Reportage dall’Iraq di Saddam
HOTEL PALESTINA
Fino al 1990 l’Iraq era un paese ricco.
Oggi la quasi totalità della popolazione vive nella miseria, pur
conservando una grande dignità. L’embargo produce conseguenze devastanti.
Come quando impedisce l’importazione di cloro (che servirebbe
per depurare
l’acqua) o di sostanze disinfettanti.
A 12 anni dall’embargo si può
volare verso Baghdad solo dalla Giordania e dalla Siria, ma i costi sono
alti e i voli solo nottui e non frequenti. Per questo preferiamo
percorrere in macchina i 985 km di deserto che dividono Amman da Baghdad.
Si viaggia di notte per evitare il
caldo e si arriva in genere al mattino, giusto il tempo di fare una
doccia, cambiarsi, disfare i bagagli e pranzare fuori, magari in quel
piccolo ristorante davanti all’albergo, frequentato spesso solo da
iracheni, ma dove ormai il proprietario ci riconosce.
È strana Baghdad. In quel
ristorante, come altrove, la gente si ricorda di noi. È vero, la città non
ospita tanti occidentali quanto altre città arabe, ma ciò che stupisce è
«come» le persone ti salutano: noi siamo gli amici italiani che ogni anno
si rivedono. Persino l’anno scorso, quando arrivammo a Baghdad una
settimana dopo i fatti di New York, o quest’anno in cui le minacce di una
seconda guerra del Golfo hanno accompagnato il nostro soggiorno.
Il nostro albergo è il Falastin,
l’ex Meridien, che come tutti gli alberghi ha ora un nome arabo:
Palestina. Una volta era un cinque stelle: 15 piani di camere, bar
panoramico, ristoranti e sale per riunioni e ricevimenti. C’è ancora
tutto, ma non è più un cinque stelle. Dodici anni di embargo si vedono
anche in questo: la moquette lisa, qualche specchio rotto, molte lampadine
bruciate. Eppure la direzione cerca di fare del proprio meglio: in
mancanza di pezzi di ricambio e di soldi per rinnovare gli arredi, hanno
«smontato» le camere di alcuni piani per rifornire le altre. Magari vecchi
e fuori moda, in nessuna camera però mancano televisore, frigo e impianto
di aria condizionata per sopravvivere all’atroce caldo dell’estate
irachena.
Ci sono alberghi più belli, ma noi
siamo abituati al Falastin. Ci sentiamo a casa e sappiamo, per esempio,
che a settembre conviene chiedere una camera vista strada. C’è traffico a
Baghdad, ma le camere che danno sul giardino sono più rumorose. Ogni anno,
infatti, a fine settembre si tiene il Festival di Babilonia, un festival
internazionale di musica e danza folkloristica, e tutti i gruppi nazionali
che vi partecipano ripetono gli spettacoli nei giardini degli alberghi in
città.
Se a ciò aggiungiamo che negli
alberghi spesso si tengono i ricevimenti di nozze del giovedì sera, giorno
prefestivo islamico, il conto è presto fatto: un po’ di traffico è senza
dubbio più conciliante per il sonno.
QUELLE FESTE DI
MATRIMONIO
I ricevimenti di nozze a Baghdad
sono uno spettacolo da non perdere. Una volta, ci raccontano, quasi ogni
iracheno era in grado di fare la luna di miele all’estero. Ora la
situazione è cambiata: guerre ed embargo hanno schiacciato l’economia del
paese, ed anche i matrimoni ne hanno risentito, sebbene non nel numero.
Per incentivare le giovani coppie a sposarsi, il governo, una volta
all’anno fa celebrare delle nozze di massa, regalando agli sposi gli abiti
per la cerimonia e offrendo la prima notte di nozze in uno dei cinque
migliori alberghi della città. Sono matrimoni poveri e a volte, a
giudicare dall’espressione della donna (magari a fianco di un neo marito
molto più vecchio di lei), dal futuro neanche molto felice.
