Giornale o vangelo?

Spettabile redazione,
sono passati mesi dal G 8
di Genova. Ma non posso
dimenticare le devastazioni
che la mia città ha subito
ad opera dei black
block, con la connivenza
di cosiddetti cattolici, preti
e non preti.
Si è distinta SUOR PATRIZIA
PASINI, missionaria
della Consolata, che a
Boccadasse ha aiutato delinquenti,
anarchici, atei.
Allego per maggiore chiarezza
un ritaglio de il
Gioale, 22 luglio 2001.
Mi auguro che nelle vostre
fila non ci siano altre
«Patrizie Pasini».

Le «Patrizie», come
quella de il Gioale, non
non sono mai esistite fra
le missionarie della Consolata.
Il quotidiano ha
attaccato anche l’episcopato
ligure… Forse giova
ricordare che il giornale
non è il vangelo.

Mina Razeto




TROPPI ELEFANTI IN UN PALAZZO DI CRISTALLO

Sono vissuto 25 anni in COLOMBIA. Nel 1978
approdai a Remolino, nella foresta amazzonica
del Caquetà, durante la settimana in cui a
Roma fu sequestrato e poi ucciso Aldo Moro…
Ricordo le notti trascorse in lunghe conversazioni
con i campesinos che, di fronte alla guerra civile,
abbandonavano le città in cerca di libertà e terra da
coltivare, strappata alla selva millenaria. Era il meglio
che potessero avere. Poi scoprii che erano vecchi
comunisti, considerati un pericolo dai partiti tradizionali,
detentori del potere.
Oggi, in Italia da poche settimane, penso alle elezioni
legislative del 10 marzo scorso e a quelle del 26
maggio, allorché la Colombia avrà un nuovo presidente
della repubblica. E mi sconvolge l’ennesimo
assassinio: quello di Isaías Duarte Cancino, arcivescovo
di Cali (16 MARZO 2002). Il prelato, come testamento,
lascia anche un monito: «Fino a quando
dovremo catturare dei vandali, che si sentono autorizzati
a massacrare solo perché recano un bracciale
con la sigla Farc (Forze armate rivoluzionarie di
Colombia), Eln (Esercito di liberazione nazionale),
Auc (paramilitari)?».
In Colombia tutto è fragile ed imprevedibile.
Nulla è scontato. Nei primi anni ’90, quando lo
stato dichiarò guerra al narcotraffico, l’opinione
pubblica nazionale e internazionale non credevano
che le istituzioni avrebbero vinto. Infatti Pablo
Escobar, re della cocaina, sedeva al Congresso come
un cittadino perbene: era un elefante in un palazzo
di vetro… e qualcuno pretendeva che, al suo passaggio,
non restasse un coccio sul pavimento. In altre
parole, la connivenza tra potere politico e narcotraffico
era chiara, però gli organi ufficiali non l’ammettevano.
Il presidente Eesto Samper, eletto nel
1994, si dichiarò pulito. Ecco perché la democrazia e
la legalità erano fortemente minacciate. Ma
le istituzioni hanno reagito, sconfiggendo i cartelli
della droga.
Oggi il pericolo deriva, soprattutto, dalla connivenza
tra politica e guerriglia (che si avvale di cospicui
proventi della coca). Ancora una volta, dopo le elezioni
di marzo, la legalità è in pericolo, perché un
nuovo elefante sta attraversando le sale del palazzo
di vetro: le guerriglie, appunto, di destra e sinistra.
Tra i nuovi eletti ci sono i candidati imposti dall’elettorato
clandestino dei guerriglieri Farc, Eln, Auc.
È un nuovo schiaffo al popolo colombiano, che dovrà
ancora convivere con l’illegalità.
Come non ricordare, ad esempio, i 3 mila sequestri
di persona all’anno e gli assassini impuniti di numerosi
leaders sindacali e politici (di partiti minori)?
Il discorso sul potere politico-servizio della collettività
emerge solo durante la campagna elettorale dei
deputati. Una volta eletti, la festa è finita e… «gabbato
lo santo».
Dopo la rottura definitiva dei dialoghi di pace tra
governo e guerriglia (FEBBRAIO 2002), il quadro politico
assume toni ancora più foschi. Agli slogan radicali
dei fautori della guerra totale, si contrappongono
quelli dei sostenitori di progetti di sviluppo e
giustizia sociale, che è difficile realizzare.
L’unica via di uscita potrebbe essere il
pueblo. Abbandoni la protesta facile e si
vincoli maggiormente al destino della sua
patria. Viva più a contatto con le istituzioni pubbliche,
superi l’indifferenza e l’omertà, reagisca alla
cultura della violenza e dell’illegalità.
Abbandoni la doppia morale: piangere il morto oggi
e non vedere-sapere-udire niente domani.
La Colombia non merita di essere ciò che è o appare.

GIACINTO FRANZOI




Tutti insieme!

Caro padre direttore,
solo in aprile mi è arrivata
Missioni Consolata di febbraio,
mentre in marzo mi
è giunta quella di dicembre.
Ma non facciamo polemiche
sulle poste…
Ieri sera, domenica, mi
sono dedicato a leggere la
rivista, invece di guardare
il «cassetto idiota» (così
sembra che gli americani
chiamino la tivù).
Sono rimasto molto male
nel leggere tutte quelle
lettere, piene di tracotanza,
cattiveria ed anche di
insulti. Sono rimasto male
soprattutto perché le lettere
provengono da credenti
che si definiscono cattolici
doc, che si vantano di avere
fratelli e figli preti, e
poi criticano perfino il papa
(quando egli parlava
contro il comunismo, i
mass media facevano da
cassa di risonanza; ora
che il papa giudica severamente
il capitalismo, tutti
zitti!).
Mi viene in mente Gesù
che diceva: «Lo so che siete
stirpe di Abramo, ma
intanto cercate di uccidermi,
perché la mia parola
non trova posto in voi»
(Gv 8, 38). E lo hanno ucciso
davvero.
Caro direttore, mi verrebbe
voglia di buttarmi
nella mischia anch’io, ma
dalla tua parte (e avrei
tanti argomenti documentati).
Però mi chiedo: è
mai possibile che noi, cristiano-
cattolici, ci scanniamo
a vicenda? Che cosa ci
direbbe Gesù Cristo vedendoci
così inviperiti gli
uni contro gli altri?
Inoltre mi dico: i fascisti
di Mussolini (penso che
fossero in buona fede, almeno
all’inizio) non sarebbero
arrivati in fondo
al baratro (dittatura e
guerra), se si fossero fermati
ad ascoltare anche
quelli che non la pensavano
come loro… Se i papi si
fermano a ragionare e a
dire, per esempio, che la
proprietà privata non è
sempre una cosa sacra,
perché anche noi, fedeli,
non ci fermiamo per capire
meglio i punti di vista
dell’altro che si dichiara
cristiano-cattolico?
E pensare che parecchi
politici, oggi, si ritengono
eredi prioritari della «democrazia
cristiana», ma si
comportano peggio di tutti
gli altri.
A me sembra che il linguaggio politico-televisivo,
carico di violenza, arroganza
e cattiveria, abbia
invaso anche le nostre
persone… se scriviamo lettere
come quelle pubblicate
su Missioni Consolata.
Caro padre, perché continui
ad essere così onesto
da pubblicare quelle letteracce
(tralasciando magari
l’autore per non esporlo al
vituperio) e a limitarti a
risposte brevi sperando
che gli interlocutori capiscano?
Ma forse ne avrai
per poco tempo. Forse ti
faranno fare la fine dell’ex
direttore di Nigrizia.
Ma intanto va’ avanti e
continua ad essere «la voce
dei senza voce»: la nostra
voce. La voce dei poveri
che cercavi di aiutare
quando eri missionario in
Africa; la voce di chi non
possiede giornali, né canali
televisivi né altro.
Siete rimasti in pochi
ormai, voi missionari. Io
vorrei aiutarvi, ma non
posso fare molto. Intanto
vi prometto la mia preghiera.

Caro Carlo, tu hai la
missione nel cuore, visto
che sei anche fratello di
padre Luigi, in Colombia,
e di suor Virgiliana
in Tanzania: entrambi
missionari della Consolata.
Senza scordare la sorella,
monaca di clausura.
Avanti tutti insieme!
Anche pregando.

Carlo Duravia




L’EMIRO NON BADA A SPESE

Dubai, uno dei sette Emirati Arabi Uniti.
Brillano l’oro biondo e, soprattutto,
quello nero, ossia il petrolio.
E moltissimo è cambiato
sia a Dubai-città sia a Dubai-emirato.
In maggioranza la popolazione
non è araba, ma europea, americana,
asiatica. Ma gli arabi, con gli sceicchi
in testa, dettano legge.

Se, dall’Italia, viaggiate con la compagnia aerea Emirates
(rinomata per comfort ed efficienza), il
volo vi sembrerà breve. Oltre a giornali, vi distribuiscono
subito cuffie particolari per telefonare a
terra. Inoltre lo schienale della poltrona, anteriore alla
vostra, ha un mini schermo televisivo…
Dove stiamo andando? Negli Emirati Arabi Uniti e,
precisamente, a Dubai, sulla «costa dei pirati» della penisola
arabica, antico crocevia fra le Indie e l’Africa…
Atterriamo, salutati da un’orchestra di violini.

UN VILLAGGIO DI PESCATORI
Dubai iniziò a identificarsi come entità verso il 1830,
dopo la separazione da Abu Dahbi. Ma, per il resto del
secolo, rimase un villaggio di pescatori di perle, con una
piccola comunità di mercanti.
Nel 1892 Dubai ed altri sei emirati
(vedi «note storiche») divennero
un «protettorato britannico». Lo
scopo di Londra era di controllare
un’area vitale per la protezione del
suo impero in India.
Verso la fine dell’800, la famiglia
regnante di Dubai (Al-Maktum, discendente
dalla confederazione tribale
dei Bani Yas) attirò i commercianti
dalla Persia e dal vicino emirato
di Sharjah. Nel 1903 Dubai
ottenne dall’Impero britannico una
linea di battelli a vapore, che permise
legami regolari con Inghilterra,
India e Golfo centro-settentrionale,
determinando una rapida crescita
economica.
Nel 1939 vi fu un’altra scelta decisiva
per la crescita di Dubai: la trasformazione
dell’attività principale
delle perle, voluta dal capo Rashid
Bin Saeed Al-Maktum, a causa del
crollo del loro commercio. L’emirato
divenne un centro di «riesportazione
» (de facto contrabbando) dell’oro
in India. Il traffico assicurò ingenti
proventi a Dubai negli anni ’60
del secolo trascorso.
Nel 1966 fu scoperto il petrolio: il
secondo «oro» di Dubai, cacio sui
maccheroni… I proventi accelerarono
la modeizzazione e aumentarono
i profitti del commercio, la base
della ricchezza della città.
Nel 1968 la Gran Bretagna scaricò
una doccia scozzese sugli sceicchi
della regione, con l’annuncio del
suo ritiro dal Golfo nel 1971. I capi
locali, scioccati, fecero fallire il progetto
inglese della federazione dei
sette emirati, più il Bahrain e Qatar.
Motivo del contendere, la definizione
delle frontiere. Già prima del
protettorato, fin dall’XI secolo, questi
staterelli erano deboli e in perenne
guerra per strapparsi il territorio:
sceicchi sciocchi che, con le loro liti,
favorirono il divide et impera della
potenza coloniale.
La longa manus di Londra, con la
sua diplomazia, riuscì a costituire
nel 1971 una federazione di sette emirati:
gli Emirati Arabi Uniti, appunto,
fra cui Dubai. Il loro potere
è assoluto.

CITTÀ ED EMIRATO
Non esistono partiti politici, per
rappresentare e difendere categorie
sociali o protestare di fronte a squilibri
e basso tenore di vita. Lo sceicco
di Dubai ha sottoscritto un tacito
patto con i sudditi: il loro consenso
in cambio di benessere generale e, in
particolare (sogno di tutti i paesi desertici),
della progressiva trasformazione
del territorio in giardino.
Gli abitanti autoctoni di Dubai
sono una minoranza; non lavorano
«materialmente», ma per lo più organizzano
i lavoratori stranieri, specie
asiatici. Gli stranieri, «padroni»
in affari, possono soltanto essere soci
con meno del 50% del capitale
delle imprese.
Quanto all’ambiente ed urbanistica,
Dubai è il fiore all’occhiello
dell’emirato: per giardini, aiuole e
parchi, con prati all’inglese, fiori e
palme («oro verde» in una regione
desertica). Le facciate dei modei
palazzi sono illuminate, con gusto
oamentale arabo-beduino, da collane
e ghirlande di lampadine; lungo
le strade i lampioni hanno lo stelo
cosparso di luci e (ultimo tocco di
fiaba esotica) le palme si presentano
con il fusto tempestato di lampadine.
La città vanta uno dei più bei panorami
urbani della regione ed è la
più vivace del Golfo Persico.
Grazie al florilegio di spazi verdi,
è aumentata anche la piovosità, in una
regione naturalmente arida.
Quali risorse permettono di affrontare
spese astronomiche per edificare
palazzi e creare il verde sulla
sabbia? (Ci sono pure campi da
golf – i primi del Medio Oriente – e
il palazzo del ghiaccio in un clima
che raggiunge i 50° a luglio-agosto).
Risposta: soprattutto il petrolio, uno
degli ori di Dubai, oltre a gas naturale,
commercio e turismo, di cui
l’emirato è leader nella regione. Fiorente
la pesca, che un tempo aveva
un risvolto nobile e ardito: quello
dei pescatori di perle.
Il commercio mette a disposizione
numerosi articoli a prezzi convenienti:
l’oro ha un mercato (il Gold
Souk, luccicante di fittissime e sfarzose
vetrine), che è uno dei più grandi
empori mondiali per l’oro al dettaglio;
offre dai lingotti ai giornielli più
lavorati e ricercati. Gli antiquari di
Dubai offrono anche monili e suppellettili
arabo-beduine. Inoltre orologi,
apparecchiature elettroniche
e fotografiche, tessuti, tappeti (specialmente
persiani, che si acquistano
molto bene), profumi.
Il profumo esala dai cosmetici e
dal mercato delle spezie, tipico delle
città arabe, dove si sentono (in un
dedalo di angusti vicoletti) gli intensi
aromi dei chiodi di garofano,
cardamomo, cannella, incenso.
Dubai è una seconda Mecca… degli
acquisti.

