale possono essere motivo di
maggiore ascolto ed efficacia persuasiva.
Tali consigli sono locali; ma
ci sono occasioni in cui si richiede un
consiglio unico per tutto il territorio.
La quarta classe, insieme ai superstiti
della quinta e sesta, ha funzione
«religiosa». I suoi membri sono i depositari
della tradizione: rappresentano
il legame vivente tra il passato e
l’aldilà. Il loro compito specifico è di
consulenza e sacerdotale: alcuni riti
e cerimonie richiedono la presenza
di almeno uno di loro.
Benché in tale sistema organizzativo
anzianità e vecchiaia siano altamente
rispettate, non si può definire
l’ordinamento samburu una gerontocrazia.
In tale modello, infatti, il
potere e le varie funzioni (militare, economico,
politico e religioso) sono
distribuiti tra tutti i membri in maniera
diffusa e partecipata, sottraendoli
al dominio del singolo capo o di
un gruppo oligarchico.
Le donne, però, sono escluse dalla
vita politica e dal meccanismo delle
classi di età, dal momento che non
sono destinate a restare nel clan.
INIZIAZIONE
Nei primi 15 anni il samburu non
conta nulla: è un nkerai (bambino) o
layeni (ragazzo-pastorello). Ma con
l’iniziazione entra nella maturità.
L’iniziato, dopo essere stato rasato
e fornito di sandali nuovi, coperto da
una pelle di pecora, spalmata dalla
madre con grasso e polvere di carbone,
viene circonciso davanti alla
porta della propria abitazione, con
l’assistenza di un padrino. In genere
il circoncisore non è un samburu. Il
circonciso non deve mostrare paura
né lamentarsi per il dolore: sarebbe
una vergogna per tutta la famiglia.
Dopo la cerimonia il giovane riceve
regali, cibo e, dal padrino, arco e
frecce. Quindi rimarrà a casa per circa
un mese nell’osservanza di restrizioni
rituali; quindi comincerà ad andare
a caccia di uccelli: un’occupazione
di tre mesi chiamata laibartani.
Quindi raggiunge gli armenti lontani
per dedicarsi al pascolo e alla difesa
del bestiame; per una decina
d’anni intrecciano atti di coraggio a
una vita di vanitosi elegantoni.
Ma per diventare un moran il giovane
deve passare attraverso tre stadi,
con relative cerimonie dette lmugit:
sono riti di passaggio obbligatori
e punti fermi dell’educazione
impartita dagli anziani.
Inizia con il lmugit delle frecce (o
uccelli), durante il quale viene ucciso
un bue: di fronte a sua madre, il
giovane giura di non mangiare più
carne in presenza di donne sposate.
Solo da questo momento diventa
moran e può dipingersi il corpo con
l’ocra rossa.
Segue il lmugit del nome, quando
il giovane ha circa 20 anni. Anche
questo rito è accompagnato dal sacrificio
di un bue, ucciso per soffocamento:
esso non deve cadere a terra,
ma tenuto sollevato dai giovani
per i quali la cerimonia è celebrata.
Il bue dovrà essere mangiato interamente
e le ossa bruciate. Il lmugit del
toro, in cui viene ucciso un altro bue,
chiude praticamente il periodo del
«moranato»: il giovane è pronto per
il matrimonio e passa nella seconda
classe di età.
IL MATRIMONIO
Il cerimoniale del matrimonio è
complesso e suggestivo. Le trattative
con la famiglia della sposa sono condotte
dall’interessato, col sostegno
del padre; ma ogni anziano della parentela
patea o matea può mettere
il veto sulla ragazza scelta, minacciando
di maledire i futuri figli.
Oltre agli otto buoi da consegnare
al suocero, lo sposo deve procurare
vari regali per la sposa (due pelli di
capra, due orecchini di rame, un recipiente
per il latte, una pecora) e vari
capi di bestiame per parenti e affini
e da sacrificare per la festa. La
sposa dovrà procurarsi un grembiule
speciale, orecchini, un pezzo di
pelle di leone da legarsi alla gamba,
perline, sandali, un bastone di pianta
detta nkoita.
Per la data delle nozze, la nuova
luna è la più propizia e i giorni pari
i più adatti. Quel giorno, di primo
mattino, la promessa sposa viene
circoncisa (clitoridectomia). Tre
quarti d’ora dopo giunge lo sposo,
accompagnato dal compare e da altri
che sospingono un bue, una vacca
ed una pecora. La madre della
sposa toglie i paletti che ostruiscono
l’entrata della
capanna ed il
bue viene fatto entrare ed è ucciso.
Con tale sacrificio il matrimonio è
validamente ratificato, anche se la
cerimonia è appena iniziata. Seguono
riti complicati per la divisione
della carne del bue; quindi gli anziani
avviano una litania di benedizioni
sul padre della sposa, deponendo
burro sulla sua testa.
Per tutto il giorno si compiono altri
riti e il mattino la sposa deve recarsi
a piedi fino al villaggio dello
sposo. Il viaggio, spesso lungo e penoso
per la donna appena circoncisa,
termina alla manyatta (capanna)
dello sposo; vi entra passando tra
due file di anziani che benedicono
la nuova coppia. Nella nuova capanna
essa accende il fuoco nuovo,
che deve scaturire da due bastoncini
sfregati: il fuoco non dovrà mai
spegnersi finché la nuova famiglia si
trasferirà altrove.
MONDO DEL SACRO
Fulcro delle credenze religiose, attorno
a cui ruotano preghiere, sacrifici
e la stessa vita, è Nkai, Dio
buono e severo contemporaneamente.
Al di sotto di lui c’è una serie
di spiriti custodi, posseduti da ogni
cosa e persona.
Il termine nkai serve per indicare
anche il cielo e la pioggia; ma il concetto
che i samburu hanno della divinità
è molto chiaro: Dio è unico,
onnipotente, onnipresente, provvido,
ecc. In generale, gli attributi lo
descrivono come essere maschile;
ma alcuni lo descrivono come ente
femminile, quando, per esempio, lo
si prega perché sorregga l’uomo, come
una mamma sostiene i suoi bimbi.
Anche se gli attribuiscono forme
antropomorfiche, i samburu
rifuggono dal compararlo agli uomini:
Nkai è Nkai, dicono.
Benché Dio sia dappertutto, alcuni
luoghi, densi di fascino e meraviglia,
sono ritenuti privilegiati dalla
presenza divina, come i monti Ng’iro,
Marsabit e Kulal, oppure grosse
piante, cave, sorgenti d’acqua. Luoghi
sacri in cui si svolgono i riti più
importanti della vita.
Oltre alle preghiere quotidiane in
cui, in modo assai spontaneo, si invoca
Dio per le necessità dell’etnia,
clan, famiglia o individuo, i samburu
esprimono il loro culto mediante il
sacrificio. Un tempo avevano il lasar,
sacrificio di offerta. Oggi, il sorio, sacrificio
di ringraziamento, è l’atto di
culto fondamentale: ricorre due volte
all’anno. Lo si celebra di sera in ogni
gruppo di capanne e consiste nell’offerta
di una pecora nera, grassa,
non ancora incinta. La carne viene
arrostita e mangiata: la parte destra
dagli uomini e la sinistra dalle donne.
Il sangue, mescolato con l’interno
dello stomaco, viene spalmato
sulle capanne e sugli animali.
Contrapposto a Dio buono, i samburu
credono in uno spirito maligno
chiamato Milika, pressappoco il nostro
demonio.
Al pari di altre etnie africane, anche
i samburu hanno la figura del
mago-guaritore (loiboni), a cui si ricorre
in caso di malattia inguaribile,
sterilità, peste del bestiame, prima di
affrontare il nemico… È retribuito
con buoi e montoni. I suoi strumenti
sono sassolini, cianfrusaglie e radici
contenute in zucchette.
