Ma che rivista è?

Egregio direttore,
ogni tanto leggo Missioni
Consolata. Dopo aver letto
il numero di dicembre,
mi sono chiesto: «Perché,
sotto il titolo della rivista,
è scritto “rivista missionaria
della famiglia”»?
L’impressione netta che
si ricava, dai vostri articoli,
è che la salvezza non
venga da Gesù Cristo
(quante volte è nominato?),
né che l’annuncio
del vangelo sia il primo
compito dei missionari
(almeno loro!), ma che la
salvezza sia un problema
sociale, politico ed economico.
Senza dire che, in una
rivista di cristiani, è auspicabile
una minore parzialità.
Perché tirare in
ballo sempre Berlusconi,
anche quando c’entra come
i cavoli a merenda?
Volendo essere Missioni
Consolata la rivista missionaria
della famiglia, date
alle famiglie la consapevolezza
che il mondo cambia
e che il male è vinto,
anzitutto e realmente, con
la conversione dell’uomo
al vangelo. Non inculcate
(certo senza intenzione)
lo spirito di lotta tra ricchi
e poveri, che innesca la
spirale dell’odio da cui
vengono tutti i mali.
Cristo ci libera dal peccato,
e chi ne è libero fa le
opere della giustizia.
don Emilio Colombo.
Buscate (MI)

Certamente l’annuncio
del vangelo è il primo
compito-dovere dei missionari,
sicuri che Cristo
ci libera dal peccato…
Ma non tutti si lasciano
liberare e, quindi, non
fanno «le opere della giustizia
». Così nella chiesa,
«esperta in umanità», fin
dai suoi inizi si è sviluppata
anche «la sollecitudine
sociale». Lo scrive
Giovanni Paolo II nell’enciclica
Sollicitudo rei
socialis.

don Emilio Colombo




Benedizione divina?

Caro direttore,
forse esagero nel dire che
Missioni Consolata è una
benedizione divina. Sono
convinto che Dio opera in
voi secondo i suoi benevoli
disegni e, nonostante le
avversità (non potrebbe
essere diversamente), Egli
sarà sempre con voi (cfr.
Fil 2, 13; Ef 6, 12; Rm 8,
31; Is 50, 7-9).
A don Andrea Magni
(Missioni Consolata, dicembre
2001), ricordo che
Dio non fa preferenze di
persona; chi teme il Signore
e pratica la giustizia, a
qualunque popolo appar-tenga, è a Lui accetto. Dio
vuole che tutti gli uomini
si salvino e giungano alla
conoscenza della verità
(cfr. At 10, 34-35; 1 Tim 2,
4). Giustizia e verità, attributi
di Dio, trionferanno,
perché contro di esse ogni
tentativo destabilizzante
sarà inutile (cfr. At 5, 39).
Missioni Consolata adempie
un compito primario:
elencando le ingiustizie
nel mondo ed enumerandone
gli autori, non
fa altro che ammonirli, affinché
si ravvedano (cfr.
Ez 3, 16-21).
Riguardo ai fratelli che
avversano il vostro operato,
ricordo che non si può
servire Dio e Mammona e
che bisogna obbedire a
Dio piuttosto che agli uomini
(cfr. Mt 6, 24; At 5,
29). Dio ci ammonisce di
guardarci dai superbi (cfr.
2 Cor 6, 14; 2 Tim 3,1-5)…
Consapevole che la presunzione
è il lievito della
superbia, gli ammonimenti
valgono anche per me;
però, grazie ai vostri articoli,
la mia coscienza
spesso viene scossa.
Il vero cristiano-cattolico
va contro corrente; non
ricerca l’utile proprio, ma
quello altrui (cfr. Lc 2, 34;
1 Cor 10, 24; Fil 2, 4). Gesù
dice che i poveri li avremo
sempre, ma ci ricorda
pure che il principe di
questo mondo è satana,
cioè il capo delle menti
malvagie ((cfr. Mt 26, 11;
Dt 15, 11; Ef 2, 2). Ecco
perché ci sono i poveri.
Caro direttore, come vede
in questa lettera di mio
non c’è nulla; mi sono servito
della parola di Dio.
La rovina dell’umanità è
dovuta al fatto che ci si lascia
trasportare da falsi
venti di dottrina (cfr. Ef 4,
14; Col 2, 8; Is 29, 13),
partoriti da menti che
hanno per fine il dio-quattrino
(neoliberismo). Così
il mondo precipita verso
l’autodistruzione.
L’uomo, allontanatosi
dalla fonte divina (Sacra
Scrittura), è diventato
schiavo della propria razionalità.
Infatti che cosa
hanno prodotto il modeismo,
il secolarismo ed
altre correnti di pensiero?…
San Paolo ammonisce:
«Non conformatevi
alla mentalità di questo
secolo, ma trasformatevi
rinnovando la mente per
poter disceere la volontà
di Dio, ciò che è
buono e a Lui gradito»
(Rm 12, 2).
Grazie a voi, noi siamo
al corrente di quanto accade
nel mondo. Consultare
Missioni Consolata è un
sostegno morale e ci incoraggia
a non cedere al dilagare
della massificazione
che spinge alla rassegnazione.
I vostri articoli
ci scuotono dal torpore
causato da infiniti messaggi
subliminali degli
pseudo mass media. PAOLO MOIOLA
e colleghi sono
«un ottimo concime»
per far fruttificare gli orti
del Signore.
Sforziamoci di rispecchiarci
nell’unico e vero amore,
descritto da san
Paolo (1 Cor 13, 1-13).
Ricordiamoci che chi non
ama il fratello che vede,
non può amare Dio che
non vede (cfr. 1 Gv 4, 1-
21). Ricordiamoci, ancora,
che Gesù ha ammonito
le classi dirigenti di tutti i
tempi, che è venuto per
salvare i perduti, per servire
e non essere servito
(cfr. Mt 23, 1-39; Lc 19,
10; Mc 10, 45). Pur essendo
Dio, spogliò se stesso
e fu obbediente fino alla
morte di croce (Fil 2, 8).
Giuseppe Banditelli
Castellammare di Stabia (NA)

Lettera straordinaria,
che si avvale di testi eccelsi…
Però noi non siamo
«una benedizione divina», perché nessuno
può sostituirsi a Lui. Ci
basta essere un «buon
concime». È sufficiente
per farci tremare di fronte
a tanta responsabilità.

Giuseppe Banditelli




Affari e religioni

Caro direttore,
in riferimento a Missioni
Consolata, dicembre 2001,
pagg. 20-26, dico che faremmo
un grave torto ai
credenti di tutte le religioni
(islam compreso) se ci
limitassimo ad affermare
che la sharia è un sistema
di leggi troppo punitive e
una risposta esagerata al
permissivismo, all’ateismo,
all’indifferentismo
religioso dell’occidente.
In Sudan, Pakistan, Nigeria,
Malaysia, Indonesia…
per il musulmano
«fedele» sharia significa
facoltà di espropriare,
schiavizzare, torturare,
stuprare e inquinare campi,
foreste, fiumi… degli
«infedeli» o dei musulmani
«non troppo fedeli», come
gli pare ed è comodo.
Però, quando gli infedeli
sono ricchi e potenti e
c’è la possibilità di intascare,
grazie al petrolio e ad
altre materie prime, milioni
e milioni di occidentalissimi
dollari, le gerarchie
religiose di Khartoum, Islamabad,
Lagos, Kuala
Lampur, Djakarta… non
pongono ostacoli alle autorità
politiche e a chi dirige
grandi gruppi imprenditoriali
e finanziari.
Non mi risulta, ad esempio,
che in Sudan Hassan
El Tourabi abbia mai chiesto
alla China National Petroleum
Company, alla canadese
Talisman Energy
Inc, all’austriaca OMV
Aktengesellschaft, all’italiana
Eni o ai costruttori
del supercanale Jongley…
la conversione all’islam,
pena la sospensione dei
contratti. Così i massacri e
saccheggi in terra dinka
(la parte meridionale del
Sudan) sono continuati e i
dinka continuano a vivere
e morire nel terrore.
È quanto succede a chi
«pretende» di rimanere
nelle terre che i grandi del
mondo hanno decretato
essere di «cruciale importanza
» per l’economia,
perché ricche di petrolio:
gli u’wa della Colombia, i
waorani dell’Ecuador, i lacandones
del Messico, gli
ogoni della Nigeria, i karen
della Birmania e Thailandia,
i pigmei del Camerun
e Gabon, e molti altri.
Avendo a che fare con
interlocutori differenti per
lingua, cultura e fede, gli
uomini che si spartiscono
i profitti del business (petrolio,
cotone, ma anche
droga, legname, diamanti)
recitano parti diverse, ma
complementari:
– quelli che governano
paesi a dominanza musulmana
spiegano che la
guerra e gli attentati dipendono
dall’insufficiente
conversione del mondo all’islam;
– quelli che predicano dai
pulpiti di Washington dicono
che i bombardamenti
sono necessari, perché
gli Usa non sono ancora
abbastanza amati e rispettati;
– in Europa prevale l’idea
che gli interventi armati
(per brutti che siano) sono
necessari per eliminare
la barbarie, che contraddistingue
certi popoli e rappresenta
il sostrato ideale
per l’estremismo religioso
e il terrorismo.
In realtà tra guerra e terrorismo,
tra sharia e commercio
d’oppio, tra ateismo
e fanatismo religioso
non c’è alcuna incompatibilità:
uno ha bisogno dell’altro
e, insieme, concorrono
a consolidare le posizioni
di chi è già tanto
ricco e potente.
Francesco Rondina
Fano (PS)

