BRASILE: l’esperienza del «bilancio partecipativo»

«ORA DECIDO ANCH’IO» Il riscatto degli esclusi

Quante
volte abbiamo protestato per lo spreco di denaro pubblico? Di certo tante.
Nello stato di Rio Grande do Sul, in Brasile, hanno provato a superare il
problema chiedendo direttamente ai cittadini come spendere i soldi
pubblici. Una lunga serie di assemblee, aperte a tutta la popolazione,
fissa le priorità: le fognature prima della strada, il consultorio prima
del campo sportivo. Il «bilancio pubblico» prende forma dalle proposte
della collettività. Un esempio, unico al mondo, di democrazia non soltanto
rappresentativa ma anche partecipativa. Con ottimi risultati, nonostante
gli sgambetti di Brasilia e i mugugni dei conservatori.

Siamo qui
per cercare di capire come funziona quello che in lingua brasiliana si
chiama «orçamento partecipativo» (bilancio partecipativo) e che oggi
rappresenta un vanto del governo di Rio Grande do Sul, uno dei 26 stati in
cui è suddivisa la repubblica brasiliana, situato alla punta sud del
paese, ai confini con Uruguay e Argentina.

Dal 1999,
Rio Grande do Sul è amministrato dal «Partito dei lavoratori» (Pt). Non
senza qualche difficoltà, visto che l’assemblea legislativa è dominata dai
partiti conservatori: su 55 deputati soltanto 10 appartengono al partito
di governo. Ma Olivio Dutra, il governatore, ha dalla sua i numeri: negli
ultimi anni lo stato ha avuto indici di sviluppo tra i più alti del
Brasile (produzione, esportazioni, occupazione). 

Il sistema
del bilancio partecipativo è in funzione a Porto Alegre, la capitale, dal
1989, ma applicarlo a livello di stato era una scommessa rischiosa. Ma è
stata vinta, tanto che il sistema ha suscitato interesse ben oltre i
confini brasiliani.

Esso
combina il principio della democrazia rappresentativa con quello della
democrazia diretta. Tutti i cittadini possono dire dove e come spendere i
soldi pubblici: qualche scuola in più, un centro di salute, aiuti per
acquistare mezzi agricoli, agevolazioni per le piccole imprese, corsi di
formazione professionale, un sistema idrico per le favelas ecc. ecc. In
questo modo, si ottiene un doppio risultato: da una parte si sottrae il
potere decisionale alla discrezionalità dei politici, dall’altra si
coinvolgono direttamente  i cittadini.


COME UNA
«SCATOLA NERA»

Capelli
corti, occhialetti ovali, una maglietta nera con al centro la bandiera
verde-rosso-gialla dello stato, Iria Charão è la cornordinatrice del
gabinetto delle relazioni comunitarie e assessore del governatore Dutra,
con delega speciale per il bilancio partecipativo.

Ci
attende, affabile e sorridente, seduta dietro una grande scrivania, con ai
lati le bandiere del Brasile e dello stato. Sulla parete alle sue spalle è
appesa una cartina con le 23 regioni in cui è suddiviso Rio Grande do Sul.

«Soltanto
nell’ultimo anno – ci spiega indicando la cartina – ho percorso più di 300
mila chilometri lungo le strade dello stato. Sono andata a raccogliere le
proposte delle varie assemblee popolari. L’anno scorso sono state ben 735,
alcune con più di 4 mila partecipanti».

Signora
Iria, perché è importante questa esperienza e cosa avete da insegnare?

«È una
forma di democratizzazione della gestione dello stato. Una amministrazione
legittimamente eletta ha tutto il diritto di governare, ma noi volevamo
dare più potere ai cittadini, renderli più partecipi alle decisioni
pubbliche.

Le scelte
politiche nascono dalle scelte di bilancio. Ebbene questo è sempre stato
considerato una sorta di scatola nera, nella quale soltanto alcune persone
possono guardare. Ma poiché è il popolo che tira fuori i soldi dal
portafoglio, esso ha diritto di definire quali sono le priorità verso cui
indirizzare i fondi.

Abbiamo
visto, negli anni, grandi sprechi di denaro pubblico: sono state fatte
opere faraoniche, che non hanno cambiato nulla nella vita delle persone o
che addirittura non sono state ultimate.

Si discute
anche di grandi opere, ma di solito la popolazione sceglie le priorità che
si riflettono direttamente sulla loro vita quotidiana: creazione di lavoro
e reddito, miglioramento dei consultori medici, scuole pubbliche».



REDISTRIBUZIONE

Il Brasile
è uno dei paesi al mondo dove la distribuzione del reddito è più
diseguale. La cosa si riflette anche nella struttura delle città, dove
accanto a quartieri residenziali modei e servitissimi si trovano
baraccopoli prive dei servizi basilari.

«Questo è
un punto fondamentale – spiega Iria -. Il bilancio partecipativo può
favorire la distribuzione del reddito, perché i più poveri possono dare
voce alle loro richieste e chiedere di essere favoriti nella spesa
pubblica. Se abbiamo una parte della città ben strutturata (cioè con
fognature, aree di svago, centri di cultura, ecc.), è compito di una buona
amministrazione far sì che queste condizioni di vita siano disponibili per
tutti.

Affinché
ciò avvenga, lo stato deve investire la propria rendita dove i servizi non
ci sono, ad esempio nelle periferie. I più fortunati debbono capire che è
responsabilità del potere pubblico prendersi cura della parte più debole
della società.

Noi
abbiamo un motto da seguire: i diritti non si discutono, si compiono».


CRITICO È
PERICOLOSO

Un bel
progetto, ma – ci chiediamo – quali costi sociali potrebbe nascondere?
Come in tutti i paesi dell’America Latina, anche in Brasile la
suddivisione della società in classi è ben radicata (ed anche formalizzata
a seconda del reddito: classi A, B, C, D). Un sistema come quello del
bilancio partecipativo può suscitare l’opposizione delle classi più forti?

«Il nostro
sistema – ammette Iria – ha oppositori e anche molti nemici. La destra
conservatrice e i neoliberisti lo detestano. Non tanto per quello che fa,
quanto piuttosto per ciò che crea.

Crea un
cittadino più critico, più esigente, più cosciente politicamente. Un
cittadino siffatto è un cittadino pericoloso, perché ha voce nelle scelte
dei governanti e questo alla destra non piace. Per molti politici e
affaristi è una perdita di potere e di influenza. Per esempio, un
candidato non può più arrivare e promettere che, se sarà eletto, farà
questo e quest’altro. Chi delibera le opere è l’esecutivo e questo deve
ascoltare le istanze provenienti dalle assemblee popolari. Il governo di
Rio Grande do Sul nella formulazione del bilancio dà la priorità alle
decisioni della comunità».

Rio Grande
do Sul è retto da un governo del «Partito dei lavoratori». In caso di
sconfitta elettorale (le elezioni saranno il prossimo ottobre), un’altra
coalizione politica potrebbe chiudere l’esperienza del bilancio
partecipativo. «Certo, potrebbe farlo – spiega Iria -. Anche perché non
c’è una vera e propria legge approvata dall’assemblea legislativa. Ma
converrebbe? Il nostro stato presenta indici di sviluppo invidiabili…».


INDICI ALLE
STELLE

In
effetti, nella classifica dell’«indice di sviluppo umano» (calcolato
dall’Undp, il «Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo») lo stato di
Rio Grande do Sul sta tra Portogallo e Malta, molto più in alto del
Brasile (che è al 69.mo posto, mentre l’Italia è al 20.mo).

«Una città
o uno stato con una qualità di vita migliore per tutti ha una convivenza
migliore. Questo è il ragionamento da cui partire!» spiega con decisione
Iria.

E
continua: «Se le periferie delle città hanno una qualità di vita
superiore, le persone non verranno ad invadere o assaltare altri
quartieri.

Un esempio
concreto: nella zona dell’Avenida Ipiranga, cioè in una zona centrale di
Porto Alegre, c’era una favela. Per i governi precedenti la soluzione era:
prendere la favela  e spostarla fuori città. Noi abbiamo invertito questa
logica. 

Le persone
abitavano lì da più di 30 anni e quindi abbiamo scelto di migliorare le
condizioni abitative in loco. Abbiamo costruito alloggiamenti temporanei
in attesa di ultimare case e palazzi definitivi. Spostare tutta la gente
della favela avrebbe reso necessario una nuova fase di adattamento, che a
volte è molto difficile. Non si cacciano le persone dall’ambiente in cui
stanno: si migliora l’ambiente».

Il metodo
del bilancio partecipativo è stato implementato dà un partito di sinistra.
Cosa dice la chiesa su questo sistema?

«In
Brasile abbiamo una chiesa cattolica progressista. Basti ricordare le
varie pastorali della terra, dei neri, degli indios, dei bambini. Ci sono
inoltre le comunità ecclesiali di base, i pastori della chiesa luterana
coinvolti con i movimenti sociali…

In
generale, la chiesa cattolica dà un grande appoggio al sistema; per
esempio, incentivando la gente a partecipare alle assemblee. Il
cornordinamento nazionale della Caritas ha molte persone coinvolte
direttamente nel bilancio partecipativo. Insomma, tutta la chiesa che
lavora con la base ci aiuta. Quante volte le nostre assemblee si tengono
nei saloni parrocchiali!».

E
Brasilia? Come sono i rapporti con il governo federale?

«Brasilia
non ci ama. È ovvio che, se avessimo dalla nostra il governo federale, le
cose sarebbero più semplici. Ma i motivi di contrasto non sono soltanto
politici. I soldi che ci arrivano da Brasilia sono pochi anche perché gran
parte dei fondi federali sono utilizzati per coprire il debito estero del
paese. C’è un problema reale di disponibilità».



MODELLO ESPORTABILE?

Nel
paese latinoamericano, il bilancio partecipativo è stato applicato a Porto
Alegre (dal lontano 1989 ad oggi), nello stato di Rio Grande do Sul (dal
1999). Si sta lavorando per portarlo anche nella megalopoli di San Paolo
(15 milioni di abitanti). È fattibile un’applicazione del bilancio
partecipativo fuori del Brasile?

«Sì,
anche se non c’è un modellino esportabile tale e quale. Però ci sono dei
princìpi fondamentali attorno ai quali è possibile costruire. Il primo è
l’universalità del sistema: tutti possono partecipare, proporre, votare.
Il secondo è la discussione del bilancio preventivo. Il terzo è la
presentazione del consuntivo. Il quarto è l’autoregolamentazione, cioè il
processo può essere corretto o perfezionato in corso d’opera dietro
intervento dei cittadini.

Infine,
c’è un principio non scritto né codificabile. È il senso di solidarietà
che il metodo risveglia in ognuno. In Brasile, ciò può fungere da
collante. Per 500 anni questo paese è stato governato da ristrette élites.
Questo processo di partecipazione alla gestione della cosa pubblica è una
sorta di riscatto degli esclusi».

Un
successo, insomma. «Ma stiamo attenti – avverte Iria -. Non creiamo
illusioni: il sistema non è magico. Non risolve i problemi da un anno
all’altro. Non fa crescere i soldi sugli alberi. Certo, più cittadini
parteciperanno più il metodo si consoliderà. E soprattutto crescerà una
società formata da persone pensanti e coscienti delle possibilità che
questo sistema offre.

Né va
dimenticato che il sistema è un efficace antidoto contro la corruzione, il
patealismo, il clientelismo. Perché genera un forte controllo sociale
sulle azioni del governo».



COMUNISTI?

Rio
Grande do Sul è uno stato comunista?

Rio
Grande do Sul è uno stato dove si sta sperimentando una via alternativa
per la convivenza umana. Uno stato dove il principio del libero mercato
convive con un sistema che chiede alla gente di partecipare in prima
persona (e non soltanto attraverso i rappresentanti eletti) alla
costruzione di una società più equa e solidale.

Un
tempo un simile progetto sarebbe stato stigmatizzato con una sola parola:
utopia.

 

 


Lo
stato
di Rio
Grande do Sul


www.estado.rs.gov.br



ALCUNE CIFRE

 –
popolazione: 10.181.000 abitanti


superficie: 282 mila kmq (Italia: 301 mila kmq)


capitale: Porto Alegre (1,5 milioni di abitanti)


divisione amministrativa: 23 regioni e 497 municipi


partecipanti al processo del «bilancio partecipativo»:

nel
1999, 190 mila

nel
2000, 281 mila

nel
2001, 378 mila persone in 735 assemblee


indice di sviluppo umano (Hdi): 0,869 contro lo 0,750 del Brasile (69.mo
posto) e lo 0,909 dell’Italia (20.mo posto)

 

Come funziona l’«orçamento
partecipativo»



Partecipare è costruire


Il
cittadino costruisce la finanziaria


Organizzato da un’équipe di 50 persone, il bilancio partecipativo
interessa oltre 10 milioni di abitanti di Rio Grande do Sul, lo stato più
a sud del Brasile.

Si
tratta di definire come destinare il denaro pubblico dell’anno successivo,
arrivando a una proposta di bilancio da presentare all’Assemblea
legislativa (il parlamento dello stato) che dovrà convertirla in legge. Ma
come far partecipare il maggior numero di cittadini alla scrittura della
finanziaria?

Il
processo, che combina democrazia diretta con democrazia rappresentativa, è
complesso e per di più dinamico (principio della autoregolamentazione),
ovvero può essere modificato e perfezionato ogni anno tramite contributi
della popolazione. Si svolge da metà marzo a metà settembre e si può
schematizzare in tre fasi.