UN CROCEVIA DI POPOLI
Dubai conta 700 mila abitanti,
all’80% stranieri: quindi è assai cosmopolita.
Numerosi gli indiani e i
pakistani, mentre sono statunitensi e
inglesi i tecnici delle imprese che
hanno compiuto le più importanti opere
industriali. Lingua ufficiale è
l’arabo, ma ovunque è capito l’inglese;
si parla anche il parsi (lingua
persiana) e persino l’urdu, dati i pakistani.
La religione è l’islam al 95%, con
un 3,8% di cristiani. Questi (quasi
tutti stranieri) costituiscono una presenza
discreta e godono di libertà di
culto; ma è vietato il proselitismo.
Negli altri emirati si registra il tentativo
di convertire tutti all’islam.
I musulmani sono sunniti della
scuola malikita o hanbalita. Molti
hanbaliti sono wahabbiti, non rigorosi
come in Arabia Saudita. Non
mancano musulmani ibaditi e sciiti:
gli ultimi discendono probabilmente
dai mercanti e lavoratori giunti
dalla Persia tra fine ’800 e inizi ’900.
La criminalità è pressoché inesistente.
Pertanto si respira aria di benessere
nella sicurezza e, tenendo
conto della modeità, c’è un’atmosfera
alla «Montecarlo» con fascino
arabo.
L’atteggiamento verso l’occidente
non è improntato a nazionalismo
o ad una religiosità fanatica e intollerante,
ma è favorevole, maggiormente
dopo la guerra del Golfo nel
1990-91, quando gli Emirati foirono
truppe alla coalizione anti-irachena.
Ciò non di meno, Dubai intrattiene
buoni rapporti con l’Iran,
che risalgono a livello culturale ed economico
alla metà del 1700.
In complesso gli Emirati, dall’indipendenza
ad oggi, sono stati uno
dei più stabili e tranquilli paesi del
mondo arabo. La stessa posizione
geografica, in un golfo per 5 mila anni
teatro di intensi commerci, ha favorito
la mescolanza di culture ed
etnie e, quindi, la tolleranza per al-
tri stili di vita.
Qui si sono incontrati popoli provenienti
dal Mediterraneo e dal Mar
Rosso con egizi, greci, romani, africani
orientali; da nord sono giunte
le civiltà medio-orientali della Mesopotamia
e da est la Persia, il Pakistan,
la Valle dell’Indo e la Cina.

VECCHIO E NUOVO
Pur con gli standards urbanistici e
le imprese occidentali, all’interno di
Dubai hanno ancora autorevolezza
i vecchi capi, i cui antenati appartenevano
ai Bani Yas, detentori del potere
fra le tribù beduine fino al 1971.
Oggi rappresentano la famiglia regnante
di Dubai e Abu Dahbi, l’emirato
più vasto e ricco di petrolio,
dispensatore di aiuti ai paesi arabi
poveri.
La città di Dubai colpisce per i
grandi alberghi, che fanno a gara in
comodità ed eleganza, ma anche in
estro architettonico e arredi: la hall
di uno accoglie l’ospite con una scenografia
che ricorda l’oasi (modeamente
e tecnologicamente interpretata)
e un ristorante ruota lentamente
su se stesso, consentendo in
un’ora la vista completa della città.
L’aria condizionata è al massimo, al
punto da sentirsi a disagio.
Visitando Dubai vecchia, si scopre
che il condizionamento dell’aria
era già un successo del passato. Nel
Golfo Persico, ad esempio, «le torri
del vento» erano «campanili», che
nella parte superiore catturavano il
vento, diminuendo in quella inferiore
(abitata) la temperatura di 10-
15°. L’arieggiamento della casa si aveva,
negli anni ’50, anche nelle abitazioni
barasti, di canne e foglie di
palma, dove il vento non penetrava,
ma la circolazione dell’aria dava frescura.
Se si vuole però conoscere il passato
tradizionale e il recente sviluppo
di Dubai, bisogna recarsi al museo,
molto ricco e ottimamente realizzato
nel vecchio forte Al Fahidi.
È possibile vedere reperti archeologici
di 4 mila anni, immagini di vecchi
pescatori di perle, delle fasi dell’exploit
petrolifero, nonché una
completa e meticolosa ricostruzione
della vita dei beduini nel deserto: abitazioni,
abiti, utensili e persino…
sabbia, palme, cielo stellato. Incuriosiscono
gli animali di questa cultura
nomade; le attività consistevano
nell’allevamento di dromedari,
nell’agricoltura oasica, nei saccheggi
tribali e nella protezione (dietro
pagamento) delle carovane di mercanti
che attraversavano il territorio.
Un aspetto caratteristico di Dubai
è anche il creek, un’insenatura del
golfo nell’abitato, che divide in due
il capoluogo. Le rive pittoresche sono
punteggiate da dhows, antiche
imbarcazioni in legno che da generazioni
salpano verso i porti del
Golfo Persico, dell’India e dell’Africa
Orientale. Il creek, che si configura
come un porto-canale, è oggi
attraversabile anche con gli abra, i
taxi acquatici di Dubai.

A ROMPICOLLO SUL DESERTO
L’hinterland di Dubai è un bassopiano
desertico, che permette interessanti
ed esotiche escursioni.
Si parte in fuoristrada e ci si avventura
verso le dune. Per strada,
dove l’ambiente è più aperto e sabbioso,
si incontra il «dromedario-
dromo»: è lo stadio con la pista per
le corse dei dromedari, che rappresentano
lo sport più seguito e anticipa
il regno della sabbia. Ma, prima
di raggiungere le grandi dune, ci imbattiamo
in altri dromedari, anche
piccoli. È un allevamento, giustificato
dall’uso sportivo e da ragioni di
trasporto.
Durante la sosta si avverte un netto
cambiamento di clima rispetto a
Dubai: è più asciutto e leggero, con
una brezza piacevole. Sulla costa invece,
da maggio a settembre, i 40°
sono comuni, con un’alta umidità.
Nei mesi invernali il clima è ottimo,
anche se talora molto ventoso, e nel
deserto si raggiungono i 15°.
Ancora un breve tratto di pista…
e il fuoristrada Toyota Land Cruiser
100 si lancia in un saliscendi mozzafiato
sui fianchi e sulla cresta delle
morbide e grandi dune, che abbiamo
ormai raggiunto. L’auto arranca,
slitta, si riprende, sale in cresta e si
tuffa come nel vuoto verso la base
delle dune, «derapando»…
È il tramonto, l’ora delle emozioni
silenziose di fronte al disco del sole,
che cala dietro le dune…
Raggiungiamo un accampamento
beduino per una cena con cai alla
griglia, sdraiati sulle stuoie e sotto la
tenda dei nomadi, come nella ricostruzione
del museo di Dubai. La
«danza del ventre», la musica incalzante
e fascinosa accendono tra le
dune un’atmosfera da «mille e una
notte». In noi si riaccende, improvvisa
e immutata, la passione per il
deserto e il mondo arabo, dopo 34
anni dalla prima esperienza nel
Sahara: come se il tempo
si fosse fermato e il cuore
fosse rimasto laggiù.

Superficie: 83.OOO kmq.
Capitale della federazione: Abu Dhabi;
ogni emirato ha pure la sua capitale.
Abitanti: 2.600.000 (circa). Prevalgono
i maschi, che costituiscono circa
i 2/3 della popolazione: ciò dipende
dal forte afflusso di stranieri per
motivi di lavoro, che superano abbondantemente
gli autoctoni.
Lingua: arabo (e inglese).
Religione: islam al 95% (con una forte
prevalenza di sunniti su sciiti) e cristianesimo
al 3,8% (i cristiani
sono quasi esclusivamente stranieri).
Ordinamento dello stato: federazione
di monarchie ereditarie.
Il paese, ex protettorato britannico,
è governato dal Consiglio
supremo dei sovrani, cioè i sette
emiri, ognuno dei quali gode di
potere assoluto nel proprio territorio.
Le forze armate degli emirati
sono unificate. Nel 1997-
2000 il paese ha acquistato armamenti
per 4,2 miliardi di
dollari. Il sistema giudiziario si
basa sulla legge islamica (sharia).
Vige la pena di morte.
Economia: la risorsa numero uno è il
petrolio, seguito da oro e gas naturale.
L’agricoltura si pratica nelle oasi,
con datteri, agrumi, pomodori. Si allevano
dromedari. Notevoli gli investimenti
per incrementare le risorse idriche
con impianti di dissalazione. In
crescita il turismo internazionale, prima
dell’11 settembre 2001.
Indicatori economici: reddito pro capite:
14.700 di $; inflazione 3,3%, debito
estero 3.900 miliardi di $; analfabeti
20% (dati del 1996-1998).

LA SVOLTA DEL PETROLIO
Si chiamano «Emirati Arabi Uniti» e sono sette: Abu Dahbi
(l’emirato maggiore), Dubai, Sharjah, Ajman, Umm Al
Qaiwain, Ras Al Khaimah, Fujayrah. Il paese, come altri
nel Golfo Persico, è oggi all’avanguardia della modeità,
una modeità raggiunta negli ultimi 30 anni grazie al petrolio.
Il contrasto tra «vecchio» e «nuovo» è la caratteristica
preminente e peculiare di questi paesi, che sono però di
antico insediamento umano.
Gli emirati furono abitati (anche nell’entroterra) fin dall’età
del bronzo, nel terzo millennio A.C. Allora il clima era
molto più temperato di quello attuale. Le popolazioni ricevettero
importanti influssi culturali anche da altri popoli.
La regione si riaffacciò alla storia nel 635, l’anno della
totale islamizzazione della penisola araba: l’islam adottato
fu quello sunnita. Già nei secoli precedenti l’economia
era legata alla posizione di crocevia commerciale. Durante
il Medioevo gli Emirati fecero parte del regno di Hormuz,
che controllava l’ingresso nel Golfo Persico e i relativi commerci.
Agli europei la regione fu per la prima volta descritta dal
navigatore portoghese Vasco da Gama nel 1498, quando
dominava l’emirato di Julfar. I connazionali si installarono
nel basso Golfo Persico, tassando il fiorente commercio con
l’India e l’Estremo Oriente e sostituendo l’onnipresente Compagnia
britannica delle Indie orientali. Dopo il loro ritiro,
nel 1633 subentrarono gli imam Al-Ya’ribi dell’Oman, mentre
dalla metà del XVIII secolo la zona finì sotto l’influenza
della Persia. In questo periodo divenne nota come «la costa
dei pirati».
Dopo il protettorato britannico (1892-1971), si fece strada
l’idea di federazione. Intanto, a partire dagli anni ’60,
sulla regione zampillava l’oro nero. E la modeizzazione
fu rapida. Ondate migratorie da Egitto, Pakistan, ecc. formarono
una popolazione eterogenea. Nel 1993 gli arabi
erano appena un quarto del totale.
Nel conflitto tra Iran e Iraq (anni ’80) gli Emirati appoggiarono
l’Iraq, per scongiurare l’iranizzazione del loro paese.
Nella successiva guerra del Golfo Persico si schierarono
con gli Stati Uniti e alleati contro Saddam Hussein.
Nel 1994 fu imposta la legge islamica (sharia). Non sono
mancate violazioni dei diritti umani. Nel 2000 l’emirato
di Fujayrah condannò un’indonesiana alla lapidazione:
un castigo raramente somministrato nel paese. Gli Emirati,
con Arabia Saudita e Pakistan, riconobbero il regime dei
talebani in Afghanistan…
Sono retti dal Consiglio supremo, composto dai sette emiri
dei rispettivi emirati. Primo ministro è Maktum Bin Rashid-
Al Maktum, sovrano anche di Dubai.

Arcadio Corradini




La terra del latte e del miele

Sono circa 3 milioni i filippini
emigrati negli Stati Uniti.
Ne abbiamo parlato
con la dottoressa Lacanlale,
console generale delle Filippine
a New York.

Vi sono circa 3 milioni i filippini
negli Stati Uniti, concentrati
soprattutto in due
grandi Califoia e New York.
Mentre i filippini in Califoia svolgono
svariati lavori, a New York si
concentrano i professionisti (avvocati,
medici, manager, specialisti in
computer, infermieri, maestri, tecnici).
Nella «Grande mela» i filippini
sono presenti specialmente nei
quartieri di Manhattan, Woodside,
Hillcrest, Jackson Heights, Jersey
City e Ridgewood. Di loro abbiamo
parlato con il console generale
delle Filippine, la dottoressa
Linglingay Lacanlale, nel suo ufficio
presso le Nazioni Unite.

Lei ha menzionato che nella zona
metropolitana vi sono più o meno
400.000 filippini. Come console,
quale ruolo si prefigge di raggiungere
con loro?
«Il consolato generale filippino a
New York ha aperto una sede nel
1946, quando le Filippine e gli Stati
Uniti erano appena usciti vittoriosi
dalla guerra nel Pacifico. A quel
tempo lo scopo principale delle
Filippine era promuovere un’attività commerciale tra le due nazioni
ed assicurare gli interessi americani
in Asia attraverso la cooperazione
dei suoi alleati.
Da quell’anno le prospettive sono
molto cambiate. Anche se l’attività
commerciale tra Stati Uniti e
Filippine rimane sempre una priorità,
ora la parte principale del nostro
lavoro consiste nell’assistere i
nostri immigrati e fare sì che acquistino
sempre più importanza politica,
economica e sociale in questo
paese. Inoltre, ci siamo assunti un
altro importante impegno: dato che
i filippini provengono da oltre
7.000 isole, il consolato vuole essere
una forza unificatrice tra tutti.
Non ultimo, il consolato sollecita
i filippini che risiedono a New
York a fornire personale, finanziamenti
e contatti politici per alleviare
la povertà delle Filippine, che
colpisce soprattutto i giovani privandoli
così di un futuro».

L’altro giorno, mentre visitavo
un malato all’ospedale Mt. Sinai a
Manhattan, ho incontrato il suo
medico, Demetrio Cordero, un filippino.
Questi mi ha spiegato che
andare in America è da sempre la
più grande ambizione della maggioranza
dei filippini che studiano
medicina a Manila.
Per loro gli Stati Uniti sono «la
terra del latte e del miele» dove
vengono in cerca di una utopia, una
terra promessa che soddisferebbe
ogni loro sogno e ripagherebbe anni
di stenti e sacrifici. Un suo commento,
dottoressa?
«Tra il 1970 e il 1980 gli Stati
Uniti hanno sperimentato una scarsità
di medici, che hanno superato
approfittando dell’aspirazione filippina.
D’altronde, chi non vorrebbe
avere nel proprio ospedale o
clinica un medico a paga modesta?
I filippini, infatti, non costavano
troppo, non pretendevano tanto e
si adattavano facilmente.
Già dagli anni Sessanta l’emigrazione
negli Stati Uniti di medici e
studenti filippini di medicina iniziò
ad aumentare, anche se a quel tempo
pochissimi lo notavano. Poi con
l’approvazione della legge sull’im-
migrazione (emanata nel 1965) migliaia
di studenti di medicina entrarono
in questo paese.
Ricordo che in uno studio filippino
condotto negli anni Ottanta, si
citavano vari motivi per lasciare la
patria in così grande numero: la superiorità
della scuola medica statunitense,
l’opportunità di migliorare
la medicina delle Filippine, l’interesse
e la curiosità verso gli Stati
Uniti, l’alto stipendio che si otteneva
in questo paese, il prestigio sociale
e professionale che si aveva ritornando
nelle Filippine, e non ultimo
la possibilità di scappare dalle
angustie politiche, sociali ed economiche
che affliggevano il paese natio.
Basta che lei chieda a qualsiasi
medico o infermiera o manager per
capire cosa intendo dire».