La sposa, in abito bianco di
foggia occidentale di dubbia qualità (pieno di paillettes, volants e
trine), di solito arriva in albergo accompagnata dalla sua famiglia. Le
donne, vestite modestamente, scortano la sposa fino in camera stringendosi
attorno: molte col capo velato, e le anziane con l’abbaya (il tradizionale
lenzuolo nero che le copre dalla testa ai piedi). Gli uomini suonano
pifferi e tamburi ed accompagnano la sposa improvvisando danze popolari.
Improvvisamente l’albergo si riempie di gente, che sciama verso gli
ascensori e poi, alla spicciolata, se ne va per lasciare finalmente soli
gli sposi.
Una notte al Falastin è tutto
quello che molti iracheni possono permettersi. Una notte per dimenticare
che l’indomani ricomincia la solita vita, la lotta per sopravvivere
all’embargo.
A volte ci sono matrimoni di sposi
più abbienti. In quel caso i veli lasciano spazio ad acconciature
importanti e trucchi pesanti, le abbaye ad abiti con gonne al ginocchio e
spalle scoperte, la musica popolare a serate passate a ballare nel
giardino dell’albergo col sottofondo di musica americana. Oggi però questi
matrimoni sono un’esigua minoranza.
DIGNITÀ E
ORGOGLIO
Fino al 1990 l’Iraq era un paese
ricco, la cui popolazione apparteneva in gran parte alla classe media
abbiente, ora questa classe sociale è sparita ed il paese si divide tra
pochissimi ricchi ed una maggioranza di poverissimi. Questo stravolgimento
sociale è una delle conseguenze dell’embargo: chi è già ricco
difficilmente perde i suoi privilegi, molti fanno fortuna con il mercato
nero, ma la maggior parte della gente sprofonda nella povertà.
Questo contrasto non è
immediatamente evidente. Si deve aver voglia di vederlo, di cercarlo. Il
popolo iracheno è dignitoso, qualcuno dice addirittura superbo. Per
esempio: rispetto ad altre città del mondo, a Baghdad i bambini raramente
chiedono l’elemosina, e quei pochi che lo fanno non sono quasi mai
insistenti, conservando la dignità di chi questua non già per abitudine,
ma per vera necessità della quale in fondo si vergogna.
Un giorno in Rashid Street, la via
principale della Baghdad coloniale, eravamo andati a trovare un amico nel
suo negozio di scarpe. Davanti alla vetrina si fermò una donna coperta
dall’abbaya e con il viso completamente nascosto da un velo nero: un burka
praticamente. Fummo sorpresi, sebbene negli ultimi anni il numero delle
donne che indossano il velo a coprire i capelli sia notevolmente
aumentato. Mai ci era capitato di vedere un viso coperto. La donna inoltre
non faceva cenno di muoversi: era lì fuori, immobile.
Il nostro amico si alzò e, aperta
la porta del negozio, le diede dei soldi. I movimenti furono così rapidi
che quasi non ci accorgemmo: come se entrambi avessero voluto tenere la
cosa nascosta. Chiedemmo spiegazioni: chi era quella donna, perché portava
un burka. L’amico ci rispose che era una vecchia signora del quartiere,
vedova e molto povera, e che se velava il viso era perché si vergognava a
dover chiedere l’elemosina.
Se in alcuni quartieri di Baghdad
la povertà è celata da grande dignità, in altri invece è tangibile:
colpisce vista e odorato. È la povertà dei quartieri antichi (come Baghdad
vecchia) e dei quartieri nuovi (come Saddam City). Vicoli e strade invasi
da liquami, dove giocano bambini seminudi, ormai più abituati alla fame
che alla sazietà, alla mancanza di tutto ciò che altrove è considerato il
minimo necessario, all’odore nauseabondo delle fogne a cielo aperto.