È un personaggio temuto da tutti
e di cui non si parla volentieri. Dal
canto suo, il mago-guaritore non
ama mostrarsi in giro. Egli trasmette
il suo mestiere al figlio più abile,
insegnandogli i segreti di erbe e veleni.
Quando muore viene sepolto
sotto un mucchio di sassi.
Un altro importante personaggio
è il laidetidetani, indovino o sognatore.
Suo compito è interpretare i sogni,
conoscere le stelle, prevedere
l’arrivo della pioggia. Il lais, invece,
è un personaggio dotato del potere
di ritrovare cose perdute, portare
fortuna o iella. Da costui i samburu
stanno volentieri alla larga.
LA MORTE
Anche la morte ha il suo cerimoniale.
In genere i morti non sono seppelliti,
eccetto i personaggi molto anziani
e rinomati e i bimbi di pochi
mesi; questi sono sepolti presso il
fuoco nella capanna, che viene poi
abbandonata. Per questo l’anziano
samburu, quando sente la morte vicina,
prega così: «Dio, fammi un vero
lookop: non permettere che l’erba
mi mangi». Chiede, cioè, di morire
nel suo clan e non lontano dal villaggio;
di avere una sepoltura onorevole
e una tomba riconoscibile, non coperta
dall’anonimato della savana; di
essere sepolto con la faccia rivolta alla
montagna sacra, sede di Dio.
In tal caso, il morto, rasato, viene
adagiato sulla pelle su cui dormiva e
sistemato in modo che la sua faccia
sia rivolta verso la montagna. La
gente deporrà rami intorno dicendo:
«Dormi da solo!». Il luogo verrà ricordato
per un po’ di tempo; chiunque
passerà accanto alla tomba vi
getterà un ramo verde.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros – Virgilio
Pante – Egidio Pedenzini, Proverbi Samburu,
Emi, Bologna (in samburu, inglese
e italiano).
RENDILLE
cultura del cammello
Lo chiamano harab lanugseli,
letteralmente «succhiarsi la
lingua». È un rito che si compie
alla nascita d’un bambino e si
svolge in questo modo: raccolti insieme
otto oggetti tipici del clan, un
uomo picchia leggermente il neonato
ripetute volte; poi altri uomini del
clan sputano sugli stessi oggetti e li
passano sulle labbra del neonato; infine
ognuno gli sputa sulla bocca
gridando: «Idei aleh!», sii come me.
La cerimonia serve a controllare il
potere delle maledizioni (ibire), che
per i rendille sono una cosa seria: ogni
clan ha le sue; vengono tramandate
da una generazione all’altra. Sono
credute e temute anche dai popoli
vicini: qualsiasi cosa strana possa
capitare l’attribuiscono a una maledizione
dei rendille, che spesso sono
invitati a pregare per togliere la iella.
«T’AMO… PIO CAMMELLO»
Circa 600 anni fa, gli antenati dei
rendille vivevano in Somalia: facevano
parte di uno stesso gruppo etnico
cuscita e parlavano la stessa lingua.
Fin d’allora elaborarono una cultura
ruotante attorno al cammello e determinati
riti per ottenere benessere
per sé e per gli animali, seguendo un
duplice calendario, solare e lunare.
Poi l’espansione degli oromo avviò
un grande movimento migratorio
verso sud e ovest, provocando una
differenziazione progressiva e dando
origine agli attuali somali, sakuye,
gabbra, rendille.
Tra i nuovi gruppi etnici, i rendille
sono quelli che si sono spostati più
a sud e hanno mantenuto lingua e
cultura più intatte. Oggi, sono circa
36 mila e vivono nella zona semidesertica
del distretto di Marsabit, circondati
a est dai borana, a nord dai
gabbra, con i quali si guardano in cagnesco
da qualche decennio, a est e
sud dai samburu.
Con questi ultimi, invece, le relazioni
sono ottime. La delimitazione
territoriale è molto elastica, per cui i
samburu entrano nella terra rendille
e viceversa. Pur mantenendo la propria
identità, la vicinanza dei gruppi
ha favorito mutui scambi di elementi
culturali: i rendille imitano gli oamenti
maschili e femminili dei
samburu e hanno metabolizzato varie
cerimonie di iniziazione.
Gelosi della propria identità, i rendille
si definiscono «proprietari di
cammelli»: ma allevano pure bovini,
ovini, caprini e pochi asini. Dal bestiame,
eccetto gli asini (usati solo
come bestie da soma) proviene il cibo,
sotto forma di latte, sangue e raramente
carne; la pelle è adatta a
molteplici usi. Il bestiame compare
nelle feste religiose e profane ed è
motivo d’orgoglio e prestigio per il
proprietario, il cui peso sociale e politico
è determinato dalla grandezza
delle mandrie.
Il cammello, soprattutto, gioca un
ruolo importante nella vita economica
rendille: esso è utilizzato per il
trasporto di attrezzi e strutture degli
accampamenti verso nuove terre da
pasto; o per trasportare l’acqua da
pozzi lontani. Un servizio inestimabile
se si tiene conto che l’animale
può portare fino a 90 chili di peso,
percorrendo 40 km per 6-8 ore al
giorno. Inoltre può restare senza bere
per 10-14 giorni.
CASA MIA, CASA MIA!
La pastorizia è attività comune a
uomini e donne, dall’infanzia al matrimonio;
in seguito le mansioni vengono
distinte: l’uomo l’abbandona
gradualmente per avvicinarsi alla vita
politica e la donna si dedica ai lavori
domestici, tra cui l’approvvigionamento
d’acqua, legna da ardere e
periodica costruzione della casa.
Trenta abitazioni in media formano
un villaggio, che non ha una collocazione
territoriale stabile; ma, secondo
esigenze igieniche e di pascolo,
viene smontato e ricomposto
altrove, rispettando la consuetudine:
la casa del capo al centro e tutte le altre
intorno, in ordine d’importanza
decrescente verso la periferia.
Una siepe di rami spinosi circonda
sempre l’abitato, entro il quale sono
disposti i recinti per il bestiame e
si aprono alcuni spazi che la gente utilizza,
di tanto in tanto, per eseguire
danze o canti corali.
Sotto un albero frondoso, accanto
al villaggio, si riunisce quotidianamente
il consiglio di anziani, per esaminare
i problemi inerenti alla vita
pubblica ed esercitare funzioni di
corte giudiziale, quando occorre.
Ogni famiglia tiene attorno all’accampamento
un piccolo numero di
cammelle, dalle quali le donne mungono
il latte per il fabbisogno quotidiano.
Le mandrie, invece, pascolano
lontano: ragazzi e guerrieri custodiscono
cammelli e bovini; ragazze e
donne non sposate capre e pecore.
I rendille vivono quasi in simbiosi
con il proprio bestiame, legati da vincoli
sacrali; ciò si manifesta soprattutto
durante le lunghe abbeverate:
i pastori, soprattutto le ragazze, chiamano
le bestie per nome, parlano loro
come si fa tra amici; ne cantano le
lodi e ne esaltano le qualità, quasi
fossero membri di famiglia.
Diversamente da molte società africane,
la donna rendille gode di
grande rispetto e considerazione: la
casa è territorio femminile e il marito
non ci mette il becco. Se un uomo
vuole parlare privatamente con altri
uomini, non può mandare via la moglie:
è lui che deve andarsene in un
posto dove non ci sono altre case,
oppure mandare gentilmente la consorte
a fare una commissione. Se un
matrimonio si rompe e non ci sono
figli, la casa rimane alla moglie per
sempre, anche se la rottura avviene
durante le trattative per le nozze.
UNA SPOSA PER 8 CAMMELLI
Due sono i capisaldi dell’organizzazione
sociale e politica dei rendille:
la divisione in 9 clan patrilineari
ed esogamici e il sistema delle classi
d’età. I clan di grandi dimensioni sono
ramificati in varie sezioni; clan e
sezioni sono dispersi in numerosi villaggi
che accolgono, oltre la famiglia,
un certo numero di forestieri.