Missioni Consolata di
dicembre ha riportato la
testimonianza (anteriore
all’«11 settembre») di un
profugo afghano in Pakistan,
che affermava:
«La sharia è giusta!
Quando ad un ladro viene
tagliata una mano,
non è solo una punizione,
ma anche un esempio per
far comprendere agli altri
che rubare è male».
È una convinzione pericolosa,
perché dalla mano
tagliata di un ladro
(fatto di non poco conto)
all’uccisione di una presunta
adultera… il passo
può essere breve.

Francesco Rondina




Missionari martiri

Carissimi amici,
in Sudafrica il 2001 iniziò
e si concluse all’insegna
del martirio.
Il nostro giovane amico
e sacerdote locale, Eric
Bongani Shozi, fu ucciso il
5 febbraio a Amakhasi
(diocesi di Dundee). Il
missionario italiano stimmatino,
Michele D’Annucci,
fu ammazzato l’8
dicembre a Soshanguve,
nei pressi di Pretoria.
Così la chiesa continua
la missione di Gesù Cristo:
non importa il colore
della pelle, non importa se
giovane o anziano, non
importa se la missione è
ad intra o ad extra…
Chi segue Gesù Cristo è
sempre chiamato a modellarsi
sul Suo esempio, e
non è escluso il martirio.
È un martirio che conta,
perché sorretto da quello
del figlio di Dio.
p. Rocco Marra

Newcastle (Sudafrica)
Parole scarne, ma eloquenti,
cui diamo la precedenza.
Da vari anni ormai,
il 24 marzo la chiesa
italiana prega i missionari
martiri e i loro collaboratori:
come i catechisti di
Guiúa, in Mozambico
(vedi in questo numero il
dossier di pagina 29-40).

Rocco Marra




ARROTONDANDO, ma per difetto

Erano i
giorni tragici dell’esodo dal Rwanda, luglio 1994. Ricordo una donna con
un cesto in testa, un fagotto sotto il braccio destro e sul sinistro un
bimbo di pochi mesi, che tentava di succhiare qualche goccia di latte dal
seno vuoto. Accanto, un bambino di tre anni sorreggeva con la manina il
fagotto della mamma: un po’ di farina, una coperta per proteggere tutti e
tre di notte…

In Etiopia
rivedo quella manina nei piccoli malati di Aids: ogni giorno mi tendono le
mani nel saluto mattutino. Avverto in loro il bisogno di essere
accarezzati, e lo faccio. È bello sentire le loro braccia sul collo. Mi
sento come Gesù, che coccolava i piccoli.

Mi sento
quasi un po’ Dio. Un Dio che prende per mano gli ultimi, ma che non riesce
a cancellare la loro condanna a morte.

Mentre li
stringo con tenerezza, interrogo con lo sguardo la missionaria infermiera:
manca qualcuno? «Lui è morto stanotte» mormora la suora. La frase mi
trafigge come un coltello tagliente.

Ebbene
Tzehaie (che significa «mio sole») non apparirà più in mezzo al gruppetto
giornioso dei compagni, che mi ricevono festanti sul cortile.

Entro in
chiesa (un vecchio container, adibito a cappella) e interpello il mio Dio:
«Mi stai prendendo in giro? Mi fai sentire come se fossi tu stesso ad
accarezzarli, e poi… Sono un giocattolo nelle tue mani?». E risento la
bruciante risposta: «Il rimedio per l’Aids c’è. Ma non è colpa mia se non
viene distribuito a tutti equamente». «È vero, Signore – commento -. Tu
hai fatto tutti gli uomini uguali. Ma è anche vero ciò che si legge ne La
fattoria degli animali di George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali,
ma alcuni sono più uguali degli altri”. Siamo stati noi a rendere alcuni
“più uguali” degli altri?».

Inizio la
messa e invito: «Riconosciamo i nostri peccati». Poi guardo i bambini
colpiti da Aids. Nessuno di loro ha peccato, ma stanno pagando per i
peccati altrui. Mi viene in mente il profeta Amos: «Odio le vostre feste,
non gradisco le vostre riunioni, né i vostri doni. Piuttosto, scorra come
acqua la giustizia, come un torrente perenne» (cfr. Am 5, 21-24).

Penso ai
cristiani che vanno in chiesa senza capire che il popolo di Dio è formato
da «poveri in spirito», che sopravvivono anche nella miseria. E, mentre
continuo l’eucaristia, risento l’impotenza di rimediare allo scandalo di
troppi cristiani: orgogliosi di essere figli di Dio, ma fratelli solo a
parole. Mi affido alla preghiera.

p.
Salvador Del Molino


Post scriptum
. Ho appreso che,
nel dicembre scorso, il parlamento italiano ha votato all’unanimità un
aumento mensile di stipendio per gli onorevoli, pari a 1.162 euro
(2.250.000 lire). Così essi percepiscono 4.648 euro di indennità, 3.873 di
diaria, 4.028 per i portaborse (spesso familiari), 774 per spese-viaggio.
Totale: 13.323 euro (arrotondando per difetto), pari a 26 milioni di lire
al mese.

Ma è
proprio vero?… Dopo 35 mesi di parlamento, l’onorevole ha diritto alla
pensione, mentre il cittadino vi accede (se vi accede) dopo 35 anni.
Inoltre per lor signori sono gratis telefono cellulare, cinema e teatro,
viaggi in treno e aereo (nazionali), circolazione su autostrade, piscine,
palestre…

Nemmeno
Bertinotti e Pannella hanno protestato?

E non è
finita, perché pure il ristorante è gratuito. Nel 1999 gli onorevoli hanno
mangiato e bevuto per 2.850 milioni di lire, a spese del popolo.

Cari
amici, ditemi che sono tutte balle. Altrimenti… Buona quaresima!

Salvador Del Molino




PLATI’ (CALABRIA): MISSIONARI DI FRONTE ALLA MALAVITA

COME UNA ROCCAFORTE INESPUGNABILE?


Che ci fanno i padri Luigi ed Enrico in un paese
considerato un covo dell’«ndrangheta»? Ieri, però, è stato preso
l’«imprendibile». Ma la battaglia per la legalità è ancora lunga e
difficile. «Popolo di Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un
futuro di pace per i nostri figli».


Tristemente
famoso

La gente
ci domanda sovente come ci troviamo e che cosa pensiamo di questa «punta
di spillo nel cuore dell’Aspromonte», come Avvenire ha definito il
paesino. Recentemente la «punta di spillo» ha fatto rumore nei notiziari
dei canali ufficiali e privati, nei giornali di grossa e modesta tiratura.

