KENYA, AMORE NOSTRO

Sull’onda del cambiamento
I missionari
allargano
l’orizzonte:
da Meru
a Marsabit.
E non solo…

Ancora quattro missionari,
cavalcando «tre asini ed un cavallo
bigio abissino, scortati da due
cani», si mettono in viaggio alla «conquista»
del territorio dei MERU. Non mancano
scoraggiamenti e ritardi. Alla fine si
fondano alcune «roccheforti avanzate nel
cuore del paganesimo». È il 1911…
Nel 1964 è la volta del deserto
di Marsabit. Scrive padre Luigi Graiff
(poi martire nella terra dei SAMBURU):
«Quando arrivai non c’era nulla. I serpenti
erano i padroni assoluti. Capii che
un grande lavoro mi attendeva. Misurai
a lunghi passi i confini della futura
missione (Laisamis), mi rimboccai le
maniche e, con l’aiuto di alcuni
volenterosi, cominciai a rimuovere
le pietre».

SENZA MAI
ARRENDERSI

Resi ormai «esperti»
dal lavoro tra i kikuyu,
i missionari
si spingono più in là,
lasciandosi perfino
innamorare
da un posto sterile
come il «Tharaka»,
nella terra
dei meru…

I kikuyu furono «il primo amore»
dei missionari della Consolata in
Kenya. Fu tra loro che impegnarono
gli sforzi maggiori, cercando
di entrare in un mondo tutto da
scoprire. Ma il territorio kikuyu, attorno
a Nyeri, cominciava a diventare
stretto e lo sguardo, da tempo, si
spingeva oltre i confini imposti dal
governo inglese ai missionari italiani.
Verso il 1911, anche per gli europei
arrivò il permesso di varcare il
territorio dei meru… e mons. Filippo
Perlo non era rimasto ad aspettare.
Dopo un viaggio di esplorazione, si
era convinto che il nuovo territorio
era «incantevole, fertilissimo e molto
popolato»: per cui mise in atto la
sua strategia di «occupazione».
I primi quattro missionari (G. Balbo,
G. Aimo Boot, L. Olivero e G.
Toselli) cavalcando «tre asini ed un
cavallo bigio abissino, scortati da due
cani», si misero in viaggio alla «conquista
» del territorio. Non mancarono
incertezze, scoraggiamenti e ritardi,
ma alla fine vennero fondate
nel Meru «quattro roccheforti avanzate
nel cuore del paganesimo»: sono
Egoji, Mujwa, Tigania e Igembe.
Il ricominciare da capo, l’isolamento,
la nuova lingua, la scarsità di
mezzi, l’apparente disinteresse della
popolazione… resero la penetrazione
nel territorio lenta e logorante.

DOPO LA BUFERA
Non ci mancava che la prima guerra
mondiale, con il conseguente reclutamento
di portatori e soldati, a
bloccare il lavoro pastorale; poi carestie
ed epidemie, cui i missionari
cercarono di fare fronte con iniziative
di carità, che convinsero (finalmente!)
i meru ad avvicinarsi agli
«stranieri», venuti unicamente per
loro.
Dopo anni di provvisorietà, lo sviluppo
delle missioni prendeva slancio
con una sistemazione più decorosa
per padri e suore. Nel biennio
1924-25 le attività essenziali nel Meru
furono le nuove fondazioni (Embu,
Mikinduri e Kyeni) e il consolidamento
delle precedenti, tanto da
ritenere giunto il momento di rendere
indipendente la nuova realtà.
Il 10 marzo 1926 fu decretato dalla
Santa Sede lo smembramento del
vicariato apostolico del Kenya (che
prese il nome di Nyeri) e l’erezione
della prefettura apostolica di Meru.
Questa, secondo la relazione inviata
a Propaganda Fide, comprendeva:
1.940 cattolici, 850 protestanti, 300
mila pagani; vi lavoravano 10 padri,
2 fratelli coadiutori e 14 suore della
Consolata; coadiuvavano l’attività 52
catechisti e 36 maestri (per 20 scuole
maschili e 12 femminili). Prefetto
apostolico fu nominato padre Giovanni
Balbo, che (ahimè), pur essendo
un ottimo missionario, non risultò
all’altezza della situazione; tant’è che,
nel 1929 fu sostituito con padre Carlo
Re, missionario senza storia particolare,
che «trovò, nei calli delle sue
mani laboriose e nell’esperienza dei
due anni passati a Mikinduri, il coraggio
di accettare».
Sì, perché malumori e scontentezze
tra i missionari non mancavano:
le casse erano vuote, il personale
scarso e anche in Kenya si viveva la
drammatica situazione dell’Istituto,
sconquassato dalla «visita apostolica
» che stava mettendo in forse la
stessa sopravvivenza dell’opera voluta
dall’Allamano.
La tempesta, un po’ alla volta, cominciò
a diradarsi. Il piccolo drap-
pello di missionari non si lasciò vincere
dai problemi e, lentamente, il lavoro
trovò il verso giusto, anche se i
risultati (battesimi) non furono consistenti.

