MOZAMBICO: un cammino di pace che dura da dieci anni
UNA DOMENICA AL MARE, E NON SOLO
Dopo 16 anni di guerra civile, il paese ha imboccato la via della pace. Una pace operosa, che dura da un decennio, sia pure con qualche «sbandamento».
Non è un risultato di poco conto in Africa…
Su questo ed altro interviene un missionario della Consolata
Maputo, ore 7,30. L’aria nella capitale del Mozambico è frizzante. Sul cielo terso resiste ancora un quarto di luna calante: appare con un’esile sagoma in negativo bianco su un fondo azzurro intenso.
È domenica, e sto per andare in chiesa. «Prendi anche la macchina fotografica – mi ricorda padre Manuel Tavares (*) -, perché ci sarà una messa speciale». Una messa non in chiesa però, bensì nella cappella di un imponente liceo.
All’epoca del colonialismo portoghese l’istituto scolastico era retto con successo dai Fratelli maristi, religiosi. Dopo l’indipendenza del Mozambico (1975), come altre opere missionarie, la struttura venne nazionalizzata dalla Frelimo, il partito unico al potere di rigida fede marxista: e la cappella fu trasformata in magazzino. Dal 1978, nella guerra civile tra Frelimo e Renamo (il partito di opposizione clandestina), il liceo è divenuto un triste simbolo del paese, abbandonato al degrado, alla disperazione.
Con la pace è riaffiorata la speranza. E la cappella del liceo è ritornata ad essere «casa di preghiera». Questa mattina festeggia 10 anni di vita nuova, mentre in tutta la nazione si celebra il 10° anniversario degli accordi di pace, siglati a Roma il 4 ottobre 1992 presso la Comunità di sant’Egidio.
La celebrazione è davvero «speciale», con canti possenti e danze fantasiose al ritmo di tamburi e nacchere. Le parole più ricorrenti sono «fede giorniosa, speranza incrollabile, carità generosa». Non un accenno agli scontri armati, terribili, tra gli allora «comunisti al potere» e i «banditi dell’opposizione», alle tragedie subite e inferte. Forse perché entrambi i «nemici» sono ora in… ginocchio.
Mentre scatto le ultime foto della processione finale, mi vengono in mente due versi del poeta swahili Robert Shaaban:
«Ricordare è un dovere, dimenticare è un sollievo».
Durante il pranzo
Nel rincasare a piedi, mi perdo. Finisco in Avenida O Chi Ming ed anche in Avenida Mao Tze Tung. Finalmente (dopo qualche richiesta di informazioni) incrocio l’Avenida 24 de Julho, dove al numero 496 risiedono i missionari della Consolata. Padre Manuel Tavares mi accoglie con una smagliante risata di comprensione e, guardando l’orologio (sono le 12 abbondanti), mi invita subito a pranzo.
Le vie della capitale dedicate a O Chi Ming e Mao Tze Tung ricordano il recente passato marxista-leninista del paese. Però, come mai non è stato cambiato il nome coloniale 24 de Julho? «Forse perché questa data non significa niente per nessuno» risponde padre Manuel con un briciolo di ironia. Intanto mi scodella un saporito minestrone di verdura.
Portoghese, padre Tavares ha operato in Mozambico anche durante il colonialismo, non condividendo però le scelte della madre patria. Oggi analizza pure lo spirito missionario del tempo e afferma: «Durante il potere coloniale noi, portoghesi, ci sentivamo padroni. Anche altri missionari, di nazionalità diversa, difendevano il regime. C’era la convinzione di avere un messaggio assolutamente indiscutibile da portare alla gente; ci si riteneva salvatori del popolo, il quale doveva soltanto accettare le nostre parole per migliorare umanamente e spiritualmente. Questo era l’atteggiamento, sia pure inconscio, nel colonialismo. Poi…».
Poi è divampata la lotta al regime coloniale e il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza. «Questi eventi sono serviti a purificare il nostro pensiero; hanno fatto rientrare in proporzioni più giuste anche l’azione missionaria».
