«LA PARTENZA» grandi attori interpretano Giuseppe Allamano

IL «SALGARI» DELLA MISSIONE

Come esprimere le emozioni
dopo una ricerca appassionante, tesa a far conoscere un grande uomo?
«Io conoscevo poco Giuseppe Allamano: fra i “santi sociali” del
Piemonte,egli mi era apparso solo un “silenzioso”.
E per molti torinesi Allamano è soprattutto “un corso”.
Sì, avete capito bene: un corso, che collega Torino a Grugliasco.Ma è
possibile?».
È l’interrogativo provocatorio di Paolo Damosso, regista del film «La
partenza».
Il protagonista? Lui, ovviamente: il beato Giuseppe Allamano,fondatore
dei missionari e delle missionarie della Consolata

 

La prima riunione è in Corso
Ferrucci 14, Torino, nella casa madre dei missionari della Consolata:
quasi due anni fa.

I padri Francesco Beardi e
Giacomo Mazzotti parlano con entusiasmo di Giuseppe Allamano, ed io
ascolto le prime informazioni con la curiosità di chi si addentra in un
mondo sconosciuto. «Deve scattare qualcosa “dentro”. Occorre trovare
un’idea» ripeto meccanicamente ai due missionari, senza sapere ancora da
che parte parare. Li lascio con un borsone zeppo di libri e… tanta
confusione mentale.

Dopo giorni di decantazione,
leggo, annoto, sottolineo: e (sorpresa!) scatta quel «qualcosa». Inizio ad
intravvedere un percorso, una strada. Sono di fronte ad una storia, una
bella storia, unica e particolarissima.

I missionari della Consolata, tra
l’altro, vantano una grande tradizione nel settore dell’immagine. Molti
sono i programmi televisivi, i documentari realizzati: alcuni
preziosissimi anche per il periodo storico in cui sono stati realizzati.

Per questa ragione s’impone una
scelta: sviluppare un progetto su una personalità forte, con
caratteristiche mai sovrapponibili a quanto è già stato fatto. Che sfida!

 Giuseppe Allamano inizia a
sbalordirmi, ad occupare i miei pensieri. Ne parlo con tutti. Alcune notti
lo sogno.

Mi colpisce il carattere mite, ma
con idee chiare. Una persona che rispecchia le caratteristiche della sua
terra, Castelnuovo (AT), dove nasce nel 1851. Un uomo «con i piedi per
terra» e la mente sempre in viaggio, in perenne movimento fino alla morte
(Torino, 1926). Nasce così l’idea de «La partenza», il titolo del film che
riassume bene le prime sensazioni provate.

Ciò che mi sorprende è che
l’Allamano, un secolo fa, abbia parlato dell’Africa ed abbia entusiasmato
i giovani a fare una scelta missionaria difficile e «misteriosa», a
partire… E lui non parte! Un uomo che trascorre 46 anni nel santuario
della Consolata, e che, nello stesso tempo, si fa carico dei problemi nel
sud del mondo. Terre sconosciute, inesplorate; però ne parla con
competenza, convinzione, fede soprattutto! Lo si nota leggendo il suo
bollettino La Consolata, ricco di immagini sul continente nero.

Non c’è la tivù, non c’è internet,
non c’è «il villaggio globale», eppure l’Allamano «abbraccia il mondo
intero» con uno slancio e una progettualità invidiabile anche per noi, che
quotidianamente ci interroghiamo sullo squilibrio fra nord e sud del
mondo. Stupefacente è pure il fatto che non siamo di fronte ad «un
avventuroso»; viceversa, è nitida la profonda spiritualità che guida ogni
decisione, sempre ben ponderata.

Per l’Allamano, l’idea di
«partenza» è elastica. Non si può ridurla ad un fatto meramente fisico.
«Si può partire, viaggiare e fare tanta strada anche stando fermi»: è una
delle battute finali nella sceneggiatura che ho scritto. Non è solo un
gioco di parole, ma la traduzione di una delle mie primissime riflessioni.

«L’Allamano è il Salgari della
missione» dico a mia moglie una sera a cena. Una provocazione, per far
capire che si può comunicare un’emozione anche su un luogo mai conosciuto
di persona. La giungla, mai vista da Emilio Salgari, ha segnato un
successo editoriale. L’Africa, mai visitata dall’Allamano, ha
rappresentato «un successo missionario», un nuovo modo di evangelizzare,
di vivere la vocazione, di incontrare l’uomo.

Questo mi invoglia ad approfondire
lo studio. Inizio ad «immaginare l’Allamano». Che tipo è? Come si muove e
come parla?