GUERRA, PRIGIONIA
E… MAU MAU

Nel 1936 fu padre Nepote Fus ad
assumere la responsabilità del vicariato
di Meru, che contava allora 15
padri, 6 fratelli coadiutori e una trentina
di suore: un bel passo avanti!
Il punto debole del lavoro missionario
erano però le scuole; tanto che
il nuovo responsabile sentì la necessità
di cercare personale preparato
soprattutto per questo. «Il Meru è
molto indietro e se si dorme…» – scriveva
ai superiori di Torino, sollecitando
un aiuto per le scuole, da lui ritenute
il problema più urgente per la
prefettura.
Purtroppo lo scoppio del secondo
conflitto mondiale segnò, ancora
una volta, l’arresto di ogni attività; i
missionari della Consolata diventati
«nemici» degli inglesi, furono deportati
nei campi di concentramento
in Sudafrica e sostituiti da missionari
inglesi, mentre migliaia di giovani
africani furono inviati sui campi
di battaglia. Costretti ad inattività, i
«prigionieri» approfittarono per perfezionare
la conoscenza della lingua
meru, compilae grammatica e dizionario,
tradurre la bibbia e i testi liturgici.
Non fu facile il rientro alle missioni
dopo la guerra, anche perché
l’essere italiano non era gradito alle
autorità. Ci vollero molta pazienza,
diplomazia e generosità per supera-
re le difficoltà…
Intanto, mentre si preparava l’indipendenza
del paese (1963), si scatenò
la «bufera» del movimento Mau
Mau. Furono momenti di paura e di
grande prova. Il «giuramento mau
mau», cui la popolazione veniva costretta,
obbligava a rinnegare il governo
e i missionari; in caso contrario,
ne derivavano attacchi, violenza
ed anche morte.
Le missioni furono prese d’assalto:
a Gikondi tre catechisti furono
uccisi, mentre presiedevano la preghiera
comunitaria; a Barichu le suore
Cecilia Wangeci e Rosetta Njeri
(della congregazione locale dell’Immacolata
Concezione) caddero vittime
della furia omicida; a Imenti il 28
settembre 1953 veniva trucidata suor
Eugenia Cavallo, mentre padre Edmondo
Cavicchi fu brutalmente picchiato
e padre Aldo Cremasco rimase
ferito da un’arma da fuoco.
Amministratore apostolico unico,
a Nyeri e Meru, era mons. Carlo Cavallera,
una figura dinamica che diede
slancio e coraggio ai missionari,
riorganizzò le scuole e i centri sanitari
e iniziò una grande politica di espansione
con «teste di ponte» per
occupare un territorio molto vasto.

ACQUA E STAMPELLE
Il 3 marzo 1954, altro cambio di
guardia: Meru, divenuta diocesi autonoma,
accoglieva il nuovo vescovo
Lorenzo Bessone. Favorito da buone
doti di amministratore, fu capace
di creare un clima di famiglia con i
suoi missionari, anche se la situazione
risentiva pesantemente del passaggio
dei Mau Mau; di questi si avvertivano
ancora le sacche terminali,
come la situazione delle scuole, dove
i maestri erano diminuiti del 35%.
Venendo anche ampliati i confini
della diocesi, si presentò subito l’urgenza
di nuovo personale, cui il vescovo
pensò con l’istituzione di un
seminario per preti locali: la prima
pietra fu posta il 3 settembre 1955.
L’anno seguente il vescovo iniziava
la congregazione delle Nazareth
Sisters of Annunciation per l’istruzione
religiosa e l’opera sociale nel
campo femminile.
Le prime e vaste missioni vennero
smembrate e ne sorsero di nuove, affidate
a padri coraggiosi e intraprendenti come Giovanni Bonzanino,
Luigi Eandi (cfr. box), Angelo Sala…
e soprattutto un piccolo drappello di
coadiutori. Tra questi, il mitico fratel
Giuseppe Argese: insieme ad altri, egli
sconfisse il dramma della mancanza
d’acqua, creando con intelligenza
e fantasia un acquedotto di 270
chilometri, che ancora oggi sa… di miracolo.
Significativa al riguardo la testimonianza
di una donna del posto:
«Passeranno tanti anni, molti saranno
dimenticati, ma noi non dimenticheremo
mai i fratelli dell’acqua».
Di fronte alle carenze sanitarie
della popolazione, la diocesi si impegnò
a tutto campo per la realizzazione
di dispensari e ospedali, alcuni dei
quali famosi come quello di Nkubu
e Kyeni, elogiato dallo stesso presidente
Kenyatta. Fiore all’occhiello
divenne, poi, il centro per bambini
handicappati di Tuuru, iniziato da
padre Franco Soldati e capace di operare
i «miracoli delle stampelle»,
non solo per il recupero fisico dei
piccoli, ma per l’affetto (dei missionari
e della gente) con cui vennero
circondati. L’opera fu affidata
nel 1972 alle
suore del Cottolengo,
che ritornarono
così, dopo quasi 70
anni, a lavorare accanto
ai missionari
della Consolata, in
quel Kenya
che le aveva viste tra i pionieri.
Le suore della Consolata diedero
il loro contributo nella promozione
della donna con il «Centro sociale
femminile» di Getoro (alla periferia
di Meru) e una serie di corsi per assistenti
sociali, segretarie d’azienda,
assistenti all’infanzia.
Lentamente, ma tenacemente, la
chiesa di Meru poteva camminare
con le proprie gambe; finito il tempo
dei pionieri, si camminava verso la
maturità. E questo avvenne il 2 ottobre
1975, quando mons. Silas Silvius
Njru, originario della diocesi, veniva
nominato vescovo di Meru.
L’anno seguente, all’ospedale di
Nkubu si spegneva mons. Bessone:
dopo 22 anni, lasciava in diocesi ben
200 mila cristiani e tante opere sociali
e religiose. Scrisse di lui padre Bonzanino:
«Le chiese, le scuole, le cappelle,
gli ospedali, i dispensari, i seminari
che spuntarono a Meru in 20
anni di attività sbalordiscono. Questo
lavoro gli calzava come un guanto
in una mano ben fatta. Era il vescovo
che ci voleva per una diocesi
nuova, la più vasta del Kenya, dove
c’era tutto da fare. Adesso che lui
non c’è più, resta quello che ha fatto.
E non c’è nulla da ritoccare, perché
fu fatto bene… alla Bessone!».
O, meglio, all’«Allamano».