 Un
uomo, tre voti

In una
prima fase si realizzano assemblee a cui può partecipare chiunque abbia
almeno 16 anni, e dalle quali usciranno proposte e priorità per gli
investimenti in opere e servizi, nonché i nomi dei delegati per la fase
successiva. Qui tutti possono prendere la parola e proporre. Le assemblee
si svolgono sia a livello regionale (23) che municipale (497). Per le
regioni sono di due tipi: di «direttrice» e sulle «tematiche di sviluppo».
Nelle prime governo e popolazione definiscono le linee generali per
orientare il dibattito nelle tappe successive. Le direttrici sono discusse
in base alle potenzialità, carenze e vocazioni della regione. Nelle
seconde i cittadini iniziano a decidere sui programmi prioritari per la
regione, orientandosi su 9 temi (agricoltura, turismo, ambiente, creazione
di lavoro, educazione, ecc.). Tutti i partecipanti possono votare tre
programmi di diverse aree tematiche. Il punteggio sarà sommato a quello
ottenuto, successivamente, nelle municipali. Nelle stesse assemblee si
eleggono i cosiddetti delegati tematici regionali.

A
livello municipale i cittadini propongono, dibattono e votano le priorità
in opere e servizi relative alla città (con lo stesso sistema di voto
delle regionali) ed eleggono i delegati municipali.

 Delegati
all’opera

Il
secondo livello, più tecnico, è quello dei delegati, eletti nella prima
fase in proporzione di uno ogni 20 partecipanti alle assemblee. Questi si
riuniscono nelle Plenarie dei forum regionali, dove si incontrano i
delegati tematici e quelli municipali. È qui che si sistematizzano le
domande della popolazione (raccolte nella prima fase) secondo criteri di
carenza, viabilità tecnica, legale e finanziaria. Si eleggono, inoltre, i
consiglieri per il Consiglio statale del bilancio partecipativo (terza
fase). Nelle plenarie si costruisce già una parte del piano degli
investimenti e servizi dello stato.

 Ecco
il bilancio

Il
Consiglio statale è l’istanza massima del processo e lavora direttamente
con il governo alla proposta finale del piano di investimenti, che verrà
trasmesso all’Assemblea legislativa per l’approvazione. I consiglieri,
eletti per ognuna delle 23 regioni, costituiscono il collegamento tra la
popolazione e il governo, quindi tra democrazia diretta e rappresentativa.
È in questo spazio di lavoro che le aspettative popolari, già selezionate,
sono strutturate e armonizzate a livello di stato. I consiglieri
rappresentano le decisioni degli abitanti della loro regione di fronte al
governo e sono anche incaricati di informare la gente sullo svolgimento
delle ultime fasi del processo.


Delegati e consiglieri hanno il mandato di un anno e il loro lavoro non è
retribuito.

 Trasparenza
e controllo

Una
volta approvata la finanziaria, la popolazione segue le tappe di
esecuzione degli investimenti previsti. Tutte le decisioni prese sono
pubblicate nel «quaderno del piano di investimenti e servizi», strumento
essenziale per il controllo popolare delle realizzazioni. Il governo poi,
durante le assemblee, presenta i conti dello stato, ovvero il rendiconto
degli investimenti reali effettuati, per un’effettiva trasparenza del
bilancio pubblico.

Marco Bello Paolo Moiola




KAZAN’ (RUSSIA): popoli diversi vivono in pace

CAMPANILI E MINARETI


 Sulle rive del Volga, a 700 km da Mosca, 

sorge
Kazan’, capitale di una delle repubbliche autonome della Federazione
Russa: il Tatarstan, cioè paese dei tatari (tartari). Il nome evoca
efferate crudeltà, ma quanto sono diversi  i tatari di oggi dai bellicosi
mongoli che, otto secoli fa, scorrazzavano nelle steppe russe, tagliando
teste e mettendo a ferro e fuoco le città! Il Tatarstan è un raro esempio
di convivenza


pacifica tra persone di etnia e fede diverse. 

 

Prima
di entrare in stazione, il treno proveniente da Mosca offre una bella
panoramica del cremlino di Kazan’. È il nucleo più antico della città, su
un’altura che sovrasta la confluenza dei fiumi Kazanka e Volga.

Si
tratta d’un cremlino sui generis: accanto alla caratteristica siluetta
della cattedrale, si scorge la mole di un grande edificio in costruzione,
irta d’impalcature e dall’aspetto di moschea. Un tempo, più o meno nello
stesso luogo, si trovava la leggendaria moschea Kul-Sherif, dagli otto
minareti, le cui forme fantasiose pare abbiano ispirato gli architetti che
costruirono la cattedrale di San Basilio a Mosca, a commemorazione della
presa di Kazan’ da parte dei russi nel 1552. Dopo tanti secoli, si è
deciso di riedificarla, anche se il progetto originario è andato perduto.

Dal 14°
piano dell’Hotel Tatarstan, si può ammirare la città in tutta la varietà
di strade e acque. Non passa inosservata l’insolita commistione di
campanili e minareti, sebbene chiese e moschee non si trovino le une
accanto alle altre, bensì in quartieri diversi.

Uno dei
monumenti più caratteristici del cremlino di Kazan’ è una torre a gradoni,
pendente quasi come quella di Pisa. Prende nome dalla principessa
Sjujumbekì (1516-1565), moglie dell’ultimo khan tataro di Kazan’. Quando
Ivan il Terribile conquistò la città, essa fu fatta prigioniera e portata
a Mosca insieme al figlio. Famosa per bellezza e intelligenza, era così
amata e ammirata dalla gente che intorno a lei sono nate numerose
leggende, ancora vive nella tradizione popolare.

Con la
conquista russa, i tatari sono stati spinti fuori dell’abitato, sulle
sponde del lago Kaban, ora parte integrante della città. Qui è sorto il
«sobborgo dei tatari». Solo a partire dal 1767, dopo la visita di Caterina
II a Kazan’, si consentì di costruire le moschee. Così l’imperatrice pose
fine alla più che bicentenaria discriminazione nei confronti dei tatari: i
russi li avevano fatti allontanare dalle rive dei fiumi, avevano tolto
loro le terre migliori; Caterina, invece, capiva l’importanza di quei
sudditi e il ruolo che avrebbero potuto svolgere nell’intrecciare
relazioni commerciali con l’Asia centrale musulmana, verso cui la Russia
aveva mire espansionistiche.

 

Con
l’arrivo dei bolscevichi le sorti delle due comunità religiose sono state
accomunate nella persecuzione: non ha risparmiato né cristiani né
musulmani, né russi né tatari. Nel 1943, durante la guerra, per dare nuova
linfa al patriottismo dei russi, Stalin restituì alla chiesa ortodossa un
ruolo ufficiale; anche l’islam ottenne un riconoscimento analogo.

Con la
fine del regime comunista, si è temuto che, sull’onda del processo di
disintegrazione della vecchia Urss, il Tatarstan potesse reclamare
l’indipendenza politica. Sebbene non siano mancati movimenti in questa
direzione, tale progetto è apparso irrealizzabile, non solo perché uno
stato all’interno di un altro stato costituirebbe un’improbabile anomalia
geopolitica, ma soprattutto perché, dopo secoli di vita in comune, tatari
e russi sono uniti da forti legami di sangue: moltissimi sono stati e sono
ancora i matrimoni misti.


Guardando i gruppi di giovani che passeggiano per le strade di Kazan’, si
fa fatica a capire dove siano i tatari e dove i russi. Si vedono anche
teste decisamente bionde o more; ma spesso rimane il dubbio. Anche le
caratteristiche architettoniche della città riflettono i tratti dei due
popoli. Molto più animata e solare rispetto ad altre città russe, Kazan’
non ha però l’esuberanza e colori del profondo oriente; sarà forse per le
acque, i boschi e il cielo nordico che la circondano.

Rimane
un’apprensione: con il rinascere dell’interesse per la religione i
rapporti tra le due comunità si potrebbero guastare, specie se la
religione venisse sfruttata a fini ideologici. Ma per il momento non si
nota nulla del genere. Tutti vivono in pace, grazie anche alla politica
attenta delle autorità, che mantengono al riguardo una posizione
rigorosamente imparziale.

Dove i
tatari sentono di doversi prendere una rivincita è nella questione del
proprio idioma: il turki. Esso si è sempre trovato in minoranza di fronte
al russo, lingua dei dominatori, privilegiato nella vita pubblica anche
dal comunismo; per cui i russi non hanno mai avuto la necessità di
imparare la lingua locale.

Ora i
tatari sono ansiosi di riaffermare la dignità del turki e vorrebbero che,
finalmente, fosse imparato da tutti. Nel 1997 il Congresso delle comunità
tatare ha approvato perfino il ritorno all’alfabeto latino che, dopo avere
sostituito quello arabo nel 1929, era stato a sua volta rimpiazzato dal
cirillico nel 1939.

Non ci
sarebbe da stupirsi se i tatari volessero rifare il percorso inverso fino
in fondo. Qualcuno lo auspica. Per ora, tuttavia, sembrano accontentarsi
del primo passo, pur suscitando parecchie perplessità tra la gente, ormai
abituata a scrivere e leggere i caratteri russi.

 

Gli
amici di Mosca mi hanno dato il numero di telefono della direttrice d’una
rivista femminile locale. «Dovessi aver bisogno; non si sa mai. Poi è
sempre interessante parlare con gente del posto. Si vengono a sapere tante
cose».

Mi
metto in contatto con la redazione del Sjujumbekì, rivista in lingua turki
rivolta a un pubblico tataro. L’intenzione è quella di scambiare quattro
chiacchiere e sentire notizie di prima mano sulla città. Entrata
nell’ufficio della direttrice, capisco che si sta preparando qualcosa: il
grande tavolo al centro della stanza ha un’aria di festa; vi troneggiano
vassoi carichi di dolci. Subito dietro a me entrano le collaboratrici che,
nel giro di cinque minuti, sono tutte sedute intorno al tavolo. Da ultimo
entra il fotografo e l’incontro comincia.

Credevo
di portare a casa informazioni su usi e costumi locali, invece sono
subissata da una valanga di domande sulle questioni capitali del nostro
tempo: educazione dei giovani, droga, famiglia, immigrazione, rapporto
chiesa-società. Evidentemente sono tutte questioni che stanno molto a
cuore alle mie interlocutrici, perché sono problemi che la gente si trova
ad affrontare negli ultimi tempi.

L’epoca
post-sovietica ha reso palesi vecchi mali, prima taciuti nelle statistiche
ufficiali, e aperto nuove ferite. La nuova «società aperta» si è trovata
impreparata a far fronte, di punto in bianco, a situazioni che hanno
assunto dimensioni catastrofiche, a causa del disorientamento generale del
periodo di transizione: il sempre più massiccio uso di droghe tra i
giovani ne è un esempio. Negli ultimi cinque anni il numero dei
tossicodipendenti registrati nella struttura pubblica è cresciuto di 12
volte; tra gli adolescenti addirittura di 30 volte; dal 1996 i malati di
Aids sono aumentati di 300 volte: il 70% di essi sono tossicodipendenti.

Le
giornaliste della rivista sono venute all’incontro con il desiderio di
imparare dall’esperienza di un altro paese e fae tesoro. Mi ascoltano
con avidità, riconoscenti per quel poco che posso raccontare. Si
stupiscono di quanto comuni siano i problemi e simili le situazioni nei
nostri due paesi. Anch’io mi meraviglio per la sintonia di giudizio delle
ospiti tatare nel valutare i fenomeni della modeità.

Siamo
intorno al tavolo da due ore; la giornata lavorativa è finita; ma nessuno
accenna ad andarsene, tanto è il piacere di un incontro che rivela
impreviste affinità. Non capita spesso di sperimentare come tra due mondi,
creduti lontani mille miglia, si trovino vicini nella comune
preoccupazione per un futuro incerto e nella professione di identici
valori.

 

A una
trentina di chilometri da Kazan’ si trova il monastero maschile di Raifa,
dal nome dei santi eremiti del Sinai e Raithu (in russo Raifa), massacrati
nel vi secolo da bande di razziatori. I monaci vi ospitano ed educano un
gruppo di ragazzi di strada.

La
bellezza del luogo mi rapisce, non appena scendo alla fermata dell’autobus
e imbocco la stradina che dalla provinciale conduce all’ingresso del
convento: tutt’intorno boschi centenari, poco lontano un tranquillo
specchio d’acqua. Sono investita da un senso di pace che, varcata la porta
del convento, si arricchisce di un sentimento di stupore e riconoscenza
per chi ha saputo rendere quel luogo così accogliente.

Il
monastero è lindo, ridente, pieno di visitatori. È un giorno feriale;
eppure si respira un’aria di festa. Sarà forse per il sole e l’aria tersa
che fanno risaltare i colori: il bianco degli edifici, l’oro delle cupole,
le sgargianti tinte dei fiori, il nero delle vesti dei monaci. È mai
possibile che fino a circa 10 anni fa il convento fosse in rovina e le sue
chiese abbiano ospitato un carcere minorile? Percorrendo i lustri viottoli
tra un edificio e l’altro, ci si ricorda a fatica degli anni bui del
periodo sovietico; sembra che questi monaci sorridenti abbiano da sempre
abitato questo luogo di serenità.


Desiderando scambiare due parole, mi avvicino timida a un monaco dalla
faccia bonaria, con la speranza che non trovi importuna la mia curiosità.
Il monaco altri non è che il priore, padre Vsevolod e non si dimostra
affatto sorpreso che voglia fargli delle domande. Non sono la prima
straniera a interessarsi del monastero.

Gli
chiedo subito dei ragazzi da loro adottati. «Il primo è arrivato chissà
come nel 1994. Ha trovato la strada da solo. Dietro di lui sono arrivati
gli altri. Quasi tutti con alle spalle storie pesanti di maltrattamenti,
abusi e violenze. Ora nel monastero abitano 20 ragazzi, dagli 8 ai 18
anni.

Da
quando sono qui, la loro vita è cambiata completamente e, soprattutto, è
mutato il loro atteggiamento nei confronti del mondo degli adulti, prima
guardato con paura e sospetto. Frequentano insieme la scuola, a qualche
chilometro di distanza; sono circondati dalle cure dei monaci, che ne
completano l’educazione, non solo insegnando il catechismo, ma anche con
lezioni di arte, musica e canto. D’estate, poi, il convento organizza loro
vere e proprie vacanze. Quest’anno, per esempio, sono andati tutti sul Mar
Nero.