Nel cuore di Manhattan vi è il
centro della comunità filippina
composto dalla missione alle
Nazione Unite, dal consolato generale,
dall’ufficio del turismo e
quello del commercio e dal centro
culturale. Lei, signora Lacanlale, si
è fatta un nome tra i filippini per
promuovere i giovani e sollecitarli
ad entrare nel mondo dell’arte.
Vuole dirci qualcosa al riguardo?
«Ben volentieri. Ho seguito con
particolare orgoglio e piacere l’artista
filippina oggi forse più nota nel
mondo, Lea Salonga, che ha coperto
ruoli importanti negli acclamatissimi
musicals “Miss Saigon” e
“Les Miserables”. L’ho conosciuta
a Manila (dove è nata il 22 febbraio
1971) e l’ho assistita quando si è imposta
come cantante. Ho anche conosciuto
suo fratello Gerard, anche
lui noto artista (ha composto il musical
“Halimaw”).
Negli Stati Uniti ho aiutato i cantanti
Gloria Pain, Ray Ann Fuentes,
Gary Valenciano Leah Navarro,
Eugene Villaluz, il pianista Sunico,
il violinista Romero e vari folk dancers.
Tutti questi artisti possono trovare
facilmente lavoro in America e
nel mondo.
Poiché i costi e le spese sono elevati,
è chiaro che la maggioranza di
essi proviene in prevalenza dalle famiglie
ricche del paese. Altri avrebbero
la capacità e la voglia, ma non
hanno i mezzi. Quando mi chiamano,
li aiuto volentieri e assicuro loro
che in America possono realizzare
il loro sogno se lo perseguono
con tenacia, buona volontà e facendosi
amici gli altri colleghi. Mi sento
realizzata quando si impegnano
e poi riescono a sfondare. È un onore
per loro e le Filippine».

Roosvelt Avenue nel Queens è il
centro dell’economia filippina a
New York. Ci sono varie agenzie di
viaggio e studi professionali, negozi,
imprese di costruzione e trasporto,
industrie tessili. Non è facile
per gli immigrati affermarsi in
un paese competitivo e regimentato
come l’America. Come si comportano
i suoi connazionali?
«Una parte degli immigrati filippini,
consci della loro preparazione
accademica, vuole essere indipendente
e creare qualcosa in proprio.
I più decisi si staccano dalle imprese
dove lavorano come dipendenti
e diventano imprenditori.
Secondo l’ultimo censimento economico
condotto nel 1997, gli americani
di origine asiatica posseggono
il 3,8 per cento di tutte le aziende
commerciali statunitensi, cioè un totale
di 476.711 ditte. Di queste, i filippini
sono proprietari di sole 50
mila, che danno un incasso di tre milioni
di dollari annui. Se Califoia
e Hawaii mantengono il record più
elevato, New York, Pennsylvania e
New Jersey vengono subito dopo.
Nel complesso, le minoranze residenti
in Usa attualmente hanno la
percentuale più bassa come proprietari
di compagnie, e i filippini in
particolare. Le ragioni di questo ritardo,
a mio avviso, dipendono da
vari fattori: divisioni tra gli stessi
connazionali, carenza di cultura
tecnologica, corruzione, scarsa preparazione
nel marketing e nella pianificazione.
Sovente mancano anche
un po’ di coraggio e la perspicacia
di cogliere le opportunità e
affrontare i rischi. In questo noi filippini
dobbiamo imparare molto
dagli americani».

Come in tutte le parti del mondo,
i genitori e i nonni tendono a seguire
il destino dei loro figli e nipoti.
Una volta emigrati in USA,
come si adattano gli anziani filippini
e come spendono il loro tempo?
«Sono in America perché vengono
chiamati dai loro figli. Dapprima
sono felici di essere qui, ma poi diventano
scontenti, anche se stanno
con le loro famiglie. A mio avviso le
ragioni di questa insoddisfazione
sono principalmente tre.
Per prima cosa, la classe media
delle Filippine ha sempre della servitù
che vive con la famiglia e che
svolge moltissime mansioni: lava,
cucina, pulisce la casa, accudisce i
bambini. Qui in America questo lavoro
lo svolgono gli anziani, mentre
i figli vanno a lavorare e comunque
qui non potrebbero permettersi di
avere del personale di servizio.
Una seconda ragione, più profonda,
riflette le differenze tra le due
culture. I figli e nipoti cresciuti in
America hanno un modo di vedere,
pensare ed agire sovente opposto a
quello dei loro genitori e nonni. Per
esempio, nelle Filippine si mangiano
tre pasti regolari, consumati con
calma, ad orario fisso e in casa. Qui
i pasti si consumano in fretta, ad
orari differenti e fuori casa.
I giovani nelle Filippine sono rispettosi
ed ossequienti verso i loro
genitori ed anziani, mentre qui si
credono indipendenti ed agiscono
di conseguenza, anche in campo
morale: non praticano la loro religione
in modo fedele come avviene
nelle Filippine; molti non si sposano
neppure in chiesa e il divorzio
diventa sempre più accettato. Nel
mondo esistono solo due paesi dove
il divorzio non è ammesso: Malta
e le Filippine.
Una terza difficoltà è che non si
adattano a vivere con persone di
cultura e razza diversa. Le evitano
rimanendo isolati nelle loro case,
frequentando i loro connazionali, e
interessandosi solo del loro paese di
origine attraverso la lettura di giornali
e riviste, programmi televisivi e
radiofonici e il contatto telefonico
con le famiglie rimaste in patria.
Sono particolarmente interessati alle
vicende politiche del loro paese.
A volte sarebbero tentati di ritornarvi,
ma non lo fanno perché l’economia
non migliora e la corruzione
non si riduce.
Quando leggono i giornali americani,
di solito corrono subito a vedere
quanto valgono i loro pesos rispetto
al dollaro e cosa dice il loro
presidente. Sono amareggiati, per
esempio, che ora ci vogliono 50 pesos
per fare un dollaro.
Però sono anche compiaciuti che
il precedente presidente, Joseph
Estrada, corrottissimo, sia stato finalmente
rimpiazzato dal nuovo,
Gloria Macapagal Arroyo, che apprezzano,
perché è una donna che
si batte per i poveri.
E non solo a parole».

E LO STIPENDIO VA A MANILA
«Nella città di New York vi sono circa 7 mila infermiere
filippine e sono considerate le migliori
nella loro professione» mi assicura Denise
Lane, che rappresenta l’associazione infermieristica
del prestigioso ospedale di Manhattan “New
York Medical Center”. «Dopo la laurea conseguita
nelle Filippine, lavorano per due o tre anni e poi
sono facilmente assunte dagli ospedali americani».
Denise non nasconde le condizioni difficili in cui
le infermiere lavorano: svolgono due o tre tui
consecutivi (compresi quelli nottui e serali); debbono
adattarsi a vivere strette in tre o quattro in
una piccola stanza assegnata loro dall’ospedale, e
soprattutto debbono fare ore di straordinario per
guadagnare denaro sufficiente per pagarsi le spese
e per mantenere le loro famiglie nelle Filippine.
«Però, nonostante il tantissimo lavoro, sono sempre
pronte a collaborare con il personale e sono
molto gentili verso i pazienti e i loro familiari».
Marylin Zameli e Amelia Deglate sono arrivate
in America circa 10 anni fa.
«La maggioranza delle infermiere filippine si sentono
aggravate da una doppia responsabilità» spiega
Zameli. «Per prima cosa, devono pagare i debiti
accumulati in anni di studio nelle università filippine
e, in secondo luogo, mantenere le loro
famiglie in patria. È abbastanza comune per un’infermiera
spedire 1.000 dollari al mese ai suoi vecchi
genitori nelle Filippine. E questo produce non
poche conseguenze sulla vita della persona».
«Conosco un’infermiera che ha dovuto comprarsi
un’automobile per recarsi al lavoro e ha dovuto
pertanto rifiutare di finanziare il matrimonio del
fratello, situazione che le ha creato un complesso
di colpa gravissimo» ha precisato Zameli. «E so di
un’altra collega che ha dovuto posporre il suo matrimonio
col fidanzato americano, perché si era impegnata
a far studiare il fratello e la sorella all’università
di Bacolod, dove anche lei aveva studiato
».
Appena arrivate, Marylin e Amelia hanno dovuto
combattere parecchio per adattarsi al lavoro e
alle altre infermiere non filippine.
«Non è uno scherzo essere separate dalle persone
che ami – ammette Amelia -. Per noi che siamo
nate e cresciute per vivere in famiglia e con le colleghe
ed amiche, cioè sempre circondate da gente
che ti conosce, apprezza ed ama, l’isolamento del
mondo infermieristico americano può essere devastante.
E bisogna aggiungere che, oltre a questa
emarginazione, devi vestire, agire e pensare secondo
il modo sociale e professionale dell’ambiente
dove lavori».
Nelle Filippine Marylin e Amelia, come tutte le loro
connazionali sono state educate a rispettare le
colleghe e a non intralciare il loro lavoro. «Qui in
America ho provato sovente il contrario ed ho capito
che, quando sei discriminata, devi parlare chiaro
e farti sentire, altrimenti ti mettono sotto i piedi
– dichiara Zameli -. Il problema è che pure alcune
infermiere filippine, che lavorano da tanti anni
in America, hanno imparato a discriminare ed è penoso
quando questo lo fanno anche a noi».
Per fortuna Marylin e Amelia hanno saputo trasformare
tutte queste difficoltà in trampolini di lancio
per organizzarsi meglio. Hanno capito che l’unione
fa la forza e hanno deciso di fare sempre le
cose assieme; dopo aver studiato nelle stesse università
di Visajas e Mindanao, sono venute assieme
negli Stati Uniti, lavorano nelle stesse sale operatorie,
frequentano gli stessi ristoranti filippini e
partecipano ad attività ed incontri promossi dall’ambasciata
filippina. Nel loro appartamento a
Glendale nel Queens, tra le foto di familiari ed attestati
di lauree, spiccano due grandi onorificenze
ottenute l’anno scorso per essere state tra le migliori
infermiere dell’ospedale Calvary nel Bronx.

LA DIFFERENZA? 300 MILA DOLLARI…
Quando gli chiedo che differenza ci sia tra essere
medico a Manila e a Manhattan, senza
esitazioni mi risponde: «300 mila dollari all’anno…
». Laureatosi nel 1978 all’università di Santo
Toas (UST) di Manila, James Mendez è arrivato
a New York City nel 1981 per specializzarsi in cardiologia
presso l’ospedale di St.Claire. Spiega quella
scelta con il bisogno di uno studio più approfondito,
che le Filippine non gli consentivano.
Nel 1982 viene ammesso per un anno di prova all’ospedale
e l’anno successivo è assunto in pianta
stabile.

«Non mi sono mai pentito di aver lasciato le
Filippine – confessa -. Ho deciso di imparare di più.
L’istruzione medica in America è decisamente superiore,
perché si può applicare subito ciò che si
impara. Ho conosciuto medici che sono tornati a
Manila dall’America e mi hanno sempre colpito per
la loro preparazione accademica e per il loro aggioamento.
Ho voluto essere come loro».
Sebbene si senta fortunato per essersi affermato
negli Stati Uniti ed essere riconosciuto come un
ottimo cardiologo, Mendez confessa di provare
spesso la sensazione profonda ed intima che egli
sarà sempre visto come uno straniero.
«A dire il vero mi sono sempre sentito uguale agli
americani, indiani, europei ed altri per quanto riguarda
la conoscenza medica – spiega -. Tuttavia,
quando sei un filippino, negli Usa senti subito che
non vi appartieni. Puoi assorbire il modo di vivere
americano, ma nel profondo del tuo animo sai benissimo
che non sei uno di loro. Sei cresciuto in un
altro stato, sei un filippino, uno straniero».
Negli ultimi cinque anni il dottor Mendez ha sognato
parecchie volte di tornare per sempre in
patria. «Là potrei fare una vita da milionario. Forse
girare con un autista privato e spendere metà della
mia vita giocando a golf e tennis, e l’altra metà
a curare i pazienti bisognosi della mia assistenza
medica».
Tuttavia ora James è sposato con Consolacion
Diaz, una infermiera di Ilocos Norte che ha conosciuto
nell’ospedale Luna Memorial di Manila.
Hanno avuto tre figli: Marcos, che si sta specializzando
in medicina nelle Filippine, Alan e Patricia
che studiano rispettivamente medicina e avvocatura
a New York, dove hanno voluto rimanere. Ora
anche i genitori preferiscono stare a New York, perché
si sentono più integrati nello stile di vita americana.
Mendez esaudisce il suo desiderio tornando nelle
Filippine due volte all’anno, per visitare la sua
città natale di Pototan Iloilo e offrire aiuti medici
gratuiti ai suoi compaesani con cui si mantiene in
contatto. Quando è nelle Filippine, frequenta la sua
«alma mater» a Manila, che aiuta
finanziariamente come segno
di gratitudine per tutto quello
che gli ha dato e che serve come
consulente medico senza alcuna
contropartita economica.
«I medici filippini sono ottimi e
sarebbero qualificatissimi per lavorare
in America – sostiene il
dottor James -. So che la maggioranza
di loro vorrebbe venire
qui, ma purtroppo oggi la legge
americana è cambiata. Infatti da
qualche anno la quota di immigrazione
concessa alle Filippine
è stata ridotta tantissimo».

Al Barozzi




CROCE, FLAUTO E VIOLINO

Francesco Solano fu una bella copia del poverello
di Assisi: seminava dappertutto amore e pace,
suonando, danzando, cantando le lodi del Signore.
Come apostolo fu paragonato a Francesco Saverio:
predicò il vangelo in sei nazioni del Sudamerica,
servendo i poveri e difendendo gli indios.

Statura media, esile, volto terroso,
malaticcio, ma con un’irrefrenabile
carica di vitalità e riso
contagioso; delicato e gentile con tutti,
quanto esigente e duro con se stesso:
così i contemporanei descrissero
il giovane Francesco Solano.
Oggi è chiamato il Saverio delle
Indie Occidentali, l’apostolo dell’America
meridionale, il taumaturgo
del Nuovo Mondo.