SIINO IN FONDO
AEgandene (Meru) la raccolta prometteva bene. C’era una cristianità
giovane, dove il battesimo non era soltanto un bel rito. C’era una
chiesa viva, sana, non handicappata da sfasature o compromessi. C’erano
debolezze e difetti, perché un cristiano, anche quando ce la mette
tutta, non è mai un angelo, è soltanto un santo in «potenza». E c’era
un missionario che, mezzo eroe e mezzo profeta, ci viveva dentro. Un
missionario che non aveva nulla di singolare, se non la tempra di un uomo
diritto e onesto. Non gli fu concesso di vivere a lungo. Quando è
morto, non aveva ancora 40 anni. Non si era ancora rimesso dalla gioia
di essere missionario, dal desiderio di pregare, di ringraziare, di adorare
e di lavorare. Nei suoi pochi anni di missione amò Egandene e la sua
gente, dalla quale fu riamato con grande sincerità.
Quando un missionario ama ed è amato come padre Luigi Eandi (1932-
1970), può morire in qualsiasi momento senza rimorsi e in qualunque
modo. Anche con un tuffo dall’alto, dentro uno stagno d’acqua sporca.
Come morì lui, all’improvviso, in un pomeriggio di sole. Quando lo ritrovarono,
il volto era sfigurato, vischioso, gonfio. Non aveva più nulla
di quell’espressione grave e serena d’un tempo. Più nulla di quel sorriso
giovane e spontaneo, che è un prodotto della grazia di Dio. Perché
era passato all’aldilà, oltre il tempo, ricongiunto finalmente al suo Dio
per cui era vissuto.
Gli anni passano a Egandene e la intensa memoria di padre Eandi resta.
Perché è stato un missionario che non è rimasto a mezza strada. È
andato fino in fondo e il suo essere in Africa è stata la sua vita. È stato
duro, ostinato, anti-fariseo, vigoroso, e ha calcato la mano, ma sempre
alla misura del vangelo e dell’amore. È stato un uomo che con semplicità,
chiarezza e amore ha cercato di viverla. L’ha vissuta sui colli di Egandene,
dove si è accalcati di verde, dove misere capanne sembrano
navate di basiliche, dove la gente vive in una liturgia di povertà, e dove
si vedono brecce d’azzurro tra la nuvolaglia itinerante sui bianchi picchi
del Kenya.
P. GIOVANNI BONZANINO