Con l’indipendenza, tutto è mutato: il potere politico, ma anche quello ecclesiastico; prima i vescovi erano portoghesi, poi (dal mattino alla sera) quasi tutti mozambicani, e con una mentalità africana.
«Oggi la chiesa vuole essere sempre di più mozambicana. Questo esige da noi missionari un atteggiamento molto diverso rispetto al passato».
Se la lotta al colonialismo, l’indipendenza nazionale e il successivo regime marxista-leninista non fossero bastati a mettere in crisi il missionario, il colpo fatale gli è stato inferto da 16 anni di guerra civile… Al presente nella nazione è in atto «la costruzione della pace».
Padre Manuel, come sta sviluppandosi il processo? «Bene, pur nelle difficoltà. Mi riferisco, in particolare, alle elezioni del 2000, che sarebbero state vinte dal partito di opposizione Renamo. Ma la Frelimo avrebbe imbrogliato nella conta dei voti e così ha conservato il potere. Non sono mancate accuse; però, di colpo (data anche l’emergenza dell’alluvione), sono cessate. Il che fa supporre che la maggioranza abbia concesso qualcosa all’opposizione».
Cosa… non si sa.
Un altro scontro violento tra governo e opposizione si verificò l’anno scorso, allorché a Maputo una manifestazione di protesta della Renamo fu caricata dalla polizia, con un centinaio di vittime. E altrettanti furono i morti per asfissia in una prigione dello stato. Nemmeno su questo si saprà mai la verità.
Vi furono anche omicidi di singoli «eccellenti»: quello del giornalista Carlos Cardoso, per esempio; stava smascherando la corruzione, che alligna fra gli stessi politici… e pagò con la vita.
Eppure questi fatti gravi non hanno impedito a maggioranza e opposizione di dialogare, di accordarsi con taciti compromessi, certamente discutibili in una democrazia compiuta. In Mozambico, però, tutto è subordinato alla comune costruzione della pace, per la quale si sacrifica tutto. «E forse non a torto, specialmente se si ricordano (e tutti lo fanno) gli interminabili 16 anni di guerra civile, gli innumerevoli profughi, le immani distruzioni e oltre un milione di cadaveri straziati…».
Padre Manuel mormora le ultime parole sottovoce, come se parlasse a se stesso. Segue una pausa di silenzio. Di botto, quasi per un comune accordo, lasciamo il refettorio. Non ci dispiace una siesta. Fa caldo. L’aria fresca del mattino è un ricordo.
Sul Lungomare
Al risveglio, padre Manuel propone una passeggiata sul pittoresco lungomare del porto di Maputo. La conversazione continua seduti su una panchina del molo della città, lo sguardo sull’infinito.
Il missionario, pur essendo stato critico del regime coloniale del Portogallo, ha tuttavia sofferto per il patatrac politico della sua nazione. Subito dopo l’indipendenza, i bianchi in Mozambico hanno corso il pericolo di sommarie cacce all’uomo. Drammatica, tragica, è divenuta la situazione quando diversi missionari di varia nazionalità sono stati sequestrati, feriti, uccisi.
Oggi, padre Manuel, come ti senti quale portoghese? «Mi sento bene, perché l’attuale potere politico non fa discriminazioni. In Mozambico c’è un piccolo gruppo di bianchi che teme lo spauracchio del passato. In realtà c’è poco da temere; lo dimostra il fatto che alcuni portoghesi, costretti ad andarsene al tempo delle nazionalizzazioni, ora sono ritornati e fanno ottimi affari… Però noi missionari non dobbiamo dimenticare che siamo in casa d’altri. Come europei, vorremmo che il governo e la chiesa fossero diversi. Ma occorre fare i conti con la realtà. Bisogna rispettare le sensibilità culturali locali e lo stile africano».
«Stile africano» anche fra gli stessi missionari della Consolata, che ormai sono anche kenyani e congolesi, brasiliani e colombiani. Questo genera problemi d’intesa?