«A CENA CON GESÙ»
Era nato a Montilla (Cordova) il
10 marzo del 1549 da agiati agricoltori:
il padre Matteo ricoprì la carica
di sindaco della città.
A 15 anni entrò nel collegio dei gesuiti
di Cordova, privilegio derivante
dalla posizione del padre e dalla
benevolenza della marchesa di Priega.
Parlava poco e cantava sempre, ricordano
i compagni.
A 20 anni vestì il saio francescano
nel convento del paese, una comunità
di 30 frati appartenenti a un movimento
di rigida osservanza. Chiese
ai superiori di essere mandato in Africa,
ma fu spedito all’eremo di Loreto
(1572), presso Siviglia, per studiare
filosofia e teologia. Toò alla
carica per essere incluso nella spedizione
destinata al «Río de la Plata»,
insieme al compagno di studi, il suddiacono
Luis de Bolaños, futuro fondatore
delle «Riduzioni» del Paraguay.
La richiesta fu ignorata.
In compenso fu nominato cantore
del coro conventuale. Nel 1576
cantò la prima messa. Continuò gli
studi di morale o dei «casi di coscienza
», come si diceva allora.
Nel 1579, per stare vicino alla madre
cieca e al padre gravemente infermo,
toò al convento di Montilla,
dove nel frattempo scoppiò la peste.
Francesco correva da una casa all’altra
per assistere i malati e
confortare i moribondi. Si cominciò
a parlare di miracoli: un bambino dato
per morto fu da lui baciato e restituito
alla madre sano e vegeto.
Nel 1581 fu nominato maestro dei
novizi del convento di Arrizafa, poi a
san Francesco al Monte, nella Sierra
Morena. La solitudine conciliava la
sua sete di ascesi e contemplazione.
Ma anche lassù arrivò la peste. Insieme
a un confratello, Francesco riprese
a prodigarsi per aiutare gli appestati
della città di Montoro. Sempre
di corsa e trafelato, il volto smagrito e
livido dalla stanchezza, nascondeva
con la solita gaiezza il suo segreto: era
stato contagiato. Un giorno qualcuno
gli domandò dove andasse con tanta
gioia; egli rispose: «Vado a cenare col
mio Gesù; sono anch’io affetto da
piaghe». Se la cavò; mentre il compagno
morì tra le sue braccia.
Nel 1583 Francesco fu nominato
superiore o guardiano. La responsabilità
temprò il suo furore ascetico e,
contro ogni privilegio gerarchico, si
mise a fare i lavori più umili come gli
altri frati e creò frateità. «Danzava
nel coro e nella cantoria maggiore e
minore, ciò che non fanno i guardiani
» racconta un suo biografo.
Nel 1587 il Solano fu trasferito al
convento di Zubia, 5 chilometri da
Granada. Preceduto dalla fama di
medico, musicista, poeta e predicatore,
i pulpiti lo reclamavano, i poveri
lo assediavano, gli ammalati lo invocavano.
Francesco si accorse che
tanta popolarità metteva a rischio la
sua umiltà e chiese di nuovo di essere
spedito in Africa. Fu destinato all’America.
«Scelse la missione del
Tucuman, nel nord argentino, preferendola
alla Colombia, Perú e Messico,
perché era la più difficile e faticosa
e per desiderio di martirio».

«CANTATE FRATELLI,
IL MARTIRIO CI ATTENDE!»

Il 28 febbraio 1589 una flotta di 36
navi salpò da Sanlúcar, con a bordo
12 francescani, guidati da Baltasar
Navarro, superiore del Tucuman.
C’era anche Solano. Aveva 40 anni.
Era felice come una pasqua: pregava
e cantava, aiutava e rallegrava tutti i
passeggeri, gli schiavi neri soprattutto,
ai quali insegnava il catechismo e
teneva alto il morale con musica e
buon umore.
A Santo Domingo scesero tutti a
terra. Mentre l’equipaggio faceva
rifoimento di acqua e vettovaglie,
scoppiò una lite furibonda con i nativi
e ci scappò più di un morto. Gli
indios circondarono le navi. Per calmare
gli animi, Solano cominciò a
suonare il violino; un confratello
cercò di tirarlo in salvo, ma egli ripeteva:
«Cantate, fratelli, che ci attende
il martirio!».
A maggio la flotta arrivò a Cartagena
(Colombia). I frati proseguirono
a piedi per 500 chilometri, fino alle
coste del Pacifico: quattro di essi
morirono di stanchezza e malattia.
Rimasero a Panama per cinque mesi.
Com’era solito in ogni sosta forzata,
Solano cantava e curava malati, finché
un galeone li prese a bordo, con
altri 250 persone, per portarli in Perù.
Ma, arrivati in vista dell’isola Gorgona
(Colombia), una furibonda tempesta
spaccò la nave in due.
Una scialuppa cercò di mettere in
salvo i naufraghi. Ma Solano e altri
frati rimasero accanto agli 80 neri finché
non furono tutti portati a terra.
Un testimone racconta così quell’avventura:
«Per tre giorni stemmo nella
nave, con l’acqua alla bocca, senza
mangiare né bere né dormire, implorando
la misericordia di Dio. Fra’ Solano
stette sulla poppa predicando.
Da parte mia, non ebbi fame, né sete
e né sonno: con la sua predicazione e
conforto mi sembrava di aver mangiato
fagiani».
Portati a riva più morti che vivi, i
neri chiesero il battesimo, convinti di
essere scampati alla morte per le preghiere
del francescano.
Seguirono due mesi di fame e isolamento.
«Solano si prodigava per
procurare gamberi, pesci, erbe e radici
da spartire tra i superstiti – racconta
uno di essi -. Nessuno degli uomini
e frati, per quanto si sforzassero,
riuscivano a pescare alcunché. Un
giorno alcuni uomini si azzuffarono
come lupi per accaparrarsi le provvigioni
e arrivarono alle armi. Il santo
uscì dalla capanna flagellandosi le
spalle fino al sangue e rampognando
i contendenti per la loro cupidigia.
L’effetto fu immediato: quelli gettarono
le spade e caddero ai piedi del
frate, abbracciandosi come fratelli».
Caricati su un brigantino, i naufraghi
raggiunsero il porto peruviano di
Paita. I frati continuarono a piedi
verso Lima. Dopo quasi 600 chilometri,
i piedi sanguinanti, sfigurati
dalla fatica, i frati facevano pietà. Furono
accolti in una guaigione militare,
dove passarono la pasqua. Alla
fine di maggio del 1590 raggiunsero
Lima, accolti frateamente nel convento
di san Francesco, cuore della
provincia dei Dodici Apostoli.

COL CAVALLO DI S. FRANCESCO
Un mese dopo gli 8 frati ripresero
il viaggio. Secondo il comando evangelico,
fra’ Solano non portava
né vesti di ricambio, né bisaccia; a
quest’ultima supplivano le capaci
maniche del saio, dove ammucchiava
tutto il suo capitale: una croce di
legno con l’immagine dipinta di Cristo,
qualche soccorso per infermi e
mendicanti, un flauto e un rudimentale
violino con archetto, costruiti
con le sue mani.
Fra’ Navarro aveva affittato 19 destrieri;
ma Solano preferì «il cavallo
di san Francesco», per non perdere
l’allenamento. E fece a piedi 3 mila e
più chilometri, scavalcando le Ande
e attraversando altipiani a oltre 4 mila
metri di altitudine.
Ai primi di ottobre la comitiva arrivò
al convento di Potosí (Bolivia),
giusto in tempo per la festa del poverello
di Assisi. La ricorrenza fu celebrata
con una liturgia di canzoni e
danze rimasta memorabile: il superiore
del convento intonò un vecchio
canto: Tale innamorato mai fu visto,
giacché fu con Cristo d’amore piagato.
Manco a dirlo, fuori di sé dalla gioia,
Solano prolungò la canzone commovendo
i frati che già parlavano di
lui come di un santo.
Alla fine di novembre 1590, dopo
21 mesi di peripezie, Solano finalmente
entrava nella regione del Tucuman,
la terra tanto sospirata.

MISSIONARIO CANTAUTORE
Il Tucuman era una regione immensa
e inospitale, che abbracciava
parte dell’attuale territorio della Bolivia,
nord dell’Argentina, Paraguay
e Cile. Terra fertile e ricca, in cui era
iniziata da una quarantina d’anni la
colonizzazione spagnola. I francescani
vi erano arrivati nel 1538.
Solano fondò la missione (riduzioni)
di Magdalena di cui fu doctrinero
(parroco). In 15 giorni apprese il
complicatissimo dialetto dei teconotes;
poi il «kalkam e un’altra ventina
di idiomi della regione, diversi tra loro
più che il greco dal latino» afferma
Francesco da Vittoria, vescovo di
Tucuman.
Nel 1592 fu nominato custode o
visitatore delle missioni del Tucuman,
estendendo così l’apostolato a
tutta la regione. Per cinque anni moltiplicò
i viaggi dalle montagne del Cile
alle sconfinate pianure del Gran
Chaco per incontrare gli indios, istruirli
e convertirli alla fede, difenderli
dai soprusi dei bianchi, e per
fondare missioni, costruire cappelle,
soccorrere poveri e bisognosi, curare
infermi e scongiurare liti.
Tanta attività non lo distoglieva da
contemplazione e penitenza. Per
proteggere la solitudine nella preghiera
tracciava attorno alla capanna
un cerchio di 100 passi di raggio,
che a nessuno era consentito oltrepassare.
Ancor oggi, a Santiago del
Estero e altre località dove visse il
santo, sono mostrati ai visitatori i
luoghi privilegiati dei suoi incontri
con Dio. In fatto di penitenza, poi,
solo Dio sa come riuscisse fare tanta
strada. «Sia in viaggio che in convento
– afferma un testimone – si nutriva
di erbe e altri alimenti di poca
o nessuna sostanza».
Oltre che con la sua austera santità,
Francesco Solano affascinava con la
bontà e dolcezza d’animo, l’eloquenza
appassionata e l’estro musicale.
Ora col flauto, ora col violino traeva
tali melodie, inventando musiche e
parole, da fare impallidire i nostrani
cantautori. Gli indios non si stancavano
di ascoltarlo. Tra una musica e
l’altra, egli sollevava in alto il crocifisso
per far capire che cantava per lui
e solo per lui danzava.
L’amore per gli indigeni gli meritò
sul campo il titolo di «protettore degli
indios». «Con pazienza e soave energia
» ammoniva i coloni che li
maltrattavano; si recava di persona
dalle autorità per chiedere giustizia
«con l’umile audacia dell’inviato di
Dio». Ma non sempre gli riusciva.
Più fortunato era col Padre Eteo.
Le testimonianze del processo di
beatificazione sono zeppe di racconti
di fatti singolari: guarigioni istantanee,
apparizioni provvidenziali, acque
nel deserto, come le «fonti di
santo Solano» a san Gioacchino di
Trancas, ancora zampillanti.
Come il santo di Assisi, fra’ Solano
amava gli animali ed era riamato. A
San Miguel del Tucuman, per esempio,
durante una corrida, un toro infuriato
saltò la staccionata, minacciando
sfracelli per la strada dove
stava passando il santo. La gente rimase
a bocca aperta nel vedere l’animale
rabbonirsi e accostarsi al cordone
del Solano come per baciarlo.
Nessuna meraviglia, quindi, se in
cinque anni san Francesco Solano
battezzò 200 mila indios.

PROFETA VULCANICO
Nel 1595 Solano fu richiamato a
Lima. Era in corso la riforma della
chiesa avviata dal vescovo Toribio da
Mogrovejo. Anche i 200 frati del
convento di san Francesco avevano
bisogno di spolverare gli ideali della
povertà e umiltà francescana.
Per lanciare la riscossa spirituale,
il commissario generale dell’ordine
fece erigere una casa di ritiri, il convento
di S. Maria degli Angeli, detto
poi «de los descalzos». Solano fu nominato
superiore. E contagiò tutti
con musica e santità. Ma le pratiche
burocratiche lo facevano sentire come
un pesce fuor d’acqua; deperiva
a vista d’occhio. Fu mandato a
Trujillo; ma anche lì, suo malgrado,
dovette fare il superiore.
Elevata a diocesi nel 1577, Trujillo
rimase per 30 anni senza vescovo: come
gregge senza pastore, i cristiani avevano
perso ogni ritegno. Solano arringava
le folle con la forza persuasiva
della sua fede vissuta integralmente
e con austerità. A volte, per chiedere
perdono al Signore per i peccatori, si
flagellava a sangue davanti alla gente,
in chiesa e nelle piazze.
La sua vulcanica eloquenza sfociava
a volte in profezie catastrofiche: il
12 novembre 1603 predisse un terremoto
che avrebbe distrutto la città,
come di fatto avvenne nel 1619.
Nel 1604 Solano era di nuovo a Lima
e riprese a predicare nelle chiese,
piazze e teatro, invitando tutti a conversione.
Memorabile fu il discorso
tenuto la vigilia di natale di quell’anno
in Piazza Maggiore, piena come
un uovo. Diceva che Lima era la bestia
dell’Apocalisse, piena di concupiscenza
e dei suoi tre terremoti: cupidigia,
superbia e lussuria. Come tre
diluvi incombevano sulla città e quella
stessa notte l’avrebbero distrutta se
la gente non si fosse convertita.
Il santo parlava di terremoti morali;
ma gli ascoltatori pensavano a
quelli reali, così frequenti in un paese
vulcanico come il Perù. Per tutta
la città si diffuse in un baleno la notizia
di una catastrofe imminente. La
gente invase chiese e conventi per avere
l’assoluzione dei peccati; i confessori
non bastavano. Molti si confessarono
pubblicamente: le madame
rivelarono i peccati più segreti; i
signori le propri bravate e angherie.
Per le strade si formarono cortei di
flagellanti che invocavano misericordia.
Fra’ Solano era contento come il
giovedì santo.
Non lo erano altrettanto le autorità
civili ed ecclesiastiche, compreso
il Tribunale dell’inquisizione, che
si radunarono per esaminare l’operato
del frate e lo chiamarono a una
pubblica ritrattazione. Solano ripeté
la predica davanti all’assemblea e
non fu trovato niente di riprovevole.
Il viceré concluse: «Lasciatelo in pace.
Questo avvertimento viene da
Dio». Il profeta, però, fu avvertito di
non tenere più per strade e piazze simili
sermoni.
Nell’ottobre 1609 Lima fu davvero
colpita da un tremendo terremoto:
chiese e case crollavano, la terra si
spaccava sotto gli occhi degli abitanti.
La popolazione terrorizzata cercò
rifugio e consolazione da fra’ Solano.
«Non temete – ripeteva -. Dio non
vuole il male, ma che ci pentiamo e
facciamo penitenza. Fra tre giorni le
scosse finiranno». E così avvenne.
Fra’ Solano continuò a battere
strade e piazze di Lima, col crocifisso
in mano e gridando: «Misericordia
e conversione».