Incontro le persone che ancora lo
ricordano. E scopro che, a Venaria (il comune in cui vivo), tra le
missionarie della Consolata ci sono ancora «testimoni oculari»,
preziosissime. Suor Antonietta ha 100 anni. Incontrarla è un’enorme
emozione per me, affamato di informazioni dirette, di dettagli, anche
minimi.

 Il film è molto articolato. È un
lavoro che alterna momenti di fiction a monologhi teatrali e parti
documentaristiche.

La vicenda si sviluppa su vari
livelli. In primo luogo, c’è una storia ambientata ai giorni nostri:
riguarda Tullio e Anna, due anziani coniugi. Tullio è ultranovantenne, ha
conosciuto l’Allamano e ne è rimasto così colpito da avere «la tentazione»
di partire per la missione: una decisione che non ha realizzato. Per tale
ragione, ora che è vecchio, trascorre il tempo a ricordare, leggere,
guardare filmati missionari, e tormenta moglie e figlio sulla sua mancata
partenza.

In secondo luogo, c’è la vicenda
di Bruno, il figlio dei due coniugi. È un attore che sta preparando un
recital proprio sull’Allamano; quindi, oltre a cercare di far ragionare il
vecchio padre, viaggia attraverso i luoghi legati al personaggio da
rappresentare, provando alcuni brani dello spettacolo tratti dagli scritti
dell’Allamano.

Infine, ecco l’amico, il braccio
destro del fondatore dei missionari e missionarie della Consolata: Giacomo
Camisassa. È una colonna portante, da evidenziarsi nel modo più efficace.
Camisassa sarà presente con la voce affascinante (fuori campo) di Aoldo
Foà: una voce che accompagna lo spettatore nel percorso biografico del
protagonista.

Non mancano i filmati d’epoca, che
ci calano dentro una storia centenaria, che continua a svilupparsi negli
angoli più remoti della terra, là dove operano e faticano i missionari
della Consolata.

Questi sono gli ingredienti della
«torta», che vanno impastati, fatti lievitare e cotti a puntino. A tutti
l’onore di «assaggiare il dolce della casa». Ed anche… buona «partenza»!

 


Intervista con gli attori


PARTIRE, MA ANCHE ARRIVARE


Franco Giacobini
,
grande attore
romano, oltre 100 film, con la voglia di misurarsi ancora con un nuovo
personaggio, motivato da una tensione spirituale che non lo abbandona mai.

 Signor
Giacobini, dopo una lunga carriera, in questi ultimi anni spesso
interpreta santi. Perché?

Ho scoperto i santi dopo i 70
anni. In essi mi colpisce la coerenza, merce rara in questi tempi. Sono
persone che hanno preso alla lettera una o due verità fondamentali del
cristianesimo. Sarebbe imperdonabile non meditare su loro.

 Del beato Giuseppe Allamano
che cosa l’ha colpita?

Sono strabiliato dal «paradosso
Allamano»: il suo slancio verso una terra sconosciuta come l’Africa ha
dell’incredibile. È «la follia dei santi», che è contagiosa.

 Il suo personaggio è Tullio,
di 96 anni, che ha conosciuto l’Allamano. Come si è trovato in tale ruolo?

Il regista mi conosce bene, e ha
creato un personaggio che mi assomiglia. L’unica differenza è che Tullio
ha 20 anni più di me.

 È stato difficile
«invecchiarsi»?

Ero soprattutto preoccupato di
rendere credibile la mia età. Oggi a 96 anni si può ancora essere
autosufficienti; ma il mio personaggio ha caratteristiche complesse: è un
visionario, un po’ arteriosclerotico, ma con momenti di lucidità quasi
imbarazzante. La cosa più faticosa è che ho dovuto farmi crescere una
lunga barba: oltre sei mesi di sofferenza…

 La sua maggiore
preoccupazione?

Essere credibile. Deve sempre
essere evidenziata la verità. C’è un solo comandamento nella recitazione:
«Non bisogna dire bene; bisogna dire vero».

 Il titolo dello sceneggiato è
«La partenza». Che significa per Franco Giacobini?

«La partenza» ha senso se si
individua anche un «arrivo»: non è un gioco di parole. Ecco perché invidio
i missionari: sono accecati da un’energia vitale e la comunicano agli
altri. Di fronte a gente triste e spenta, «illuminano una strada» e
indicano la meta da raggiungere.

 C’è una curiosità legata a
quest’esperienza?

Certo. Ultimamente ho problemi di
memoria. In questo caso è stato tutto poco faticoso. È stato l’Allamano a
suggerirmi le battute all’orecchio?