Il
programma televisivo «Terra» di Canale 5, del 16 dicembre scorso, ha
narrato in dettaglio l’arresto del pregiudicato Barbaro Giuseppe,
soprannominato «l’imprendibile». È stato braccato nel suo bunker, la notte
dell’11 dicembre, dalle forze speciali di polizia, coadiuvate dai
carabinieri locali, dopo 11 anni di latitanza, molti dei quali trascorsi
nel confortevolissimo tunnel sotto casa. In questa circostanza, più che in
altre del passato, Platì si è sentito amaramente segnato a dito.


Tristemente celebre nel recente passato per i sequestri di persona, con i
sequestrati tenuti in ostaggio forse nel bunker del superlatitante (dove
sentivano suonare le campane e recitare il rosario nella nostra vicina
chiesa), Platì sta vivendo oggi momenti particolari: timidi, ma
riconoscibili sono i segni di volontà di cambiamento.

Però la
popolazione si sente umiliata. Bisognerebbe fare un po’ di giustizia:
perché è più facile disfare la speranza che edificarla. Secondo il cinese
Lao Tze, è meglio accendere una lanterna che maledire l’oscurità.

Platì è
stato definito pittorescamente una «città a due piani», uno in superficie
e uno sotterraneo: e in parte è vero. È stato paragonato ad una
«roccaforte talebana»: e anche questo è un po’ vero (il bunker era un
marchingegno di elettronica sofisticata: porte scorrevoli, chiusure
antiproiettile, scalini mobili)… Siamo inoltre stati descritti come
«gestori dell’erba», maestri consumati dell’ndrangheta, cittadini
corazzati nell’omertà.

Omertà ce
n’è, ma non al livello che si vuole far credere. La verità è che tanti non
sanno veramente nulla, né si accorgono di nulla. Tra costoro si
annoverano, sovente, gli stessi familiari e le stesse mogli dei
malavitosi. Ne siamo convinti. Osservatori laici ed ecclesiastici della
zona lo confermano.

Il
malaffare è portato avanti da «specialisti», che vivono nel paese a
stretto contatto con i vertici della criminalità (spesso residenti
altrove), vuoi nell’ordine nazionale vuoi in quello internazionale.


Sono caduti
in basso?

La
risposta è semplice: perché siamo missionari. Siamo qui per la profezia
della speranza, per il ministero della consolazione, per illuminare,
purificare e sostenere la religiosità popolare. Siamo qui per temprarci ed
essere maggiormente i missionari dell’«oltre».

O dobbiamo
eternamente discutere, rivedere e programmare la nostra identità a livello
cartaceo, senza buttarci mai nella mischia?

Non siamo
eroi, anche se siamo coscienti che questi primi mesi (per una combinazione
di fatti che sarebbe troppo lungo descrivere) ci hanno portato a vivere al
limite della capacità di pazienza e adattamento. E, benedetto sia il
nostro fondatore, Giuseppe  Allamano, che ci insegna a vivere la missione
insieme! Da soli non ce la faremmo.

Siamo qui
per obbedienza e coerenza. L’ultima conferenza dei missionari della
Consolata in Italia si era fatta promotrice di un’urgenza profetica,
espressa dal X Capitolo generale: è l’ora dell’ad gentes anche per
l’Europa. E la direzione regionale, raccogliendo l’indicazione, ha deciso
così di iniziare una presenza missionaria nella Locride, una zona piena di
sfide ecclesiali e socio-ambientali.

E siamo
caduti a Platì. La nostra destinazione è stata decisa in una corsia
preferenziale, forse per non lasciare adito al pentimento. E abbiamo
trovato un micromondo insospettato: gente che darebbe volentieri
l’ostracismo a chi ha inventato il lavoro e gente che lavora come bestie,
ma con garbo, genialità e (non è poco) con il sorriso sulle labbra:
proprio come chi trova gusto, affetto e gratificazione nel lavoro.

Gente che
mette piede in chiesa soltanto per le «onorate circostanze», insieme con i
rispettivi compari e comari, e gente che viene tutti i giorni a messa,
digiuna due volte la settimana, si prodiga nel silenzio in ogni necessità
(ammalati, anziani, bisognosi).

Gente che
è ingolfata nel malaffare fino al collo e gente che, come dicevamo, pur
vivendo ad un palmo dalle abitazioni dei malavitosi, non sa assolutamente
niente dell’illecito che si orchestra, soprattutto nelle ore delle
tenebre.

Sentiamo
compassione per tanta popolazione, molto dispiaciuta, perché di Platì si
parla esclusivamente nelle circostanze negative. È scontato: da sempre i
poveri fanno notizia solo nelle sciagure, nei «peccati», mentre i «ricchi»
e «color che sanno» si mantengono immacolati nel loro impudico
puritanesimo.

I platesi
ammettono che il loro paesino sta andando alla deriva da qualche decennio
a questa parte… al punto che tanti preferiscono mandare i figli a
studiare nei paesi vicini.

Platì,
alla pari di un centro napoletano, detiene il primato della natalità in
Italia e, forse, anche in Europa. Purtroppo è simile a una madre che
genera generosamente le sue creature, le avvolge di tenerezza
nell’infanzia, le vede allontanarsi da casa nella gioventù per motivi di
studio e lavoro, le vede scompaginarsi ai quattro angoli della terra:
Torino, Milano, New York, Toronto, Sidney… E Platì langue.

Quarant’anni
fa il paese contava 7 mila persone, scese oggi a 3 mila. Platì era un
rinomato centro agricolo, commerciale, artigianale (chi non ha sentito
parlare delle pipe di Platì?); era stimato e invidiato da tutti per la
creatività, laboriosità e ospitalità dei suoi abitanti. Resistono alcune
vestigia: falegnami, veri maestri del legno, e foai che distribuiscono
il fragrante «pane di Platì» ad una ventina di paesi nella provincia di
Reggio Calabria.


Una fiaccolata storica

Come
sacerdoti, data la scarsità di clero in diocesi, oltre Platì, serviamo
altre due modeste parrocchie. E siamo contentissimi della vita un po’
spartana. Ci organizziamo la giornata, prevenendo l’uno le difficoltà
dell’altro per alleggerire i pesi di entrambi. Rinunciamo a ogni
privacy… con un unico camino, che a volte ci rallegra nel tepore, a
volte ci inumidisce gli occhi per il fumo. Uno cucina e l’altro lava i
piatti; uno scopa la casa e l’altro bada alla lavatrice.

Ma non ci
esauriamo nel fare: è essenziale il confronto quotidiano con la parola di
Dio e uno sguardo ai giornali. E predicazioni, confessioni, apostolato
spicciolo. Alla sera siamo così ubriachi di sonno che, recitando il
rosario, il più forte deve svegliare energicamente il più debole, quando
dalla contemplazione dei sacri misteri scivola in braccio al pagano
Morfeo.

Ci
ripromettiamo, quando saremo in tre, di collaborare attivamente con la
diocesi nella missionarietà specifica ad gentes: lo desidera anche il
vescovo, Giancarlo Brigantini. È un trentino di pura razza, ma
visceralmente inculturato nei valori nobili della Locride e della antica e
gloriosa Magna Grecia.

Presieduta
dal vescovo, abbiamo organizzato il 15 dicembre scorso una
processione-fiaccolata per svegliare la coscienza della popolazione
dinanzi al ripetersi del gravissimo fenomeno della sparizione di persone
(7 in 8 anni, di cui 3 da luglio a novembre 2001).

Prima
della fiaccolata, durante la messa, concelebrata dal vescovo e dai
sacerdoti della vicaria, coraggioso e commovente è stato l’intervento di
una mamma. Dal pulpito ha pronunciato parole pesanti, come i macigni
disseminati su queste colline, e brucianti come il fuoco di lupara: parole
che hanno sfidato ogni trincea di omertà.

«Popolo di
Platì, svegliati e unisciti a noi per costruire un futuro di pace per i
nostri figli. Siamo contro ogni forma di violenza e vandalismo: uniamoci
per punire i misfatti! Abbandonati da tutti, abbiamo sempre chinato la
testa con triste rassegnazione. È tempo di far sentire la nostra voce. Un
grido di pace e perdono contro ogni male. Impegniamoci a riscattare il
paese per quanto è successo nel passato e nel presente».

Anche i
cartelloni, preparati dai giovani e portati dagli adolescenti nella
marcia-fiaccolata, osannavano alla pace, alla responsabilità, alla vita.
Uno fra tutti: «Caino, dov’è tuo fratello?».