CANTANDO CON GLI UCCELLI
Austerità e furore ascetico non riuscivano
a nascondere la sua naturale
allegria e semplicità di carattere, tantomeno
a soffocare la passione per la
musica. Cantava in cella per ore e
ore: era il suo modo di pregare. Cantava
di fronte alle folle, per ispirare
fiducia nel Signore, e davanti ai confratelli
per rallegrare il loro spirito.
E invitava gli animali a unirsi a lui
nella lode al Signore. Gli uccelli gli si
posavano sulle spalle e sulle mani;
volavano festosi e cinguettanti intorno
a lui. Allora egli estraeva dalle maniche
il violino e cantava con loro le
laudi al Signore. «Che buon Dio abbiamo!
Come ci è amico il Signore!
Glorificato sia il Signore!» ripeteva.
Gli ultimi cinque anni di vita furono
un crescendo di popolarità. La
gente lo seguiva per le strade in cui
passava abitualmente per soccorrere
poveri e malati, affollava luoghi e
chiese dove predicava, lo inseguiva
in convento, dove cercava isolamento
per pregare.

ASPETTANDO LA PARTENZA
«Mi trovo molto debole e con poca
salute, aspettando l’ora di partenza
da questa valle di lacrime» scriveva
alla sorella Ines alla fine di maggio
1610. Fatiche e penitenze lo avevano
consumato. Un mese dopo fu inteato
nell’infermeria del convento di
san Francesco, assistito giorno e notte
dal confratello nero, frate Anton.
«Quando sarai in cielo, diventerai
bianco», gli diceva il santo. A un passo
dalla morte, non perdeva la voglia
di scherzare. Quando i frati gli domandarono
se preferiva andarsene
durante la festa di san Bonaventura
o della Porziuncola, l’infermo scelse
quella di san Bonaventura, 14 luglio;
la Porziuncola l’avrebbe celebrata in
cielo. Quel giorno, mentre la comunità
stava cantando l’introito della
messa, una scossa fece tremare le pareti;
presi da un misterioso presagio,
i frati interruppero la messa e corsero
nella cella del Solano: lo trovano
abbracciato al fratello nero nell’atto
del congedo. Mentre a sua richiesta
i confratelli cantavano il credo, egli
spirò dicendo: «Glorificetur Deus»
(glorificato sia il Signore).
Il funerale fu un’apoteosi. Vi partecipò
tutta la città, che già lo invocava
come santo. A trasportare la salma
furono il viceré, l’arcivescovo e
altri illustri personaggi.
Lo stesso anno della morte iniziò
la raccolta delle informazioni sulle
virtù eroiche: nel 1675 Clemente X
lo dichiarò beato e nel
1726 Benedetto XIII lo
proclamò santo.

Ordini missionari
Fin dagli inizi della conquista, gli
ordini religiosi hanno giocato un
ruolo fondamentale nell’evangelizzazione
dell’America in generale e nella
fondazione della chiesa nel viceregno
del Perú in particolare. Lima, metropoli
politica, era anche centro di irradiazione
del vangelo nelle regioni sudamericane.
Cinque ordini religiosi vi hanno collaborato:
domenicani, francescani, agostiniani,
mercedari e gesuiti.
Arrivati nel 1540, i francescani fondarono
tre conventi: Quito, Cuzco e Lima.
Nella capitale venne formata
(1553) la provincia detta «dei 12 apostoli
». Da qui i missionari s’irradiarono
presto verso il sud: nel 1541 erano a
La Plata, a nord di Potosí; nel 1547
nella stessa città di Potosí; dal 1549 a
La Paz; nel 1586 avevano già cinque
case nel Tucuman, con una quindicina
di religiosi, e nella regione del Rio de
la Plata (Bolivia e Paraguay).
Le ultime due regioni furono teatro
delle epiche imprese missionarie di
san Francesco Solano.

I fioretti di fra’ Solano

PANE INSANGUINATO
Quando Fra’ Solano si recò a La Rioja,
fu invitato a pranzo da un uomo molto
ricco, che approfittava degli indios
e li trattava molto crudelmente. Sedutosi
a mensa, il santo prese del pane e
lo strinse tra le mani. Col grande stupore
dei commensali, dal pane uscì del
sangue. Si alzò allora e disse con voce
amara ed energica: «Non mangerò mai
alla mensa di chi si serve del pane impastato
con il sangue degli umili».
Da quel giorno fu decisa una campagna
in favore degli indios. Ma non ottenne
nulla, né con la persuasione né
con l’esempio. Scoraggiato risolvette
allora di andarsene».

GIOVEDÌ SANTO A LA RIOJA
Era il giovedì santo del 1593 la Rioja.
Erano arrivati in città 45 cacicchi indigeni
con la loro popolazione. La scarsa
popolazione della colonia sente la
loro presenza come una minaccia. Il capitano
Pedro Sotelo diede ordine di armarsi
e salire a cavallo, per mettersi in
salvo in caso fosse accaduto il peggio.
Il momento peggiore sarebbe stato
quello della processione.
Fra’ Solano era l’unico a guardare serenamente
quelle facce enigmatiche.
Parlò loro con tale fervore che tutti lo
capivano, nonostante parlassero tre o
quattro idiomi differenti. Commossi fino
alle lacrime, gli indios si inginocchiarono
dinanzi a frate Diaz chiedendogli
il battesimo.
Fra’ Solano abbracciò gli indios e disse
al confratello: «Non aver paura, fratello,
facciamo la processione».
Vedendo gli spagnoli flagellarsi, gli indios
domandarono al padre cosa rappresentasse
quello spettacolo drammatico.
Fra’ Solano piegò loro con fervore
che in quella notte del giovedì
santo avevano flagellato ed ucciso Nostro
Signore per i nostri peccati.
Gli indios ruppero il silenzio e, con
molte lacrime, si tolsero le camicette
e cominciarono tutti a flagellarsi con
fruste e quanto incontravano. E questo
fu per frate Diaz e per altri di poca
fede la maggiore edificazione che
ebbero nella loro vita.
Fra’ Solano si aggirava in mezzo agli
indios con tanta allegria e devozione,
come un «sergente del cielo», togliendo
loro i flagelli e raccontando
mille cose per tutta la notte, senza riparo,
predicando e insegnando. Si trattenne
in quella città fino a quando gli
indios non furono idonei ad essere tutti
cristiani: il loro numero fu di nove
mila.

SOLANO INNAMORATO
Il soldato Feando Avendano racconta
di aver sorpreso più volte il Solano
nell’orto conventuale, col volto «allegrissimo
» e violino in mano, a cantare
come un giullare a una «donna molto
bella» che l’aspettava «nascosta
dietro un velo sull’altare di Trujillo».
Era la Vergine Madre. E molti lo hanno
visto cantare e danzare dinanzi a lei
come un innamorato.
Sempre a Trujillo, fra’ Solano aveva
fatto amicizia con la famiglia Sanchez.
Il frate vi ricorreva spesso per
chiedere alimenti e medicine. Punta
da curiosità, un giorno la signora gli
domandò dove andasse con le maniche
colme di ogni ben di Dio. «Da
un’innamorata che ho fuori città» rispose
il santo.
L’innamorata era una lebbrosa. Il frate
la curava, le puliva la casa e le preparava
da mangiare con le sue mani.
(da: J. G. Oro, San Francisco Solano,
Madrid 1986)

Benedetto Bellesi




LA SOCIETÀ DELL’«USA-E-GETTA»

L’uomo preleva dall’ambiente enormi quantità
di risorse e restituisce scarti e inquinamento.
In obbedienza a quell’approccio utilitaristico
che ha il suo totem nel «prodotto interno loro».
La salvaguardia dell’ambiente è dunque un lusso?
Le esigenze di protezione e conservazione
delle risorse naturali sono incompatibili con quelle
del sistema economico-produttivo? È impossibile
vivere in armonia con la natura? Al momento
pare di sì. Ma il futuro (vicino) non può
prescindere da un radicale cambiamento di rotta,
al quale può dare un contributo fondamentale
ogni singola persona, casalinga o manager che sia.

IL CONFLITTO UOMO-NATURA
Il prestigioso Worldwatch Institute
di Washington ha recentemente
presentato il suo ultimo rapporto
sullo stato del pianeta, «State of
the World 2002». Il presidente del
Worldwatch, Christopher Flavin,
sostiene: «Oggi l’instabilità ecologica
è collegata a quella degli avvenimenti
umani».
L’obiettivo primario è «creare un
mondo più sicuro», agendo in primo
luogo sulle emergenze ambientali:
ridurre l’effetto serra e l’inquinamento
chimico; ripensare l’agricoltura,
la logica e gli strumenti del
turismo mondiale; controllare lo
sfruttamento delle risorse naturali
per limitare i conflitti.
Al presente un miliardo e 100 milioni
di persone non hanno accesso
all’acqua potabile («il doppio di
quelli che usano il computer», sottolinea
Flavin); le emissioni di anidride
carbonica, responsabili dei
cambiamenti climatici, sono aumentate
del 9% su scala mondiale,
anziché diminuire del 5,2% (secondo
quanto fissato dal pur insufficiente
Protocollo di Kyoto); la barriera
corallina (che, oltre all’intrinseco
valore ambientale, rappresenta
una fonte di nutrimento per mezzo
miliardo di persone) è minacciata
non più per il 10%, ma per il 27%
della sua estensione totale; e, nonostante
la forte crescita economica
dell’ultimo decennio, i più poveri
del pianeta sono sempre un miliardo
di persone.
Il fatto che le emergenze ambientali
abbiano serie conseguenze non
solo sull’equilibrio degli ecosistemi,
(e quindi sulla stessa vita dell’uomo),
ma anche sugli equilibri sociali
è affermato anche nel «Libro
bianco su crescita, competitività ed
occupazione» della Commissione
europea (1993): «Per estendere all’intero
pianeta gli attuali modelli
europei di produzione e di consumo
occorrerebbe un quantitativo di
risorse naturali 10 volte superiore
all’attuale. Questo rende facile immaginare
quali problemi ambientali
e quali tensioni politiche potranno
verificarsi, se le tendenze in atto
non saranno orientate in modo diverso».
È evidente che le esigenze di protezione
e conservazione delle risorse
naturali e le esigenze del sistema
economico-produttivo siano, al momento,
incompatibili: la salvaguardia
dell’ambiente è ancora oggi
considerata come un lusso, un obiettivo
da perseguire solo dopo la
crescita economica, dimenticando
così sia le inevitabili e tragiche connessioni
tra degrado ambientale –
instabilità sociale – crisi economica,
sia la dipendenza del sistema produttivo
dall’ambiente stesso.
È necessario domandarsi quali
siano le radici profonde di questo
conflitto, di questa collisione tra
uomo e natura. Come mai, di fronte
all’evidente necessità di vivere in
armonia con l’ambiente, l’uomo si
mostra così indifferente ed insensibile
alle trasformazioni ecologiche
e quindi al destino stesso della specie
umana?

LE RADICI DEL CONFLITTO
Fritjof Capra è un fisico statunitense
noto non solo per le sue pubblicazioni
di carattere tecnico, ma
anche per gli studi sulle implicazioni
filosofiche della scienza modea.
Nel suo bellissimo libro «Il Tao
della fisica», egli spiega come la fisica
modea (atomica e subatomica)
abbia costretto a rivedere in maniera
radicale molti concetti della
scienza classica, portando lo studioso
verso una visione del mondo
vicina alle concezioni e filosofie orientali,
apparentemente molto lontane
dalla scienza occidentale.
L’evoluzione di quest’ultima mostra
come essa, partendo dai primi
filosofi greci, si sia sviluppata allontanandosi
progressivamente dalle
sue origini, fino a giungere ad una
concezione del mondo decisamente
contrastante rispetto alla visione
orientale, per poi ritornare nuovamente,
con la fisica modea appunto,
a condividee molti aspetti.
L’analisi di questo percorso storico
fa capire in che modo si sia
alimentato nel tempo il conflitto uomo-
natura.
La fisica, e quindi la scienza occidentale,
ha le sue origini nel primo
periodo della filosofia greca (VI sec.
a.C.), in un contesto culturale nel
quale scienza, filosofia e religione
non erano separate tra loro. Il termine
stesso «fisica» originariamente
indicava lo sforzo di scoprire la
natura essenziale di tutte le cose. I
filosofi del tempo (Talete, Anassimandro,
Eraclito…) vennero definiti
«ilozoisti»: pensando che la materia
fosse animata, non facevano
distinzione tra animato e inanimato,
spirito e materia.
In particolare, il filosofo Eraclito
sosteneva che il mondo fosse in eterno
«divenire», ossia fosse generato
dall’azione reciproca e ciclica
dei «contrari» (amore e odio, caldo
e freddo), mediante un continuo
trasformarsi.
Tale unità di spirito e materia iniziò
a disgregarsi con la scuola eleatica,
secondo la quale esisteva un
Principio divino al di sopra di tutti
gli dei e di tutti gli uomini, inizialmente
identificato con l’unità dell’universo.
Con Parmenide di Elea nacque il
concetto, destinato a diventare fondamentale
per il pensiero occidentale,
di «essere», «uno ed immutabile
», di sostanza indistruttibile,
causa di tutte le trasformazioni dell’universo.
Si tentò allora di superare
il contrasto tra l’essere immutabile
di Parmenide e l’eterno divenire
di Eraclito, sostenendo che
l’Essere fosse presente in alcune sostanze
invariabili che, mescolandosi
e separandosi, permettevano i
cambiamenti che avvengono nella
realtà.
Con Democrito si arrivò al concetto
di atomo, la più piccola unità
indivisibile di materia. In questo
modo gli atomisti greci separarono
definitivamente i concetti di spirito
e materia, quest’ultima immaginata
come costituita da diversi «mattoni
fondamentali», inerti, il cui moto era
spesso associato a forze spirituali
diverse dalla materia.
Nei secoli successivi, questa immagine
divenne un elemento fondamentale
del pensiero occidenta-
le, sempre più caratterizzato dal
dualismo tra mente e materia, anima
e corpo. In questo contesto, i filosofi
ritennero più importante il
mondo spirituale, l’anima umana ed
i problemi etici, piuttosto che il
mondo materiale.
Solo dopo duemila anni, con il Rinascimento,
nacque, accanto alla
matematica, un nuovo interesse per
la natura, il cui studio fu affrontato
per la prima volta con spirito scientifico
e sperimentale. Galileo Galilei,
il primo ad impiegare insieme
matematica e conoscenza empirica
(derivante non da affermazioni teoriche,
bensì da esperimenti pratici),
è considerato il padre della scienza
modea.
Lo sviluppo di quest’ultima continuò
fino a quando, nel Seicento,
René Descartes (Cartesio) fondò una
concezione della natura basata
sulla separazione netta tra la realtà
della mente e la realtà della materia.
Tale filosofia portò gli scienziati da
un lato a considerare la materia come
inerte e completamente distinta
da se stessi e, dall’altro, a rappresentare
il mondo materiale come un
insieme di oggetti diversi fra loro e
uniti insieme come a formare una
gigantesca macchina («meccanicismo
», cfr. puntata 1).
Su queste basi nacque la meccanica
e da questa la fisica classica; e
proprio il modello meccanicistico
(sostenuto da Isaac Newton) dominò
il pensiero scientifico fino alla
fine dell’Ottocento.
La famosa frase di Cartesio cogito
ergo sum, «penso quindi sono», mostra
come l’uomo occidentale si identifichi
con la propria mente anziché
con l’intero organismo: l’uomo
moderno vede se stesso, il più
delle volte, come un «io» che vive
«all’interno» del proprio corpo,
controllato dalla mente, e quindi
causa di conflitti tra volontà cosciente
(mente e razionalità) e istinti
involontari (corpo ed emozioni).
A sua volta, ogni individuo si schematizza
secondo le proprie capacità,
attività, sentimenti, opinioni…, con
la conseguente frammentazione in
tanti e differenti, spesso conflittuali,
compartimenti separati tra loro.
Analogamente, anche il mondo esterno
è visto come un insieme di
oggetti e fenomeni a se stanti: la natura
diventa così un insieme di parti
separate, sfruttabili da interessi
differenti. Questa visione non unitaria
investe infine anche la sfera
della società, suddivisa infatti in nazioni,
razze, gruppi religiosi, gruppi
politici.
La concezione che tutti i frammenti
(in noi, nell’ambiente, nella
società) siano effettivamente separati
potrebbe rappresentare la causa
profonda delle attuali crisi sociali,
ambientali, culturali.
L’uomo si è infatti estraniato dalla
natura e, allo stesso tempo, dagli
altri esseri umani, dimenticando
che egli stesso è, invece, parte della
natura ed assolutamente dipendente
da essa, e che la sua stessa esistenza
è inscindibilmente legata a
quella degli altri uomini. Come conseguenza,
egli ha trascurato sia il rispetto
per la natura sia la solidarietà
nei confronti dei suoi simili. In altre
parole, è diventato «egoista».