TRA PAURA E CORAGGIIO
Nel 1945 venne fondato in Kenya il
«Kenya African Union» (Kanu), un
partito politico che rivendicava l’indipendenza
della colonia dagli inglesi e che
ebbe, nel 1946, come presidente Jomo
Kenyatta, rientrato nel paese dopo 15
anni di esilio. Nonostante i comizi infiammati
e le pubblicazioni inneggianti
alla libertà, il partito seppe mantenersi
nei binari della legalità rifiutando, per
principio, la violenza fisica e l’opposizione
armata.
Visti gli scarsi risultati, sorse, accanto
al Kanu, un‘altra formazione, che scelse
la violenza, il terrore e la clandestinità
come strategia per ottenere l’allontanamento
dei bianchi e l’indipendenza. Era
il movimento Mau Mau, che fece la sua
comparsa nel 1950 nel distretto di Kiambu,
vicino a Nairobi e a Naivasha. Era
guidato soprattutto dai kikuyu, che contavano
la maggioranza dei contadini senza
terra e dei disoccupati usciti dalle
scuole. Si presentava come una società
segreta e, tra gli obiettivi, non si prefisse
solo l’indipendenza del Kenya, ma anche
il recupero delle terre sottratte dai
bianchi e il ritorno alla cultura tradizionale
secondo i costumi, le tradizioni e la
religiosità degli antenati. Per questo anche
i missionari erano, in un certo senso,
nel mirino dei rivoluzionari decisi a
tutto, pur di raggiungere il loro scopo.
L’affiliazione alla società segreta avveniva
tramite un giuramento: si rinnegava
il battesimo e le convinzioni cristiane,
si dichiarava odio ai bianchi e ci
si impegnava a lottare con ogni mezzo,
accettando le conseguenze funeste in caso
di mancato adempimento ai doveri
della Mau Mau. «Se userai ancora il tuo
nome cristiano, che tu sia ucciso da questo
giuramento!».
All’inizio i missionari e il governo non
considerarono l’impatto del movimento
sulla popolazione, sottovalutandone
la pericolosità. Un’azione eclatante
ne rivelò, tuttavia, la consistenza nell’ottobre
del 1952, quando, in occasione
dell’arrivo del nuovo governatore della
colonia, sir Evelyn Baring, venne ucciso
il capo kikuyu Warouhiou, collaborazionista
dei bianchi. L’attentato convinse
le autorità a prendere la cosa sul serio e
ad opporsi con tutti i mezzi.
Iniziò così una lunga serie di attentati
e scontri, vendette e guerriglie, che si
protrasse per anni. Nel 1953 Yomo
Kenyatta, presidente del Kanu, fu condannato
come leader del movimento a
sette anni di prigione e poi a domicilio
coatto fino al 1961.
Carlo Cavallera, vescovo di Nyeri, e i
missionari vissero quegli anni con paura,
ma rifiutarono di abbandonare i loro posti,
anche se cercarono di difendersi evitando
le occasioni di pericolo, costruendo
case solide e appoggiandosi alle forze
di polizia. Il vescovo, soprattutto, interpretò
la drammatica situazione in chiave
di fede, preoccupato del pericolo di apostasia
dei cristiani.
Il 16 maggio 1952 scrisse una lettera
pastorale sui Mau Mau, condannando il
movimento: loro scopo è quello di distruggere
la chiesa di Cristo, iniettando
nelle persone «false brame di progresso
con un’incomprensibile ingratitudine per
gli innumerevoli benefici ricevuti dalla
chiesa e dal governo»; costituiscono un
pericolo di perversione per gli aderenti,
costretti al giuramento e a seguire «l’istinto
brutale delle loro malvagie passioni,
il loro orgoglio infantile e l’impulso
alla ribellione»; l’adesione ai Mau Mau
è proibita dalla chiesa per essere «un sacrilego
movimento» e dal governo, in
quanto impedisce «di tutelare il buon ordine
del paese».
Per contrastarlo, il vescovo non trovò
di meglio che fargli fronte con un «partito
cristiano», che promuovesse il benessere
della colonia e attirasse le simpatie
dei giovani per gli ideali di progresso;
per coloro che entravano a far
parte del movimento Mau Mau c’era la
scomunica!
I missionari temevano l’odio antireligioso
del movimento e certe azioni li convinsero
nel loro timore.
«La sera del 30 novembre si avvicinò
una gang di Mau Mau vestiti da poliziotti…
Entrarono in chiesa, spaccarono il
tabeacolo e, estratta la pisside e il ciborio
dell’ostia grande, le sparsero sulla
predella e sull’altare dicendo che non esiste
Gesù Cristo e che il solo dio è Yomo
Kenyatta… Si dissero comunisti!».
L’autorità inglese trovò in mons. Cavallera
un collaboratore, di cui fidarsi.
Per sicurezza, la popolazione fu costretta
a riunirsi in circa 450 villaggi di emergenza,
circondati da filo spinato, siepi
e steccati, con severe regole di entrata
e uscita. Qui, però, ben presto la gente
soffrì la fame e ogni malattia.
Èperò impressionante rilevare come
tutte le testimonianze della gente
sottolineino con gratitudine l’aiuto dei
missionari durante l’emergenza.
Ad esempio, padre Francesco Comoglio
è ricordato per avere «salvato molti cristiani
e persino dei detenuti»; padre Bartolomeo
Favaro è considerato «un vero
artefice di pace e questo lo si potè notare
soprattutto durante la sollevazione dei
Mau Mau, quando aiutò molta gente che,
altrimenti, sarebbe morta»; o ancora padre
Bartolomeo Negro, lodato «perché aveva
salvato molte vite e nutrito tante
famiglie con i fondi della parrocchia».
Ha scritto Joseph Ki-Zerbo nella sua
«Storia dell’Africa Nera»: «Il bilancio
ufficiale dei Mau Mau è di 7.811 morti
e oltre 100 mila prigionieri; quello riguardante
le forze dell’ordine è di 460 africani
e 68 europei, morti tra militari e
civili».
Le azioni militari durarono fino a tutto
il 1954; ma la tensione continuò fino
al 1960 (con strascichi locali fino al
1963), quando il Kenya raggiunse l’indipendenza
e Jomo Kenyatta ne fu il primo
presidente.