Nelle
acque stagnanti un sassolino è stato lanciato. Piccoli circoli d’onda si
propagheranno lenti, ma indefettibili, fino alle più remote profondità
delle coscienze. Ne siamo certi. Confidiamo nel Signore della vita, che
dalle tenebre dell’odio è risorto alla luce, vincitore del male.

 

*I padri Luigi Manco ed Enrico
Redaelli, già missionari della Consolata in Argentina e Mozambico, sono
oggi impegnati nell’animazione missionaria-vocazionale in Italia. Gli
unici in Calabria.


«Restituite
questi giovani»

Sabato a
Platì è salito il vescovo Giancarlo Brigantini che, assieme ad un nutrito
gruppo di sacerdoti, ha concelebrato la messa alla presenza di alcuni
familiari delle persone scomparse e di tanti giovani e ragazzi delle
scuole locali, che hanno raccolto l’invito a non starsene in disparte.

Platì è
salito agli onori della cronaca per fatti poco edificanti: i sequestri di
persona e il traffico di droga, in primo luogo. Il parroco, padre Luigi
Manco, tra il silenzio generale ha elencato i sette nomi e le date della
scomparsa, parlando di «sette ferite aperte nella comunità locale e in
tutta la società».

Dal canto
suo monsignor Brigantini ha detto: «Abbiamo pronunciato i nomi perché non
si faccia finta di non vedere. Non serve tacere purtroppo tanti sanno ma
tacciono».


 L’iniziativa è servita a raccogliere attorno al dramma delle famiglie
interessate gran parte della cittadinanza che, con una fiaccola accesa in
mano, ha percorso le vie cittadine alternando il silenzio a momenti di
preghiera…

La
comunità di Platì ha dimostrato di apprezzare il gesto della chiesa,
rimarcando col vescovo il no al male e all’odio, il sì al bene ed alla
misericordia. Prima di terminare la fiaccolata, Brigantini ha detto:
«Fermatevi, restituite questi giovani ai familiari e ricordatevi che Dio
vede anche chi, in un modo o nell’altro, è stato complice di tali
misfatti».

Giovanni
Lucà


(liberamente tratto da «Avvenire», 18 dicembre 2001)

Luigi Manco Enrico Redaelli




ZE’ DOCA (BRASILE): il vescovo Walmir Valle in redazione

LE SFIDE DI UN «PELE’» MANCATO


«La mia casa è la stessa di 13 anni fa, come l’hai vista
tu. Nulla è cambiato. Ultimamente mi sono ritrovato solo. Così ho fatto
anche il portinaio, il cuoco, il lavandaio…». Confidenze di un vescovo
semplice, immerso tuttavia in grandi problemi, data la povertà e
l’isolamento della sua diocesi nel Maranhão.

 

«Benvenuto
nella sala-giornali della redazione della rivista Missioni Consolata! Buon
giorno…».


L’«intruso», un po’ sorpreso, sussulta. Ma si riprende subito e dice
sorridendo: «Ieri c’è stato il sorteggio degli accoppiamenti delle squadre
nazionali di calcio che giocheranno il campionato mondiale in Corea e
Giappone. Sto sfogliando il giornale per conoscere gli avversari del
Brasile».

Secondo
lei, chi vincerà il trofeo?

La palla è
rotonda, dite voi giustamente in italiano…

Forse
abbiamo colto in fallo un… monsignore. È Walmir Valle, vescovo
brasiliano di Zé Doca (Maranhão) e tifoso di foot ball. C’è chi giura che,
se Walmir non si fosse fatto prete, sarebbe diventato un vero campione. A
Torino, dove ha studiato teologia, molti ricordano ancora le sue imprese
calcistiche, degne di Pelé, «il re».

«Sono
passati più di 40 anni da allora – afferma il vescovo scuotendo la testa
-. Oggi…». Oggi è missionario della Consolata e, da 16 anni, anche
vescovo. Recentemente ha costruito una nuova cattedrale.


Una bella
cooperazione

Nel 1998
dom Walmir bussò alla porta dell’organizzazione cattolica tedesca Adveniat,
per ottenere 100 mila reais (circa 162 milioni di lire). Il vescovo aveva
puntato in alto per accontentarsi poi di 30 mila reais. «Non so se ce la
caveremo con tale somma» disse il vescovo ai sacerdoti e fedeli.

Iniziarono
a lavorare, inglobando la vecchia chiesa. Ma subito furono costretti a
demolie una parte, perché volevano allungare la costruzione, passando
dai precedenti 28 metri agli attuali 41. Inoltre sorsero altre difficoltà.
Pertanto del vecchio complesso rimase solo il campanile. Quanto al nuovo
progetto…

«Quanto al
nuovo progetto, siccome bisognava risparmiare soldi, l’ho fatto io stesso
con il muratore capo. Man mano che la costruzione cresceva, apportavamo
delle modifiche secondo le esigenze. Abbiamo lavorato sodo per 15 mesi, e
ce l’abbiamo fatta in tempo per il giubileo del 2000. Oggi la nuova
cattedrale è una meraviglia. Lo dicono tutti. A noi piace soprattutto
perché è opera nostra».

Anche il
comune diede un contributo, rimuovendo le macerie dei muri abbattuti e
foendo la terra per alzare il livello della nuova costruzione di 50
centimetri rispetto a quella vecchia. La gente pagò mille sacchi di
cemento, mentre la Direzione generale dei missionari della Consolata offrì
20 mila reais.

Al termine
la spesa complessiva fu di 90 mila reais, per un’opera che si avvalse
della solidarietà internazionale (Adveniat tedesca e Missionari della
Consolata), dell’apporto dell’autorità locale e del concorso dei fedeli.
Un bell’esempio di cooperazione.

«Proprio
così – conferma il vescovo -. Naturalmente tutto dipendeva dal come si
chiedeva. Non bastava lanciare appelli generici; bisognava impegnarsi di
persona, casa per casa. Io sono abbastanza esplicito e, quando chiedo,
ottengo quasi sempre qualcosa».

La
costruzione della cattedrale è ancor più meritoria, se si tiene conto del
contesto sociale. Nel 1994 il Brasile adottò la nuova moneta real (plurale
reais): una divisa forte, superiore persino al dollaro. Il rapporto con il
«biglietto verde» era di 0,80 a 1. Dopo un periodo di stabilità forzosa e
costosa, nel febbraio 1999 il real fu svalutato del 50% e l’inflazione
riprese a correre. Oggi occorrono 3 reais per 1 dollaro.

Oggi, con
la globalizzazione-privatizzazione, il Brasile dipende dal capitale
estero. Il fenomeno ha aumentato la disoccupazione, specialmente nelle
grandi città di São Paulo, Rio de Janeiro, Porto Alegre… dove operano le
industrie. E pesano i macigni di sempre: la mancata riforma agraria e
l’iniqua distribuzione della ricchezza.


Una diocesi
in chiaroscuro

Nel 1988
eravamo a Zé Doca, ospiti del vescovo Valle. Allora il presule lamentava
la scarsa collaborazione della gente alla vita della diocesi. Oggi si
registra un mutamento in meglio. La costruzione della cattedrale lo
dimostra.

È
d’accordo dom Walmir?

C’è stato
un cambiamento positivo. Tuttavia la partecipazione del popolo è ancora
ridotta. In occasione della costruzione della cattedrale, sono riuscito ad
ottenere la collaborazione di tutti; ma in genere è ancora difficile,
specialmente per la formazione di lidares laici e per il sostentamento dei
sacerdoti.

È arduo
trovare persone che si assumano il servizio di animazione e cornordinamento
delle comunità. «È – commenta il vescovo – la sfida più forte. Abbiamo
offerto ai lidares la possibilità di formarsi: per esempio con la scuola
di teologia pastorale. La scuola si svolge nell’arco di quattro anni
consecutivi con varie lezioni. Vi sono due scuole: una sulla costa e
un’altra all’interno del territorio; si tratta di realtà assai diverse,
non solo per posizione geografica, ma anche per formazione religiosa. La
partecipazione alla scuola è stata pure diversa: 60 persone nel litorale e
25 nell’interno».