L’UOMO È NATURA
Si è visto come la concezione cartesiana
abbia comportato allo stesso
tempo benefici e danni: da un lato
lo sviluppo della fisica classica e
della tecnologia, dall’altro la frammentazione
interiore, con l’ambiente
e con la società.
Contrariamente alla concezione
meccanicistica occidentale, la concezione
orientale è di tipo «organicistico
»: ossia considera collegati
tra loro tutte le cose e i fenomeni
percepiti dai sensi, come se fossero
solamente differenti aspetti o manifestazioni
della stessa realtà ultima.
La tendenza della nostra mente a
misurare e a classificare sarebbe la
causa della percezione frammentata
del mondo e della separazione fra
l’uomo e la realtà estea.
Come si è accennato nella prima
puntata di questa inchiesta (MC
gennaio 2002, pag.53, Glossario), la
fisica modea, con lo studio a livello
atomico e subatomico, si è riavvicinata
a molti aspetti della concezione
orientale, infrangendo parecchi
concetti sui quali si basava la
fisica classica, fra i quali quello di
particelle solide elementari, di natura
causale dei fenomeni, di descrizione
oggettiva della natura.
La fisica modea, infatti, mostra
che, per quanto ci si addentri nella
materia, non viene rilevata la presenza
di un «mattone fondamentale
» isolato, bensì una rete complessa
di relazioni tra le varie parti del
tutto, le cui caratteristiche dipendono
da chi osserva. Ossia, nella fisica
atomica non esiste la separazione
cartesiana tra «io» e «mondo»; non
si può parlare di natura senza parlare,
allo stesso tempo, di noi stessi.
Molto spesso concetti ovvi e dati
per scontati sono invece i più facilmente
dimenticati e non considerati.
Tra questi, sicuramente, svetta il
fatto che l’uomo non solo è collegato
con la natura, ma «è natura». Il
nostro corpo scambia con l’ambiente
energia e materia in modo continuo.
La natura ci offre gratuitamente
servizi essenziali alla vita: purificazione
di aria ed acqua, protezione
dai raggi ultravioletti, stabilizzazione
climatica, rigenerazione del suolo,
mantenimento della biodiversità,
decomposizione dei rifiuti, nonché
valore estetico, stimolo intellettuale,
valore scientifico: sono proprio i servizi
che lo sfruttamento eccessivo
delle risorse e l’inquinamento stanno
compromettendo.
Trascorrere la propria vita in una
città, lontani dal luogo di origine e
di smaltimento finale dei beni consumati
(beni oltretutto importati da
tutto il mondo) ha una forte influenza
sulla concezione attuale della
natura, vista come luogo ricreativo
o di produzione delle materie
prime, piuttosto che come l’elemento
che ci permette la vita stessa.

UN SISTEMA CONTRO NATURA
L’attuale approccio dell’uomo nei
confronti della natura è di tipo utilitaristico.
L’intera economia, infatti,
ha le sue fondamenta sia sulle risorse
naturali messe a disposizione
gratuitamente dal pianeta sia sulla
capacità degli ecosistemi di assorbire
rifiuti ed inquinamento. Il sistema
economico preleva dalla natura
energia e materia (minerali, petrolio,
carbone, acqua, aria, suolo,
biomassa vegetale ed animale…), le
quali vengono impiegate per la produzione
di merci e servizi; sia durante
la produzione sia durante il
consumo vengono prodotti rifiuti
(solidi, liquidi, gassosi), finché è il
bene stesso a diventare rifiuto.
Ebbene l’economia preleva dall’ambiente
enormi flussi di materia
che tornano all’ambiente stesso sotto
forma di scarti ed inquinamento.
Due sono le considerazioni che scaturiscono
da quest’analisi, tanto banale
quanto ignorata: i limiti alla
crescita continua e la mancanza di
consapevolezza da parte del singolo
consumatore.

I LIMITI FISICI E BIOLOGICI ALLA CRESCITA
Dal momento che tutto ciò che
viene prelevato dall’ambiente come
risorsa vi ritorna in qualche altra
forma come rifiuto, è necessario che
la velocità con cui si estraggono le
risorse (legname, acqua, massa vegetale…)
non sia maggiore della velocità
con cui queste si rigenerino, e
analogamente che la rapidità con
cui si producono rifiuti (solidi, liquidi,
gassosi) non sia maggiore della
velocità di assorbimento degli
stessi da parte degli ecosistemi (aria,
acqua, suolo, foreste…).
Due sono i fronti sui quali operare
per evitare le emergenze ambientali:
lo sfruttamento eccessivo
delle risorse a monte dei processi
produttivi e la produzione di rifiuti
e inquinamento a valle.
Non considerare questi aspetti significa,
da un lato, mettere a repentaglio
la materia prima su cui si basa
l’economia stessa e, dall’altro,
provocare trasformazioni irreversibili
negli ecosistemi, con effetti non
sempre prevedibili sull’uomo (effetto
serra, diminuzione della fascia
di ozono stratosferico o «buco dell’ozono
», cambiamenti climatici,
piogge acide, desertificazione e siccità,
alluvioni, smog fotochimico in
città).
Ciò che preoccupa non è solo il
fenomeno in sé (ad esempio la diminuzione
dei ghiacciai, le alluvioni,
le estati particolarmente calde…),
ma la maggior velocità e frequenza
con cui il fenomeno stesso
si presenta rispetto ai secoli scorsi.
Esistono, quindi, dei limiti fisici
e biologici alla crescita continua
dell’economia, economia che dovrebbe
essere organizzata non in
base ad interessi a breve termine
ma, al contrario, su considerazioni
di lungo periodo.

COSA C’È DIETRO UN PRODOTTO?
Esiste un modo molto semplice
per diventare consapevoli:
a) di come l’economia dipenda dalla natura;
b) di come qualsiasi gesto quotidiano,
da un lato, comporti enormi
flussi di materiali trasportati da un
luogo all’altro del pianeta e, dall’altro,
rappresenti un contributo alle
trasformazioni negli ecosistemi;
c) del ruolo attivo di ogni cittadino
nei confronti della distruzione o, al
contrario, della protezione e conservazione
della natura.
È sufficiente chiedersi, per ogni
oggetto utilizzato e per ogni azione
compiuta quotidianamente, la storia
di quell’oggetto o di quell’azione.
Purtroppo, nella società attuale,
il cittadino si comporta quasi esclusivamente
da consumatore: si entra
in un negozio, si vede una cosa, la si
prende e la si paga. Non ci si accorge
che quella transazione in denaro
nasconde una transazione con la natura.
Ogni oggetto è costruito da
qualcuno, in certe condizioni lavorative,
depauperando risorse naturali,
emettendo determinate sostanze
inquinanti; poi l’oggetto viene
trasportato (con ulteriore impiego
di materiali ed energia) nel luogo di
vendita, e qui consumato e utilizzato,
per poi diventare rifiuto e necessitare
di uno smaltimento finale
(discarica, inceneritore…).
In gergo tecnico si parla di «studio
del ciclo di vita di un prodotto
», ossia l’analisi delle materie e
dell’energia impiegate durante tutte
le fasi della vita di un bene, «dalla
culla alla tomba», ossia dall’estrazione
delle materie prime allo
smaltimento finale. Un’analisi simile
consente di individuare le varie
interconnessioni fra ambienteeconomia-
società, delle quali si è
parlato nella prima puntata di questa
inchiesta.

DIVENTARE CONSUMATORI RESPONSABILI
L’impatto sulla natura (nonché
sulla società: sfruttamento, lavoro
minorile, violazione dei diritti umani)
può essere diminuito diventando
consumatori responsabili.
Questi sono uomini e donne che
consumano meno e meglio: ossia attenti
alla storia dei prodotti acquistati
(sia dal punto di vista ambientale
sia sociale), a produrre meno rifiuti
(privilegiando prodotti di lunga
durata, evitando l’usa-e-getta e gli
imballaggi superflui, riparando gli
oggetti prima di cambiarli), a modificare
i propri stili di vita in nome di
un benessere fisico e psichico autentico,
ad informarsi costantemente
e ad informare gli altri.
(fine 2.a puntata)

BIBLIOGRAFIA e SITI INTERNET

Worldwatch Institute, State of the
World 2002 (il Worldwatch Institute
di Washington è considerato uno dei
più autorevoli centri studi mondiali
sullo stato di salute del pianeta)
Wuppertal Institut, «Futuro Sostenibile
», EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro, EMI, Bologna 2000
Fritjof Capra, Il Tao della fisica,
Adelphi Edizioni, Milano 1999
Franco Tassi, L’Ecosociologia: una
nuova disciplina per l’ambiente,
Edizioni Parco Nazionale dell’Abruzzo,
Roma 1993
Giorgio Nebbia, «Corso di Economia
ecologica», sul sito
http://web.tiscali.it/casalepodererosa/
univerde/uvee99.htm
www.worldwatch.org
www.altronovecento.quipo.it
«Altronovecento – ambiente, tecnica,
società», Rivista on-line, Direttore
Giorgio Nebbia

IL MOBILIERE
Essere un consumatore responsabile non è sempre facile. Per alcuni
prodotti è molto difficile. Uno di questi è rappresentato dal legname.
Da dove proviene il legno con cui sono costruiti i nostri mobili?
Chiedo ad un negoziante se la materia prima dei suoi mobili provenga
dalle foreste a rotazione, ossia foreste dedicate alla produzione
di legname, ma opportunamente gestite secondo i cicli di crescita delle
piante (molto note sono quelle svedesi): «Foreste a… cosa?» risponde
stupefatto. Forse è meglio lasciar perdere? No, non demordo. Entro
in un altro negozio e domando da dove provengano il noce ed il ciliegio
di due bellissime librerie. Guardandomi come se avessi chiesto
delle assurdità, il mobiliere mi risponde: «Beh… tutti i noci vengono
dall’Africa!». Sì, compresi soprattutto quelli derivanti dal taglio della
foresta pluviale, destinata quindi a trasformarsi in deserto…
Una buona notizia è rappresentata dalla nascita (lo scorso dicembre)
dell’Associazione non-profit Gruppo FSC-Italia. L’FSC (Forest Stewardship
Council o Consiglio per la Gestione Forestale Sostenibile) è un’organizzazione
internazionale non governativa, indipendente e senza scopo
di lucro, che ha l’obiettivo di fornire al consumatore strumenti concreti
per uno sfruttamento corretto delle risorse del pianeta e per un
rapporto equo verso le popolazioni che abitano le foreste e spesso le
utilizzano come unica fonte di sussistenza.
In Italia, i prodotti certificati FSC sono ancora rari, ma in paesi come
Gran Bretagna, Germania e Stati Uniti, mobili, infissi, matite, carta igienica
e migliaia di altri articoli con il marchio FSC occupano percentuali
significative di mercato.
L’industria italiana del legno è una delle maggiori del mondo. I produttori
comprano legname in tutto il mondo, inclusi i paesi dove la deforestazione
procede a ritmi devastanti, come Camerun,Gabon, Malesia,
o dove la gestione non proprio sostenibile degrada la biodiversità, come
in molti paesi europei.
Ecco perché il WWF Italia ha lanciato una campagna per trovare imprese
che si impegnino nella commercializzazione di prodotti costituiti
da materie prime forestali certificate FSC.