Le condutture e gli impianti
fognari e di depurazione furono tra i primi obiettivi «intelligentemente»
colpiti dalla coalizione anti-irachena, in aperta violazione delle
convenzioni inteazionali perché indispensabili alla popolazione civile.
Anche il ripararli fu ed è difficile. Di molti materiali necessari (il
cloro ad esempio) l’importazione è vietata, perché potrebbero essere
utilizzati per costruire armi di distruzione di massa. Senza tener conto
che negare ad un paese, per di più arido, l’acqua potabile, altro non è
che un’arma di distruzione di massa!
Bisogna andare a visitare gli
ospedali per rendersi conto di ciò, bisogna parlare con i medici, leggere
nei loro occhi la rassegnazione dell’impotente.
LO SCANDALO DEI
MEDICINALI PROIBITI
Prima della guerra l’Iraq aveva il
miglior sistema sanitario del Medio Oriente arabo. Gli ospedali
abbondavano, le attrezzature erano ciò che di meglio l’industria mondiale
del settore produceva, i medici avevano specializzazioni conseguite
all’estero e il rapporto numerico posti letto-pazienti era buono. Dal 1990
la situazione ha cominciato a deteriorarsi, sia per i divieti di
importazione di medicinali, attrezzature e pezzi di ricambio, sia per
l’enorme aumento dei malati e delle patologie. Molte di queste (per
esempio, quelle legate alla mancanza di acqua potabile) sono curabili
altrove, ma qui, rafforzate da una malnutrizione diffusa, diventano
letali.
Dal 1997 la situazione è
migliorata, anche se è ancora lontana dall’essere conforme agli standards
del periodo ante-guerra. Quell’anno, visitando i reparti dell’Ospedale
pediatrico «Saddam Hussein» di Baghdad vedemmo attrezzature a pezzi,
armadi di medicinali sconsolatamente vuoti e sporcizia. Sentimmo l’intenso
odore di petrolio, usato per lavare i pavimenti ed anche i ferri
chirurgici, dato che pure i disinfettanti (generici e specifici)
ricadevano nelle sostanze pericolose di cui era vietata l’importazione.
Ora le cose vanno un po’ meglio.
Le medicine, grazie agli introiti che il governo ricava dal piano «oil for
food» (petrolio in cambio di cibo), cominciano ad arrivare agli ospedali,
anche se con numerose limitazioni. È vietata, per esempio, l’importazione
di tanti farmaci che, pur ricadendo nella categoria dei salva-vita,
potrebbero essere usati dall’industria militare biologica e chimica. Di
altri farmaci permessi, l’importazione è discontinua, dipendendo
dall’approvazione di un comitato delle Nazioni Unite, e mette quindi a
rischio gli ammalati cronici.
Ciò che negli ospedali non cambia
mai è lo sguardo rassegnato delle madri che, accoccolate sui letti,
assistono i figli cercando di consolarli e di tener lontane le mosche. Ai
loro occhi noi occidentali dovremmo rappresentare quel mondo «civile» che
ha scaricato sull’Iraq tonnellate di bombe, anche radioattive, e che lo ha
condannato ad un embargo riconosciuto come il più duro della storia.
Eppure in quegli sguardi non c’è rancore, non c’è odio, c’è qualcosa di
diverso, forse peggiore: la mancanza di speranza.
Mai in questi anni gli iracheni ci
hanno fatto pesare l’essere occidentali. Ovunque: nelle case, nei locali,
per strada, nei mercati, siamo stati ben accolti da un popolo che, con
parole o sguardi, ha dimostrato di apprezzare il nostro essere lì.