Per
risolvere il problema del sostentamento del clero, il vescovo ha invitato
i fedeli di versare alla chiesa «la decima». Ma la proposta è rimasta
quasi lettera morta. Si è cercato di sensibilizzare le comunità con un
libretto, ricco di citazioni bibliche che ricordano ai fedeli «l’obbligo
di mantenere il loro sacerdote». Anche questo ha sortito scarsi risultati.

«A
prescindere dalla povertà reale – precisa il vescovo -, la causa della non
partecipazione della gente ci porta indietro nel tempo, quando i
missionari italiani garantivano tutto il necessario. Così le comunità si
sono abituate a “dipendere”, senza alcun loro apporto. Questa mentalità
resiste ancora. Il problema del sostentamento è grave per lo stesso clero
locale, che proviene da famiglie bisognose».

Dunque,
monsignore, la diocesi non dispone di fondi per venire incontro alle
esigenze dei sacerdoti?

No, perché
non ha denari per tutti.

Mancando
il sostegno della diocesi, i sacerdoti si mantengono con le offerte delle
messe e degli altri sacramenti. E pare che ci stiano riuscendo. «Gli unici
che versano ancora qualcosa per la diocesi – precisa il vescovo – sono i
tre missionari fidei donum di Torino».

La diocesi
di Zé Doca è stata dimenticata anche dai missionari della Consolata?

No. Il
nostro Istituto versa ogni anno 50 mila dollari per la formazione dei
seminaristi.

E proprio
dal seminario sono venute le migliori consolazioni per il vescovo.
All’inizio del suo apostolato a Zé Doca non poteva contare su alcun
sacerdote del luogo. Oggi sono sette, con un discreto numero di studenti
nel seminario maggiore di São Luis.


I tempi sono
cambiati

«C’era una
volta la chiesa brasiliana» afferma oggi qualcuno, non nascondendo la
propria delusione. La chiesa del coraggio, della denuncia delle
ingiustizie sociali, la chiesa dei vescovi Mathias Schmidt, Helder Camara,
Paulo As, Luciano Mendes, Ivo e Aloisio Lorscheider, Aldo Mongiano…
Figure coraggiose, profetiche, oggi defunte o ritirate, mentre i
successori sono diversi.

Dom Walmir,
come giudica l’odiea chiesa brasiliana?

Rispetto a
30-40 anni fa il paese è più democratico. I movimenti di lotta
sociopolitica contro il governo si sono sciolti, perché sono mutate le
situazioni. Oggi i lavoratori, più che con lo stato, devono fare i conti
con la globalizzazione, le transnazionali…

Però il
governo c’entra, perché può schierarsi o da una parte o dall’altra.

E la
chiesa deve schierarsi con i deboli. Credo che lo stia facendo. I profeti
ci sono ancora.

Per
esempio?

In
occasione dei 500 anni della scoperta del Brasile, c’è stata la festa di
Porto Seguro, contestata dagli indios, che hanno ricordato i massacri e le
discriminazioni sofferte nella storia. Circa 2 mila indios si sono diretti
a Porto Seguro per incontrare il presidente Cardoso; ma la polizia li ha
fermati con violenza. Anche i vescovi Masserdotti e Balduino, che erano
con gli indigeni, sono stati arrestati per cinque ore… Allora i profeti
ci sono e si fanno sentire.

Che dire
della sua diocesi?

A Zé Doca
c’è stata la marcia-pellegrinaggio della gioventù, durante la quale
abbiamo pregato, cantato e denunciato i mali che affliggono il paese. Il
tema «Cittadinanza e fede» ci ha consentito di riflettere sui gravi
problemi legati al Movimento dei contadini senza terra.


Politicamente come agite?


Lavoriamo senza tanto rumore. Ma a Zé Doca la comunità, con il parroco in
testa, ha presentato e sostenuto i propri candidati nelle elezioni
comunali.

A quale
partito appartengono?

Al
Partito dei lavoratori (PT). Ma il candidato sindaco, per vincere le
elezioni, si è dovuto alleare con altri partiti…

  Nella
sala-riviste di Missioni Consolata si ode un vociare, che proviene
dall’esterno. Dom Walmir si affaccia alla finestra e vede alcuni ragazzi
che rincorrono un pallone. «Quanto mi piacerebbe giocare con loro!».

 

 Visita
pastorale a São João do Caru

La
parrocchia di Bom Jardim è una delle più estese della diocesi: dista 30
chilometri da Zé Doca, è affidata ai due frati francescani conventuali,
molto giovani, e comprende più di 100 comunità.

Pochi
anni or sono ne è sorta una nuova: la comunità di São João do Caru.
D’accordo con il parroco, avevo deciso di visitarla durante la stagione
delle piogge. São João dista da Bom Jardim, in linea d’aria, circa 90
chilometri ed è raggiungibile solo in barca durante il tempo delle piogge.

 Il
programma prevedeva che mi trovassi alle sette del mattino a Bom Jardim.
Da qui un frate ed io, in camion, avremmo raggiunto il fiume per
proseguire in una canoa a due posti fino a São João. Però il camion (data
la pessima strada) non poteva marciare. Allora prendemmo una moto-taxi. La
distanza era modesta: 12 chilometri. Ma ci impiegammo oltre un’ora, perché
fummo costretti a fermarci una dozzina di volte a causa del fango.

Giunti
al fiume, salimmo in barca: io davanti e il giovane frate dietro, al
volante, vicino al motore. Dopo mezz’ora ci fermammo ad Alto Alegre per il
rifoimento di carburante. Ripartimmo con due ospiti, che ci avevano
chiesto un passaggio: poiché l’imbarcazione era piccola, due persone in
più costituivano un bel rischio. Ma tutto andò bene.


Sennonché, ad un certo punto, udii un tonfo, seguito da un grido del frate
guidatore.

– Cosa
è successo?

– Il
motore è caduto in acqua!

– Cosa?…
E ora? C’è un remo?

– No.

Si
disperava il giovane frate, inesperto, anche perché sapeva che era colpa
sua, non avendo fissato bene il motore sulla barca.

Era
mezzogiorno e fummo costretti ad abbandonarci alla corrente del fiume,
sotto un sole cocente. Non furono bei momenti… Finché il rumore di
un’altra imbarcazione ci sollevò il cuore. Ritornammo a Porto Alegre.

Quanto
al motore, nuovo di zecca, ma caduto nel fiume, potevamo scordarcelo per
sempre.

 

A São
João do Caru ritornammo cinque mesi dopo, via terra questa volta, in
Toyota, messa a disposizione dal sindaco locale. Ma quasi subito l’auto ci
piantò in asso per un guasto meccanico. Un camion, superaffollato, ci
portò a destinazione dopo sei ore di viaggio su una strada… che non
c’era! Erano le 5 del pomeriggio.


L’accoglienza della popolazione fu straordinariamente giorniosa: con tante
foto-ricordo, perché era la prima volta che un vescovo metteva piede in
quel paese… La visita pastorale continuò il mattino successivo con
l’amministrazione delle cresime.

Per il
ritorno c’era ancora il camion, ma in ritardo. Partimmo alle due del
pomeriggio. Percorsi una decima di chilometri, il camion si fermò per
caricare alcuni sacchi di farina. Poi incominciò a piovere come Dio voleva,
e ci impantanammo. Bisognava aspettare che spiovesse. Io, intanto,
camminai per circa tre chilometri, finché il camion mi raggiunse.


Seguirono sette ore di scivolate, sbandate e testacode. Ma, grazie alla
Madonna Consolata, arrivammo a Bom Jardim sani e salvi.

Nella
diocesi di Zé Doca si vivono anche queste avventure.

Francesco Beardi




ARGENTINA: impressioni da un paese nella bufera

UN «MATE» INDIGESTO


Povertà e ricchezza, tristezza e gioia, speranza e paura
del futuro… Un intreccio che colpisce chi visita il «gigante buono»
sudamericano. Ma la miseria può diventare «cattiveria».

Il Boeing
747 della Aerolineas Argentinas mi depone sull’aeroporto Ezeiza di Buenos
Aires. Sono le 7 del mattino e ho l’impressione di atterrare sul mare. Una
coltre di nebbia, infatti, ricopre tutta l’estensione della pista. Non fa
freddo, perché l’inverno non è ancora iniziato. Immenso paese, 35 milioni
di abitanti. Incontro una società nuova, uscita da un lungo periodo di
dittatura e totalitarismo, in marcia verso un ideale di democrazia che
fatica (come ovunque) a stabilizzarsi. La struttura della società è
chiaramente diversificata.