Per informazioni: Club per il legno Eco-certificato (rivolgersi al dr. Edoardo Isnenghi,
tel. 06.844.97.389);
www.fscoax.org, www.panda.org/forests4life

IL VIGILE URBANO
Piemonte, gennaio 2002. Allarme siccità e inquinamento atmosferico.
Non piove da più di tre mesi, i letti dei fiumi sono spaventosamente
secchi, l’agricoltura è a rischio. Torino è la città più inquinata
d’Italia. Superati ripetutamente i limiti di molti inquinanti, in particolare
le polveri (le cosiddette «PM 10»). Allarme patologie respiratorie.
Provvedimenti per limitare il traffico automobilistico: targhe altee il
mercoledì e giovedì ed uno sporadico blocco totale domenicale della
circolazione.
È in una situazione come questa che può manifestarsi il grottesco ed
al momento insanabile conflitto tra «crescita economica» e «sviluppo civile
». Sì, perché in questi giorni critici (settimane…) è possibile vedere
quei famigerati macchinari che, stendendo l’asfalto, a dispetto delle innovazioni
tecnologiche, regalano ai nostri polmoni fumi irritanti e tossici
i quali, uniti ai famigerati inquinanti atmosferici, rendono l’aria della
zona interessata irrespirabile. Nei momenti di maggior crisi da inquinamento
atmosferico non sarebbe più utile posticipare questi lavori,
spesso superflui?
La gentile operatrice dell’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) passa
la patata bollente al nucleo di Polizia ecologica, che mi rimanda ai vigili
di zona. «Non è possibile fermare questi lavori, l’impresa ha un appalto
e deve rispettare i tempi, altrimenti dovrà pagare delle penali»,
mi risponde il vigile. «D’altronde è un servizio di utilità pubblica!». Scusi,
ribatto, forse la salute pubblica non lo è? «E poi – insiste – il lavoro
durerà al massimo un’ora!» Sì, ma quando finisce sotto casa mia si sposterà
da qualche altra parte! «Comunque non si preoccupi, viene emesso
solo vapor d’acqua». Solo vapor acqueo?… Tutto quadra con la
«cultura» dominante: meglio avere la viuzza sotto casa con l’asfalto liscio
come la pista di Monza, ed i polmoni neri. Tanto i polmoni non si vedono…

L’approccio dell’uomo alla natura
SFATARE IL MITO DEL «PRODOTTO INTERNO LORDO»
Lo studioso americano Stephen Kellert ha cercato di elaborare una
scala di valori dell’approccio umano alla natura, sulla base di inchieste
e sondaggi effettuati negli USA dal Servizio naturalistico del
ministero dell’Inteo (anni ’80). I risultati (riportati da Franco Tassi,
cfr bibliografia) sono molto interessanti e sono rappresentati da una
decina di atteggiamenti dai contenuti anche molto diversi fra loro:
1. approccio negativistico: indifferenza, ripugnanza o paura portano ad evitare gli animali e l’ambiente naturale in generale;
2. dominativo: prevale la soddisfazione derivante dalla padronanza e dal controllo, in particolare sugli animali, per esempio in molte situazioni sportive (caccia, equitazione…);
3. utilitaristico: l’interesse principale è rivolto all’utilità e quindi al valore,
pratico e materiale, di animali e piante;
4. estetico: qui l’interesse primario concee le caratteristiche artistiche
e simboliche degli esseri viventi e del paesaggio;
5. scientifico: considera le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche;
6. moralistico (o umanitaristico): pone attenzione a come vengono
trattati gli animali, valutandoli come individui e denunciando qualsiasi
tipo di sfruttamento e crudeltà nei loro confronti (anche se, generalmente,
l’interesse è rivolto soprattutto ad animali grandi ed attraenti,
con legami di tipo antropomorfico);
7. ecologistico: l’interesse fondamentale verte sull’ambiente come sistema
e sulle interrelazioni tra le specie viventi e gli habitat naturali;
8. naturalistico: si distingue per un’affezione profonda per la vita selvatica
ed il suo ambiente naturale in genere;
9. conservazionistico: mira alla conservazione della natura e al razionale sfruttamento delle sue risorse;
10. ambientalistico: aspira ad una situazione in cui la specie umana viva in armonia con la natura, intesa come l’ambiente originario per tutti gli esseri viventi.
Questi studi, analizzando la psiche umana, permettono di capire in
che direzione la società si stia orientando, ossia se continui a inseguire
il prodotto interno lordo o, come disse un capo di stato africano,
la «felicità complessiva netta», frutto non solo di consumi materiali,
ma anche e soprattutto di un benessere fisico e psichico, garantito
da un rapporto armonioso con la natura.

Le parole-chiave…
Prodotto interno lordo (Pil): è il
valore totale dei beni e servizi finali
prodotti in un anno dal sistema economico.
Ritenuto dai vari soggetti
della società civile (politici, economisti,
media, opinione pubblica) un
indicatore del benessere di una
nazione, il Pil misura esclusivamente
il valore economico del flusso di
attività.
Felicità complessiva netta: non è un
termine tecnico, ma una «formula»
che intuitivamente vuole contrapporsi
al concetto di Prodotto interno
lordo, rivalutando un benessere
psico-fisico diverso dal mero benessere
materiale.
Ciclo di vita: il ciclo di vita di un
prodotto è rappresentato dall’insieme
degli stadi che concorrono alla
sua realizzazione. Analizzare il ciclo
di vita significa esaminare il percorso
che va dall’estrazione delle materie
prime, a tutti i processi di trasformazione
e di trasporto che esse
subiscono, fino allo smaltimento del
prodotto stesso come rifiuto. Si
parla di analisi del prodotto «dalla
culla alla tomba» o «dalla culla alla
culla», se si prevede un riutilizzo o
un recupero del prodotto stesso.
Limiti alla crescita: per «crescita» si
intende uno sviluppo esclusivamente
quantitativo, tradotto generalmente
nell’aumento del Pil di un
Paese. Si differenzia dalla modea
accezione di «sviluppo», termine che
vorrebbe sottolineare l’importanza
degli aspetti qualitativi del benessere
(«qualità della vita»). I limiti alla
crescita sarebbero rappresentati
non da motivazioni etiche, bensì
dalla limitatezza delle risorse del
pianeta e dalla limitata capacità di
assorbimento di rifiuti ed emissioni
da parte degli ecosistemi.

Silvia Battaglia




i loro nomi sono scritti in cielo

1. Ivone Faustino – Aveva 5 anni, ma era già una bambina molto vivace e giudiziosa: aiutava la madre nei piccoli lavori di casa, come attingere acqua, raccogliere legna, tenere pulita la casa. Tre fratelli maggiori furono rapiti dagli assalitori: due riuscirono a fuggire; l’altro fu costretto a seguire i rapitori alla loro base e non toò più. Fu trafitta da una baionetta, in braccio alla mamma.
2. Cecilia Jamisse – Aveva 41 anni e quattro figli. A 18 anni fu battezzata e lo stesso giorno sposò il catechista Faustino Cuamba. Moglie esemplare, accompagnò il marito
nell’attività apostolica della comunità fino alla morte.
Il giorno prima di arrivare al Centro, era ancora all’ospedale.
Giunsero a Guiúa la sera del 22 marzo; poche
ore dopo, fu uccisa da un colpo di baionetta,
mentre cercava di difendere la figlia Ivone.
3. Faustino Cuamba – Marito di Cecilia Jamisse, aveva
44 anni. Era catechista e cornordinatore zonale nella
parrocchia di Inhambane:
educato dai genitori alla
vita tenace del pescatore
per diventare anche, mediante
il servizio alla comunità,
«pescatore di
uomini». Fu il primo a
morire nell’attacco al
Centro catechetico. Mentre usciva di
casa, venne falciato da una raffica di mitraglia. Fu
trovato agonizzante, accasciato ai piedi di un albero
di cajú, con le mani sul ventre, squarciato dalle
pallottole.
4. Albino Tepo – Era nato nel 1948 a Mocumbi, cugino
di suor Lurdes, delle Francescane missionarie
di Maria. Grande lavoratore, nei giorni di permanenza
alla missione occupò il tempo intessendo cesti,
che poi vendeva. Stava per ritornare a Mocumbi,
quando fu sorpreso dall’attacco dei guerriglieri.
Ucciso a colpi di baionetta.
5. Catarina Sambula – Nata il 2 marzo 1965 a Machukele,
Mapinhane (Vilankulo), da genitori metodisti.
Nel 1987 sposò Armando Duzenta, responsabile
parrocchiale della commissione dei laici e famiglie.
Donna molto attiva in famiglia e nella
comunità, era insegnante di cucito, responsabile dei
giovani e assistente dei gruppi per la promozione
della donna. Aveva due figli: Azarias (5 anni) e Candida
(6 mesi). Gli assalitori la obbligarono a seguirli
ed abbandonare a terra la figlia più piccola, che fu
trovata ancora viva dalle suore e si salvò. Azarias fu
salvato dal padre, che riuscì a sfuggire agli assalitori.
Catarina, invece, fu trovata nel bosco martoriata
in tutto il corpo.
6. Isabel Foloco – Aveva 45 anni. Proveniva da Morrumbene.
Sposata con il catechista Benedito Penicela,
aveva cinque figli. Generosa nel collaborare ad ogni
iniziativa comunitaria, i poveri e bisognosi trovavano in lei
un aiuto sicuro e discreto. Fu accoltellata, sotto gli occhi
dei figli.
7. Benedito Penicela – Marito di Isabel e catechista di Morrumbene,
era nato nel 1944. Uomo alto e forte, si distingueva
per zelo e dinamismo nell’animare la sua comunità.
Insegnava xitshuaa suor Teresa. Anche lui, come la
sposa, fu ucciso a coltellate alla gola e al ventre.
8. Joaquim Marumula – Era nato a Massinga nel 1939.
Fu battezzato a 17 anni; sposò Palmira Kezane
Mapuiane, che gli diede 10 figli. Per sostenere
la famiglia, emigrò in cerca di lavoro. Aveva
iniziato l’attività di catechista nel 1967, facendosi
apprezzare per la generosità e la bella
voce, con cui guidava i canti della liturgia. Fu
ucciso a colpi di baionetta. Tre dei suoi figli furono
rapiti, ma tornarono a casa dopo sei mesi.
La moglie riuscì a salvarsi con la fuga.
9. Veronica Sambula – Era nata a Mavume
(Massinga) nel 1960. A 13
anni andò a lavorare a
Maxixe, dove conobbe
il futuro marito, Paolo
Saieta Kuniane, che lavorava
a Inhambane.
Ad entrambi furono affidati
compiti di responsabilità:
Veronica fu eletta anziana della comunità
e il marito fu scelto come catechista e anziano
della zona di Murure. Nel 1987 fu affidato loro
il compito della formazione dei giovani della
stessa zona pastorale. Morì accoltellata in varie
parti del corpo.
10. Madalena Beme – Originaria di Guiúa, aveva
una cinquantina d’anni. Donna semplice e
laboriosa, viveva in un villaggio vicino a Guiúa.
Frequentava il secondo anno di catecumenato.
Al momento del massacro si era rifugiata nel
Centro. Fu uccisa a colpi di baionetta.
11. Deolinda Gungave Sevene – Aveva 50 anni.
Fu battezzata nel dicembre 1962. Sposa di
Feando Sevene, catechista di Mocodoene,
era una madre esemplare e laboriosa. Nella comunità
era stimata per la profonda vita di preghiera
e la generosità nell’aiutare gli altri. Uccisa
a colpi di baionetta.
12. Gina Feando – Figlia di Deolinda, aveva
13 anni. Era ancora catecumena. Nutriva grande
amore per i genitori, che aiutava nei lavori
di casa e dei campi. Non si separava mai dalla
madre, alla quale confidava i suoi problemi
e dalla quale attingeva forza e coraggio. Fu trovata accanto
a lei, sul luogo del martirio, trafitta da baionetta.
13. Manuel Peres – Quarant’ anni. Originario di Beira. Fu
ucciso nell’assalto al Centro il 13 settembre 1987. Cadde
vittima di pallottole sparate a bruciapelo mentre difendeva
la moglie e i figli.
14. Maria Titosse – Era nata nel territorio di Guiúa nel
1960 ed era stata battezzata nella chiesa metodista. Piccola,
magra e timida, aveva sposato Leonardo Joel Maniane,
da cui ebbe tre figli. Volendo entrare nella chiesa
cattolica, frequentava il secondo anno di catecumenato.
Fu uccisa a colpi di baionetta, insieme al marito e i figli
Rita e Arlindo.
15. Arlindo Leonardo Maniane – Figlio di Maria Titosse e
Leonardo Joel, aveva solo un anno di età. Fu trovato sul
luogo del massacro con due ferite all’addome: morì durante
il trasporto all’ospedale di Inhambane.
16. Rita Leonardo Maniane – Figlia di Maria Titosse e Leonardo
Joel, aveva 8 anni. Frequentava la scuola elementare
di Guiúa. Allegra e laboriosa, aiutava i genitori nei lavori
di casa e dei campi. Trafitta da colpi di baionetta, morì
insieme ai genitori.
17. Leonardo Joel Maniane – Nato nel territorio di Guiúa,
aveva 47 anni. Grande lavoratore, era stato per molti anni
cuoco della missione. Sposato con Maria Titosse, aveva
tre figli. Era entrato solennemente nel catecumenato nel
1987 e stava per essere battezzato. Fu trovato morto, insieme
alla sposa e ai figli Rita e Arlindo.
18. Aaldo Adolfo Nombora – Nato a Massinga nel 1976
da Adolfo Nombora e Luisa Mabalane, genitori profondamente
cristiani, fu battezzato a un anno
di età. Frequentava la settima classe
elementare e faceva parte del gruppo
giovanile. Scomparso il padre nel
trambusto causato dall’attacco, rimase
con la madre e insieme a lei fu
ucciso.
19. Zito Adolfo Nombora – Fu tra i più
giovani martiri: aveva 4 anni. Era figlio
di Vitoria Adolfo. Al momento del
massacro era insieme ai nonni,
Adolfo Nombora e Luisa Mabalane.
20. Luisa Mafo – Nata nel 1943 a
Moduça, missione di Massinga, venne
battezzata a 14 anni. A 17 sposò
Adolfo Raul Nomera: ebbero 10 figli. Nel 1977 frequentò
con il marito il primo corso per catechisti nel Centro catechetico
di Mangonha (Massinga); entrambi esercitarono
il loro apostolato nella comunità di Kofi. Uccisa a colpi di
baionetta, insieme al figlio Aaldo e al nipote Zito.
21. Juvencio Carlos Mukwanane – È il più piccolo dei martiri:
era nato a Funhalouro il 2 marzo 1991. Figlio di Carlos
Mukwanane e Fatima Valente, fu trovato agonizzante
con ferite all’addome e al petto, mentre succhiava dal seno
della mamma morta.
22. Fatima Valente – Nacque a Makwene (Funhalouro)
nel 1970. Si sposò con Carlos Mukwanane nel 1989, dal
quale ebbe il figlio Juvencio. Donna molto sensibile e di
debole costituzione, era tuttavia molto impegnata come
madre e catechista, aiutando il marito nell’attività apostolica.
Morì con il piccolo Juvencio tre le braccia.
23. Carlos Mukwanane – Nato nel 1960 a Mukamba (Fugnaloro),
aveva frequentato la sesta classe elementare. Alto
e magro, era un bravo agricoltore. Nel 1991 aveva frequentato
con la moglie un corso di formazione nella missione
di Massinga, per diventare entrambi responsabili
della missione di Fugnaloro, rimasta senza missionari a
causa della guerra. La comunità li aveva scelti e mandati
a Guiúa per completare la loro formazione. Fu uno dei primi
martiri di Guiúa: gli assalitori gli spararono, appena lo
videro uscire dalla sua casa.
24. Susanna Carlos Mukwanane – Figlia di Carlos e della
sua precedente moglie, era nata a Mukamba (Fugnaloro)
nel 1979. A 13 anni si comportava come una «donna di
casa», aiutando i genitori in tutti i lavori domestici e accudendo
gli altri fratellini. Fu uccisa nel luogo del martirio,insieme
alla seconda madre, a colpi di coltello.