Venti
giovani, in confronto alle migliaia di ragazzi abbandonati, maltrattati,
fuggitivi che percorrono le strade della Russia, sono una goccia
nell’oceano; ma è pur sempre un segno di speranza».

Padre
Vsevolod è raggiunto da alcune persone che vorrebbero parlargli. Ho
un’altra cosa da domandargli, prima di lasciarlo andare. Avendo visto nel
vicino villaggio una moschea, la domanda è d’obbligo: «Quali sono i loro
rapporti con i figli dell’islam?».

«Basti
dire – risponde padre Vsevolod con aria soiona – che nel territorio di
una cornoperativa agricola, non lontano da qua, si sta costruendo una
moschea. Sapete chi ne ha pagato il progetto? Noi. D’altra parte, quando
abbiamo cominciato a ricostruire il monastero, sono stati i musulmani
locali i primi ad aiutarci».

Biancamaria Balestra




SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio




GUERRA AFGHANA/ Incontro con Giulietto Chiesa

SEMPRE BUGIE ANCORA BUGIE

I taleban sono nati
con l’assenso del Pakistan e, di conseguenza, degli Stati Uniti. La guerra
afghana ha coperto le gravi responsabilità di Washington. Anche con la
connivenza del sistema mediatico mondiale, che ha lavorato per dimostrare
la «bontà» del conflitto. Diamo spazio      a una voce libera, forte e
preparata che non teme di parlare «contro». Non per partito preso, ma
prove alla mano.

Al termine della
conferenza abbiamo rivolto qualche domanda al giornalista e scrittore
genovese.

«Non abbiamo vinto
niente, nel senso che gli obiettivi che erano stati proclamati,
innanzitutto la cattura di Osama Bin Laden e del mullah Omar, non sono
stati raggiunti, ma questi sono dettagli secondari_ Io credo che Bin Laden,
prima o dopo, lo uccideranno.

Il resto è
completamente lasciato all’equilibrio delle potenze estee
all’Afghanistan , come è sempre accaduto. L’Afghanistan è sempre stato in
guerra in questi anni (1), perché dall’esterno si è imposta la guerra: 
questo per varie ragioni.

È vero che
l’Afghanistan era divenuto un covo terroristico internazionale. È vero che
Al Qaeda questo faceva; io ne sono testimone diretto; però non vi è il
minimo dubbio che i taleban siano stati costruiti con l’aiuto diretto,
senza equivoci, senza mediazioni, dei servizi segreti pakistani e di
quelli arabo-sauditi.

Ora, dato che non
si può neanche lontanamente dubitare che i servizi segreti americani
fossero a contatto diretto con i servizi segreti pakistani e
arabo-sauditi, si giunge alla conclusione induttiva che la nascita del
movimento dei taleban è avvenuto con il consenso degli Stati Uniti.

Certo, la
situazione gli si è rivoltata contro, ma loro l’hanno sfruttata il più
possibile finché gli conveniva. Per esempio, Al Qaeda e Osama Bin Laden
sono stati utilizzati per supportare i guerriglieri albanesi dell’UCK, che
(come si sa bene) è stata armata e finanziata dagli statunitensi. Insomma,
servivano per operazioni di sovversione e loro contavano di poterlo fare
tecnicamente. Tutte le tesi secondo cui bisogna colpire l’Afghanistan per
colpire il terrorismo sono tesi faziose, unilaterali, che nascondono la
verità.

La guerra afghana è
stata una grande, drammatica, terribile  cortina fumogena per nascondere
le responsabilità degli Stati Uniti».

Quindi, se non ci
fosse stato l’«Undici settembre», in Afghanistan nulla sarebbe cambiato?

«Assolutamente no.
Se non ci fosse stato l’11 settembre a costringere il presidente Bush a
fare “qualcosa”, non è escluso che avrebbero addirittura provato a
riutilizzare i taleban per fare passare attraverso l’Afghanistan il
petrolio del Caspio.

La califoiana
Unocal (il cui consulente principale è nientemeno che Henry Kissinger) e
Delta Oil (di proprietà della famiglia reale saudita) hanno lavorato per
questo fino al 1997-’98.

Non ci sono
riusciti, perché i russi hanno capito che questa era un’operazione contro
di loro. Far passare il petrolio attraverso l’Afghanistan era anche un
modo per dare un duro colpo alla presenza russa, privandola del controllo
sulla regione e di importanti royalties.

Ci sarà pace in
Afghanistan? Alla domanda si può rispondere dicendo che dovrà reggere una
politica di equilibrio tra Usa, Russia, Pakistan ed Iran».

È una guerra
keynesiana? (2)

«La linea americana
della totale deregulation del mercato non funziona più. Allora, un
neokeynesismo di guerra può essere la soluzione.

Duecento miliardi
di dollari da investire in campo militare (3), possono rimettere in piedi
le grandi compagnie industriali e la finanza americana. In questo modo è
possibile rilanciare anche la new economy, bisognosa di investimenti in
campo altamente tecnologico.

Sicuramente gli
Stati Uniti otterranno un risultato: un vallo enorme in campo tecnologico
con il resto del mondo. Nessuno potrà competere con gli Usa nel settore
della tecnologia fra dieci anni. Forse solo la Cina. La guerra serve anche
a questo».

Informazione,
disinformazione, non informazione: quale aspetto principale in questi mesi
di guerra?

«Io direi
soprattutto disinformazione. In questa guerra hanno contato di più i “B52”
dell’informazione mondiale che non i “B52” veri. Questa guerra, come
quella del Kosovo, non ci sarebbe stata se non esistesse un mondo
mediatico totalmente al servizio degli Stati Uniti. Se non ci fosse stata
una formidabile virtualizzazione di tutto quello che sta accadendo. A
partire dall’11 settembre.

Da questo momento
in poi possiamo dire che il sistema informativo mondiale sarà l’arma
numero uno di tutte le guerre future. Porto ancora un esempio: dopo la
presa di Kabul i giornali, le televisioni ci hanno bombardato con la
notizia che in Afghanistan le donne si erano tolte il burqa e gli uomini
tagliati le barbe.

Falso,
completamente falso. Le donne non potranno togliersi il burqa per molto
tempo ancora. Perché è una tradizione culturale vecchia di secoli, voluta
dagli uomini, anche dai mujaheddin.

Addirittura comica
poi la storia delle barbe. In Afghanistan la barba è un importante
indicatore di chi si è: la barba indica l’età, il ceto sociale, la
ricchezza, la povertà, l’istruzione, a quale etnia si appartiene. È
evidente quindi che in questo caso, oltre a fare una violenza
all’informazione, si è fatta violenza alla cultura di un popolo.

Perché queste
grossolane bugie? Per far vedere allo spettatore occidentale la “bontà”
della “guerra giusta”? Allora io mi domando: se ci hanno mentito su questi
aspetti d’immagine cosa sarà allora delle questioni serie?».

Può esistere
un’informazione indipendente dal basso, come, ad esempio, fanno Indymedia
o le Voci dell’Italietta? (4)

«Tutto può essere
utile a creare menti indipendenti. Io però non sono dell’opinione che la
controinformazione di per sé sia sufficiente.

Anzi potrebbe
essere pericolosa quanto un’illusione. Perché se resta tale, essa si sarà
ritagliata soltanto uno spazio di autonomia: una specie di “riserva
indiana” assediata, nella quale si potrà dire tutto.

Tutti coloro che
hanno a cuore la democrazia, il pluralismo, che hanno capito cosa sta
accadendo devono affrontare il problema di un’organizzazione per il
controllo democratico. Sarà un percorso molto difficile ma indispensabile.
Come? Ci sono tanti modi diversi: moltiplicando i centri studi, facendo
controinformazione, manifestando il dissenso, mobilitando gli
intellettuali ed i giornalisti nauseati da questa informazione.

Dobbiamo investire
il sistema mediatico con una pressione costante, coinvolgendo le reti dei
consumatori o del consumo equo e solidale. In poche parole, organizzando
delle lobby di pressione, nelle quali convergano realtà diverse e dove
nessuno dia ordini, ma vi sia un solo fine chiaro per tutti».

Come sta reagendo il
mondo cattolico in questo momento?

«Il mondo cattolico
è attualmente una delle realtà più vive in Italia. Io lo incontro ovunque
durante i miei spostamenti per il paese. Sono cadute tutte le barriere
ideologiche, non esiste una situazione che escluda qualcuno. Credo che la
vitalità intellettuale del mondo cattolico sia una delle novità più
interessanti, e in una prospettiva di rinascita esso sia decisivo».

Il piccolo
consumatore occidentale cosa può fare in questo momento storico?

«Il cittadino
consumatore può incominciare a consumare in modo alternativo e critico.

Noi non abbiamo
avuto, in Italia, un’esperienza come quella degli Stati Uniti, nella quale
gruppi di pressione (che possono pure sembrare marginali) hanno creato
molti problemi alle imprese multinazionali che dettano legge nella nostra
vita quotidiana.

Gli americani hanno
dimostrato che soggetti apparentemente inattaccabili, se sottoposti a
controllo popolare, tramite il consumo critico, risultano molto più
vincolati verso le questioni democratiche ed ambientali.

Io non sono
assolutamente contro il capitalismo. Semplicemente sono per una civiltà:
la civiltà degli uomini. Può esistere una civiltà degli uomini con questo
capitalismo che vìola i diritti e che è all’origine della minaccia della
democrazia?

Perché non unirsi
alla sfida di un grande movimento come quello di Porto Alegre, un
movimento che accerchia il sistema in maniera imprevedibile e pacifica,
facendo prevalere un’altra scala di valori?

La parola d’ordine
di Porto Alegre quest’anno (5) era: “Un altro mondo è in costruzione” ed è
questo che dobbiamo fare».


Note:

la
necessità dell’intervento pubblico nell’economia per incentivare lo
sviluppo.

 


Su pressione degli
Stati Uniti


Mary Robinson
licenziata (senza giusta causa)

Un
riquadrino sul quotidiano «La Repubblica». I media europei hanno ignorato
quella che, a buon diritto, si può considerare una delle notizie più
inquietanti, a livello mondiale, di questo già inquietante 2002.

Mary
Robinson non ripresenterà la propria candidatura alla carica di
responsabile dell’«United Nations High Commissioner for Human Rights» (UNHCHR),
l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani. Normale avvicendamento?
Stress? È bene ricordare chi sia Mary Robinson e soprattutto cosa abbia
fatto nella vita.


Irlandese, avvocato, ha coperto la carica di presidente della Repubblica
d’Irlanda dal 1990 al 1997, anno in cui è stata chiamata a presiedere
l’UNHCHR.

Dal
giorno della nomina Mary Robinson ha iniziato a battersi (con campagne di
pressione e denuncia) contro le gravi violazioni dei diritti umani in
moltissimi paesi del mondo. Ad esempio, in Sierra Leone e in Congo, dove i
signori della guerra erano colpevoli d’atrocità verso la popolazione
civile.

E poi
ancora le fortissime pressioni sul governo russo, accusato di portare
avanti, nel silenzio assoluto, una furiosa guerra etnica in Cecenia; i
richiami per il rispetto dei diritti umani in Cina; le denunce di violenze
e torture durante le elezioni presidenziali del 1999 in Messico; le
critiche al governo colombiano, colluso con le squadracce di paramilitari
che scorrazzano impunemente per il paese.

Luoghi
lontani, problemi lontani, dei quali in fretta si perdono le tracce nel
tourbillon di notizie da cui tutti i giorni lo spettatore occidentale
viene sommerso. Ma dichiarazioni di fuoco Mary Robinson non le ha usate
solo verso paesi sostanzialmente «innocui», ma anche nei confronti di «pesi
massimi», quali Stati Uniti ed Israele.


Dissenso e condanna verso gli Stati Uniti, che con le nuove leggi
antiterrorismo volute da Bush sarebbero autorizzati a prelevare
segretamente qualsiasi cittadino del mondo e, una volta portato in
territorio USA (inclusa una nave), a processarlo ed eventualmente
condannarlo a morte senza appello; e poi ancora uno scontro con il governo
statunitense, quando Mary Robinson ha richiesto la cessazione dei
bombardamenti sull’Afghanistan, causa di innumerevoli vittime fra i civili.

Da
ricordare, inoltre, i problemi sorti durante la Conferenza mondiale contro
il razzismo, svoltasi a Durban in Sud Africa nel settembre 2001 ed
organizzata dall’UNHCHR con la presenza di 160 paesi. Nelle bozze del
testo da usare come piattaforma programmatica Israele veniva definito,
senza giri di parole, come un paese «razzista colpevole di atti di
genocidio nei confronti del popolo palestinese».

Nel
medesimo documento si definiva la schiavitù come «crimine contro l’umanità»
e si chiedeva agli stati occidentali, in particolare ai membri del G7 «plasmati
da secoli di razzismo», di riconoscere le proprie colpe e di scusarsene.

La
sdegnata reazione da parte di Israele e Stati Uniti (ovvero il
boicottaggio dei lavori, definito deplorevole dallo stesso Kofy Annan,
segretario generale dell’Onu) ha portato all’annacquamento del documento
finale, con i paragrafi scomodi semplicemente cancellati.

«Sarò
la voce delle vittime», disse nel 1997 appena nominata responsabile
dell’UNHCHR. Ed ora Mary Robinson, voce dei senza voce, paga il conto.

«Non mi
aspetto di avere rapporti facili con i governi. Questo fa parte del mio
mestiere. Un ruolo difficile che richiede un approccio globale, perché
deve mantenere un equilibrio non solo tra le diverse regioni del mondo, ma
anche nei rapporti con i governi, con i quali bisogna lavorare senza però
aver paura di denunciare, quando necessario, le violazioni dei diritti
umani. È una delle sfide del mio mandato, ma ricompensa grandemente della
fatica», disse ai giornalisti che la intervistarono nel 1997 quando vinse
il premio «Europeo dell’Anno».

Oggi
gli Stati Uniti, facendo pressione direttamente sul segretario generale
Kofi Annan, hanno ottenuto la non-riconferma della Robinson, attraverso la
formula della «rinuncia volontaria» (!).