Buenos
Aires, la capitale, è abitata dai «portenos» (immigrati europei e i loro
discendenti) mediamente borghesi, ma essa è anche accerchiata da tante «villas
miseria», vere baraccopoli costruite con lamiere e cartoni. Vi trovano
rifugio i più disgraziati, provenienti da ogni parte, alla ricerca di un
benessere sempre lontano. L’interno, disseminato di aborigeni e creoli, è
completamente differente: nati da questa terra, conservano la loro cultura
tradizionale che fa fatica a coabitare con quella dei «gringos» originari
dell’Europa.


Sentirsi a
casa


 Nell’interno del paese impressiona la povertà. Ma la fierezza di poter
diventare efficaci compagni nella costruzione della nuova società appare
evidente. Le persone, appena vi vedono, sorridono, vi abbracciano, anche
se non vi conoscono.

Rimango
colpito da questa manifestazione di affetto. Si direbbe che ogni sforzo
viene messo in atto per farti sentire a tuo agio, come a casa. Jorje mi
offre immediatamente un recipiente di mate: una bevanda calda, una specie
di tè proveniente dalla provincia di Misiones. Rifiutarla sarebbe un gesto
di scortesia. La si beve insieme, dalla stessa cannuccia, simbolo della
vita condivisa, trasmissione di una filosofia dell’esistenza fondata su
valori duraturi che non devono assolutamente perdersi.

La loro
casa diventa la tua casa e mai, come in Argentina, ho avuto l’impressione
di sentirmi a casa. I bambini che sorridono, i cani che dormono ai tuoi
piedi, le galline che beccano, i genitori che si danno da fare per
servirti. Non esiste formalismo: la gente si manifesta per quello che è, 
del tutto indifferente della povertà o disordine che potrebbe esserci. Ciò
che è importante è che tu possa mangiucchiare qualcosa, riposarti dal
caldo opprimente, assaporare un po’ della loro vita.

Una vita a
dimensione umana, capace di integrare nella relazione che si stabilisce la
bellezza dell’amore, della natura, degli animali, senza  dimenticare di
soddisfare i tuoi bisogni personali. Sì, la semplicità è la loro
ricchezza.

Uscendo da
un lungo periodo di oscurità drammatica, vissuta sotto la dittatura, il
paese si ritrova come un neonato nei confronti della democrazia.

La
mancanza di lavoro, il tasso di disoccupazione (tra i più alti
dell’America Latina), i miseri salari,  l’abbandono delle campagne e
l’immigrazione verso le città, sono i principali problemi. Le difficoltà
della vita quotidiana, dovute alla mancanza di denaro e lavoro, pesano
oltremodo sui «neonati». Quale futuro avrà il giovane che non ha la
possibilità di studiare adeguatamente, che è disoccupato e, sovente, si
lascia trasportare dall’alcornol o dalla droga per dimenticare una
situazione insopportabile? La mancanza di speranza nel futuro può
diventare il cancro di un popolo così buono.

Anche la
famiglia, una volta forte e solida, oggi scoppia. L’autorità dei genitori
è diminuita, la stabilità  è messa a dura prova, la fedeltà coniugale
sovente è diventata un sogno. I bambini che hanno un solo genitore
aumentano e mancano i punti di riferimento per crescere in armonia.
Sposati troppo giovani, sovente prima dei 18 anni, i genitori si accorgono
di aver preso strade che a loro non vanno più bene e se ne vanno.

I
luoghi della miseria

Villa
Pompeya è un quartiere di Merlo, alla periferia di Buenos Aires. I
missionari della Consolata vi lavorano da molto tempo, si occupano della
parrocchia e di numerosi «villaggi della miseria», che nascono come funghi
in questa periferia sempre più grande. Lavorando in équipe con le suore
missionarie della Consolata e con laici impegnati, si cerca di rispondere,
giorno dopo giorno, ai bisogni dei nuovi arrivati, destinati a morire
nella miseria.

La «villa
miseria» si trova in tutte le periferie delle città argentine: un insieme
di catapecchie di legno riciclato o di cartone, senz’acqua né elettricità,
senza servizi igienici. Numerose persone si ammucchiano in piccole camere,
dormendo per terra in una promiscuità impressionante. Le famiglie vere
sono rare.

Si
trovano, piuttosto, delle persone che vivono situazioni particolari: donne
abbandonate dai mariti, banditi che vengono a nascondersi, giovani
sbandati, drogati e alcornolizzati e molti bambini senza genitori. Un
universo che sopravvive senza lavorare, senza istruzione, senza servizi,
senza relazioni, al margine delle grandi città che le ignora e li teme. La
violenza e l’istupidimento si impongono.

Visito
questi luoghi con padre  Ermenegildo Crespi. I sentimenti che si provano
sono indescrivibili: un miscuglio di disgusto, compassione, paura… ma
anche un desiderio di essere loro vicini e amici. Il cuore di queste
persone non è diverso dal nostro e, se non hanno avuto la possibilità di
svilupparsi, restano pur sempre delle persone che Dio ama. La loro storia
inizia lontano. La maggior parte viene dal Nord. Fuggendo dal Chaco e
Formosa, loro terre d’origine, alla ricerca di un lavoro e di un avvenire
migliore, si ritrovano qui più poveri di quanto lo fossero prima, soli,
senza alcun legame con le famiglie che hanno lasciato, incapaci di pagarsi
il biglietto di ritorno verso il paese natale.

In questo
luogo di miseria e delinquenza, non trovano aiuti per           crescere;
sovente, per sopravvivere, iniziano a rubare, si danno alla violenza,
all’alcornol, alla droga per dimenticare. La storia dei Miserabili, persone
sfortunate dal cuore pieno di bontà descritte da Victor Hugo, non è ancora
terminata.

Vedo suor
Annapiera avvicinarsi alle persone come un’amica. Cerca di soddisfare una
quantità infinita di bisogni primari: cibo, abiti, medicinali, bimbi
abbandonati, morti. Ha organizzato una presenza e un lavoro veramente
notevoli in questo quartiere, anche se i soldi non sono mai sufficienti.

Vedo
sfilare tutta una serie di visi, dagli occhi spenti e dai cuori spezzati.
Più che di aiuto materiale (anche se indispensabile), hanno bisogno di
amicizia, comprensione, sostegno morale, parole di conforto. È triste
vivere in solitudine, senza potersi confidare con nessuno, racchiudendo in
se stessi tutte le difficoltà e le ferite.

I
missionari lo sanno bene. Sono là come amici, compagni di strada, dando
segni concreti di umanità e di carità. Qui il vangelo passa attraverso le
azioni  più che la parola e padre Crespi lo conferma: «Troppe atrocità e
violenze, nascondono loro il viso di Dio. È la nostra amicizia che
aspettano: un’amicizia che faccia loro intravvedere di essere amati da Dio
e salvati da Gesù. Un lavoro non facile da compiere.

L’eterna
domanda mi ritorna in mente: perché loro e non io? Non ho risposta, ma so
che, al loro posto, io non farei meglio. Rendono visibile ai miei occhi
una parte di me stesso segreta, nascosta. Sovente si è troppo severi con i
poveri, scaricando facilmente le nostre responsabilità nei loro confronti.
Le parole di sant’Ambrogio “o ricchi, voi donate troppo poco della vostra
ricchezza e siete troppo esigenti verso i poveri!” sono di un’attualità
sconcertante».


 Il rischio
dei «dinosauri»

Il futuro
dell’Argentina è nelle mani dei giovani. Tutti i missionari lo sanno e la
loro formazione è un punto prioritario nel programma di evangelizzazione.

È
impossibile qui presentare, in breve, i tratti che caratterizzano i
giovani argentini. Città e campagne producono modelli diversi, dovuti a
problemi particolari, legati all’ambiente in cui vivono, all’essere senza
radici, alla mancanza di identità che, a volte, li conduce al suicidio. A
San Francisco è nato un istituto diocesano (Ceas) per aiutare i giovani
che nutrono delle aspettative. Quello che li scoraggia maggiormente è la
mancanza di speranza, a causa della situazione economica e sociale.