Ogni clan è caratterizzato da notevole
coesione intea e si distingue
dagli altri per alcuni poteri rituali e
costumi propri. Tra i nove clan ne emergono
due: l’uno è detentore del
potere politico; l’altro di quello religioso,
i cui capi hanno carica ereditaria
e sono riconosciuti come tali da
tutti i rendille.
Le classi d’età conferiscono uguali
diritti e doveri a tutti gli uomini appartenenti
alla stessa leva. La formazione
di una classe ha luogo quasi
contemporaneamente in ogni villaggio
e comporta l’iniziazione di tutti i
giovani il cui padre appartiene alla
terza classe d’età.
In tale circostanza, i candidati, riuniti
in gruppo, sono circoncisi e, subito
dopo, ricevono in dono alcuni
capi di bestiame dai parenti più prossimi.
Durante la cerimonia gli iniziandi
eseguono canti e danze particolari,
che non ripeteranno più per
tutta la vita. Ai festeggiamenti segue
un periodo di reclusione in una capanna
comune appositamente costruita,
in attesa della completa guarigione.
Poi iniziano a svolgere le
mansioni proprie del grado d’età: pascolo
e attività di guerra.
Passati 12 anni, i «guerrieri» possono
sposarsi. Il matrimonio non si
concretizza in un momento particolare,
ma è un processo che avviene
per gradi: una serie di incontri tra i
padri dei futuri sposi stabilisce l’ammontare
della ricchezza della sposa
(in media 8 cammelli); i festeggiamenti
iniziano con la circoncisione
della moglie e durano diversi giorni.
La celebrazione interessa contemporaneamente
diverse coppie della stessa
leva (vedi riquadro).
Col formarsi di una nuova classe,
ogni 14 anni, i guerrieri passano allo
status di anziani, abbandonano le armi
e si dedicano alla famiglia e bestiame.
Successivi passaggi conferiscono
loro prestigio crescente, fino al
grado più alto, il sesto, difficilmente
raggiungibile: i superstiti diventano i
saggi custodi della tradizione.
SENZA ALDILÀ
I rendille credono in un Dio identificato
col cielo, creatore d’ogni cosa
visibile, capace d’influire sugli eventi
terreni, fenomeni naturali e vita
di ciascun individuo.
Il culto, per il quale non esistono
luoghi specifici, si avvale della preghiera,
a volte associata a sacrifici animali
e offerte di latte. L’attività sacerdotale
è svolta occasionalmente
dal padre e quotidianamente da un
anziano che funge da coreuta nelle
preghiere corali del mattino e della
sera.
Viene attribuita notevole importanza
ai cicli lunari e, ogni prima notte
di luna nuova, il «ritorno della luce» è festeggiato dalle donne con apposite
danze.
Non vi è credenza nella vita ultraterrena
e la morte viene spiegata come
un riappropriarsi della vita da
parte di Dio. Subito dopo il decesso,
il capo del defunto viene rasato e il
corpo cosparso di grasso; poi, a sepoltura
avvenuta, la tomba è coperta
da un mucchio di pietre, sulle quali
i parenti di passaggio versano un
po’ di latte in segno di benedizione
e posano qualche foglia di tabacco.
CAPRO ESPIATORIO
TURKANA
orgogliosi di vivere all’«inferno»
«Imigliori guerrieri dell’Africa
orientale; eccezionalmente
impavidi; con una fama di estremo
e rapace eroismo»: così hanno
definito i turkana gli amministratori
coloniali del passato. I primi incontri
non sono incoraggianti, scrive
un missionario che da anni vive insieme
a loro: sono «chiusi, un po’ rozzi
e grossolani, privi delle grazie della
società; impulsivi e attaccabrighe;
fieramente indipendenti, orgogliosi,
arroganti, ma anche giorniosi e felici; ispirano
forti emozioni: chi lavora tra
loro o li ama o li odia; spesso tutte e
due le cose insieme».
Ma è grazie a tale aggressività o reputazione
di essere tali, che sono tanto
numerosi e riescono a vivere in un
ambiente lunare.
SEGUENDO UN BUE RIBELLE
Il nome turkana (*) non dice molto:
forse deriva da aturkan (grotta,
cavea), da cui ngaturkana: uomini
delle cavee. Qualcosa in più si può
ricavare dai loro scarsi miti delle origini.
Inizialmente esisteva il gruppo
etnico dei karamojong: 500 anni fa,
questi emigrarono dall’Etiopia nel
Sudan, per poi ripiegare verso sud,
dividendosi in gruppi autonomi e
prendendo nomi propri: jie, dodos,
turkana, jiye, toposa, teso, donyiro,
kuman. I vecchi raccontano che queste
popolazioni «erano un tempo un
solo territorio, un solo popolo, una
sola famiglia».
Gli etnologi definiscono a grandi
linee questi gruppi come «nilo-camiti
» o «nilotici cuscitizzati». Di fatto,
la loro lingua affonda le radici
nell’intricato sottobosco nilotico, ma
sangue e cultura hanno i colori dei
popoli di lingua camitica (cuscita).
Per quanto riguarda i turkana,
un’antica leggenda narra che essi si
chiamavano jie; ma un giorno si separarono
da essi, seguendo le orme
di un bue capriccioso che, fuggendo,
si tirò dietro molta gente: da quel
momento essa si chiamò turkana; avanzò
verso sud e, sgomitando, assimilando
o cacciando le popolazioni
arrivate prima, diede il proprio nome
alla terra occupata: Turkwen, terra
dei turkana. Il contatto con altre
popolazioni ha arricchito la formazione
delle loro mandrie: ai soliti bovini
hanno aggiunto capre, pecore,
cammelli e asini.
HABITAT INFERNALE
Il Turkwen o, come viene chiamato
dall’amministrazione statale, Distretto
Turkana, misura oltre 61.000
kmq e si trova nella Great Rift Valley:
una lunga fossa a circa 600 metri
s.l.m., caratterizzata da pianure
sabbiose, blocchi rocciosi di 300-400
metri e catene di colline e montagne
di origine vulcanica alte fino a 1.600
metri.
La temperatura minima si ferma a
24° e la massima può raggiungere i
42° nei mesi di gennaio-marzo. Le
precipitazioni sono scarse e imprevedibili,
anche se i turkana continuano
a dividere l’anno in akiporo
(stagione delle piogge, aprile-agosto)
e akamu (stagione secca, settembremarzo).
Nel nord cade 100-300 mm
di pioggia l’anno; nel sud 300-800;
nel centro e nell’est non piove quasi
mai. Turkwell e Kerio sono i fiumi
principali; altri corsi d’acqua stagionali
non sono altro che letti di sabbia,
pietre e detriti. La vegetazione è
quella tipica della savana: acacie spinose,
cactus, sisal, palma dum, specie
lungo i corsi d’acqua, e cespugli
spinosi qua e là tra sassi e sabbia.
In tale ambiente infeale, nulla è
dato gratuitamente; tutto ciò che si
ha, o si vuole avere, deve essere faticosamente
conquistato e difeso, aggredito
e vinto. Altrimenti si soccombe.
Qui i turkana hanno sviluppato
carattere e cultura, orgogliosi
del proprio isolamento, accresciuto
dalla fama di guerrieri spietati che si
portano addosso.
Da sempre, infatti, essi compiono
razzie di bestiame: fa parte del loro
sistema economico, giustificato da
un mito tramandato da una generazione
all’altra: Dio ha dato ai loro antenati,
e solo a loro, tutto il bestiame
domestico esistente nel mondo; per
cui, razziare il bestiame altrui non è
pelle, abbellite da teorie di perline
multicolori.
Famosi sono i fabbri turkana: estraggono
il ferro da una roccia speciale
e modellano armi e utensili. Oltre
alle classiche lance e frecce dei
popoli nomadi, essi fabbricano il
micidiale bracciale: infilato al polso
e coperto da una sottile guaizione
di cuoio, sembra un oamento; ma
liberato da essa, svela il suo vero scopo:
è un’arma che non lascia scampo.