Una
sconfitta per tutti, non solo per la signora Mary Robinson.

Ma.Pa.

Sfogliando s’impara… da
«La rabbia e l’orgoglio»


«
Lo scontro
tra noi e loro
»

Dacché
i figli di Allah hanno semidistrutto New York, gli esperti dell’Islam non
fanno altro che cantarmi le lodi di Maometto… Ma in nome della logica:
se questo Corano è tanto giusto e fraterno e pacifico, come la mettiamo
con la storia dell’Occhio-per-Occhio-e-Dente-per Dente? Come la mettiamo
con la faccenda del chador anzi del burkah?… Come la mettiamo con la
poligamia e col principio che le donne debbano contare meno dei cammelli?…
Come la mettiamo con la storia delle adultere lapidate o decapitate?…

Io non
vado a rizzare tende a La Mecca. Non vado a cantare Pateostri e Ave
Marie dinanzi alla tomba di Maometto. Non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee. Tanto meno a farci la cacca… E mentre l’immagine dei due
grattacieli distrutti [di New York] si mischia all’immagine dei due Buddha
ammazzati [in Afghanistan], ora vedo anche quella, non apocalittica ma per
me simbolica, della gran tenda con cui due estati fa i mussulmani [sic]
somali (paese in gran dimestichezza con Bin Laden, la Somalia, ricordi?)
sfregiarono e smerdarono e oltraggiarono per tre mesi e mezzo piazza del
Duomo a Firenze. La mia città…

Avrà
notato, signor cavaliere [Berlusconi], che io non Le rinfaccio la Sua
ricchezza… Io non Le rinfaccio neanche il particolare di possedere tre
canali televisivi… No, no: la colpa che Le rinfaccio è un’altra. Eccola.
Ho letto che sia pure in modo grezzo e inadeguato Lei mi ha, ahimé,
preceduto sulla difesa della cultura occidentale. Ma appena le cicale di
lusso Le sono saltate alla gola, razzista-razzista, ha fatto marcia
indietro. Ha parlato o lasciato parlare di «gaffe». Ha umilmente offerto
ai figli di Allah le Sue scuse. Ha inghiottito l’affronto del loro rifiuto.
Ha subìto senza fiatare le ipocrite rampogne dei Suoi colleghi europei
nonché la scapaccionata di Blair. Insomma s’è preso paura… Ammenoché,
signor cavaliere, Lei non si sia rimangiato la giusta difesa della nostra
cultura…

Oriana
Fallaci, «La rabbia e l’orgoglio», Rizzoli, Milano 2001, passim

Maurizio Pagliassotti




Il pescatore di storioni

Un pescatore di
storioni ogni giorno scendeva all’estuario del fiume, che portava diritto
al mare. Era un maestro di pesca: il punto preferito era là dove l’acqua
dolce divideva il fiume dal mare. Il luogo era pure incantevole. Un
pittore di paesaggi si sarebbe certamente soffermato ad osservare, per poi
ritrarre su tela le sue emozioni.

L’uomo pescava
storioni (le cui uova costituiscono il prelibato caviale), li vendeva al
mercato e, con il ricavato, comprava farina, pane, latte, zucchero, uova,
carne. Così sbarcava il lunario.

Dati i discreti
guadagni, il pescatore decise di comprarsi una barca, per muoversi con
maggiore facilità sul fiume. Il pescato aumentava di giorno in giorno,
come pure l’incasso. Lui pescava, pescava… e si arricchiva. Acquistò
un’altra

imbarcazione, molto
più capace,

che trasportava
larghe reti, zeppe di storioni.

La vita sorrideva al
pescatore di storioni.

Il cerchio della
fortuna ruotava a dovere

con molto denaro, e
per un lungo periodo.

Poi le cose
cambiarono. Poiché lo storione scarseggiava, la macchina
della fortuna perdeva colpi, sino a fermarsi. Il pescatore
si ritrovò a condurre una vita povera. Il ricavato gli
permetteva, a malapena, di comprarsi due pani e poche uova.
La bellezza del luogo era rimasta intatta, ma il bisogno
impediva al pescatore di coglierla. Qualcosa s’era rotto nel
meccanismo armonico del meraviglioso fiume.

Al pescatore non
restava altro che pensare alla fortuna dei tempi andati.

Un giorno la
situazione, già precaria, precipitò del tutto. La necessità
indusse il pescatore a trovare uno sbocco economico altrove.
Però non riusciva a capacitarsi perché, dopo tanti anni di
fedeltà, il fiume gli avesse voltato faccia!

Prima di andarsene,
volle salutare il saggio del villaggio, che abitava sulla
collina più alta. Il vecchio lo accolse con grande fervore, lo fece
accomodare, gli diede da bere e gli chiese: «Come mai sei venuto fin
quassù? Di solito, chi sale a trovarmi è perché ha deciso di andarsene dal
paese: c’è chi parte per nuove avventure e chi, invece, per necessità!».

Il pescatore di
storioni raccontò tutto.

Il saggio disse:
«Montagne e colline, mari e fiumi, ogni volta che li guardiamo, sembrano
uguali al giorno precedente. Però cambiano. E chi ci vive dentro, il
mutamento lo sente, eccome! Lo sentono i pesci del fiume e gli animali
della collina. Anch’essi sono costretti ad emigrare. Ma è l’uomo, forse
senza saperlo, che costringe altre creature a spostamenti forzati e,
talora, alla morte. L’uomo, con un comportamento senza regole, può
distruggere tutto: è in gioco l’avvenire di tutti».

Tutte le ingordigie
e gli egoismi si ritorcono contro l’ingordo ed egoista. Proprio come
recita il proverbio: «Chi troppo vuole nulla stringe».

Giovanni Fumagalli




CHE IL VINO NON DIVENTI ACQUA!


Riflessioni proposte ai missionari nel Convegno di Ariccia/Roma
(4-8 febbraio), utili anche a chi ha a cuore una chiesa diversa, più
missionaria.

L’invito
proposto al Convegno di Bellaria (1998) fu di «aprire il libro della
missione». E fin qui, niente di speciale: possiamo aprirlo e lasciarlo
sulle nostre scrivanie. Occorre, invece, leggere e lasciarci mettere in
discussione. Aprire il libro richiede movimento, gesti dinamici per
passare dal «fare» all’«essere» missione.

Come tutti
i libri, anche quello della missione ha una premessa, dei capitoli e un
epilogo. Ma non ci deve essere la parola «fine».



 Una premessa:

è la
chiamata dei dodici da parte di Gesù, che li scelse per averli con sé e
mandarli poi a predicare due a due. Leggeri nell’«equipaggio», non
avrebbero dovuto essere maestri di retorica, ma persone dal linguaggio
schietto, astuti e docili; insomma, non semplicioni e neppure saccenti,
capaci invece di coniugare amore e giustizia.

Li avvertì
che non sempre avrebbero trovato dove posare il capo; anzi, sarebbero
stati odiati a causa sua. E, compiuta la missione, niente gloria, ma solo
e semplicemente essere considerati «servi inutili».

Unico
segno di potenza: la croce!

All’origine

di ogni
vocazione, c’è sempre l’iniziativa di Cristo e la risposta della persona
chiamata. Lo scopo della scelta è duplice: condividere la sua vita e
continuae la missione di incarnazione, annuncio e testimonianza. Questo
aspetto della chiamata è essenziale, per non dimenticare le nostre origini
e correre il rischio di invertire i ruoli, sentendoci datori di lavoro,
importanti, onnipresenti, indispensabili!

Vogliamo
costruire il Regno… e non abbiamo tempo di stare con Lui, dimenticandoci
di un piccolo particolare: che il Regno è già iniziato! A noi tocca
annunciarlo, scoprirlo e farlo conoscere. Il Regno c’è; non siamo noi che
lo inventiamo; ma spesso assumiamo atteggiamenti da «architetti».

Si
annuncia quello che si ha dentro, l’esperienza personale. Questo  ci
insegna la missione, ed è quanto le nostre chiese madri si attendono da
noi. La chiesa italiana chiede ai missionari spirito apostolico,
entusiasmo evangelico, tenacia e testimonianza (martirio), per
rivitalizzare il cammino delle comunità cristiane dell’Occidente.

La
presenza di istituti missionari in una chiesa locale non può né deve
passare inosservata. Anche perché (forse non lo sappiamo), siamo
considerati gli esperti dell’annuncio e siamo chiamati ad animare la
comunità cristiana. Lo abbiamo fatto e lo facciamo con disinvoltura in
terre geograficamente di missione, ma con la nostra gente ci ritroviamo
timidi, paurosi e ritrosi.

Ci
sentiamo inadeguati e stranieri in casa nostra? Non sappiamo più metterci
in sintonia con il popolo?… Perché in missione ti senti grande, capace e
qui, dove sei nato, ti senti balbuziente?… Animare la propria chiesa è
certamente meno gratificante, ma è altrettanto urgente e indispensabile.
La nostra presenza deve essere viva, quasi un pungolo che stimola, porta
al confronto e obbliga all’azione.

Però
essere missionari non significa fare i supplenti. Oggi in Italia si stanno
creando situazioni di missione, di rievangelizzazione. La tentazione è di
affidare «agli addetti del mestiere» zone o situazioni considerate di
frontiera. Da parte nostra è doveroso privilegiare questi servizi, ma è
compito della chiesa locale fronteggiare tali realtà e trovare risposte
adeguate. Come, per esempio, la cosiddetta missione che «viene a noi»,
cioè il fenomeno migratorio.

Dobbiamo
privilegiare i campi di animazione missionaria, avere una presenza nei
seminari diocesani (e non solo con missionari, ma anche missionarie),
intervenire nei mezzi di comunicazione per far passare un nuovo modo di
percepire gli altri.



 La natura stessa

della
vocazione missionaria è dialogica. L’incontro con l’altro, il diverso, il
nuovo è pane di ogni giorno: un esercizio giornaliero che dovrebbe
allenarci ad essere persone capaci di empatia, di «compassione». Chi apre
e legge il libro della missione trova questo capitolo di estrema
attualità.

Oggi in
Italia assistiamo preoccupati ad un ritorno di ideologie xenofobe, con
posizioni intransigenti a tolleranza zero; assistiamo ad un regresso
culturale. È caduto il muro di Berlino, ma se ne stanno erigendo altri,
invisibili, ma forse più massicci. E sembra che questo non incida sul
nostro «quieto vivere»!

I casi
sono due: o la vita missionaria ci è passata sopra, senza forgiare
minimamente il nostro essere, o non siamo informati: gravissimo peccato
pure questo. L’informazione critica, l’approfondimento serio, la ricerca e
lo studio devono essere una delle nostre principali attività.

Dialogo
esige conoscenza, ascolto, competenza. Sono finiti i tempi in cui bastava
raccontare la storia del «moretto». Oggi la gente vuole conoscere i perché
delle tragedie che assillano il Sud del mondo; vuole sapere quali e di chi
sono le responsabilità dei disastri umanitari. Qui e in missione dobbiamo
essere responsabilmente preparati.

Dialogo è
anche collaborazione: tra missionari e con i laici. Ma non lasciamoli
entrare solo dalla porta di retro, ossia in qualità di subaltei, senza
diritto di parola. Sono invece persone che possono aiutarci a leggere
criticamente la realtà nella quale viviamo.



 I poveri, ragione prima

e ultima
della nostra vita. Però mai una parola come «poveri» è stata tanto usata e
abusata. I poveri sono diventati oggetto di estenuanti riflessioni,
documenti…

Eppure,
chissà perché, mai come adesso sono così lontani da noi. Ci siamo talmente
adeguati a mettere «a norma» le nostre case, che non c’è quasi più posto
per chi «a norma non è». Abbiamo paura di infrangere le leggi dello stato
e perdiamo la forza di «contraddizione» (come Gesù, segno di
contraddizione!).

Non
possiamo avere due regole di vita: in missione e in Italia. Se sei
disposto al martirio là, devi essere disposto a infrangere le leggi anche
qua, che diminuiscono la testimonianza evangelica.

Davvero ci
siamo incarnati, fino a far causa comune con gli emarginati? Il nostro
stare con i poveri è nel ruolo di «compagni di viaggio» verso un mondo più
giusto? Oppure, facciamo sentire il peso del nostro vantaggio economico,
culturale, spirituale?

Partire

è la
nostra parola d’ordine, anche se a volte non sappiamo bene verso dove.
Talvolta non si capisce bene se è «fuga» o un partire verso qualcuno,
uscendo da noi stessi. Non basta divorare chilometri per sentirsi
missionari: la partenza che ci viene richiesta è più radicale e meno
avventurosa.

Ripartire,
ogni giorno e ogni momento, per andare incontro all’altro… Nel libro
della missione ci sono parole essenziali, che dobbiamo ricuperare:
passione, gioia, fermezza; devono sostituire… negatività, stanchezza,
istituzionalizzazione del carisma.

La
missione ci richiede di essere, più che assertori di certezze, umili
ricercatori di verità… profeti in cammino verso il Regno. Se scordiamo
la chiamata, l’essere noi stessi «terra da evangelizzare», la nostra
attività sarà come il muoversi «di un mare agitato che non può calmarsi, e
le cui acque portano su melma e fango» (Is 57, 20).

Non
conformiamoci alle regole della società, per non fare l’antimiracolo:
trasformare il vino in acqua!

(*) Elisa
Kidanè, missionaria comboniana eritrea, ha operato in Ecuador. Oggi è
redattrice di Raggio.

Elisa Kidanè




ARGENTINA/ reportage dal paese in crisi

L’ULTIMO VOLO DI MARIA MARTA


Era la notte del 14 maggio 1976 quando lei sparì. Aveva
soltanto 23 anni. Assieme al marito, faceva volontariato in una «villa
miseria» dell’immensa periferia di Buenos Aires. Per i militari al potere
un atto intollerabile di sovversione comunista. Prima di chiudere
tragicamente la sua breve vita, Maria Marta fece in tempo a partorire un
bimbo, che… La storia qui raccontata non è diversa da quella di altre 30
mila persone, scomparse nei sette anni di una dittatura per definire la
quale qualsiasi aggettivo sarebbe troppo benevolo.