La dentiera di Filippo
Filippo è un cristiano molto in gamba.
Lo chiamo «il martire». Ed ecco il perché.
Erano gli anni della guerriglia per l’indipendenza
del Kenya. Quella che in
Europa fu chiamata la rivolta dei Mau
Mau e qui «emergenza»…
Filippo scelse la via della fedeltà a Cristo
e al suo dovere di maestro. Nonostante
le minacce di morte, continuò a
fare scuola. E pagò caro il suo coraggio.
Gli chiesi un giorno:
Filippo, non avevi paura che un giorno
o l’altro ti avrebbero fatto fuori?
– Eh sì! Speravo sempre di no, ma ne
vedevo tanta di gente massacrata. Sapevo
di essere dalla parte del Signore e
Lui mi dava forza.
Com’è che ti hanno assalito e non ti
hanno ammazzato?
– Non lo so. Toavo da scuola. Mi vidi
circondato dai Mau Mau. Tentai di
scappare, ma mi furono addosso. Capii
che ero finito. Caddi in ginocchio e mi
misi a recitare l’Ave Maria. A quel tempo
pregavo molto la Madre di Gesù che
mi aiutasse nell’ora della morte. Non
so cosa mi accadde. Aprii gli occhi e vidi
qualcuno che mi soccorreva.
Cos’era capitato?
– Non so. Forse, sentendo arrivare gente,
sono scappati. Forse hanno creduto
che fossi morto. Sai, io non gridavo,
pregavo. Forse è stata la Madonna che,
in quell’ora di morte, ha avuto compassione
della mia famiglia. Il fatto è che
sono passati 15 anni e io sono ancora
qui, sano e salvo. Sia ringraziato il Signore,
che è stato davvero buono con
me…
«Beh, proprio sano e salvo non direi –
mi disse alcuni giorni dopo Donatella,
la suora infermiera. Sai perché porta il
bastone? Non fu possibile aggiustargli
il ginocchio».
– Sì, ho visto.
– Hai notato che bei denti ha? Glieli ha
messi il vescovo.
– Oh bella! Non sapevo che il vescovo
facesse anche il dentista.
– Non capisci niente! Glieli ha fatti mettere
il vescovo, perché i suoi erano partiti
tutti. E come avrebbe fatto a masticare
granoturco e fagioli?… Che paura
quel giorno! Ero qui in ambulatorio come
adesso. Non mi avevano mai minacciata.
Curavo anche loro, i Mau Mau.
Ne avevano un gran bisogno, poveretti,
con la vita grama che conducevano nella
foresta. Sentii delle grandi urla che
aumentavano sempre più. Poi mi parve
di sentire le parole «ammazzato… Filippo». Sono corsa fuori. Che orrore! Tutto
sangue. Vedevo solo sangue. Era
proprio Filippo. Cosa potevo fare?
L’ho lavato, disinfettato e fasciato in
tutta fretta. Poi il padre l’ha portato all’ospedale.
Se chiudo gli occhi, lo vedo
ancora. Tu scherzi quando lo chiami «il
martire», ma lo è davvero.
– Sorella, io non scherzo affatto. Gli voglio
un gran bene e mi sento una pulce
davanti a lui.
GIUSEPPE MAGGIONI,
autore di «Storie africane», EMI,
Bologna 1987

A PIEDI, SOTTO IL SOLE
I missionari protestanti e cattolici cominciarono ad
aprire missioni nella «Riserva Africana del Forte
Meru» nella prima decade del 1900, piazzandosi sull’altopiano
nei pressi di Meru. Vedevano bene quel posto…
I cattolici diedero un’occhiata pure alla regione
del Tharaka: la giudicarono un «foo» inospitale
e poco popolato. Scarsi di numero e mezzi, si consacrarono
ai soli altopiani popolati e climaticamente più
ospitali del Kenya e del Nyambene, in attesa di tempi
migliori.
Ma nel ’50 il vescovo Carlo Cavallera ruppe ogni indugio:
Gesù offriva la sua salvezza anche ai Tharaka
e, quindi, anch’essi avevano diritto a godee i benefici:
come pure quelli che l’Europa poteva offrire loro
con lo sviluppo tecnico e culturale. Accompagnato dal
meglio navigato padre Vittorio Pacchiardo e guidato
dal capo Mburugu, il vescovo consacrò 9 giorni al Tharaka:
lo esplorò in lungo e in largo e incontrò più gente
possibile per pianificare con intelligenza e saggezza
l’attività missionaria. Nel suo diario il vescovo annotò:
«A piedi e sotto il sole». Una nota scaa, che ai missionari
andati poi a risiedere parla di fatiche e costanza
degne di grande ammirazione.
L’anno seguente prese il via Ntonyai Mission: non
era però nel Tharaka, ma ai suoi margini e raggiungibile
da Meru solo con la pista carrozzabile. Quella gente
ne fu felicissima, perché si era accorta dello sviluppo
sociale portato dalle missioni sull’altopiano del
Meru. Tanto che il capo Muraga si fece subito avanti
per offrire il terreno necessario per due scuole e a richiedere
altri missionari.
Ntonyai Mission ebbe vita travagliata e breve per
la forte opposizione dei metodisti di Meru Mission, che
ritenevano la zona loro feudo missionario, e per lo svilupparsi
della guerriglia mau mau.
Passata la bufera, padre Pietro Fissore, il fondatore
di Ntonyai, decise di spostare il centro della missione
nel cuore del popolo tharaka e dette il via a Materi
nel sud. Fu così più facile seminare nel Tharaka
scuole e cappelle, catecumeni e cristiani.
La scuola-cappella fondata presso il mercato di Gatunga,
quasi 30 km più a nord, prese un avvio molto
promettente. Veniva seguita con attenzioni particolari:
messa ogni domenica e tre visite settimanali dell’ambulatorio
mobile. Nel ’63 Gatunga contava già 900
cristiani e 10 scuole-cappelle con buoni catecumenati.
Fu, quindi, più che naturale promuovere quella
succursale a sede di missione, per assicurare un’adeguata
assistenza al Tharaka del nord.
Nacque così «Gatunga Mission». Il fondatore fu
padre Guido Baggio, un artista come pochi. Ma si adattò
a vivere in una capanna di fango e paglia, a costruire
blocchi di sabbia e cemento, a cuocere mattoni
al sole per rendere il centro della missione più ospitale
per i suoi successori.
Non era facile vivere a Gatunga. Una decina di anni
dopo, padre Aimone Rondina scrisse: «Posto da dissodare,
primitivo. C’è bisogno di acqua e cibo prima
che di istruzione… Un popolo duro e difficile come la
terra che coltivano. Vivono di bestiame e miglio. Lottano
per la vita. Il Tharaka è posto malarico e vi sono
numerosissime altre malattie cagionate da malnutrizione
e mancanza di vitamine. Paese poco ben servito
climaticamente».