Caratteristici sono pure i loro
bastoni da combattimento: sembrano
comuni canne decorate; ma dovunque
colpiscono le decorazioni
lasciano il segno.
Nei loro oamenti, donne e uomini
rivelano un vasto campionario
d’inventiva, gusti, significati suggestivi
e altro. Le fogge dei capelli
sono totalmente differenti
da quelle samburu;
collane, orecchini, pendenti
e altri oamenti
femminili distinguono le
nubili dalle sposate e indicano
differenti situazioni
familiari: nascite e
lutti, vedovanza e lontananza
del marito. Oltre
alla perforazione dell’orecchio,
è praticata
quella del labbro inferiore,
per inserirvi un
monile metallico.
Armi, utensili, oamenti
e oggetti artigianali
hanno per la gente
un valore puramente
pratico, senza escludere
quello estetico; ma
da quando i bianchi
hanno cominciato ad
apprezzarli come souvenir
turistici, i turkana
hanno fatto un balzo
nell’adattamento alla
«civiltà industriale».
SOCIETÀ DEL BESTIAME
L’intera etnia turkana è divisa in 12
clan, con usi e rituali propri, e 25 sezioni
sparse in tutto il distretto, con
regole esogamiche. Tutti i maschi sono
divisi in due grandi gruppi: ngimoru
(pietre) e ngirisae (leopardi),
distinguibili da segni decorativi in
occasione di feste. L’appartenenza è
alternata tra padre e figli: se il padre
è ngimoru, i figli saranno ngirisae e
viceversa. Col matrimonio le donne
entrano nel clan e gruppo del marito.
Ma clan, sezioni e gruppi non rivestono
particolare significato sul
piano socio-economico, poiché non
posseggono bestiame proprio.
Cuore e centro del sistema sociale
turkana è l’ekal, famiglia estesa:
un nucleo indipendente,
economicamente autosufficiente
e geograficamente
distinun
crimine, ma significa semplicemente
riprendersi ciò che è proprio
per diritto divino e primordiale.
Se a tale giustificazione si aggiunge
il prestigio di uccidere uno o più
nemici, ostentato con speciali decorazioni
e cicatrici sul petto, si comprende
come i turkana si siano guadagnati
la fama di guerrieri coraggiosi
e sanguinari; anche se negli
ultimi anni si sono dati una calmata,
sia per convinzione, sia perché le popolazioni
circostanti si sono rifoite
di armi da fuoco (vedi riquadro).
ADATTARSI O SPARIRE
Dote fondamentale dei turkana,
modellata dalle difficoltà ambientali,
è il grande spirito di adattamento.
Pur conservando vari usi e costumi
del gruppo originario karamojongjie
(modi di vestire, decorazioni e
fogge di capelli, rituali e tipi di alleanze),
i turkana hanno abbandonato
tante pratiche classiche dei popoli
nilotici, come la circoncisione
sia maschile che femminile; le classi
di età, l’importanza dell’autorità degli
anziani e della divisione clanica.
Il rapporto con il bestiame, soprattutto,
è essenzialmente pratico, ben
lontano dalla simbiosi psicologicasacrale
dei samburu.
Quando, per motivi di sopravvivenza,
migrano nelle città o altri territori
tribali, i turkana accettano di
ripristinare la circoncisione o adottano
le tradizioni del nuovo habitat.
Unici tra i pastori nomadi, i turkana
non si vergognano di «piegare la
schiena» per zappare e coltivare la
terra, appena le rare piogge ne offrono
l’opportunità, né di avvantaggiarsi
d’ogni cosa commestibile: uova,
pesce, pollame e carne di animali selvatici,
cibi rigorosamente tabù per le
altre popolazioni pastorali. Fanno eccezione
le cai di cane e iena.
Poiché le difficoltà aguzzano il cervello,
i turkana hanno imparato a usare
tutte le risorse offerte da un ambiente
ostile. Legno, pelli, cuoio, avorio,
metalli, zucche, semi, ossa,
coa, zoccoli, unghie, piume ecc….
nulla è buttato, ma trasformato in utensili,
oamenti e altri oggetti di artigianato.
Solo la tessitura non è praticata,
per mancanza di fibre vegetali.
In compenso, le donne sono abili
nel lavorare il cuoio, con cui confezionano
caratteristiche sottane di
to, formato da padre, moglie (o mogli),
figlie non sposate e figli con relative
mogli e prole; ma può essere estesa
a parenti e affini. Il padre è padrone
assoluto (ekapolon) del
bestiame, che non sarà spartito tra i
figli fino a quando egli è in vita.
Nella vita quotidiana sono importanti
i rapporti di vicinato: differenti
ekal possono aggregarsi, formando
un villaggio sparso, in una comune
area di pascolo, per aiutarsi a
vicenda nella ricerca di acqua, custodia
del bestiame e assistenza reciproca
in ogni eventualità.
Nel vicinato si realizza l’organizzazione
politica dei turkana, dando
vita a un microcosmo di consigli di
anziani, con potere decisionale circa
la soluzione dei problemi che emergono
dalla vita quotidiana. Tali consigli
non sono stabili, poiché un ekapolon
può emigrare dal villaggio in
qualsiasi momento verso altre zone
di pascolo e non incontrare più i vicini
per tutta la vita.
Altra importante struttura organizzativa
è la «società del bestiame»:
è un’alleanza tra uomini discendenti
dallo stesso antenato, parenti, affini
e amici, con l’impegno di procurare,
dare o ricevere animali quando
uno dei soci ha perduto il bestiame
o si trova in qualche grave necessità,
come il matrimonio.
MA QUANTO MI COSTI!
Più delle strutture, sono gli eventi
della vita a ricoprire un ruolo importante
nella vita turkana: iniziazione
e matrimonio, nascita di un figlio
e morte dell’ekapolon.
Bambini e ragazzi hanno il compito
di pascolare e difendere il bestiame
dell’ekal fino al giorno dell’iniziazione
(esapan). Questa avviene all’età
di 15-20 anni, con un gruppo
consistente di candidati, nella stagione
umida, quando il cibo abbonda.
Il rituale è ridotto all’osso: abolita
la circoncisione, esso consiste nel
«sacrificio dell’esapan»: a tuo gli iniziandi
devono uccidere un animale
(toro o caprone) con un colpo di
lancia preciso, per dimostrare la
propria forza e abilità. Poi gli anziani
li spalmano con il contenuto dello
stomaco della vittima e spruzzano
su di loro saliva e acqua, simbolo
di vita e di benedizione.
I rituali proseguono con festeggiamenti e abbuffate di carne. Infine
ogni giovane si reca dal padrino che,
dopo avergli trasmesso il bagaglio
morale, le tradizioni dell’etnia e acconciato
la capigliatura, gli consegna
il necessario di un autentico turkana:
lancia, clava, poggia-testa, braccialecoltello,
anello, sandali nuovi. Ora il
giovane è diventato un guerriero: deve
respingere i nemici, condurre la
mandria in pascoli lontani e partecipare
alle razzie.
Verso i 30 anni, il giovane può sposarsi
e così raggiunge un secondo
grado di maturità. Ma è un processo
lungo e complesso.
Iniziato il corteggiamento e ottenuto
il consenso della ragazza, in genere
ancora adolescente, il giovane
deve ottenere l’approvazione del padre.
Se esso è positivo, il genitore si
reca con gli anziani alla casa della famiglia
della sposa e avvia il contratto
matrimoniale.
È questo il punto cruciale, dove la
«società del bestiame» si rivela provvidenziale.
Il prezzo della sposa, infatti,
può raggiungere i 40-50 capi di
bovini e cammelli, 100-150 di pecore
e capre, un discreto numero di asini
e beni di uso immediato (coperte,
tè, zucchero, tabacco). Domanda
e offerta subiscono sconti durante la
contrattazione; ma la somma rimane
sempre alta; e non è scontato che il
padre sia disposto a sborsarla, specie
se vuole procurarsi un’altra moglie:
da qui la necessità di rivolgersi a zii,
affini e amici.