Per gli italiani poi ci è sembrato
di riconoscere una simpatia particolare. Sarà perché tutti conoscono la
pizza (che diventa «bizza»), perché frequentemente «italiano» viene
associato a Baggio o perché molti iracheni per studio o lavoro hanno
soggiornato nel nostro paese. È il caso di quell’autista di taxi abusivo
che un giorno ci raccolse, sfiniti dal caldo, davanti al mercato di Bab
Ash-Shargi e che, chiestoci in perfetto inglese di dove fossimo, alla
risposta «Italia» volle sapere di dove esattamente. «Torino» rispondemmo,
venendo così a sapere che, una volta laureatosi in ingegneria a Baghdad,
si era specializzato al Politecnico della nostra città.
Quell’ingegnere-autista
rappresenta benissimo la situazione attuale dell’Iraq. Gli stipendi
statali sono insufficienti a vivere, anche se integrati dalla
distribuzione da parte del governo di cibo a prezzi calmierati. Così
chiunque può svolgere un secondo lavoro: autista, cameriere, fattorino,
qualsiasi cosa. Gli iracheni, come tutti, hanno sicuramente dei difetti,
ma non la pigrizia. Tutti cercano di darsi da fare, non aspettano la manna
dal cielo, né si abbandonano all’inazione. Forse anche per questo li si
conosceva come «gli svizzeri del Medio Oriente».
L’ALTRA
BAGHDAD
Così non è strano trovare un
medico che, lasciato il camice, indossi la divisa di cameriere in un
ristorante della città. Una volta il massimo del lusso era mangiare in Abu
Nawas, il lungo fiume. Da un paio d’anni la nuova zona di moda per
ristoranti e gelaterie è in A’rasat al-Indìa, dove è più facile vedere gli
ultimi modelli di Mercedes e Land Rover che le macchine dai vetri rotti e
i sedili sfondati tipici di altre zone. Qui i locali abbondano: c’è
quello illuminato solo da candele e frequentato anche da ragazzi e ragazze
che, a dispetto delle regole islamiche, cercano nella penombra un po’ di
intimità; c’è la gelateria di tre piani dove campeggia una macchina
italiana per fare il gelato; c’è il Castello, in italiano, una specie di
castelletto medievale le cui torrette e merli sono evidenziati da file di
lucine colorate.
Questa è la Baghdad che ha meno
problemi, la città della minoranza che può spendere in una sera ciò che la
maggior parte delle persone guadagna in un mese: la città delle ragazze
con i capelli al vento ed i jeans stretti, e dei ragazzi con il walkman
alle orecchie; la città permissiva, in passato frequentata dai ricchi
sceicchi del Golfo, rispettosissimi delle regole islamiche in patria, ma
pronti a dimenticarle all’estero.
A ben guardare, di questa Baghdad
c’è ancora tutto, anche se in modo meno evidente. Ci sono i teatri; i
cinema dove proiettano, sebbene tagliati in rispetto alle regole
dell’islam, anche film di produzione americana; c’è la musica nei tanti
negozi che vendono cd con gli ultimi successi arabi e inteazionali e
strumenti musicali; c’è persino l’alcornol che, seppure bandito in
osservanza alla «Campagna di fede» lanciata dal governo alcuni anni fa,
viene venduto in appositi negozi gestiti da cristiani.
CONVIVENZA
L’Iraq è anche un paese che,
sebbene a netta maggioranza musulmana, vede vivere fianco a fianco
cristiani e musulmani.
A Baghdad, ma soprattutto a Mosul,
nel nord del paese, non è difficile scorgere tra le case la croce di una
chiesa. Per la maggior parte dei cristiani e dei musulmani la religione è
un fatto personale e non impedisce di stabilire buoni rapporti.
Se la migliore amica di Samira,
una dottoressa musulmana di 25 anni, è cristiana, una signora di mezz’età
ci ha confessato ridendo che ogni tanto, dopo essere stata in moschea il
venerdì, entra in una chiesa e accende una candela.
Quando le abbiamo chiesto perché,
la sua risposta è stata: «Dio è uno: che differenza fa pregarlo in moschea
o in chiesa?».
Luigia Storti