Èbene
ricordare prima di tutto che qui, tra i meru, al
contrario dei nostri paesi cosiddetti civili, la chioma
è curata in maniera tutta speciale dal sesso forte…
poiché le donne vanno abitualmente rasate e rasate
proprio completamente. Gli uomini, invece, se i capelli
donati loro da madre natura s’attardano ad allungarsi
sì da potersi fare un bel codino, te li allungano con cordicelle
e fili, impiastricciando tutto di ocra rossa, così
che capelli veri e aggiunta di cordini, diventano un quid
unum e danno materia per abbellire il bellimbusto che,
quando ha il codino, si crede
giunto all’apogeo della
bellezza.
Il neonato dev’essere rasato
al terzo o quinto giorno
dalla nascita e, finché
non sono tagliati questi capelli,
la madre non può uscire
di casa. Non può essere
rasata per allontanare e
seppellire (insieme coi capelli
raschiati) tutto quel
non so che di sacro e inviolabile
che ha la capanna,
dove abita col bimbo nei
primi giorni della nascita. Il
bimbo rasato può essere
portato a vedere ai parenti
e anche il padre, per lo meno
di sotterfugio, potrà dargli
un’occhiata; la madre è
libera d’attendere alle sue
consuete occupazioni e i capelli,
oggetto di tanto terrore,
sono con ogni riguardo
seppelliti ai piedi del letto
della madre, perché piede
profano non calpesti la
«mambura» (capigliatura)
del neonato.
Però, col crescere del bimbo, ricrescono i capelli e crescono
davvero, perché per tagliarli una seconda volta,
occorre ancora più solennità. Si richiede la presenza dello
stregone e, si sa, costui non lavora gratis: occorre un
montone, che viene ucciso per la cerimonia e la cui carne
e pelle sarà la sua paga. Ma, tra i meru, vi sono molti,
anzi troppi poveracci che difficilmente trovano tanto
presto il montone necessario; intanto si aspetta e il
bimbo cresce fino a sei, dieci e più anni e… i capelli non
sono più riccioli spioventi sulle spalle, ma formano una
boscaglia aspra o forte «che nel cor rinserra… ogni
lordura». Oh, non importa! Nessuno li tocca, nessuno li
deve toccare: sono cosa sacra!
Ricordo un fatterello. Tra i marmocchi che frequentavano
la scuola di Egoji, parecchi anni fa, c’era un
ragazzetto di una dozzina d’anni, molto, ma molto intelligente
e anche tanto,
ma tanto bravino, che si attirò
l’attenzione premurosa
della suora maestra. E davvero
faceva progressi a
scuola; ma la maestra, poveretta,
ogni volta che doveva
avvicinarlo per raddrizzargli
la penna in mano
o che so io, sentiva una ripugnanza
indescrivibile,
ché il ragazzo aveva appunto
in testa una di quelle capigliature
arruffate e incolte
da più di dieci anni.
Un bel giorno le venne un’idea
e, senz’altro, prese le
forbici, s’improvvisò parrucchiera
per amore del
prossimo; e il ragazzetto fu
libero dalla boscaglia!
Venne poi il pandemonio
quando il bimbo toò a casa.
Padre e madre, come
spiritati, giunsero alla missione.
Era troppo l’insulto
fatto loro, quasi non avessero
un montone per chiamare
lo stregone a tagliare
i capelli al loro Kaibi. Chi
salvò la faccenda, oltre la mia barba un poco temuta,
fu l’osservazione di un vecchio, presente alla scena, che
tagliò corto dicendo che non c’era nessun problema, perché
i capelli non erano stati «rasati», ma semplicemente
tagliati con le «magazi» (forbici). E fu fatta la
pace…
P. ANGELO BELLANI

FRA LE ROSE DEL DESERTO
È quasi l’ultima tappa di un «andare sempre più in là»,
fino agli estremi confini del Kenya.
Il piccolo seme è diventato un albero dai molti frutti.
Alcuni, anche rossi di sangue…

Dopo Meru, arriva Marsabit.
Questa «diocesi del deserto»,
nel nord del Kenya, nacque
dalla stima di Paolo VI per il vescovo
Carlo Cavallera e crebbe in fretta,
grazie alla dedizione sconfinata di
una trentina di missionari e suore,
con un piccolo gruppo di cornoperatori
laici.