Raggiunto l’accordo tra le due famiglie
sul prezzo da sborsare, lo sposo
chiama alcuni amici e rapisce la
ragazza. La sposa è consenziente, naturalmente;
ma il rapimento deve avvenire
col maggiore baccano possibile:
la ragazza grida e si divincola
per mostrare l’attaccamento ai genitori;
i rapitori devono fare apparire
che si tratta di un bottino di razzia,
tanto per non smentire la propria fama.
A colpo fatto, gli anziani benedicono
gli sposi, che cominciano a
convivere.
Riprendono le trattative tra le due
famiglie per la consegna del bestiame,
che generalmente viene fatta a rate.
La prima deve essere la più consistente,
perché i parenti della sposa
acconsentano alla cerimonia definitiva:
l’uccisione del bue. Con questa
cerimonia viene sancita la legittimità
del matrimonio a tutti gli effetti, anche
se il pagamento delle altre rate
durerà molti anni o tutta la vita.
RELIGIONE… INTERESSATA
I turkana hanno la certezza di un
Dio chiamato Akuj (cielo): benevolo,
onnipotente, unico (senza mogli
e figli), onnisciente… ma è alquanto
lontano. Presente al tempo delle origini,
non si interessa troppo delle
faccende umane, pur rimanendo
sempre sorgente della vita e del destino
di ogni essere. A volte Dio comunica,
attraverso il sogno, in vista
di necessità collettive, mediante uomini
scelti, come l’emuron, personaggio
fondamentale nella società
turkana, che riveste il ruolo di sacerdote,
mago, medico e divinatore.
I turkana si avvicinano ad Akuj ed
esprimono la loro dipendenza, seppure
raramente, con preghiere e sacrifici,
in caso di calamità collettive,
malattia di anziani e altre circostanze
dettate dalla tradizione. Si ha il
«sacrificio per la pioggia», con l’uccisione
di un bue in caso di siccità
prolungata; si sacrifica un toro (o caprone)
al rientro del bestiame dalle
alture o per scongiurare la moria degli
animali.
Oggetto della preghiera, guidata
dagli anziani o dall’emuron, sono
realtà concrete: pioggia, acqua, cibo,
aumento di figli e bestiame, salute
delle persone; ma anche pace, armonia,
concordia tra gli anziani.
Inoltre, l’universo turkana è popolato
da entità benevoli o malevoli,
da un gran numero di spiriti della
natura e spiriti dei morti. La loro potenza
è limitata, ma è sempre meglio
tenerli a bada con una serie di rituali,
formule di scongiuro, amuleti e talismani,
piccoli gesti di rispetto: un
pizzico di tabacco, libagioni di latte
e acqua.
Infine, accanto all’azione di Akuj
e degli spiriti, i turkana credono in
realtà soprannaturali impersonali,
controllabili dagli specialisti: maghi
e indovini, possessori di poteri positivi
o distruttivi. Ne esistono parecchi,
ma il più popolare, stimato e temuto,
è l’emuron, spesso molto ricco,
grazie al contributo in bestiame
che riceve per le sue prestazioni.
Personaggio caratteristico, presente
in quasi tutti i villaggi, è il «lanciatore
dei sandali»: dalla posizione che
tali aesi assumono in volo e nella ricaduta,
egli diagnostica le cause di
un’anomalia e dà la risposta al problema
che gli viene presentato.
(*) Cfr. anche: Achille Da Ros,
Noi, i Turkana, Emi, Bologna, 1994.
PASSARE TRA LE DITA
EL MOLO
quei «poveri diavoli»
Fisico malsano, endemica debolezza
ossea, labbra macchiate,
denti scoloriti… una trentina di
anni fa gli el molo contavano un centinaio
d’individui, destinati a scomparire
per carenze alimentari e matrimoni
tra consanguinei. Apatia e sregolatezza
facevano il resto: sembrava
che la gente avesse deciso di darsi alla
pazza gioia prima di sparire.
Con la fondazione della missione
di Loyangallani, le cose cominciarono
a cambiare sia dal lato umano che
morale: medicine, igiene e aiuti alimentari
fermarono la moria; i matrimoni
con turkana e samburu hanno
portato un ricambio di sangue e, in
pochi anni, gli el molo sono più che
raddoppiati.
INSEGUITI DALLA SFORTUNA
Per molto tempo gli el molo sono
stati denominati, anche nei censimenti
ufficiali, come ndorobo o dorobo,
storpiatura europea di il torobo,
poveracci: nomignolo con cui i
maasai indicavano una ventina di
gruppetti etnici, el molo compresi,
sprovvisti di armenti e costretti ad arrangiarsi
con altre attività, come caccia
e pesca. La loro vita e attività giornaliera
non potevano essere descritte
con una parola più significativa.
Probabilmente anche il termine
cuscita el molo (o ol molo) significa
la stessa cosa: «pescatori del lago».
Recenti studi etnologici, infatti, li
classificano tra i cusciti e non più nilo-
camiti, come erano ritenuti fino a
pochi anni orsono. Si tratta infatti di
un gruppo cuscita orientale che,
spinto dai somali 500 anni fa, raggiunse
l’estremo nord del Kenya e si
stabilirono lungo la sponda orientale
del lago Turkana.
Attacchi, vessazioni e persecuzioni
da parte di altre etnie circonvicine
continuarono a restringere il loro territorio,
cacciandoli sempre più a sud
e costringendoli a trovare scampo su
minuscole isole. Finché la piccola comunità
sopravvissuta, ritoò a costruire
i loro villaggetti sulla terra ferma,
di fronte alla cosiddetta «isola
delle capre» o più realisticamente «isola
del non ritorno».
Più dei feroci predatori di un
tempo, sembra che sia la natura
ad accanirsi contro gli el
molo. Tutto il territorio, dove
la precipitazione annua
non supera i 50-60 mm,
non offre che pietrame,
con pochi cespugli spinosi
e palme dum. Pur
mitigato da venti che soffiano
notte e giorno, il caldo
raggiunge e supera facilmente
i 45°. Anche per le capre
diventa ardua fatica trovare
qualcosa da brucare. E se le piogge
falliscono, allora è tragedia per gli
animali e per la gente tutta.
Da quando si è cominciato a misurare
regolarmente il livello del lago
Turkana, si è scoperto che esso scende
di 30 cm l’anno: fenomeno preoccupante
per il futuro degli el molo.
ADDIO CULTURA ANTICA
Oggi essi costituiscono una delle
più esigue etnie del Kenya. Secondo
etnologi e missionari, gli el molo puro
sangue sarebbero una quarantina;
quelli con sangue turkana e samburu
oltre 200 individui.
Mescolanza di sangue e contatti
con altre etnie hanno provocato un
processo di acculturazione, specialmente
tra i giovani, in cui è difficile
distinguere gli usi e costumi originari.
Pochi anziani conoscono la lingua
el molo; mentre la gioventù è passata
al samburu o turkana e non capisce
più neppure i canti tradizionali.
I guerrieri samburu, soprattutto,
hanno affascinato i giovani el molo,
almeno nel passato, arruolandosi
nelle loro classi di età e tingendo la
capigliatura con ocra rossa.
Da questa stessa etnia sono copiati
vestiti e abbigliamenti femminili.
Oamenti originali delle ragazze sono
costituiti da dischetti di guscio
d’uovo di struzzo, oppure da rozzi
monili di spine e pinne di pesce. A
volte si fanno collanine di conchiglie,
alle quali è legato un valore sacrale.
Unico capo di vestiario che resiste
è il selah: una specie di gonna aperta
ai fianchi, fatta di funicelle attorcigliate,
indossata da donne e ragazze
specie quando vanno a pescare.
Gli uomini, invece, seguono la moda
turkana, sia nel vestire che nell’acconciatura
dei capelli: parrucca
fatta con peli e pelle di vacca o piume
di struzzo.