Buenos
Aires. «Quel giorno cambiò completamente la nostra vita. Mio marito, che
era un diplomatico, chiese di lavorare in patria. Io divenni una delle
madri di Piazza di Maggio». 

Marta
Ocampo de Vasquez è una signora di una certa età, elegante e dai modi
garbati. Vive in un appartamento arredato con notevole gusto alla Recoleta,
un quartiere signorile di Buenos Aires. Famiglia di diplomatici, la
signora Marta proviene da un ambiente sociale importante, ma in questo
caso l’appartenza non cambia la sostanza. Una sostanza che è il dolore
inconsolabile di una madre.


IL SEQUESTRO

«Lei era
l’unica femmina in una famiglia di 6 figli. In casa era come una
principessa: carina, gentile, molto femminile. Sì, era proprio
eccezionale, Maria Marta.

Quando
scomparve, mio marito ed io, assieme al più giovane dei nostri figli,
vivevamo a Città del Messico. Arrivò una telefonata di un altro figlio:
“Mamma, hanno portato via Maria Marta”.

La
sequestrarono le forze di sicurezza della marina nel 1976, il 14 maggio,
insieme a suo marito Cesar Amadeo, medico veterinario di 26 anni.

Arrivarono
alle tre del mattino a casa sua, qui a Buenos Aires. Si fecero aprire la
porta dal portiere e poi lo fecero allontanare. Ma lui si nascose dietro
una scala e osservò tutta la scena.

Salirono
all’appartamento. In casa non trovarono niente di compromettente, ma li
portarono via egualmente. Legati e forse incappucciati…».

Perché li
portarono via?

«Per i
militari tutti coloro che si comportavano fuori dei loro schemi, erano…
comunisti. Maria e Cesar facevano un lavoro di volontariato sociale in una
“villa miseria”, un luogo simile a una favela brasiliana. Si erano
conosciuti in quell’ambito. La loro vita era di lavorare con i poveri. E
in particolare con i bambini, perché mia figlia era psicopedagoga. So
anche che, per aiutare le persone più bisognose, usavano i loro soldi.

Mia figlia
e suo marito seguivano gli ideali peronisti; entrambi erano della gioventù
peronista… Non credo che Maria fosse comunista. So invece che era molto
cattolica, come quasi tutti i suoi amici. Loro, comunque, erano soliti
ripetere: il primo comunista è stato Gesù…».

Sua figlia
e tutti gli altri sapevano di rischiare?

«No, penso
di no. Anch’io qualche volta andai in quella bidonville per fare la
maestra di scuola. Credo che nessuno di noi potesse immaginare che i
militari avrebbero reagito così, con massacri, torture, genocidi…».

A quei
tempi si sapeva già cosa stavano facendo?

«Io lo
seppi dopo, ma comunque non immaginavo che Maria non sarebbe più tornata.
Per 8 anni ho atteso che lei bussasse alla porta. I primi anni non volevo
muovermi dalla casa perché pensavo: se ritorna, non mi trova… Poi, era
il 1984, feci un’intervista con una troupe televisiva italiana che mi
chiedeva se stavo ancora attendendo mia figlia. Io risposi di sì. Ma in
seguito, con il passare del tempo, con le informazioni che a mano a mano
venivo a sapere, iniziai a rendermi conto che non era così. Però mai ho
abbandonato la lotta per cercare la verità e ottenere giustizia. Al
contrario, credo di aver lavorato ogni giorno di più».

«Dopo che
ebbero portato via mia figlia e mio genero, dall’aprile del 1977 cominciai
a frequentare “las Madres de Plaza de Mayo”. Sono ormai 25 anni che
partecipo a quella simbolica marcia attorno alla piramide di Piazza di
Maggio: ogni giovedì c’è qualcuna di noi.

Nei primi
momenti, volevo arrendermi. Invece le altre donne mi fecero coraggio.
Ancora di più quando si scoprì che non ero soltanto mamma, ma anche
nonna…».


IL FURTO DEI
BAMBINI

«Seppi
che, quando sparì, mia figlia era incinta e che, mentre era rinchiusa all’Esma
(«Escuela de mecánica de la armada», la scuola di meccanica della marina,
uno dei 365 centri clandestini di detenzione), partorì un figlio. Lo
scoprii per caso, dopo alcuni anni, quando incontrai sull’autobus una sua
amica psicologa. Poi ebbi la conferma dalle rivelazioni di un militare
pentito».

Bimbi
rubati dagli stessi aguzzini dei genitori! Non c’è fine all’orrore…

«Sì, è
questo che fecero. L’altro ieri mi hanno chiesto se li vendevano. Non
credo. Avevano una lista di famiglie che volevano avere un bambino.
Potevano essere militari o loro amici.

Se le
vittime avevano dei bambini, i militari li abbandonavano o li lasciavano
ai vicini. Se invece le donne erano incinte al momento del sequestro,
facevano nascere il bambino nel centro di detenzione».

E poi?

«Il
bambino stava con la mamma al massimo quattro giorni. Poi le dicevano che
lo avrebbero dato alla sua famiglia, invece…».

Che
fine facevano le mamme?

«La
fine degli altri: un viaggio in aereo. Arrivati sopra il mare o sul Rio de
la Plata, le persone venivano buttate giù. Vive o, nei casi più fortunati,
dopo una iniezione di Pentotal».

E
quante persone hanno subito questa sorte? 

«Non lo
sappiamo… Migliaia, perché ora si sa che anche l’esercito ha fatto lo
stesso. Ma il corpo peggiore era quello della marina».



NONNA E NIPOTE

E suo
nipote?

«Mio
nipote oggi ha 25 anni».

Sa
dov’è, cosa fa?

«Iniziai
a cercarlo assieme a mio marito. Qualche anno fa individuammo un ragazzo
che sembrava corrispondere alle caratteristiche di mio nipote».

E dopo,
che è successo? Che si fa in una situazione tanto delicata?

«Finora
non siamo riusciti a convincerlo a farsi le analisi per vedere se
veramente è lui. Prima c’era il papà che ostacolava la cosa, adesso è lui
che non ne vuole sapere. È una situazione difficile, molto dura che fa
male sia a noi che a lui. Ma io vorrei morire sapendo che mio nipote
conosce la verità. Vorrei potergli spiegare chi era la sua vera madre, mia
figlia».

Ma,
secondo voi, lui sa di essere stato adottato?

«Adesso
lo sa. Però non vuole sapere chi sono stati i suoi veri genitori. Ho
potuto parlare direttamente con lui, senza che lui conoscesse chi ero
veramente. Ho avuto questa occasione e l’ho sfruttata».

E come
si è presentata?

«Con il
mio nome. All’inizio lui non ha capito. Abbiamo parlato un po’. Poi mi
sono presentata meglio, ma lui non ha voluto proseguire la conversazione».

Quindi,
lui considera i genitori adottivi come i suoi veri genitori…

«Sì,
perché sono quelli che gli hanno dato amore, educazione e tutto quello che
ha».

Sono
dei militari?

«No,
spero proprio che non lo siano. Sarebbe un dolore ancora più grande. Io
non posso dimenticare quello che i militari hanno fatto. Per me il dolore
è lo stesso del primo giorno, quando Maria Marta sparì».

I suoi
nipoti conoscono la storia di Maria Marta e di suo figlio?

«La
conoscono. Un giorno li ho convocati qui da me, tutti e 13. E ho
raccontato ogni cosa».


LA
VIOLENZA


DELL’IMPUNITÀ

«Sotto
il presidente Alfonsin si fece un processo molto grande a tutti i militari.
Poi però il governo decise che era giunto il momento di chiudere con il
passato e varò la legge “de punto final”, che però non accontentava
abbastanza la casta militare. Si inventò allora la legge “de obediencia
debida”, secondo la quale tutti avevano obbedito a ordini superiori e,
dunque, non erano punibili. Soltanto gli alti gradi furono giudicati e
condannati».

Almeno
loro…

«Poi
arrivò Menem e fece l’amnistia. Anzi, ne fece due, la seconda nel dicembre
del 1990, come regalo di fine anno…

Per noi
fu un altro colpo molto doloroso: dei criminali, che erano già stati
condannati,venivano messi fuori dal carcere. Questa è la violenza
dell’impunità».

E ora
dove vivono?

«Nelle
loro abitazioni. Si è potuto fare qualcosa soltanto per il “robo de los
bebes”. Il primo a cadere sotto questa norma è stato il generale Videla.
Con lui altri sarebbero andati in prigione, ma sono tutti oltre i 70 anni
e per legge non possono stare in prigione. Quindi, anche questi sono nelle
loro abitazioni».

E
vivono normalmente?

«Quasi,
chiusi nelle loro case. Ogni tanto si vede qualcuno… I genitori di
alcuni ragazzi spariti dicono di averli visti per strada o in macchina.
Allora fanno foto, denunce, manifestazioni di protesta, le cosiddette “escraches”».

A conti
fatti, giustizia non c’è stata…

«No,
per questo penso sia giusto continuare a lottare. Vogliamo sapere perché
portarono via i nostri figli, chi diede l’ordine, chi eseguì tutto questo,
quale fu il destino finale».

Non
rinuncerete al vostro impegno…

«Andremo
in Piazza di Maggio tutti i giovedì, finché non ci sarà detta tutta la
verità e verrà fatta giustizia. Loro dicono che non ci sono prove perché è
stato tutto bruciato, distrutto, ma non è vero.

Finché
potrò, io continuerò a fare la mia lotta a fianco delle madri di Piazza di
Maggio, lavorando per preservare la memoria storica e contro l’impunità
dei genocidi e dei loro complici».

In
questo momento difficile della storia argentina, teme un ritorno del
passato?

«Ammetto
che sono preoccupata per quel che è successo il 20 dicembre. Mi sono
tornati alla mente brutti ricordi. Sono rimasta molto colpita dal
comportamento della polizia. Tutto quell’odio contro la gente, con i
cavalli, le pistole… Speravo di non vedere più queste cose, dopo 25 anni…
Però, rimango fiduciosa nei confronti della democrazia argentina,
nonostante ci sia qualcuno che lavora contro di essa».



L’ULTIMO VOLO


Un’ultima domanda, signora Vasquez. Si sa dov’è finito il cadavere di
Maria Marta?

«In
mare. O nel Rio de la Plata…».

(Fine
1.a puntata – continua)            

 

 


Argentina:
«Chiuso
per fallimento
»

Una
gran parte della popolazione argentina si è sempre sentita come degli «europei
trasferiti in America Latina». La prima volta che fui in Argentina,
qualche anno fa, rimasi impressionato dai prezzi, alti anche rispetto a
quelli di una città europea o nordamericana. Mi spiegarono che era la
conseguenza della parità monetaria tra peso e dollaro. Poi, uscendo da
Buenos Aires, vidi le ricchezze di quel grande paese: le sconfinate
praterie, la terra fertile, il petrolio, le bellezze della natura. Ma,
allo stesso tempo, scoprii che una fetta consistente della popolazione
viveva ai limiti della miseria.

Sono
tornato in Argentina nei primi mesi di quest’anno e ho trovato un paese
prostrato, con file interminabili davanti alle odiatissime banche, una
sfiducia assoluta nella classe politica (di qualsiasi colore), piazze
piene di manifestanti e negozi vuoti di clienti.

Le
cifre del tracollo non hanno bisogno di molti aggettivi. Oggi, su una
popolazione di 36 milioni, 14 milioni di argentini vivono sotto la soglia
della povertà. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 18,3%, mentre
quello di sottoccupazione arriva al 16,3%.


L’Argentina è un paese che alla sua entrata potrebbe esporre un cartello:
«chiuso per fallimento». Sicuramente riaprirà, ma quando e a che prezzo?

Accanto
al problema economico (e di conseguenza sociale), c’è quello di un passato
che non può essere dimenticato, soprattutto da chi ne ha subìto le
conseguenze, lasciando nella mente e nel cuore ferite impossibili da
rimarginare.

In
questa serie di articoli gli argentini incontrati parleranno delle
difficoltà di oggi e di quel passato che è ancora presente. Dai loro
racconti è scaturito il titolo: «le ferite del passato, le lacrime del
presente».

Pa.Mo.

 

La storia
del movimento



Madri di piazza di maggio

 Il 30
aprile 1977, un anno dopo la presa del potere da parte dei militari, un
gruppo di 14 madri (a cui lo stato aveva sequestrato i figli) si riunì per
protestare in Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, sede del governo
nazionale. Le guidava Azucena Villaflor de Devincenti (a sua volta
sequestrata pochi mesi dopo, l’8 dicembre 1977).

Le
donne stavano in gruppo. Di lì a poco la polizia, che controllava la
piazza, avvertì le convenute di disperdersi in quanto erano proibiti gli
assembramenti di 3 o più persone.

Allora
le madri iniziarono a camminare attorno alla Piramide di Maggio, posta al
centro della piazza. Da quel primo gruppo nacque il movimento delle
«Madres de Plaza de Mayo», che raccolse sempre più adesioni in tutto il
paese. Da quel giorno, ogni giovedì, dalle 15.30 alle 16.00, un gruppo di
madri si riunisce in Piazza di Maggio per reclamare verità e giustizia e
per manifestare a favore dei diritti umani, in Argentina e nel mondo.

 Nel
gennaio 1986 si costituirono due organizzazioni delle Madri di Piazza di
Maggio: «Madres de Plaza de Mayo Línea Fundadora» e «Asociación Madres de
Plaza de Mayo». Dopo aver affrontato assieme gli anni della dittatura, il
movimento si scisse a causa di alcune profonde diversità. Una parte delle
madri, la maggior parte di quelle che fondarono il movimento (da qui il
nome di «linea fundadora»), considerava necessario un cambio nella
metodologia di lotta in seguito al ritorno di un governo costituzionale.
Inoltre, era contestata l’attitudine autoritaria e il marcato personalismo
della presidente, signora Hebe de Bonafini.