«Non vedo in Mozambico grossi problemi al riguardo, a parte qualche caso particolare, che però interessa anche i missionari europei. La diversità culturale è sicuramente un arricchimento per la missione, o può diventarlo».
Si dice che il missionario europeo prediliga le opere sociali (centri sanitari, scuole, ecc.), mentre quello africano o latinoamericano si dà alla pastorale pura…
«Non esageriamo!… C’è un missionario italiano dedito esclusivamente alla pastorale, come vi sono missionari africani e latinoamericani assai impegnati nel sociale: dipende dai progetti e dai mezzi che dispongono per realizzarli. Ritengo che dobbiamo condividere fra tutti noi (europei e non europei) anche le iniziative di promozione umana. Quando l’abbiamo fatto, i risultati sono stati ottimi».
Come vengono accolte dalla popolazione gli aiuti stranieri? Favoriscono l’intraprendenza del mozambicano o lo relegano nella passività del mendicante?
«Il popolo mozambicano non ha ancora preso in mano le sorti del proprio sviluppo. Questo è un grave problema, perché obbliga ancora il paese a dipendere dall’estero. D’altro canto il Mozambico, talora, è costretto a fronteggiare improvvise emergenze (come l’alluvione di due anni fa o la siccità di quest’anno), che ritardano lo sviluppo di decenni: in questi casi gli aiuti estei sono necessari».
Pertanto è necessario trovare un equilibrio tra il «facciamo da soli» e il «tendiamo la mano ad altri», puntando però con maggiore forza sulla prima strategia. Dopo la guerra, per circa due anni il paese è sopravvissuto grazie solo agli aiuti esteri; ma quando la gente è ritornata a lavorare, tutto è rifiorito e si è raggiunta persino l’autonomia alimentare. Peccato che, nel 2000, sia arrivata quella tremenda alluvione!
«Occorre anche lavorare con un occhio rivolto a possibili catastrofi, immagazzinando scorte alimentari in silos: questo i missionari l’hanno sempre fatto. Oltre a scongiurare la fame, tale azione preventiva frena i prezzi degli alimenti, che salgono alle stelle nelle emergenze…».
Abbandoniamo la panchina del molo. Camminiamo scortati da una maestoso filare di palme, accarezzate da una dolce brezza. Al cospetto di un bar, entriamo senza esitare: una bibita ci sta bene. Non c’è anima viva nel modesto locale. Forse proprio per questo mi lascio andare ad una domanda indiscreta: «Manuel, si dice che tu sia un vescovo mancato; o hai ancora una possibilità?».
La risposta dell’interlocutore è una risata così sonora da attirare la curiosità dello stesso barista… che ride divertito anche lui senza sapere la ragione. «Se devo essere schietto – commenta tosto il missionario -, le calze rosse dei vescovi non mi sono mai piaciute. La mia preoccupazione è stata sempre un’altra».
E cioè? «Lavorare senza protagonismi, sentirci tutti fratelli. Ciò che conta non è quanto facciamo, ma lo spirito con cui lo facciamo…». Scuote la testa padre Manuel. Un raggio di sole ne illumina il volto, mentre dichiara quasi con solennità: «Eppoi, mio caro, l’era dei vescovi stranieri è tramontata per sempre!».
Sta tramontando anche il sole sull’Oceano Indiano. Sprazzi di luce morbida vivacizzano le onde increspate dalla brezza, e dilatano l’orizzonte.
Ci avviamo in auto al 496 dell’Avenida 24 de Julho. Lungo le vie O Chi Ming e Mao Tze Tung sono ancora attivi i mercatini… Due giorni fa, nella città di Beira, mi aggiravo incuriosito tra le chiassose bancarelle di un «mercato informale». Mi è piaciuto molto il suo nome Chunga moyo, ossia «fatti coraggio».
«Chunga moyo» è stato anche il tacito programma del popolo mozambicano nel trascorso decennio, dopo la guerra. E lo sarà ancora.
Francesco Beardi