CACCIA… A DIO IPPOPOTAMO
Quella degli el molo è essenzialmente
una vita di pescatori: sono abilissimi
nell’uso di arpioni, lenze e
reti o nasse, quanto coraggiosi nello
sfidare le onde del lago, a volte gigantesche,
con una zattera composta
da due tronchi di palma dum, legati
insieme da corde vegetali.
L’arpione è la loro unica arma tipica:
è fatto di un pezzo di ferro, a
cui è fissata una corda vegetale, che
permette di recuperare l’aese e tirare
la preda verso la zattera. Il lungo
manico è ricavato dalla radice di
acacia, raccolta in luoghi esenti da
tabù. D’uso comune sono le reti fatte
con fibre della solita palma dum,
come pure quelle europee, nonché
un tipo di nassa che essi chiamano
«rete dei turkana».
Naturalmente la dieta degli el molo
è basata essenzialmente sul consumo
di pesce, soprattutto pesce
persico e tilapia. Coccodrilli, tartarughe
e ippopotami procurano a volte
un apprezzatissimo cambio nel
menù. Il pesce è di solito arrostito sul
fuoco, oppure viene tagliato a strisce
ed essiccato al sole, per poi essere
rammollito in acqua e bollito in pentolini
di recupero.
Il dattero di palma e bacche di
sokotei costituiscono il secondo nutrimento,
specie per i giovani. Marginale
è il consumo di latte, fornito
dalla modesta quantità di bestiame,
allevato per scambi matrimoniali.
La carne d’ippopotamo è considerata
nutrimento di prima classe e,
quando ne sentono il bisogno, gli el
molo organizzano tutti insieme battute
di caccia in grande stile. È sempre
un’impresa pericolosa, rivestita
di senso mitico: l’ippopotamo è considerato
quasi una divinità, un dio
che dona la sua stessa vita per la buona
salute del «popolo del lago».
L’ippopotamo è al centro di una
speciale cerimonia, detta ngwere, celebrata
ogni due o tre anni a Moite,
65 km dagli usuali accampamenti. In
tale festa vengono ricordati gli antenati
con danze e canti, accompagnati
dallo sbattere di due bastoncini. Il
capo gruppo spiega le parole dei
canti, dato che pochi ormai conoscono
la lingua.
Quando viene aperta la caccia al
pachiderma, i giovanotti vengono
frustati dai vecchi, per stimolarli alla
ricerca dell’animale. Una volta localizzato,
il giovane prescelto deve
lanciarglisi contro con coraggio, se
non vuole buscarsi altre frustate.
L’uccisore dell’ippopotamo diventa
una persona tabù: per tutta la durata
della cerimonia non potrà cibarsi
della carne della vittima; in compenso
è acclamato come eroe della festa
e avrà diritto a fregiarsi di un amuleto
fatto di osso dell’animale, appeso
al lobo dell’orecchio.
VITA SOCIALE
Punti fondamentali della vita sociale
degli el molo sono la circoncisione
maschile e femminile. Quest’ultima
avviene lo stesso giorno del
matrimonio, come tra i samburu, dai
quali probabilmente hanno copiato
il rito.
Una volta, la dote, versata dallo
sposo al suocero o alla parentela della
sposa, ammontava a quattro pali
di palma dum per costruire la zattera,
un arpione da pesca e una rete di
funicelle; attualmente, da quando
sono permessi i matrimoni con
turkana o samburu, tale pagamento
consiste in qualche mucca e capra.
Alla sposa, poi, il giorno del matrimonio,
viene dato un nuovo nome
da parte del marito.
Compito dell’uomo è badare alla
pesca e al pascolo, per chi possiede
bestiame. La donna si occupa della
costruzione della capanna, cura dei
figli, provviste di acqua e quant’altro
concee la misera cucina.
La società el molo è acefala, anche
se si pratica un certo rispetto per
l’anziano, eminente per doti umane
e sacrali.
Ogni nascita è salutata da preghiere
a Wacq (Dio), nell’ambito della
famiglia, senza partecipazione del
clan. A differenza di altri popoli, gli
el molo accettano con gioia i parti gemellari.
La morte è considerata un ritorno
presso Wacq. Gli adulti vengono
sepolti fuori del villaggio, vicino
al lago, e il tumulo è ricoperto di
pietre. Poi tutto il villaggio si sposta
dal luogo dove sorgeva.
GABBRA
pace, pioggia e lunga vita
Pelle color rame, corpi longilinei
e volto dai lineamenti asciutti e
fini non lasciano dubbi: i gabbra
(*) sono uno dei tanti gruppi cusciti
della grande famiglia oromo (Etiopia),
con i quali condividono lingua
e cultura pastorale. Dai somali
hanno attinto elementi arabo-musulmani
e la predilezione per i cammelli,
che assumono rilevante importanza
economica, sociale e rituale.
Abitano a cavallo del Kenya ed Etiopia.
La zona kenyana (35.000
kmq) si estende dalla sponda orientale
del lago Turkana fino al centro abitato
di Marsabit ed è popolata da
oltre 25 mila gabbra, 36 mila cammelli,
9 mila bovini e 360 mila tra pecore
e capre.
VAI DOVE TI PORTA IL VENTO
Il territorio dei gabbra è un immenso
tavolato dove steppe e savane,
disseminate di arbusti spinosi ed
erbe secche, si alternano a deserti di
pietraie e polvere lavica, circondate
da rilievi rocciosi e ammassi morenici
di origine vulcanica, simili a enormi
palle di cannone arrugginite.
Il turista che vi si avventura nella
stagione secca non può sottrarsi all’impressione
di essere capitato in
una solitudine sconfinata, soprattutto
di fronte al deserto del Chalbi, incrostato
di sale, regno assoluto della
fata morgana. Chi invece vi arriva
durante la stagione umida (marzo-aprile
e novembre) e vede scrosciare
le piogge, lo scorrere tumultuoso di
torrenti in piena, lo spuntare rapido
dei fiori, pianura e monti ricoprirsi
di verde, può comprendere perché i
gabbra amino questa terra.
Conservatori come tutti i popoli
pastori, quella dei gabbra è l’etnia
kenyana meno toccata dall’occidentalizzazione.
Cultura e strutture sociali
sono mirabilmente adattate all’habitat,
lasciandolo intatto come è
da millenni. Lavoro e vita sono guidati
dalla natura, dai ritmi lunghi delle
stagioni, gestazioni e crescite.
I gabbra comprano dal fabbro accetta,
lancia, coltello, scalpello per lavorare
il legno; per il resto sono indipendenti
e ricavano quanto occorre
loro da ciò che offrono la natura e
il mondo animale.
Attività principale è la pastorizia,
accompagnata da un semplice artigianato
per uso domestico: sedie, recipienti,
coppe, manici, bastoni, borse,
cordami.
L’abitazione soprattutto rivela lo
spirito di adattamento dei gabbra.
Costruita con materiali vegetali e
pelli, pianta circolare di 3-4 metri di
diametro, struttura a cupola, essa è
facilmente montabile e smontabile,
per essere trasportata quando, alla ricerca
di acqua o nuovi pascoli, essi
migrano liberi e leggeri come il vento,
che corre libero e gagliardo, inebriato
dagli spazi immensi.
La terra appartiene a tutta l’etnia;
il bestiame è proprietà dei capifamiglia.
Tutti hanno diritto di accedere
ai pozzi: la priorità può essere riservata
a chi ha costruito o riparato il
pozzo; gli altri si attengono pazientemente
e rigorosamente ai tui decisi
dagli anziani. Inoltre, prima si abbeverano
le bestie, poi le persone.
ATTÀCCATI AL TRENO!
La famiglia (worra), per lo più monogamica,
è il fondamento della società
dei gabbra. Essi vivono in villaggi
(olla) di una ventina di capanne,
disposte in fila o in semicerchio,
circondate da una siepe di rami spinosi
con due entrate. Accanto alla capanna
ci sono i recinti del bestiame.