SASSI E SERPENTI
Niente giustificava, il 4 novembre
1964, l’erezione di una nuova diocesi
in un territorio arido, poco popolato
da pastori nomadi. Fino al 1963
il governo vi permetteva a stento la
residenza agli europei. Ma era un sogno
antico che si realizzava, risalente
addirittura a monsignor Filippo
Perlo, quando nel 1902 pensava già
all’evangelizzazione dei masai.
Un contatto con il nord, i missionari
della Consolata l’avevano avuto
nel 1914 quando, con una sfortunata
spedizione guidata da padre Angelo
Dal Canton, tentarono di penetrare
in Etiopia. Rispediti indietro,
rimasero a Moyale per tre anni (in attesa
del permesso di tornare a Nyeri)
e ne approfittarono per un apostolato
spicciolo. Un’altra occasione
persa la si ebbe nel 1925, quando,
per mancanza di mezzi e personale, i
missionari declinarono l’invito del
governo inglese ad aprire un dispensario
a Marsabit, battuti dagli anglicani
che vi si installarono nel 1931.
Però nel 1948 Carlo Cavallera, vicario
apostolico di Nyeri e amministratore
della prefettura di Meru, decise
di «esplorare» il vasto territorio
a lui affidato, fino agli estremi confini
della Northe Province, per studiare
la possibilità di una presenza
stabile. Prese contatto con i capi locali,
discusse con le autorità civili, conobbe
la sparuta e isolata presenza
dei cattolici: instancabile e deciso a
trovare una fessura in quel vasto e inospitale
territorio e iniziare l’evangelizzazione
delle varie tribù presenti
(turkana, samburu, masai, rendille,
gabbra, el molo, ecc.).
Le esplorazioni del vescovo continuarono,
finché nel 1951 arrivò il
sospirato permesso di una prima installazione
a Baragoi. La missione divenne
operativa l’anno successivo,
con padre Carlo Andrione e, in seguito,
con tre suore della Consolata.
Nel 1963 nacquero contemporaneamente
le missioni di Laisamis, Archer’s
Post e Marsabit.
Inutile tentare di raccontare in poche
righe le difficoltà a installarsi in
posti simili: difficoltà di trasporti, isolamento,
malaria, caldo soffocante
e soggiorno in tenda rendevano
l’impresa quasi eroica. Scrisse padre
Luigi Graiff, iniziando la missione di
Laisamis: «Quando arrivai non c’era
nulla. I serpenti erano i padroni assoluti.
Compresi subito che un grande
lavoro mi attendeva. Misurai a
lunghi passi i confini della futura
missione, mi rimboccai le maniche e,
con l’aiuto di alcuni volenterosi, cominciai
a rimuovere le pietre».
C’era tutto da fare e la prima cosa
era dare al territorio, dal punto di vista
ecclesiale, un’autonomia giuridica.
La cosa fu facilitata dal vescovo
Cavallera che bruciò le tappe: nonostante
le esitazioni da parte delle autorità
romane, si offrì a diventare il
primo pastore di quella diocesi desertica,
lasciando la ben avviata chiesa
di Nyeri al vescovo africano Cesare
Gatimu.
Il 25 novembre 1964 veniva così
eretta la diocesi di Marsabit e, il 25
febbraio dell’anno seguente, con un
rituale sobrio ed essenziale, il coraggioso
missionario «prendeva possesso
» del nuovo campo di lavoro.