Attività a
tutti i livelli sono state «inventate» nelle parrocchie per animare i
giovani sbandati. Un po’ ovunque si vedono club, movimenti, gruppi di
spiritualità o sportivi per giovani, ma lo sforzo principale resta quello
della scolarizzazione. A San Francisco e Mendoza, i missionari della
Consolata si sono impegnati nella scuola elementare e superiore. La
serietà e la competenza di questi istituti sono evidenti ai visitatori.

I signori
Miguel Alessi, direttore della scuola «Paolo VI» a San Francisco,
Gabrielle Panero de Romero e Tito Lopez, direttori della scuola secondaria
di Mendoza, mi mostrano la loro programmazione: precisa negli obiettivi e
metodi di lavoro, chiara nell’organigramma degli insegnanti e discipline;
un documento che si propone di portare i giovani ad una formazione
completa, umana e scientifica, capace di avviare ad un lavoro competente,
sorgente di felicità.

Gli sforzi
per integrare nella comunità argentina i numerosi boliviani immigrati sono
notevoli e questo esempio di apertura verso diverse culture è da imitare.

Una
caratteristica di questi istituti è lo spirito di famiglia e
collaborazione che vi regna. Ho l’impressione di essere in una comunità
molto interessata a migliorarsi, convinta d’avere in mano la chiave per
trasformare il futuro dell’Argentina. Ancora una volta si può toccare
direttamente l’efficacia dell’animazione fatta dai padri José Luis Pereira
e Silvio Lorenzini. Questi missionari sono attenti nel trasmettere i
valori del vangelo, convinti che non vi sarà una formazione completa,
senza quella spirituale. Non si devono ripetere gli errori dell’era «jurassica»,
quando i dinosauri avevano una struttura fisica enorme, ma con una massa
cerebrale molto piccola, incapace di controllare e soddisfare le esigenze
somatiche; per cui si estinsero!


Personalità armoniosa e società, scienza e fede illuminata, economia equa
e politica coscienziosa: ecco gli estremi di una formazione modea,
necessaria in Argentina. E sono lieto di sapere che i miei confratelli
missionari vedono nella scuola un luogo privilegiato per plasmare uomini e
donne del futuro.

Adelante,
padres!, sempre avanti! In attesa, domani, di impegnarsi più a fondo,
anche nell’università.

L’ultima
sera del mio soggiorno a Buenos Aires, nella cappella della casa
provinciale, bruciava un cero davanti all’immagine della Consolata. La
fiammella tremolante mi ha spinto a una riflessione, un augurio per questa
gente affascinante:

«Non
temere, Argentina! Le tue mani non cedano, perché il Signore, tuo Dio, è
in mezzo a te. Egli sarà tuo salvatore, esulterà per te di gioia e ti farà
nuova con il suo amore» (Sof 3, 16-17).

 


Il «peso»
diventa… leggero

Il
fallimento socioeconomico argentino è da ascriversi pure allo stesso De la
Rua e al ministro dell’economia Domingo Cavallo, sostenitore della
globalizzazione-privatizzazione delle imprese, che ha creato numerosi
disoccupati.

Nuovo
presidente (il quinto in 20 giorni) è Eduardo Duhalde. Questi ha bloccato
il pagamento dell’enorme debito estero (132 miliardi di dollari) e ha
sospeso la parità tra peso (moneta argentina) e dollaro, con una
svalutazione del 30%. L’inflazione è dietro l’angolo. Le tensioni non sono
finite: La crisi argentina preoccupa anche Stati Uniti, Messico, Cile,
Uruguay, Spagna, Italia.

La
crisi è sociale, ma non solo. «Va tenuto presente – ha detto l’arcivescovo
Estanislao Karlic, presidente della Conferenza episcopale – che
l’Argentina vive una crisi profondamente morale, una crisi che coinvolge
tutti, non solo i leader. Le “mazzette” non le prendono solo i politici,
ma anche altri cittadini».

Jean Paré




MEDICINA INDIGENA: un intreccio misterioso di pratiche

MALATTIA E MORTE,<I GRANDI TABU'


I numeri
magici

Il popolo
africano, senza distinzione alcuna, è fondamentalmente legato alla terra:
non sono tanto gli elaborati sofismi di pensiero a occupare le menti delle
persone quanto i risvolti vitali che la realtà quotidiana può avere nella
loro esistenza. Ogni minerale, ogni pianta, ogni animale racchiude in sé
un potere, una forza capace d’influenzare in bene e, spesso, anche in male
la vita di un individuo.

Da qui una
nozione di medicina, che per noi è ormai indissolubilmente legata al
freddo e preciso concetto di scienza, mentre per l’africano indica un
insieme di norme spirituali e morali, oltreché di rimedi e cure. Non per
niente il personaggio più carismatico del villaggio africano è
l’«operatore magico» o sciamano, che unisce poteri divinatori-spirituali a
quelli curativi-geomantici.

La
medicina è considerata una pratica misteriosa, nella quale rientrano
normalmente la chiaroveggenza, la demonologia, la necromanzia,
parallelamente alla diagnosi, all’eziologia e alla terapia di una certa
malattia. Se dunque dalla e nella terra si manifestano gli spiriti e le
anime dei defunti, fondamentale diventa la conoscenza delle erbe
(fitoterapia) e del loro uso spesso combinato con sostanze di origine
minerale (talco, argilla, sale, ecc.), come pure la conoscenza di sostanze
di origine animale (teste di lucertola, polvere di scorpione, lingua di
serpente, ecc.).

L’utilizzo
di erbe, radici e foglie è determinato non solo da osservazioni e scoperte
empiriche sulle loro proprietà curative, ma dal «modo», dal «numero» e da
altri parametri.


Importante, ad esempio, è la magia che riveste il numero. Il numero 1,
numero singolo e fondamentale; il 4, numero sacro che rappresenta i 4
punti cardinali a simboleggiare la totalità del potere curativo. Se ad
esso si aggiungono le due direzioni, alto e basso, ecco che anche il 6
diventa un numero di grande importanza. C’è il 7, rappresentante del ciclo
ebdomadarico del tempo.

Da qui
l’attenzione ad assumere i rimedi e a celebrare i rituali in date
«numericamente» propizie dei calendari solari o dei quarti lunari e, per
le donne, del ciclo mestruale.

Quando,
come, dove

Se la
posologia (l’aspetto che regola la quantità e la modalità di assunzione di
un farmaco) è una questione di occhio o di mano, in cui la quantità degli
ingredienti delle varie pozioni viene misurata in maniera un po’
approssimativa (si va dal pizzico, alla manciata o a «qualche goccia»),
per l’africano ha invece molta importanza la determinazione precisa sul
come e dove le pozioni debbano essere assunte.

Ebbene,
come disporsi con il corpo rispetto al sole o alla luna? Come celebrare il
rito seguendo una precisa successione di gesti e invocazioni. E dove? Nel
centro del villaggio, davanti a tutti, o piuttosto nel fitto della
foresta, da soli o con lo stregone?


Medicina
senza limiti o confini

Il
concetto di medicina per gli africani è, quindi, molto variabile e assai
più ampio di quello inteso da noi. La medicina in Africa non è solo la
sostanza capace di far passare un dolore, una malattia, ma è anche la
pozione che placa gli spiriti cattivi che impediscono a una madre di avere
figli, che portano un marito o una moglie all’adulterio. Medicine sono i
filtri d’amore che fanno conquistare la donna o l’uomo di cui si è
segretamente innamorati; sono anche le offerte di distillati o impiastri
per il feticcio del villaggio, affinché propizi un buon raccolto o
protegga dalle calamità.

Sì, perché
di fatto, in Africa, non esiste una separazione tra le cosiddette «piante
officinali» e quelle normali o alimentari come il mais, il peperoncino o
la patata. Tutto può essere medicina per l’africano, perché egli si sente
al centro tra quel cosmo animato da spiriti e creature, che è aldilà, e
quella natura, benefica o terribile secondo le circostanze, che è la terra
con i suoi elementi viventi o inanimati.

Qualcosa
da imparare?