In ogni villaggio l’assemblea degli
anziani, raccolta sotto un albero, cura
gli affari di politica, amministrano
la giustizia e dirimono le questioni
comunitarie: ricerca di nuovi pascoli,
migrazioni, dispute, date di celebrazioni,
tui di abbeveramento degli
animali, epidemie, pericoli di attacchi
nemici. Nel consiglio emerge
la figura dell’«abba olla» («padre del
villaggio»), con funzioni di guida,
proporzionate alle doti personali.
Un’unità più vasta raggruppa i discendenti
da un capostipite comune
e non lontano nel tempo. I membri
del lignaggio sono tenuti ad aiutarsi
a vicenda, specie in caso di vedovanza,
razzie subite o carestie.
Il clan o sezione (gosa) è alla base
dell’organizzazione della vita. Sono
cinque: Alganna, Galbo, Gara, Odola
e Sharbanna. Il principio di discendenza
è patrilineare: ogni gabbra
sa fin da fanciullo a quale gosa appartiene
suo padre e quindi egli stesso.
Il ricordo del nome degli antenati
si spinge fino alla 10a generazione.
Ogni clan si organizza come unità
sociopolitica, in molti aspetti autonoma,
con funzioni rituali e costumi
propri, con un gruppo di anziani responsabile
dell’andamento generale
e particolari funzioni giudiziarie, per
dirimere i problemi di difficile soluzione.
Questi anziani risiedono in un
villaggio sacro, detto yaa, dove sono
custoditi gelosamente i simboli sacri
clanici: tamburo, corno e bastoncini
per l’accensione del fuoco.
Ma la struttura socio-politica più
tipica dei gabbra è la classe di età (luba),
uno dei più affascinanti modelli
socio-politici dell’Africa. In tale sistema
ogni generazione assume, via
via, compiti e funzioni dapprima privati
(farsi la propria famiglia), poi sociali,
politici e religiosi (ordinare la
cosa pubblica e celebrazione di riti),
per restringersi, infine, in un gruppo
con funzioni di consiglio e rappresentanza.
Il sistema delle classi di età tra i
gabbra può essere paragonato a un
treno in corsa, composto da 10 vagoni,
in cui viaggiano tutti i membri
dell’etnia, eccetto i ragazzi non ancora
iniziati e le ragazze nubili; in ogni
carrozza ci sono i componenti di
una stessa classe. Ogni 8 anni il treno
si ferma e tutti i passeggeri passano
dal proprio vagone a quello precedente,
lasciando libero l’ultimo,
sul quale salgono i giovani, che cominciano
così il loro cammino nella
vita sociale.
Tale fermata, o passaggio di classe,
viene celebrata con grande enfasi,
specie per gli anziani, ai quali sono
conferiti i poteri rituali, prestigio sociale
e custodia delle tradizioni. La
circoncisione dei giovani, invece, di
solito avviene nell’adolescenza senza
che l’evento sia solennizzato.
PACE E PIOGGIA
I gabbra credono in un unico Dio,
chiamato Waqa, che significa cielo e
fenomeni atmosferici. Egli è signore
della vita e della morte e sanzionatore
del male. La religione è piuttosto
ritualistica, basata sulla natura, ordinata
ai bisogni dell’uomo ed espressa
in riti, cerimonie, sacrifici, feste,
danze, canti e benedizioni.
I gabbra non conoscono altro intervento
di Dio se non quello che egli
compie nella natura e nella vita.
Le sue parole sono pioggia, stagioni,
nascita dei figli, morte, malattie, ritmo
del tempo, prosperare degli uomini
e animali.
In genere si prega per ottenere,
non per glorificare. L’uomo è il centro
di attenzione: si chiede pioggia,
pace, figli, salute. I riti si svolgono in
un’atmosfera di serenità, tanto più
che sono sempre feste sociali. Nelle
preghiere si usa il passato: per invocare
la pioggia si dice: «Qui è piovuto
»; per chiedere la pace: «Noi siamo
uomini di pace» (vedi riquadro).
Pioggia e pace sono due valori fondamentali
della società gabbra, espressione
del modo di porsi in rapporto
con la natura, con Dio e con
gli altri.
Tra i gabbra non c’è parola più ripetuta
del termine nagaya (pace) nel
senso più vasto del termine: armonia,
ordine, sereno compimento del
proprio lavoro, intesa e accordo tra
i membri del villaggio, crescita ordinata
degli animali, celebrazione regolare
di feste e riti, libertà da attacchi
nemici, malattie, carestie.
In un ambiente dove la precipitazione
non supera i 200 mm l’anno e
non è sempre puntuale, la seconda
parola più ricorrente in conversazioni
e preghiere è bokaya, pioggia, attesa
con spasmodica pazienza.
L’attesa è la logica dei gabbra. Non
si tratta di inerzia o fatalismo, ma di
semplice fiducia in Dio, poiché da
lui tutto dipende: da Waqa viene la
pioggia, dalla pioggia l’erba, dall’erba
il latte, dal latte la vita.
L’ISOLA… CHE NON C’È
Pioggia e pace, dunque. Due valori
che potrebbero far pensare alla società
gabbra come un’isola di uomini
felici. In realtà istinto di aggressività
e desiderio di trionfare sul
nemico, difficoltà ambientali, tensioni
provenienti dalla vita quotidiana
e dal contatto con altre culture
creano non pochi problemi.
Essi desiderano e invocano la pace
per la propria etnia; ma diventano
aggressivi e spietati con le tribù
vicine, fatta eccezione per i borana,
loro fratelli e di cui parlano la lingua,
e a volte per i rendille. Nemici tradizionali
sono samburu e shangilla.
L’esaltazione del valore viene espressa
in riti e canti che inneggiano
al coraggio, alla vittoria e vendetta.
L’uccidere un nemico è gloria imperitura
in seno alla società; un grosso
anello d’avorio oa il braccio dell’uccisore;
le donne esaltano il guerriero
e gli mettono al collo una delle
loro collane dicendo: «Ne hai ucciso
uno, uccidine un secondo!».
I gabbra lasciano la caccia di gazzelle
e antilopi ai wata: una classe di
uomini di origine straniera guardata
con un certo disprezzo; mentre provano
coraggio e bravura uccidendo
gli animali più pericolosi: leoni, elefanti,
rinoceronti.
Tale orgoglio viene espresso anche
nel canto:
«Leone solitario!
Hai la criniera come la chioma
di una giovane donna.
Ma quando da lontano
fai sentire la tua voce
chi non ha coraggio dice:
son morto!
Leone solitario,
mi hai irritato.
Sono sceso dalla collina
e t’ho finito».
(*) Cfr. Paolo Tablino, I gabbra del Kenya,
Emi, Bologna 1980.
BORANA
pacifici, ma non pacifisti
«Dio creò l’uomo e un elefante,
li pose in un meraviglioso
giardino; tutti
i giorni passeggiava con loro. Nel
giardino c’era un fiume d’acqua limpida;
ma l’elefante la intorbidiva e
non ascoltava né Dio né l’uomo che
gli dicevano di non farlo. Allora l’uomo
uccise l’elefante. Dio si stizzì per
tale gesto e cacciò l’uomo dal giardino.
Per questo i borana vivono nella
disperata ricerca d’acqua, seminomadi
in un semideserto».
Dal «paradiso perduto» alla dura
realtà presente: il breve mito racchiude
secoli di storia.
RITORNO ALL’INFERNO
In un tempo imprecisato, popolazioni
dell’alto Egitto migrarono nelle
regioni montagnose dell’Etiopia
meridionale. Non era il paradiso, ma
ce n’era quanto bastava per fermarsi
stabilmente, dedicandosi all’agricoltura, ma senza dimenticare l’allevamento
dei bovini. Così nacque l’etnia
cuscita (o camitica) degli oromo.