Giacomo Mazzotti




altri «trentatre»

Il 2001 ha portato con sé un terribile bagaglio di violenza
e disprezzo verso l’uomo e verso Dio. È stato l’anno
dell’attacco alle Torri Gemelle, della campagna militare in
Afghanistan, delle violenze fondamentaliste in Pakistan,
Nigeria, Indonesia, India. I faeticanti messaggi di Bin Laden, che assaporavano come un gioco la distruzione dell’altro, rischiano di essere l’immagine dominante di questo inizio di millennio…
La lista dei martiri cattolici che presentiamo va controcorrente. Per motivi contingenti non abbiamo aggiunto ad essa i 16 protestanti uccisi a Bahawalpur (Pakistan), le
centinaia di uccisi a Jos e Kano in Nigeria, i trucidati nelle Molucche o nelle città palestinesi. La lista è sempre stilata per difetto. I 33 nomi che riportiamo sono i rappresentanti di un lungo esercito dell’Agnello, che in tutto il mondo sono pronti a dare la vita per il loro Signore e per gli uomini.
I mesi trascorsi (con le rovine fumanti di «Ground Zero
») ci hanno messo sotto gli occhi la capacità dell’uomo
di uccidere sé e gli altri, magari in nome di Dio. I 33 che
presentiamo (sacerdoti, suore, seminaristi e laici) sono invece morti in nome di Dio, ma per donare la vita. Erano
andati in missione per predicare il vangelo, edificare comunità, aiutare giovani, difendere i diritti umani. Il loro slancio d’amore è stato apparentemente stroncato. La maggior parte di loro sono morti proprio a causa del fondamentalismo religioso o etnico.
Alcuni di loro sono morti per «cause banali»: rapina,
furto. Ma spesso l’apparenza nasconde motivi più profondi.
Per esempio: suor Barbara Ann Ford, americana, lavorava
in difesa degli indios ed era stata stretta collaboratrice
di Juan Gerardi, vescovo guatemalteco assassinato
3 anni fa; padre Ettore Cunial, italiano, cercava di strappare i giovani alla mafia albanese, per salvarli dal commercio di droga e organi. Anche questo è un fatto che segna una tendenza.
Fino a 10-15 anni fa i missionari erano amati per essere
i rappresentanti di valori spirituali. Oggi si vede in essi
solo prede inermi, facili da colpire, perché (si sa) non
portano armi e non rispondono con la vendetta.
In tutto il mondo, anche in Irlanda o negli Stati Uniti, vi
è un oscuramento dell’orizzonte spirituale, una crescita di
materialismo che vede le persone come oggetti da spogliare,
strumenti di possesso.
I l fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del
possesso sono le cause profonde del martirologio di
quest’anno. A differenza della morte di un giornalista, un
capo di stato o un terrorista, l’uccisione di questi martiri
non suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della
terra: non lo si nota, ma rende fecondo il campo per nuove
semine e raccolti.
La loro cocciutaggine, nel voler vivere e morire per amore
di Gesù fra le piaghe del pianeta, sostiene la speranza
anche per il 2002.
Questi martiri sono il segno che l’amore è possibile e
che la terra appartiene a Cristo, non alla violenza e al terrore.

MARTIROLOGIO DELL’ANNO 2001
1. Sr. Dionitia Mary (indiana) India – 21/1
2. P. Pietro De Franceschi (italiano) Mozambico -1/2
3. P. Tom Manjaly (indiano) India – 2/2
4. P. Nazareno Lanciotti (italiano) Brasile – 21/2
5. P. Jan Franzkevic (polacco) Siberia – 15/4
6. Sr. Barbara Ann Ford (Usa) Guatemala – 5/5
7. P. Raymond M. Gamach (canadese) Perù – 7/5
8. P. Raphael Paliakara (indiano) India -15/5
9. P. Andreas Kindo (indiano) India -15/5
10. Sem. Joseph Shinu (indiano) India – 15/5
11. P. Henryk Dejneka (polacco) Camerun – 17/5
12. Sr. Claire (burundese) Burundi – 11/6
13. P. Leonardo Alzate (colombiano) Colombia – 14/6
14. P. Martin Royackers (canadese) Giamaica – 21/6
15. P. Fabian Thom (australiano) Papua NG -16/8
16. P. Galeano Buitrago (colombiano) Colombia – 27/8
17. P. Emil Jouret (belga) R.D.Congo – 28/8
18. P. Rufus Halley (irlandese) Filippine – 29/8
19. P. Héctor Fabio Vélez (colombiano) Colombia – 2/9
20. P. John Baptist Crasta (indiano) India – 6/9
21. Vol. Giuliano Berizzi (italiano) Rwanda – 6/10
22. P. Ettore Cunial (italiano) Albania – 8/10
23. P. Eesto Martearena (argentino) Argentina – 8/10
24. P. Gopal (indiano) India – 12/10
25. P. Celestino Digiovambattista (ital.) Burkina F. – 13/10
26. Sr. Lita Castillo (peruviana) Cile – 29/10
27. P. Simeon Coly (senegalese) Senegal – 7/11
28. P. Hubert Hofmans (olandese) Papua N. G. – 23/11
29. P. Peter Obore(sudanese) Uganda – 24/11
30. Sarita Toppo (indiano) India – 28/11
31. P. Michele D’Annucci (italiano) Sudafrica – 8/12
32. P. Michael Mac (Usa) USA – 8/12
33. Sr. Philomena Lyons (irlandese) Irlanda – 15/12
(Fonte: «Fides»)

Beardo Cervellera




I NOSTRI VICINI DI CASA

Per prepararsi a diventare diacono, un’avventura missionaria…«fuori porta». Che, ribaltando dubbi e pregiudizi, spinge a una condivisione senza sconti.

Raccontare i miei tre mesi in
Albania non è facile: specialmente
se penso ai «luoghi
comuni» sugli albanesi, cui sono legate
le nostre menti. Poi, quando si
parla di «missione», non si pensa ad
un luogo vicino geograficamente…
Quindi i pregiudizi da superare sono
tanti. È lo sforzo che bisogna fare
anche per incontrare l’Albania
nella sua verità. Una terra così vicina
e così lontana da noi.
Dopo aver trascorso due anni in
una parrocchia di Brescia con molti
immigrati, ho desiderato «vedere
» una loro nazione di provenienza.
E sono andato in Albania.
Sono partito per compiere un’esperienza
forte, in vista della mia ordinazione
diaconale: imparare che
nella vita è importante sentirsi piccoli,
non sempre con le soluzioni in
tasca. Ma non immaginavo che vivere
in un luogo di cui conoscevo la
lingua solo in modo rudimentale e
dove non potevo adottare nessuna
«strategia» pastorale… mi avrebbe
aiutato a guardare con più umiltà al
dono del diaconato.

ALBANIA SCONOSCIUTA
È il giorno della partenza. Mi attende
un lungo viaggio in camion da
Brescia a Bari, l’attraversata dell’Adriatico
in traghetto e l’arrivo a Durazzo,
finalmente in Albania! Ma è
solo l’inizio.
Dopo due giorni per sbrigare le
pratiche doganali (altro che la burocrazia
italiana!), mi metto in viaggio
per la diocesi di Rrëshen, dove
vivrò. La diocesi si trova nel nord
del paese e confina con la Macedonia.
Gli spostamenti sono lunghi,
perché le strade sono pessime ed è
necessaria molta attenzione per evitare
le capre e gli asini che si incontrano
lungo il tragitto.
La gente saluta con entusiasmo e
i bambini si aggrappano con facilità
al camion, per vedere cosa trasporta.
Sembra che mi aspettino da tanto.
E forse è vero: per troppo tempo
ci siamo dimenticati di questi
«vicini di casa», e loro sono lì, come
per dirci: «Finalmente!».
Dopo tre giorni di viaggio, arrivo
a destinazione. Una sosta a Rrëshen
per la scorta d’acqua (di potabile ce
n’è ben poca!), il saluto a padre Cristoforo,
amministratore apostolico
(uno dei soli tre preti nella diocesi)
e sono a Fanë, la meta finale. È un
villaggio nascosto fra le montagne,
raggiungibile con una strada sterrata,
che offre però paesaggi stupendi.
Pochi minuti per ambientarsi e,
subito, sono sommerso da una folla
di bambini, che accorrono per vedere
il nuovo arrivato. In quei volti,
in quel desiderio di conoscere e
accogliere, in quelle mani sporche
(segno del lavoro a cui sono sottoposti
i più piccoli)… c’è l’Albania
sconosciuta.
Intanto gli amici, che mi hanno
accompagnato in camion, ripartono
per l’Italia. Io mi ritrovo «solo».
Alcune suore mi danno la carica e
non c’è troppo tempo per i convenevoli:
la gente e i giovani aspettano.
E, siccome la voce della donna
non è sempre ben accolta, una suora
subito mi catapulta in mezzo a loro,
accompagnato da un giovane,
per la lingua.
Ho poco a disposizione, se non la
bibbia, unico libro tradotto in albanese,
e con questa faccio tutto: catechesi,
incontri sulla vita, giochi, visite
alle famiglie. A volte lo stupore
mi blocca: i giovani fanno ore di
cammino per venire ad ascoltarmi,
per parlare con me; poi, digiuni, ritornano
al villaggio. Nessuno ha mai
parlato loro della dignità della vita,
come il vangelo insegna… ed è della
vita, vissuta in grande e con riferimenti
a Dio, che scoprono di avere
bisogno.
Il regime comunista albanese aveva
cancellato ogni traccia di umanità
nelle persone. La maggioranza dei
giovani incontrati non aveva mai
sentito parlare di Dio prima del
1990: per loro Dio è «una scoperta
recente»! Ma se succede (magari attraverso
la testimonianza di un missionario),
non riescono più a fae a
meno.
L’amore di Dio, manifestato nella
condivisione di vita, entra nel loro
cuore indurito e fa quasi toccare
con mano che deve esserci Qualcuno
più grande e veramente buono.

IMPARANDO AD AMARE
Chi fa sperimentare questa presenza?
Certo, i missionari. Ve ne sono
in Albania? Nelle città, dove tutto
è più o meno comodo, anche la
presenza religiosa è considerevole;
ma nelle diocesi intee, dove manca
acqua, la corrente elettrica c’è solo
7/8 ore al giorno e la vita è «schiava
» delle tradizioni… la presenza religiosa
è rarissima. A Rrëshen, su un
territorio di 4 mila kmq, dal 1991 vi
sono tre solo missionari vincenziani,
alcune suore e… basta. Le condizioni
locali invitano chiunque ad andarsene.
Durante la mia permanenza ho
visto molti religiosi venire, guardare
e andarsene: troppo difficile restare.
Ho percorso in lungo e in largo
la diocesi con un padre vincenziano;
nel guardare la gente lontana
da Rrëshen (dove la chiesa cattolica
non è arrivata), ci domandavamo:
«Qui chi annuncerà Gesù Cristo?».
Una domanda che tuttora mi pongo
ogni volta che prendo in mano la
bibbia.
Prima di lasciare una di queste
zone «inesplorate» e ritornare alla
missione, abbiamo fermato la jeep
sul ciglio della strada; dopo aver appeso
una corona del rosario ad un
albero, abbiamo pregato ricordando
le parole di Gesù: «Ci sono altre
pecore che non sono di questo ovile;
anche queste io devo condurre».
Sì, anche questi fratelli hanno il diritto
di sentire la vicinanza del Signore.
I giorni vissuti a Fanë sono paragonabili
(per intensità) a quelli degli
«esercizi spirituali»: ti segnano
«dentro» e ti spingono a cambiare
vita. Ogni giorno era un esercizio di
disponibilità verso i bambini e ragazzi
che, sin dal mattino, bivaccavano
al cancello della missione in attesa
di un abbraccio, una parola. Era
difficile accontentare tutti, ma
non impossibile: bastava un po’ di
entusiasmo. A volte, di fronte al loro
carattere difficile, veniva voglia
di essere altrettanto scontrosi; ma
scattava «l’esercizio» di amare senza
contraccambio, richiesto dal Signore.
Ma è stato pure arricchente gustare
l’ospitalità delle famiglie nelle
loro povere case: ti davano l’unica
sedia e loro, seduti per terra, aspettavano
una parola diversa. Spendevano
i pochi soldi che avevano, per
comprarti una bibita (dato che l’acqua
è poco affidabile); venivano a
prenderti alla missione e ti riportavano.
Ne nasceva pure una passeggiata,
cui si aggregavano decine di
ragazzi. Poi facevano a gara per invitarti
a casa loro.

CON I GIOVANI
Ho svolto il mio servizio quasi esclusivamente
fra i giovani, ed è attraverso
loro che ho incontrato il
volto dell’Albania che spesso non ci
giunge: quello di gente accogliente,
desiderosa di sapere e sperimentare
sentimenti di amicizia vera, di capire
che la vita (anche quella di un
albanese!) è una vocazione.
Ricordo i ragazzi che stanno facendo
un cammino propedeutico al
seminario: vedendo i padri e le suore,
hanno sentito il desiderio di imitarli,
anche se la strada è lunga. Il
cammino consiste nel far loro compiere
un’esperienza di Gesù nella
preghiera e, soprattutto, nella disponibilità
al servizio gratuito verso
i coetanei: un compito difficile, anche
per la povertà dei mezzi a disposizione.
In qualcuno di loro Dio
ha seminato il germe della vocazione.
Ora tocca a noi aiutarli a farlo
crescere con il nostro amore.
Forse questo, più che una testimonianza,
è uno sfogo. Ritengo che
sia anche necessario gridare dai tetti
che vi sono fratelli vicini a noi, bisognosi
di aiuto; che non sono come
li immaginiamo, perché esiste
anche un’Albania diversa dai «soliti
fatti negativi». È tempo di pensare
che l’amaro non fa distinzioni,
ma richiede solo una grande disponibilità.
Se può essere più facile aiutare
una nazione lontana (perché
non ci tocca più di tanto), interessarsi
ad una vicina può chiederci un
coinvolgimento maggiore, soprattutto
per eliminare pregiudizi e stereotipi.
Provate a dire che avete aiutato…
un albanese e poi osservate la reazione
dell’interlocutore; provate a
dire che partite in missione per l’Albania
e avrete reazioni curiose.
Ame questo non importa. Ho incontrato
Dio in Albania e Lui
sta cercando di parlare al cuore della
gente; ma chiede anche la nostra
disponibilità per manifestare il suo
amore verso chi, fino a ieri, ha conosciuto
quasi solo repressione e
violenza.
Se abbiamo la coscienza di essere
stati amati gratuitamente, non possiamo
esimerci dal fare altrettanto.
Questo l’ho scoperto grazie anche agli
albanesi. Ora ad essi
offro, anche se piccolo, il
mio amore.

Roberto Ferranti