Oggi il
gruppo della Línea Fundadora accetta le esumazioni come prova dei crimini
commessi e «perché nessuno può proibire a una madre di recuperare i resti
di suo figlio». Accetta la legge (n. 24.321) in base alla quale il «detenido-desaparecido»
assume la configurazione legale di «persona assente per sparizione forzata»,
lasciando la «presunzione di morte». Rispetta le madri e le famiglie che
hanno adottato la decisione di accettare l’indennizzo economico pubblico (legge
n. 24.411), riconosciuto dal governo argentino dietro sollecitazione della
«Commissione interamericana per i diritti umani» (Cidh). Con questa legge,
dicono le madri della Línea Fundadora, si riconosce il genocidio e gli
orrori compiuti dal terrorismo di stato. 

«Con
Hebe – spiega Marta Vasquez – oggi ci divide quasi tutto: i metodi di
lotta, la maniera di parlare, i modi di fare. Tuttavia, c’è una cosa che
ci terrà unite per sempre: la perdita dei nostri figli. A lei la dittatura
portò via due figli e una nuora. A me una figlia e un genero».

Pa.Mo.

 


Cronologia essenziale



Dalla nascita del peronismo al tracollo neoliberista


1943-1974: Juan Domingo Perón

Nel
1943 entra sulla scena argentina Juan Domingo Perón, uno sconosciuto
colonnello rientrato dopo un periodo trascorso nell’Italia mussoliniana e
nella Spagna franchista. Come segretario di stato al lavoro riesce a
diventare molto popolare tra i proletari e la classe media. I generali
prima lo costringono alle dimissioni, ma poi sono costretti a richiamarlo
sull’onda delle manifestazioni popolari (famosa è la protesta del 17
ottobre 1945, nota come la manifestazione dei «descamisados», i «senza-camicia»).
Perón è eletto presidente nel 1946 e, dopo una modifica ad hoc della
costituzione, viene rieletto nel 1951. Nel 1955 il generale è spodestato e
costretto alla fuga. Rientra nel 1973 e viene rieletto con il 62% dei voti.
Muore il 1° luglio 1974.

 1976 –
1983: gli anni della dittatura militare

Il 24
marzo 1976 assume il potere una giunta militare formata dai comandanti
delle tre armi (esercito, marina, aviazione). Viene nominato presidente il
generale Jorge Rafael Videla, comandante dell’esercito. Sono sette anni di
piombo. La dittatura fa sparire circa 30.000 persone, mentre a migliaia,
intellettuali e liberi professionisti, prendono la via dell’esilio.

 1983 –
1989: Raul Alfonsin

Vince
le elezioni Raul Alfonsin. Cedendo alle pressioni delle forze armate,
Alfonsin fa promulgare le leggi «de punto final» (1986) e «de obediencia
debida» (1987) che lasciano senza sanzioni i colpevoli dei reati commessi
durante la dittatura, esclusi gli alti gradi della gerarchia. Sarà Carlos
Menem a completare l’opera con due indulti (nel 1989 e 1990) ad hoc per
tutti i comandanti: Videla, Viola, Massera e altri.

 1989 –
1999: Carlos Menem

In 10
anni di governo Carlos Menem applica un ferreo modello neoliberista
privatizzando tutto ciò che si può privatizzare. Dalle casse dello stato
scompaiono buona parte dei miliardi generati dalla vendita dei beni
pubblici.

 27
marzo 1991: parte la parità peso-dollaro

Il
ministro Domingo Cavallo fa approvare la «Ley de convertibilidad» (n.
23.928). Secondo questa legge, d’ora in avanti il peso argentino si
cambierà 1 a 1 con il dollaro statunitense. Finisce l’inflazione a 3 cifre,
ma è anche l’inizio della fine per il sistema industriale del paese,
troppo debole per resistere alla concorrenza dei prodotti importati.
Chiudono le industrie, aumenta la disoccupazione.

 ottobre
1999: vince Feando De la Rua

Con il
48,5% dei voti, Feando De la Rua vince le elezioni presidenziali,
sconfiggendo Eduardo Duhalde, candidato del Partito giustizialista (peronista).

 20
marzo 2001: il ritorno di Cavallo


Schiacciato dai problemi, il presidente De la Rua chiama al capezzale
dell’economia argentina Domingo Cavallo, l’uomo che aveva sviluppato il
modello di Menem.

 dicembre
2001: la rivolta popolare

Il 3
dicembre il ministro Cavallo vara il «corralito»: nessuno può ritirare
dalla banca più di 500 pesos/dollari. In pratica, le banche e lo stato
confiscano il denaro di milioni di argentini. È la goccia che fa
traboccare un vaso stracolmo. Avvengono saccheggi e rivolte di piazza
represse con violenza (19-20 dicembre). Il presidente De la Rua si dimette
e fugge in elicottero.

 2
gennaio 2002: Eduardo Duhalde

I due
rami del Congresso eleggono presidente Eduardo Duhalde. Dovrebbe rimanere
in carica fino al 10 dicembre 2003. In soli 13 giorni l’Argentina ha avuto
5 presidenti: Feando De la Rua, Ramón Puerta, Adolfo Rodriguez Saá,
Eduardo Camaño e Eduardo Duhalde.

 6
gennaio: fine della parità

Il
governo stabilisce un nuovo cambio tra dollaro e peso: 1 dollaro è uguale
a 1,40 pesos.

 4
febbraio: la «pesificación

Tutti i
depositi in dollari vengono trasformati, obbligatoriamente, in pesos al
cambio di 1,40. Esempio: chi ha un deposito bancario di 10.000 dollari si
ritroverà con 14.000 pesos. Viene confermato il «corralito». Il dollaro
sarà libero di fluttuare in base alla domanda e all’offerta.

 15
aprile: il peso affonda

Un peso
vale 2,99 dollari. Nel giro di 3 mesi la valuta argentina si è svalutata
del 200%.

Pa.Mo.

 

 



Cliccando su …

alcuni siti internet

– 
www.madres-lineafundadora.org

il sito
delle «Madres de Plaza de Mayo – Linea Fundadora», l’associazione delle
madri che nel 1986 lasciarono il gruppo della signora Bonafini


www.madres.org

il sito
della «Asociación Madres de Plaza de Mayo», che fa capo a Hebe de Bonafini

– 
www.nuncamas.org

il sito
che riporta i documenti e le conclusioni della «Conadep», la Commissione
nazionale istituita per indagare sulle sparizioni forzate

Paolo Moiola




SAN PEDRO (COSTA D’AVORIO): missione nella «bidonville»

LUOGO DI RIFIUTI


Secondo porto della Costa d’Avorio, San Pedro gode di un
non invidiabile primato: tre quarti dei suoi 200 mila abitanti vivono nel
Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale, in una
situazione di degrado e disperazione. Vi lavorano i missionari della
Consolata.


Dall’altura lo sguardo spazia su una parte del territorio parrocchiale:
case e casette in ordine sparso in un mare di verde e di foschia. Il resto
è nascosto da una collinetta che, appena aggirata, rivela una distesa
immensa e senza interruzione di tetti di lamiera grigi e arrugginiti.

Procedendo
a passo d’uomo per un’ampia strada polverosa e sconquassata, sbuchiamo
all’improvviso nel cuore della città, tra edifici modei di banche,
negozi, centri commerciali. A ricordare il passato coloniale rimangono, in
prossimità del porto, due bianche zanne di elefante in lamiera e un
trenino, quasi un giocattolo in rottamazione.


COSTA DI
MALAGENTE

Anche il
nome ricorda un pezzo di storia. Qui sbarcarono, la prima volta verso il
1470, gli esploratori portoghesi e trovarono un piccolo villaggio di
pescatori kru, appollaiato alle foci del fiume Hé: fiume e villaggio
furono battezzati col nome di São Pedro. Lo stesso fecero più a est, col
fiume São Andrea (da cui Sassandra), e a ovest col promontorio di Cabo
Palmas, oggi Cap Palmas, ai confini con la Liberia: tre nomi rimasti come
firme della presenza portoghese nella regione.

Col
passare dei secoli, le coste videro sfilare le navi portoghesi, olandesi,
inglesi, francesi, che a tuo occuparono il litorale alla ricerca di pepe
e altri prodotti esotici. I contatti con gli europei dovettero essere
difficili, a volte cruenti, se la zona tra Cap Palmas e Sassandra fu
chiamata «Costa di Malagente», titolo che resistette a lungo sulle carte
geografiche.

Poi, con
le buone e con le cattive, gli europei imposero alla «malagente» i loro
commerci: caricavano rame e minerali vari; avorio soprattutto: ce n’era
una tale quantità che gli olandesi ribattezzarono la zona Tand Kuts, Costa
d’Avorio, appellativo poi esteso dai francesi al resto del paese.

Tra il xvi
e xviii secolo la Costa di Malagente, come il resto delle terre affacciate
sul Golfo di Guinea, fu dissanguata dal traffico degli schiavi. Quando lo
schiavismo fu abolito, la regione ricadde nell’oblio: alla fine del 1800,
tra Tabou e Sassandra, pochissime imprese commerciali mantenevano ancora i
propri empori.

A San
Pedro era rimasta la compagnia francese Kong, guidata dal suo fondatore
Arthur Verdier. Con coraggio e caparbietà, costui continuò i suoi
disgraziati affari, tenendo testa agli inglesi che, per farlo sloggiare,
depredavano le sue navi in continuazione. Finché nel 1885 arrivarono i
francesi per occupare il litorale, penetrare nell’interno e colonizzare la
regione.


CITTÀ
COSMOPOLITA

Clima,
malaria e ostilità delle popolazioni diedero filo da torcere ai soldati,
molti dei quali ci lasciarono la pelle. Ma nel 1893, tutta la Costa
d’Avorio era sotto il controllo francese, col titolo di colonia
indipendente. San Pedro riprese quota: con materiale portato dalla
Francia, il governo vi fece costruire un padiglione per la dogana, la
residenza dell’amministratore e un faro, il primo della Costa d’Avorio.

Nel 1900
il governo donò alla compagnia Kong quasi 3 mila kmq di foresta attorno a
San Pedro, per indennizzare il patriota Verdier degli sforzi sostenuti per
mantenere la presenza francese sul territorio. Cominciava la corsa allo
sfruttamento del legname e alle coltivazioni di caffè, cacao e caucciù.

Nel 1968,
otto anni dopo l’indipendenza, il governo dichiarò la regione sud
occidentale secondo polo di sviluppo del paese, lanciando un vasto
programma chiamato Arso (Aménagement de la région du Sud Ouest). San Pedro
cominciò a cambiare i connotati: fu dotato del porto autonomo, insieme a
varie strutture commerciali e industriali. In poco tempo il piccolo borgo
diventò una città modea e polmone economico della regione circostante.

Incremento
di colture da esportazione nelle zone rurali, costruzioni di
infrastrutture e industrie per la lavorazione del cacao, caffè e legname
attirarono manodopera in continuazione. Ai gruppi etnici locali (kru,
bakué, néyo) si aggiunsero quelli provenienti dall’interno della Costa
d’Avorio (baoulé, wobé, guéré, yakouba, malinké, mahou, senoufo, koulango,
abron, agni) e dai paesi circostanti.

Oggi San
Pedro conta circa 200 mila abitanti; è una città cosmopolita con grosse
colonie di burkinabé, maliani, liberiani, guineani, ghaniani, nigeriani,
mauritani e alcuni europei e libanesi.


REGNO DELLE
ZANZARE

Dalla cité
torniamo al Bardot, la più grande bidonville dell’Africa occidentale. Nata
spontaneamente come quartiere provvisorio per la mano d’opera impiegata
nella realizzazione di infrastrutture urbane e portuali, è cresciuta a
dismisura con l’arrivo di masse disperate in cerca di lavoro, fino a
contenere i due terzi della popolazione di San Pedro.

Padre
Armando mi fa visitare una piccola parte della sua parrocchia, per
rendermi conto della situazione. «Wabù! Wabù!» (bianco) ci salutano i
bambini, correndoci incontro per stringerci la mano. «Quando racconto che
mi chiamano “bianco”, i miei compaesani si mettono a ridere» racconta
sorridendo il padre, la cui caagione sembra caffè espresso. Qualcuno,
pochi in verità, saluta dicendo «mon père» (padre), segno che sono
cristiani.

Padre
Armando scherza con tutti, mentre osservo con costeazione le lunghe file
di baracche di legno, addossate le une alle altre, facendo bene attenzione
dove posare i piedi. Tutte le stradette, infatti, assomigliano a letti di
torrenti, con ciottoli frammisti alle immondizie domestiche buttate a
casaccio davanti alle abitazioni. L’assenza di fognature, poi, fa sì che
le vie si trasformino in fogne a cielo aperto, con tratti di  liquame
ristagnante. 

In fondo a
molte strade, in un avvallamento acquitrinoso, ci imbattiamo in mucchi di
immondizia in cui ruspano galline, grufolano maiali e capre e giocano i
bambini.

Tutto ciò
favorisce la proliferazione di zanzare, che al Bardot regnano sovrane. Si
sono fatte varie campagne per combatterle, ma la gente sembra abituata e
rassegnata a convivere con esse e alle relative febbri malariche. Ma i
centri sanitari sono sempre pieni. Più della metà dei pazienti accolti
nelle strutture sanitarie di San Pedro viene dal Bardot, in maggioranza
con malattie legate alla malaria. Tutti ne sono colpiti; ma i più
vulnerabili sono i bambini al di sotto dei 5 anni.

Il degrado
ambientale porta con sé quello sociale. Oltre che nido di zanzare, Bardot
è anche covo di briganti di strada: assenza di pianificazione stradale e
di elettrificazione, fa di alcune zone del Bardot un rifugio ideale per i
malviventi e un rischio per chi si azzarda ad entrarvi. Il 30 aprile 2001,
un commissario di polizia, sulle tracce di una banda di malfattori, fu
abbattuto con una pallottola al cuore.