 


Angela Goodwin
, moglie di Franco Giacobini anche nella vita,
ha lavorato con la professionalità di sempre. Lei, che ha recitato con
Sofia Loren, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, ecc.

 

Signora Goodwin, qual è il suo
ruolo?

Io interpreto Anna, la vecchia
moglie di Tullio, il testimone oculare dell’Allamano. È una donna
semplice, che ha dedicato tutta se stessa al marito. Una donna d’altri
tempi. Positiva in tutti i sensi, un po’ ansiosa; però, mi auguro,
simpatica.

 Quanto è importante essere la
moglie di Tullio anche nella vita?

È indubbiamente un aiuto
psicologico; facilita ad essere più vera nell’atteggiamento amoroso e c’è
sicuramente più feeling. Sono stata moglie di vari attori sul set, come
Philippe Noyret o Renato Rascel. In quei casi dovevo concentrarmi di più,
perché c’era il rischio di essere meno spontanea. E poi… bisogna
piacersi!

 E dell’Allamano cosa pensa?

È delizioso: uno che ha camminato,
ha attraversato la storia, «apparentemente» senza far rumore. È il vero
prete, l’uomo umile, che tutti vorremmo incontrare quando entriamo in
chiesa.

Ho guardato e riguardato le sue
foto: il portamento, i tratti somatici e le espressioni rivelano una
personalità docile. Il fatto è che sapeva molto bene quello che voleva, e
lo ha dimostrato. Ciò significa che, per costruire grandi cose, non
occorre gridare, né prevaricare sugli altri. Meglio sorridere, parlare a
voce bassa, comunicare amore.

 Com’era il clima umano sul
set?

È stata una vacanza. Lo
sottolineo: e questo è dovuto alla troupe della Nova-T. Una festa di
affetti ed attenzioni. Mai un momento di disagio.

 Chi è il missionario per
Angela Goodwin?

Una persona dedicata agli altri,
non a se stesso. Un uomo che non mette mai in evidenza il proprio io.

 


Flavio Bucci
, un talento artistico, una vis teatrale senza
pari, ha creduto fin da principio ne «La partenza» e ha conferito forza
alle parole dell’Allamano, rendendole vive e attuali.

 

Signor Bucci, perché ha
accettato questo ruolo?

Nella mia vita di attore, con 35
anni di carriera, ho interpretato diversi preti, tra cui don Sturzo; sono
stato vescovo, però mai mi ero calato nel ruolo di un santo o beato. Per
me l’Allamano è una grande scoperta.

 C’è qualcosa che le è rimasto
impresso nel viaggio piemontese sui luoghi di Allamano?

Due luoghi in particolare mi hanno
incuriosito: il museo etnografico dei missionari della Consolata a Torino.
È interessantissimo. Sono rimasto colpito dal fatto che, in questi grandi
saloni, pieni di oggetti, si può fare un viaggio nel tempo e nello spazio.
Molte cose ti sembrano stranissime e di mille anni fa; in realtà, spesso,
sono oggetti comuni e magari sono lì da pochi giorni… Capisco allora che
la mia ottica di uomo, figlio del benessere dei paesi dominanti, è
profondamente distorta. In secondo luogo, mi ha colpito il salone dei
vescovi in curia. Cento volti avvolgono la sala; provengono da epoche
lontane e mi hanno fatto uno strano effetto.

 Dell’Allamano che cosa le è
rimasto?

È un uomo incredibile con aspetti
anche curiosi. Penso, per esempio, al fatto che sia riuscito ad
appassionarsi all’Africa senza averla mai vista: eppure ha creato un
evento importante. È un leader con un grande carisma.

 Lei è un uomo di cinema. È
vero che l’Africa è penalizzata anche in questo campo?

Ho scoperto l’Africa quattro anni
fa, mentre giravo un film in Kenya. Non posso dire di conoscerla, perché
vivevo in modo confortevole e protetto. È vero però che il cinema ha
snobbato l’Africa e, in genere, il sud del mondo. Forse il grande pubblico
preferisce storie disimpegnate, futili. Ma siamo noi, dell’ambiente, che
dovremmo educarlo meglio.

 Chi sono i missionari per
Flavio Bucci?

Quando penso ai missionari non so
se invidiarli o meno. Sono una spinta che, potenzialmente, si nasconde in
molti di noi. Poi magari, come succede nel film girato, non si «parte».
Però si può essere missionari sotto vari aspetti: anche nel mio ambiente.
In questo momento potrei essere «missionario nel nome del teatro».

Paolo Damosso

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