A partire dal secolo XVI, la crescita
demografica e la diminuzione di terre
produttive causarono frizioni e lotte,
anche sanguinose. Molti oromo si
staccarono dal ceppo originario e ripresero
a migrare, dando origine a
circa 200 gruppi di differente consistenza
numerica, gelosi della propria
autonomia, pur conservando lingua
e tradizioni culturali.
Alcuni si spinsero verso est, ma furono
ricacciati dai somali. Costretti
a migrare verso sud, occuparono le
regioni ai piedi dell’acrocoro etiopico
e continuarono a coniugare agricoltura
e allevamento.
Altri, poi chiamatisi borana, si
sparsero nel semideserto, a cavallo
tra Kenya ed Etiopia: ambiente più
simile all’inferno che al paradiso dei
miti delle origini. Nelle immense distese
di sabbia e pietraie sono tornati
alle antiche abitudini del nomadismo,
con un drastico cambiamento
economico e culturale: all’allevamento
dei bovini hanno aggiunto
quello dei cammelli, una volta disprezzati,
insieme ai loro pastori.
Oggi i borana contano 4-5 milioni
di persone, in maggioranza stanziate
in Etiopia; 90 mila circa vivono in
Kenya, concentrati nei distretti di
Marsabit, Moyale e Isiolo, con altre
comunità sparse fino al fiume Tana e
al distretto di Garissa.
La sopravvivenza nel semideserto
non è facile: a volte la pioggia si fa attendere
per anni; negli ultimi decenni
solo sei volte è caduta in abbondanza.
Ogni anno essi sono costretti
a spostare le loro mandrie di capre,
pecore, bovini e cammelli da un luogo
all’altro, fino a 100 km di distanza,
in cerca di pozzi e nuovi pascoli.
Varie carestie hanno reso i borana
sempre più dipendenti dagli aiuti umanitari,
una situazione aborrita da
questo popolo orgogliosamente abituato
alla propria autosufficienza.
«PACE BORANA»
Il termine borana significa «amico,
persona gentile». Il peggiore rimprovero
a una persona che si comporta
male è: «Non sei borana!».
La coesione etnica è il massimo ideale, che va sotto il nome di nagya
borana: pace borana. Di fatto essi sono
un popolo pacifico: la pace all’interno
dell’etnia è un valore sacrosanto
e inviolabile. Ma anche con le
altre popolazioni del Kenya essi mantengono
rapporti cordiali. Ma in passato
si sono verificati scontri sanguinosi
per difendere i pascoli ed episodi
di reciproche razzie di bestiame.
La gestione delle risorse ambientali
è decisa dagli anziani. Quando i
pascoli e le risorse idriche si esauriscono,
una delegazione si reca nei
villaggi che hanno ancora l’acqua per
chiedere il permesso di accedere. In
quell’occasione vengono concordati
il numero di mandrie e il periodo
nel quale è consentito l’accesso.
I borana hanno un grande senso
comunitario: se un membro della comunità
è in difficoltà, tutti gli altri
sentono il dovere di aiutarlo. Per
questo vige tra loro un’assistenza reciproca
su basi quotidiane. Ne è esempio
l’approvvigionamento d’acqua,
elemento vitale per la gente e gli
animali: un lavoro che a volte richiede
decine di persone.
Il rifoimento avviene ogni mattina
dai cosiddetti «pozzi che cantano
». Scavati in un’arida valle, essi penetrano
verticalmente nel terreno fino
a 4-5 metri. Alcuni uomini
scendono nel fondo del pozzo e, immersi
nel fango fino al torace, raccolgono
l’acqua melmosa in secchi
fatti di pelle di giraffa e li passano agli
uomini in bilico su speroni di roccia
lungo le pareti. Raccolta d’acqua
e passamano di recipienti vuoti e pieni
avvengono con tutto il tempismo
e la destrezza di un gioco di prestigio
e con movimenti sincronici ritmati
dal canto.
VIVA LA DEMOCRAZIA
I borana sono parenti stretti dei
gabbra, tanto da assomigliarsi anche
fisicamente: corporatura longilinea,
pelle bruno-rossiccia e volto
asciutto. Le donne vestono un telo
di cotone avvolto attorno al corpo e
un velo sul capo; dopo il matrimonio
si acconciano i capelli con numerose
treccine. Oamenti in alluminio,
ambra e rame, completano
l’abbigliamento in forma di collane,
bracciali e cavigliere. Gli uomini indossano
larghi pantaloni, un telo
sulle spalle e un turbante, tutti in
cotone bianco.
Nella costruzione dell’abitazione
grabbra e borana si somigliano: capanna
a cupola e pianta cilindrica;
con la differenza che i borana coprono
il tetto con paglia e fango; i
gabbra con pelli di animali. Le due
etnie parlano pure la stessa lingua.
Più case formano un villaggio, che
si sposta in accordo con le esigenze
di pascolo. Alle donne spetta il compito
di smontare e ricostruire la casa
nei vari spostamenti.
La società borana è strutturata in
clan patrilineari ed esogamici e in
classi di età (gada); ma il loro sistema
è più complesso e… democratico di
quello gabbra.
Non il singolo né certi uomini soltanto
curano la cosa pubblica, ma
tutti, a loro tempo, esercitano le loro
responsabilità in gradi e classi, dai
«fanciulli sacri», ritenuti portatori di
benedizioni, a quello degli «anziani
sacri», passando per i gradi dei ragazzi
tenuti in casa, i giovani che vanno
a pascolare lontano, i giovani
guerrieri (cusa), i guerrieri veri e propri
(raba), i dirigenti e gli anziani.
Il passaggio da una classe all’altra
avviene ogni otto anni: due di esse
sono festeggiate in modo solenne:
quelli che segnano l’ingresso al sesto
grado d’età, caratterizzato dall’esercizio
del potere, verso i 40 anni, e
l’ultimo grado, l’entrata nella classe
degli anziani sacri. Per l’occasione
tutti gli interessati si riuniscono in
una data località, sempre la stessa;
costruiscono un grande villaggio semicircolare,
attorno a un recinto, in
cui il bestiame viene temporaneamente
tenuto in comune.
I borana hanno una struttura organizzativa
molto attiva: nonostante
le distanze, le informazioni relative
alle leggi dei borana e alle decisioni
prese dai dirigenti, anziani e abba gada
(punto di riferimento per tutti i
borana) vengono trasmesse da una
fitta rete di comunicazioni verbali,
che mantiene in contatto tra loro i
villaggi, anche quelli oltre il confine.
AUGURI E… FIGLI MASCHI
Nella classe dei raba (guerrieri) si
entra verso i 30 anni e dura una dozzina
d’anni: loro compito è quello
della guerra. Per otto anni non possono
sposarsi né avere figli, per essere
liberi nei loro spostamenti. Qualora
ci fossero, vengono abbandonati.
Passati gli 8 anni possono avere
figli, purché siano maschi; ma vengono
allevati fuori casa, finché il padre
non esca dal grado di raba, e sono
affidati ai wata, un gruppo di persone
che vive tra gabbra e borana con
usi e costumi particolari. Se nascono
femmine, vengono abbandonate.
L’infanticidio è ancora oggi praticato,
anche se tale costume sta cambiando:
il sentimento naturale sta
prevalendo sul costume e la prole,
anziché soppressa viene affidata a
persone di differente etnia.
Negli ultimi anni del raba, il guerriero
deve pensare a formarsi una famiglia:
compie numerose visite alla
famiglia della ragazza prescelta, recando
doni in tabacco, caffè o bestiame.
Prima di ottenere il consenso,
egli viene volutamente fatto attendere
per lungo tempo.
Ottenuto l’ok, viene celebrato il fidanzamento;
dopo breve tempo,
sborsati quattro bovini alla famiglia
di lei, seguono le nozze, che si svolgono
in parte nel villaggio della sposa,
in parte in quello dello sposo. A
celebrazioni concluse, la convivenza
dei coniugi ha inizio nel villaggio del
marito. Questi è tenuto a evitare la
suocera.
I bo
BENEDETTO BELLESI