Una di
queste zone, la parte sud del Bardot, è soprannominata Colombia, nome dato
non a caso: vi si concentrano i più grandi spacciatori e narcotrafficanti;
la droga è consumata sotto gli occhi dei passanti.

Il settore
chiamato Zimbabwe è tristemente famoso per il numero di aggressioni a mano
armata, di giorno e di notte. Al commissariato di polizia vengono
segnalati almeno 35 casi di furti, aggressioni e violenze giornaliere: più
di mille al mese.


Insalubrità e malattie, aggressioni, crimini e droga fanno vittime tutti i
giorni.

Il
Bardot è il quartiere di tutti i pericoli. Per evitarli, siccome il sole
sta per tramontare e le tenebre calano in fretta, ci affrettiamo a
rincasare.



A LUME DI CANDELA

Il
complesso della missione è molto semplice: la chiesetta in muratura,
dedicata alla Madonna d’Africa, un fabbricato in mattoni addossato alla
cappella e, pochi metri a fianco, una casetta di legno dove padre Olaya
vive insieme al collaboratore e connazionale padre Martin Sea.
Esteamente essa appare più decente delle altre catapecchie, ma è
altrettanto scomoda all’interno: senza luce elettrica né acqua corrente.
Al calar della notte, si accendono le lampade a petrolio e si cerca il
cesso a lume di candela.

«Fin
dal nostro arrivo, nel 1997, ci siamo proposti di lavorare con i poveri e
non per i poveri» attacca padre Armando, accentuando «con» e «per», in
modo da spiegare il suo metodo missionario assai spartano. Per questo ha
scelto di costruire l’abitazione in legno, riservando il fabbricato in
muratura alle attività comunitarie.

Nei
primi anni i missionari andavano in bicicletta, come i più fortunati del
Bardot; poi si sono rassegnati a comperare una vettura di terza o quarta
mano, per potersi occupare dei 18 villaggi compresi nel territorio
parrocchiale, alcuni dei quali a una cinquantina di chilometri da San
Pedro. Di essi si occupa soprattutto padre Martin: parte al martedì e
ritorna la domenica, passando la settimana nelle comunità rurali. Padre
Armando rimane al Bardot, ma si è aggiornato: quando non gira a piedi,
cavalca un ciclomotore, zigzagando e pedalando che è un piacere.



CRESCERE CON LA GENTE

«Al
nostro arrivo c’era un centinaio di fedeli – continua il padre -; oggi
sono quasi due mila. La comunità è cresciuta piano piano e il vescovo ne
ha fatto la parrocchia della cattedrale, spostando il centro della
comunità fuori del Bardot. Anche quando il parroco dovrà abitare nella
nuova sede, noi speriamo di rimanere qui, insieme alla gente».

Da
quando è stata costituita la parrocchia, i missionari hanno assunto
l’impegno di creare strutture adeguate: consigli, commissioni e gruppi
vari, quasi una quarantina, che organizzano lavoro e vita della comunità:
catechesi, pastorale giovanile,  accoglienza, servizio dei malati e della
carità.

«Ma le
comunità di base sono la mia passione – continua padre Armando -. Una
volta la settimana, verso le 7 di sera, si radunano nel proprio quartiere
a lume di candela o di lampade a petrolio e si confrontano con la parola
di Dio e i problemi di ogni giorno. È un’esperienza molto bella vedere
come cresce la comunione vera, senza divisioni, nonostante le diversità
etniche; e i poveri che partecipano attivamente alla vita della parrocchia,
assolvendo alle responsabilità e servizi vari.


Insistiamo perché tutto passi attraverso la comunità di base, anche
l’ammissione al battesimo e agli altri sacramenti. Quando una persona
vuole entrare nella chiesa cattolica, per esempio, viene accolta nella
comunità di base, partecipa alla sua vita e vi riceve l’istruzione
necessaria, fino a quando è ritenuta pronta per ricevere il battesimo».

«Oltre
alla formazione, avete iniziative sociali e di promozione umana?» domando
timidamente.

«Più
che al lavoro sociale, il nostro impegno è rivolto alla formazione della
comunità – ribadisce il padre -. Ma qualche attività sociale l’abbiamo già
avviata, come il piccolo dispensario, dove i poveri trovano medicine a
prezzo inferiore a quello praticato da farmacie e strutture pubbliche. Ora
stiamo lavorando a un progetto per raccogliere i bambini di strada e
offrire loro la possibilità di imparare a leggere e scrivere, fare oggetti
di artigianato o apprendere un mestiere. Ho già preso accordi con una
comunità religiosa laicale che se ne assumerà la direzione. Abbiamo i
fondi per costruire il fabbricato; ma manca il terreno e non è facile
ottenerlo. Esso appartiene al comune, che non lo concede, dicendo che qui
tutto è provvisorio».

La
scuola è uno dei problemi più gravi del Bardot. Quelle esistenti sono
insufficienti e mal tenute. Con la scusa che tutto è provvisorio e che gli
abitanti sono stranieri, il governo non è interessato a fornire
l’istruzione e altri servizi essenziali. A tale mancanza suppliscono le
scuole private, costituite da baracche di canne, alcune assi per far
sedere i bambini e un maestro che sa leggere e scrivere e si fa pagare
qualcosa per sbarcare il lunario. Nonostante ciò, sono migliaia i ragazzi
che passano tutta la vita sulla strada.

«Le
sfide del Bardot sono infinite – conclude padre Olaya -. Vorremmo fare
tanti progetti, ma andiamo adagio: vogliamo che sia la comunità a muoversi.
La gente è abituata a ricevere. Prima dobbiamo aiutarla a cambiare tale
mentalità, per non perpetuare dipendenze e creae di nuove. Anche questo
fa parte della formazione».

Benedetto Bellesi




NEISU (R.D. Congo): emozioni di un viaggio atteso

UN’OASI DI PACE


Finalmente, dopo tanti inviti, la possibilità di vedere (e
gustare) l’opera di padre Oscar, medico-missionario prematuramente
scomparso, nel piccolo villaggio della foresta e nel suo ospedale, dove
ancora tutto parla di lui.Una visita, anche, per dirgli grazie.

Kampala
(Uganda): dopo cinque lunghi giorni di attesa, c’è la possibilità di
partire con un piccolo aereo. Meta, missione di Isiro (Congo, repubblica
democratica).

Sono con
mio marito Piero, padre Rinaldo Do, superiore regionale dei missionari
della Consolata, una suora comboniana e David, seminarista congolese di
ritorno dal Brasile per le vacanze natalizie. Finalmente sto per
realizzare un mio sogno, dopo un’attesa che dura da otto anni, cioè da
quando io e l’associazione S.O.S. di Padova abbiamo iniziato ad aiutare
padre Oscar Goapper e il suo ospedale di Neisu.

Con
l’aereo a 10 posti, cinque dei quali lasciati alle merci, volo sopra
enormi estensioni di foresta e percepisco chiaramente che quelle forme di
vita vegetale sono conservate come in uno scrigno da una natura
incontaminata. I miei occhi «bevono» i colori chiaro-scuri dei verdi
equatoriali. Il paesaggio mi affascina, ma attendo con ansia l’arrivo a
Isiro.


«Respirando»
ingiustizia e abbandono


 All’aeroporto (ma di questo ha solo il nome), ci sono padri Antonello e
Giuseppe che ci attendono. La gioia di trovarci lì è tanta e, dopo una
breve sosta nella casa regionale, proseguiamo il viaggio verso il
villaggio di Neisu, a 30 chilometri da Isiro. Per percorrerli ci vogliono
quasi due ore; la strada, infatti, è simile a un sentirnero, circondato da
un’intricata vegetazione che si protende verso di noi, quasi in un
abbraccio.

Di tanto
in tanto incontriamo «i ragazzi delle biciclette», che rappresentano
l’unica possibilità di comunicazione tra le varie zone del paese in
guerra: percorrono anche 800 chilometri per rifornire i propri villaggi
del necessario (olio, zucchero, sale, indumenti, ecc.), trasportando
150-200 chili per volta; costretti perciò, al ritorno, a spingere il loro
mezzo a piedi. È una fatica immane (che può causare anche la morte), a cui
si aggiunge  il pericolo costante delle imboscate da parte dei ribelli,
che li assalgono per derubarli. Nel vederli così stremati, costretti a
svolgere tale lavoro (unico mezzo di sostentamento per loro e la loro
gente), quanta pena! Una profonda commozione mi assale e non riesco a
trattenere le lacrime. Eppure, provo compassione anche per i ribelli,
spesso bambini-soldato che, armati di fucili a volte più grandi di loro,
ricorrono alla violenza per sopravvivere in mezzo ad una situazione di
caos e disperazione.

Quante
volte padre Oscar ci aveva descritto questa realtà; quante volte ci aveva
invitato alla solidarietà! Ora che non c’è più, mi chiedo con quale stato
d’animo entrerò nella sua casa, nel «suo» ospedale, nel villaggio dei suoi
mangbetu. Nella mente scorrono ricordi di descrizioni, episodi,
personaggi, progetti rimasti in sospeso; percepisco anche il timore di non
riuscire a vivere pienamente un’esperienza che da molto tempo desideravo
fare.

Cerco di
non pensare e tento di lasciarmi trasportare, libera, in mezzo a quella
strada di terra rossa, che taglia la foresta, attraverso piantagioni di
caffè, cotone, riso… abbandonate per sempre: segni tangibili di un
passato fiorente e ora scomparso a causa della guerra, l’instabilità
politica e gli interessi economici inteazionali. Le guerre provocano
vittime (soprattutto donne e bambini) e sofferenze di ogni tipo, purtroppo
destinate a prolungarsi nel tempo.

Questo
l’abbiamo potuto constatare soprattutto a Wamba, a 130 chilometri da Neisu
(otto ore di viaggio), centro un tempo ricco e lussureggiante. Questa
città costituisce il simbolo della decadenza dell’intero paese: non vi è
più la linea elettrica, le pompe di benzina sono state asportate, niente
banche, il treno non passa più, l’ospedale è fatiscente e di molte case
coloniali non restano che gli scheletri, perché poche sono sopravvissute
ai saccheggi e all’abbandono. Unico forte punto di riferimento sono le
strutture della chiesa locale e di quella missionaria, a cui la gente,
cristiana o no, può rivolgersi per ogni bisogno, sapendo di non essere
abbandonata.

Sono gli
«agenti pastorali» (vescovo, preti, suore, missionari, catechisti) che
stanno cercando di ripristinare le vecchie costruzioni e propoe di
nuove. Con una fede che mi commuove, persistono nella loro opera, anche
senza la certezza che domani ci saranno abbastanza denaro e tranquillità
per continuare.

Con
lucidità respiro le ingiustizie e provo tanta tristezza. Il Congo, che nel
sottosuolo custodisce preziose pietre (oro, uranio, cobalto, diamanti e
ogni altro ben di Dio) è caduto in una povertà indescrivibile. Neppure i
più elementari servizi qui vengono assicurati.

Dopo 17
anni di viaggi in Tanzania, pensavo di essere collaudata a tutto; mi
accorgo, invece, che qualcosa di nuovo nasce dentro di me, sento crescere
inquietudine, rabbia e, contemporaneamente, desiderio di fare di più per
questa popolazione: cordiale, gentile, ricca di dignità e ancora capace di
lottare.


Già dipinto
tra i santi

Ecco Neisu.
L’atmosfera che trovo all’arrivo stabilisce istintivamente un rapporto di
calda simpatia; mi colpisce il sorriso dei mille bambini che ci stringono
le mani sussurrando: «Mbote!» (saluto in lingua lingala). I loro volti
sono entrati per sempre nel mio cuore.

È quasi
una visione: come in un «paradiso terrestre», le abitazioni ordinate tra
le piante gigantesche di ogni genere, che farebbero invidia ai più grandi
vivaisti del nostro mondo occidentale. Tutto è equilibrato, pulito,
tranquillo. Al centro, sorge l’elegante ospedale con 120 posti letto,
costruito in piena foresta per i mangbetu, popolazione del nord-est di
questo enorme paese, che vive ancora in capanne di legno, paglia e fango.
Il loro modo di aggregazione è semplice, ma ben organizzato.

Piero, mio
marito architetto, nota ammirato: «Questo ospedale si struttura in forme
organizzative semplici, ma adeguate alla gente che serve, pensato e
costruito come elemento stabile e duraturo. Il sistema costruttivo è
quello dell’edilizia attuale dei paesi sviluppati, però calato nella
realtà climatica del paese e adeguato al sistema di vita della
popolazione, abituata a vivere in orizzontale, su un solo piano. Non
strutture grosse e pesanti (come quelle della colonizzazione belga), ma
agili, leggere e più facilmente adattabili alle esigenze delle
trasformazioni che via via si possono rendere necessarie».

Infatti,
non appena la ragione ricorda che sei in mezzo alla foresta, ti accorgi
che si tratta di un piccolo giorniello di cui tutto il personale (medico e
paramedico) è giustamente fiero. In testa a tutti suor  Luisa che, con
padre Oscar, ha condiviso giornie, difficoltà e non poche… soddisfazioni!

La chiesa,
semplice anch’essa nell’impianto di base, non è uno spazio banale o
inutile; non lo è soprattutto per le espressività della popolazione, che
manifesta i propri sentimenti e la propria fede durante le celebrazioni
liturgiche. La notte di natale la chiesa è stracolma, la folla assiepata
anche all’esterno, un’illuminazione flebile (alimentata dal generatore)
mette in risalto il piccolo presepe posto davanti all’altare adornato con
una stella cometa e ghirlande di meravigliosi fiori rosa.

È, per me,
un momento emozionante: i padri Victor e Antonello, accompagnati da uno
stuolo di chierichetti (bimbi e giovani), entrano a passo di danza,
proprio come vuole il rito «zairese». In quel frastuono di canti e grida,
assaporo un fenomeno straordinario: un’incredibile felicità permette a Dio
di esprimere, attraverso quella messa, l’infinità del suo amore. E in quel
raccoglimento, così particolare e insolito, sento quanto sia straordinaria
la condivisione. La chiesa è  ricca di raffigurazioni assai significative
per i mangbetu, per la storia della chiesa d’Africa, per la vita di
Cristo.