In una
società come quella occidentale, in cui si eleggono a modello soprattutto
gli aspetti esteriori della vita (bellezza, forza, imponenza), l’Africa
insegna a non perdere il senso interiore e spirituale dell’esistenza
umana, di ogni suo momento: in particolare di quelle fasi critiche, come
la malattia e la morte, con cui tutti ci troviamo a fare i conti.

La
medicina modea si trova ormai ad affrontare con grande disagio la
quotidiana lotta contro la malattia e un frustrante senso di impotenza
verso la morte. Si sta giungendo a un pericoloso bivio: da una parte, c’è
il rischio di eccedere in attenzione verso un modello di freddo e
tecnologico efficientismo e, dall’altra, c’è la chiusura a riccio in una
corazza di superficialità e cinismo di fronte alla malattia e alla morte,
al punto da farle diventare tabù.

In
entrambi i casi il risultato è una spersonalizzazione del rapporto tra
malato e medico ed una estraneazione al coinvolgimento e a quella empatia
che sono gli elementi basilari del rapporto umano.

La scienza
medica e la farmacopea occidentali sono di enorme aiuto nella cura di
tante malattie che affliggono il continente africano e nel superamento di
numerosi pregiudizi che, spesso, ne sono la causa: per esempio certe forme
di mutilazioni neonatali o femminili, le malnutrizioni infantili…

Ma
altrettanto importante è il messaggio di umanità e riappropriamento di
valori umani che l’antica saggezza africana può ancora offrire a noi.

Gianni Martinetto




DI CHI E’ QUESTA TERRA?

Ghadamès, l’«interdetta»


Se si può parlare di mal d’Africa, a maggior ragione si può
definire la passione per il deserto qualcosa di più di una malattia. Ancor
oggi chi viaggia sulle strade asfaltate del sud algerino non può non
restare catturato dal silenzio interrotto solo dal «tobol», il tamburo
della sabbia, il rumore cadenzato prodotto dal contatto del vento con le
dune.
(Eric Saleo)

Perla nera
delle sabbie, città delle sette porte, crocevia carovaniero e mercato di
schiavi: ecco Ghadamès, vero avamposto del deserto. Ancora oggi, con
Timbuktu, Ouadane e Chinquetti, è una delle più belle e misteriose città
del deserto. Al presente quasi sepolta dalla sabbia, mille anni fa era un
importante centro carovaniero, ricco di scambi commerciali (oro, avorio,
pietre preziose) e culturali.

Costruita
in un’oasi di sogno, sotto il livello della strada al riparo dalle sabbie,
appare al visitatore come una città sotterranea dall’affascinante
labirinto di viuzze tortuose e buie, al confine con Tunisia e Algeria. Con
la spedizione di Lucio Coelio Balbo (20-19 a. C.), i romani vi
stabilirono un presidio (Cydamus), di cui sono ancora visibili i resti.

La sua
storia è una catena ininterrotta di invasioni e lacerazioni della propria
identità. Convertita al cristianesimo durante l’impero bizantino, fu
occupata in seguito dalla irruzione musulmana del 667 d. C. Nel 1825
l’esploratore inglese Alexander Gordan Laing fu il primo europeo che la
menzionò dopo secoli di silenzio. Il suo lungo viaggio in Sahara terminò
purtroppo tragicamente a Timbuktu, dove anche gli ultimi appunti di
viaggio furono distrutti dagli aggressori. Anticamente Ghadamès era nota
come «l’interdetta» e ancora oggi sono rarissimi gli occidentali di
passaggio.

È un luogo
insolito: non ha i caratteri di alcuna città libica, tunisina o algerina,
pur essendo un crocevia fra i più frequentati. Viene definita una città
intensamente africana per i colori accesi, i disegni esoterici, le torri,
lo sgargiante artigianato e, soprattutto, per quelle viuzze coperte, più
simili a cunicoli sotterranei. I vicoli di Ghadamès sono stati progettati
da abilissimi architetti, per catturare ogni folata di vento, ogni
squarcio d’ombra e di freschezza.

Oggi,
sull’antica Ghadamès è sceso il silenzio: dagli anni Ottanta i suoi
abitanti si sono trasferiti nella sua periferia, dove il governo libico ha
fatto costruire ambienti più confortevoli per la popolazione. L’UNESCO ha
preso sotto la sua tutela questa perla del deserto; ora, nelle sue vie
silenziose, si odono solo i rumori dei restauratori, piccoli gruppi
impegnati a valorizzare la porta millenaria, che conduce ai giardini di
palme ed orzo, ai quartieri berbero e arabo, all’hamman dove si raccoglie
l’acqua della sorgente.

Avvolte
in lunghi mantelli e veli, solo tre donne sono rimaste stabilmente qui:
madre, figlia e nipote. I loro abiti svolazzanti e il portamento regale
richiamano alla mente un vecchio regno arabo dalle favolose leggende. Chi
sono? Perché vivere come eremiti nel silenzio di case vuote? Solo ad un
turista frettoloso, tuttavia, queste case possono sembrare vuote: chi ci è
vissuto ricorda ancora cicalecci di donne sulla soglia di casa, grida di
bimbi, discorrere di uomini accomunati da un uguale destino.

Ma le case
non sono così mute come sembrano: percorrendo lentamente i tortuosi
viottoli, si scoprono luminose piazzette tra piccole case dai fantastici
decori dipinti dalle donne, la Usaiet el Tutà o mercato degli schiavi, i
terrazzi decorati che circondano orti e giardini, il minareto e la
moschea, i tetti e le merlature. Le palme da datteri sopravvivono ancora
dando frutti e ombra. La vecchia Ghadamès, patrimonio dell’umanità,
sopravvive malgrado l’apparente abbandono urbano.

Nonostante
le nuove e confortevoli costruzioni, la gente continua a vivere, anche di
giorno, nella vecchia città. Un proverbio arabo recita così: «Se la palma
muore, muore anche la città». Per questo e per altri motivi forse più
pratici, le vie strette e buie ma fresche e accoglienti sono ancora
frequentate e i giardini e i palmeti coltivati come un tempo, quasi che da
un giorno all’altro qualcuno venisse a controllae la vitalità.

I lunghi
corridoi coperti, più simili a tunnel scavati nel tufo, con il loro
andamento tortuoso servono a bloccare la sabbia trasportata dal vento. La
luce penetra da alcuni lucernari, e i sedili di pietra sporgenti dai muri
offrono ad ogni ora un fresco isolamento (rifugio, riparo) dalla calura
estea.

Entrando
nelle case si resta affascinati dai colori: muri bianchi decorati
prevalentemente in rosso, porte dipinte di blu, nicchie gialle, verdi,
rosse e ocra. Si salgono scale di pietra per raggiungere la «stanza di
soggiorno». Curiosamente nascosta in una nicchia, superabile solo
strisciando sul pavimento, appare l’alcova, dove per tradizione gli sposi
trascorrono solo la prima notte di nozze. Le stanze superiori e le
terrazze completano l’appartamento. Ovunque trionfa il bianco dei muri,
l’ocra, il giallo, il rosso, il blu. Sono colori caldi, ma non aggressivi,
e così ben armonizzati da lasciare una sensazione rilassante.

Visitare
Ghadamès è inoltrarsi in un passato che è ancora vivo, un mondo magico
dove gli uomini delle sabbie sono stati felici con poco. Lo sono
altrettanto ancora oggi?


Litanie delle
dune

Dune,
grandi dune ondulate come l’acqua del mare,

Dune dalla
fronte calva,

Dune, che
il vento lavora e tormenta senza tregua,

Dune, che
una goccia d’acqua rinfresca una volta ogni cent’anni,

Dune, che
vedete passare le carovane,

Dune
melodiose, che cantate al levare del sole,

Dune dal
buus d’oro e dal buus di neve,

Dune, dai
fianchi sollevati

come
quelli di una donna prossima a partorire,

Dune,
nostro sudario quando il simun soffia e ci travolge,

Dune,
grandi dune del deserto, rendeteci dolce la strada

E fate che
arriviamo alla meta…

Così
salmodiando, essi camminano lungo la strada nella sabbia, l’uno dietro
all’altro, al passo lungo e leggero dei nomadi.

Liliana Pizzoi