E tutto
quanto esposto è frutto di un’unica mente, quella di un personaggio
«geniale», padre Oscar, l’uomo dalle molte doti: missionario, medico,
architetto, pittore… e puoi aggiungere amico, fratello, compagno di
strada, uomo della misericordia, ecc. A ragione è stato inserito, dopo la
sua morte, negli affreschi della chiesa tra le schiere dei santi e beati! 


Ritoo alla
realtà

Neisu è un
cuore (questo significa in lingua kimgbetu) che batte nella foresta
equatoriale del Congo, oasi di pace dentro la guerra, speranza per molta
gente.

Ed è qui,
nel giardino dell’ospedale, che riposa e vive ancora padre Oscar. Ogni
cosa parla di lui e a lui; anche gli alberi che vibrano, le foglie che
ondeggiano con il soffio del vento e il canto degli innumerevoli uccelli
tessitori. Una cappellina di paglia davanti alla sua tomba accoglie ogni
mattina i credenti, che elevano i loro canti in un’interminabile lode a
Dio. Ogni sabato, poi, il personale dell’ospedale partecipa alla liturgia
eucaristica, voluta proprio dal loro maestro; tutto è come prima, con la
stessa forza, la stessa fede. I padri Antonello, Richard, Bruno e Feando
continuano con entusiasmo a trasmettere alla popolazione il messaggio di
Cristo.

Ma, anche
in quell’angolo di pace si insinuano allarmanti presenze di ribelli,
mentre la situazione nazionale, determinata dall’instabilità politica, si
fa sempre più preoccupante.

Temo di
essere alla fine del mio soggiorno in Congo… finché una fortuita
combinazione ci spinge a prendere l’ultimo aereo disponibile per un
possibile rientro in Italia. 

Arriviamo
a Bunia che, purtroppo, non è molto dissimile da Wamba e Isiro, in quanto
nelle cittadine sono più evidenti i segni della guerra e della crisi di
cui soffre il paese. Qui il paesaggio è diverso: la fitta foresta
scompare, ma il verde non svanisce  e all’orizzonte svettano dolci
montagne, non troppo alte, dalle cime lisce e morbide. Godiamo di panorami
eccezionali, ombreggiati da nuvole bianche, spostate dal vento.

Il nostro
amico André (prete diocesano di Wamba) ci offre l’occasione di vivere, per
la prima volta, la speciale atmosfera della vita di un seminario africano.

Seguendo
il ritmo del sole, lodi all’aurora e vespri al tramonto: cori di voci,
preghiere e musiche accendono nell’animo qualcosa di straordinario e
delicato. Dimentico tutto ciò che fa rumore intorno; nelle notti di
silenzio, ascolto il mistero che mi avvolge e, ancora una volta, sento di
amare questo paese, tanto da sentirmi persino felice…

Grazie,
Oscar!

SOS


                Sos  è un organismo di volontariato, la cui sigla
significa: So- lidarietà – Organizzazione – Sviluppo. Nasce a Padova nel
1989, grazie all’entusiasmo di Sonia Bonin e di un gruppo di amici, con lo
scopo di creare ponti di solidarietà con i paesi meno fortunati
dell’Africa, in particolare il Tanzania. Contatti e progetti si
intensificano sempre più, sostenuti da un’intensa opera di
sensibilizzazione a Padova e… dintorni.

Dopo aver
conosciuto padre Oscar, l’Associazione si è impegnata ad aiutare
l’ospedale di Neisu, donandogli anche, poco prima della sua morte, un
prezioso (e costoso) microscopio. Il viaggio di Sonia, raccontato
nell’articolo, avrebbe dovuto realizzarsi prima della scomparsa del
missionario…

Sonia Bonin




GUERRA ALLA PACE in terra santa

Dire
Gerusalemme è dire terra santa, e viceversa. Gerusalemme oggi è, più che
mai, di drammatica attualità: occupa ampi spazi sulla stampa e sul piccolo
schermo, a causa del sanguinoso conflitto israelo-palestinese.


Gerusalemme è sempre stata di attualità, fin da quando Dio la scelse come
luogo di incontro e dialogo con gli uomini. A Gerusalemme «tutti sono
nati… e l’Altissimo la tiene salda» (Sal 87, 4-5). Quel «tutti» contiene
una carica ecumenica di respiro universale. Gerusalemme appare come radice
di armonia e unità fra le genti. Sul libro della storia, curato da Dio,
«tutti» sono gli uomini e i popoli che Egli registra come cittadini di
Gerusalemme.

Il
carattere peculiare di Gerusalemme è l’universalità. E non è un tratto
immaginario, ma reale. Basti ricordare il ritornello ebraico, che ha
sfidato i secoli: «L’anno prossimo a Gerusalemme». Basti ricordare
l’affetto dei cristiani per la città santa, concretizzato nel
pellegrinaggio… e il fatto che, perfino fra le montagne
dell’Afghanistan, la foto di Gerusalemme è appesa con devozione alle
pareti delle case musulmane.


Gerusalemme, l’universale, fa sì che la comunità mondiale vi si riconosca
in un modo o nell’altro: interessa non solo chi vi trova una specifica
fede religiosa, ma anche chi vede in essa un riferimento a valori umani
fondamentali.

Se Assisi
affascina e coinvolge per la soffusa e penetrante spiritualità,
Gerusalemme seduce e attira per il mistero. Un mistero che perdura tutt’oggi
e che fa pensare al Deus absconditus (Dio nascosto).

Mi ritorna
in mente l’incontro, di qualche anno fa, con una giornalista svedese.
Aveva partecipato ad un congresso di archeologia a Tel Aviv, al termine
del quale effettuò una rapida escursione a Gerusalemme. E capitò che, nel
dedalo di viuzze della città vecchia, la giornalista avesse smarrito la
strada al suo hotel. Io, per caso, passavo di lì; lei mi pregò di
indicarle la via dell’albergo. L’accompagnai fino alla Porta di Damasco.
Cammin facendo, mi confidò che, essendo nata in una famiglia atea, non era
credente. «Però ho letto molto su Gerusalemme – disse -; ora sono qui e
avverto (non so perché) che qualcosa mi attira come una potente calamita.
Dovrei prendere l’aereo questa sera, ma non partirò; c’è qualcosa di
strano qui che mi sollecita a cercare, indagare e approfondire il mistero
di Gerusalemme, che mi tocca l’anima».

Ci
salutammo. Due anni dopo mi scrisse per annunciare che aveva ricevuto il
battesimo.


 Gerusalemme, che secondo un’etimologia popolare sarebbe la «città della
pace», non ha mai conosciuta la tranquillità. Lungo tutta la sua storia
millenaria è stata teatro di lotte, e tuttavia essa rimane la sede della «shalom»;
ma non per coloro che vogliono trovarvi una pace già confezionata, ma per
quanti vogliono costruirla.

La pace è
il risultato di relazioni rispettose fra i popoli, fra le persone;
scaturisce dall’amore tra gli individui, tra le comunità; nasce dalla
conversione, dall’accoglienza delle diversità.

La
tragedia odiea in terra santa grava anche sulla comunità internazionale
e su ogni persona sensibile alla pace… strettamente legata alla
giustizia. Da mesi, nonostante gli innumerevoli tentativi del passato di
approdare ad un serio e risolutivo processo di pace, una spirale di
violenze assurde e apparentemente inarrestabili soffoca la terra dove Dio
e gli uomini si sono incontrati e uniti per sempre.

Mentre
scrivo, la spirale attanaglia particolarmente Betlemme, dove la pace è
nata e annunciata per la prima volta agli «uomini che Dio ama».

Il pastore
protestante Dietrich Bonhoeffer, il martire per la libertà che ha pagato
con l’impiccagione la sua resistenza al nazismo, scriveva che non si
poteva cantare alleluja mentre gli ebrei venivano perseguitati. Così è
stata quest’anno la nostra pasqua, in terra santa, celebrata con il cuore
ferito. Come potevamo, in quei giorni di sangue, cantare alleluja?

Israeliani
e palestinesi sembrano sprofondare sempre di più in un vortice di odio e
vendetta. I ripetuti e accorati appelli che, insieme alle altre chiese
cristiane, abbiamo rivolto ai responsabili del paese e dei governi restano
tuttora inascoltati. Fino a quando? Quanto durerà l’occupazione militare?

Fino a
quando verranno disattese le risoluzioni delle Nazioni Unite?

È
necessario ritornare al rispetto della legalità internazionale. Lo afferma
da sempre Giovanni Paolo II (fra pochi), dimostrando una preveggente
visione della realtà. E il cardinale Martini ha rivelato una grande
preoccupazione nel dire di non comprendere

come
Israele, con la sua politica, persegua sicurezza e pace, «che pure è
sempre nel desiderio di tutto quel popolo».

Il
significato della preghiera per la terra santa (e, ovviamente, per le
persone che vi risiedono) è anche questo: sperare che il miracolo si
compia ancora. Sarebbe un primo e importante passo verso la pace. Ci vuole
fiducia e speranza.

La terra
di Gesù non è forse la terra dei miracoli?


Sfogliando s’impara…

«IO
TROVO VERGOGNOSO»

«Trovo
vergognoso che la stampa scritta (…) si indigni perché a Betlemme i
carri armati israeliani circondano la Chiesa della Natività, che non si
indigni perché nella medesima chiesa duecento terroristi palestinesi ben
foiti di anitra e mumz ni ed esplosivi (tra loro vari capi di Hamas e
Al-Aqsa) siano non sgraditi ospiti dei frati (che poi dai militari dei
carri armati accettano le bottiglie d’acqua minerale e il cestino di
mele). (…)

lo trovo
vergognoso che L’Osservatore Romano cioè il giornale del Papa, un Papa che
non molto tempo fa lasciò nel Muro del Pianto una lettera di scuse per gli
ebrei, accusi di sterminio un popolo sterminato a milioni dai cristiani.
Dagli europei. Trovo vergognoso che ai sopravvissuti di quel popolo (gente
che ha ancora il numero tatuato sul braccio) quel giornale neghi il
diritto di reagire, di difendersi, non farsi sterminare di nuovo.

Trovo
vergognoso che in nome di Gesù Cristo (un ebreo senza il quale oggi
sarebbero tutti disoccupati) i preti delle nostre parrocchie o Centri
Sociali o quel che sono amoreggino con gli assassini di chi a Gerusalemme
non può recarsi a mangiar la pizza o a comprar le uova senza saltare in
aria. Trovo vergognoso che essi stiano dalla parte dei medesimi che
inaugurarono il terrorismo ammazzandoci sugli aerei, negli aeroporti, alle
Olimpiadi, e che oggi si divertono ad ammazzare i giornalisti
occidentali».

Oriana
Fallaci sul settimanale «Panorama»,

12 aprile
2002


QUEI CANNONI
PUNTATI

«“Ecco,
noi francescani della Basilica della Natività chiediamo agli ebrei stessi
che facciano qualcosa, che impediscano questa ingiustizia, che dimostrino
che il volto d’Israele non è quello dei cannoni puntati contro un luogo
santo di una città sacra alle tre religoni monoteiste; io non penso che
siano tutti cattivi, al contrario so che dentro il cuore sono buoni e
giusti e so che vogliono il bene di tutti. Chiedo agli ebrei di buona
volontà di aiutarci e di farci uscire fuori da questa situazione”. (…)

Sharon ha
buttato all’aria ogni regola precedente. Tutte le parti coinvolte:
palestinesi, cristiani, le diplomazie occidentali e quella della Santa
Sede hanno avviato trattative mai accolte dall’intransigenza di Sharon.
Hanno nel frattempo persino prodotto un Cd-Rom intitolato “Unholy Asylum”,
asilo assai poco santo, polemizzando con lo spirito umanitario
dell’accoglienza che è storicamente il connotato dei francescani. Quanti
di essi, durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno accolto dietro i muri
di pietra dei loro conventi, i disperati ebrei inseguiti dai nazisti? O i
partigiani che i nazisti definivano “terroristi”. Qualcuno, per questa
generosità, ha pagato persino con la morte. (…)

“Noi
francescani non ci fidiamo: se andiamo via, cosa succederà?”, incalza
padre Ibrahim. Appunto, padre, lei ci ha pensato? “Bella domanda. Mi sono
dato una sola risposta: restiamo. L’abbiamo deciso tutti all’unanimità,
dopo una discussione comune”. Le truppe di padre Ibrahim imbracciano il
crocifisso e sfidano i lunghi fucili dei cecchini. Il motorino del
generatore che alimentava le batterie dei francescani ha funzionato per 36
ore e si è fermato ieri. Con la sua energia si tirava su l’acqua dei
pozzi. Se i frati vanno in cucina, alla Casa Nova, l’ostello attiguo al
convento, gli sparano addosso (…)».

Leonardo
Coen sul quotidiano «La Repubblica»,

12 aprile
2002


 UNA GUERRA
PER LA VITA O LA MORTE

«Chi
conduce una guerra per la vita o la morte del popolo intero ha il diritto
di ricorrere a tutti i mezzi, compreso quello del terrore suicida delle
donne kamikaze o dei massacri in campi  profughi come Jenin.

Il
guerriero totale coltivato dai vertici dell’Autorità palestinese non è
criticabile in un contesto di guerra finale, così come non lo è lo stato
israeliano che annuncia battaglie di sopravvivenza e che considera la
guerra come una replica della distruzione del Tempio da parte degli
antichi romani. In conflitti di questo genere non si guarda molto ai
risultati politici delle operazioni, né si è responsabili del male – il
più delle volte inane – che si arreca.

Ma la
guerra per la sopravvivenza non si limita solo a cancellare eventuali
responsabilità: essa dissimula anche, distorcendola, l’autentica natura
del conflitto. E vela consapevolmente la verità».

Barbara
Spinelli sul quotidiano «La Stampa»,

padre Marco Malagola