SANGUE SULLA SABBIA
Non erano solo le condizioni ambientali
a rendere difficile l’evangelizzazione.
Il contesto era totalmente
diverso da quello sperimentato dai
missionari fra i kikuyu e i meru con
popolazioni agricole e sedentarie. Invece
le tribù che pascolavano le mandrie
nel vasto bacino, confinante con
Etiopia e Somalia, potevano avere
con i missionari soltanto sporadici
contatti. Quindi anche la metodologia
missionaria doveva essere diversa:
più mobile e capace di adattarsi
alla situazione.
Data la precarietà, le prime attenzioni
furono rivolte alla situazione sanitaria,
con dispensari, cliniche mobili
e, soprattutto, con la realizzazione
dell’ospedale di Wamba, uno dei
progetti più sofferti ed ambiziosi.
Nato dal nulla nel 1969, con 40 posti
letto, fu reso possibile dalla generosità
di tante persone (benefattori,
amici, medici, missionari) e, specialmente,
dalla presenza del dottor Silvio Prandoni, insostituibile figura di
medico dalla generosità sconfinata.
Accanto all’ospedale, nel 1967 sorgeva
pure una «clinica oculistica»,
grazie all’interessamento del prof.
Angelo Vannini (di Torino), padre
Mario Valli e una lunga serie di oculisti
italiani che vi si recavano, alternandosi,
per brevi periodi di lavoro.
Nel campo dell’istruzione ci si impegnò
per scuole secondarie, decine
di scuole elementari, matee e una
di arti e mestieri, superando la non
piccola difficoltà di avere insegnanti
preparati in luoghi così lontani e inospitali.
Una triste nota che caratterizzò
il lavoro di mons. Cavallera
furono le ricorrenti siccità, che costrinsero
il vescovo alla ricerca ossessiva
di aiuti all’estero e ad organizzare
le missioni, perché fossero
centri di assistenza a gente stremata
dalla fame.
La presenza nel territorio di Marsabit
aveva come scopo primario l’evangelizzazione,
che si rivelò però
più difficile del previsto per il carattere
mobile delle popolazioni, l’insicurezza
causata dai predatori shifta e
anche l’influenza (in alcuni posti) dei
musulmani. Per questo i missionari
puntarono la loro azione su tre direzioni,
con una strategia che teneva
conto non solo delle forze umane e,
soprattutto, della fede (era il «pallino» del vescovo).
In primo luogo, una «presenza»
costante ai «piedi dell’Eucaristia»: in
modo che, in tutta la giornata, venisse
garantita nell’intera diocesi la preghiera
continua. Poi fu curata la pastorale
scolastica, affinché gli alunni
ricevessero una formazione cristiana
(oltre che un esempio di vita), così da
far nascere in loro l’esigenza di chiedere
il battesimo e costituire nuove
comunità. E, infine, studio serio delle
(difficili) lingue locali, insieme a usi
e costumi, per inculturare il messaggio
del vangelo, conoscere la gente
in profondità e rispondere ai loro
bisogni.
Il vescovo sognava anche una «pastorale
nomade». Ma l’impresa si rivelò
difficile, sia perché il governo
impose ai missionari la residenza fissa,
in luoghi sicuri e protetti dalla polizia,
sia perché la «squadra volante»
di padri, destinata a seguire gli spostamenti
dei nomadi, ripiegò sulla
creazione di strutture di aiuto che,
gradualmente, divennero stabili; più
che fare gli itineranti, i missionari si
dedicarono a sviluppare i posti difficili
e lontani.
Fondamentale si rivelò anche l’opera
dei catechisti e catechiste, per i
quali fu creato il Centro pastorale di
Maralal, attentamente studiato e adattato
alle esigenze locali. E prese
sempre più corpo l’idea che fosse ormai
giunto il momento di pensare a
preti locali. Dopo lunghe riflessioni,
nel 1979 si aprì il seminario «Buon
Pastore», da cui uscirà nel 1988 il primo
sacerdote samburu, Dominic Lesaion.
Intanto la forte fibra del vescovo
Cavallera cominciava a cedere, sotto
la spinta di una lunga e intensa attività,
svolta in condizioni disagevoli;
dopo 36 anni di episcopato al servizio
della chiesa kenyana, le sue dimissioni
furono accolte il 12 luglio
1981. Ritiratosi a Torino, potè realizzare
quello che era sempre stato il
suo sogno: preghiera e contemplazione.
Al suo posto arrivò padre Ambrogio
Ravasi, presente in Kenya da
una decina d’anni, che dovette sobbarcarsi
la non facile eredità dell’infaticabile
predecessore: vi riuscì con
il suo ottimismo, semplicità, realismo
pastorale e vicinanza patea a tutti.
Ultima tappa nelle vicende della
diocesi di Marsabit è stata la sua divisione,
con la creazione della nuova
diocesi di Maralal, per la quale veniva
nominato vescovo Virgilio Pante,
consacrato il 6 ottobre 2001. Il vescovo
giusto: veterano del posto, appassionato
di moto e caccia, profondo
conoscitore degli usi e costumi locali,
vero «nomade» del Signore!

SAPER RICOMINCIARE
Dopo il Concilio ecumenico Vaticano
II, la chiesa entrava in una fase
di rinnovamento; c’era voglia di cambio,
novità, vie pastorali non ancora
battute. Anche la missione non rimase
indenne al vento dell’«aggioamento», anche se dovette fare i
conti con il calo drastico di vocazioni
e la critica (talvolta ingiusta) ai metodi
del passato, considerati lesivi
delle culture e dei diritti dei popoli.
Maturava anche una nuova «strategia
», che riconosceva ai missionari
non più il ruolo di protagonisti, bensì
quello di (umili) «accompagnatori
» delle chiese locali, fino alla loro
piena autonomia. Famosa la definizione
di missionario, che circolava in
quei tempi: «Straniero, in casa di mio
padre». Si parlava di «trapasso», con
l’evidente allusione al sacrificio e al
distacco materiale che il missionario
era chiamato ad affrontare, nel momento
di affidare la sua «creatura»
ad altre mani. Nel frattempo doveva
imparare a collaborare con altre forze
che cominciavano a fare capolino:
come i laici missionari che, da pochi,
diventavano una presenza stabile e
consistente; o come i sacerdoti fidei
donum, presenti dai primi anni ’60, a
cui verrà affidata, nel 1996, la diocesi
di Isiolo, «figlia» della missionemadre
di Mujwa (Meru).
E si faceva sempre più strada una
parola capace di far rizzare i capelli e
battere il cuore, soprattutto ai missionari
di una certa età: «ridimensionamento
», ossia ridurre le presenze
nelle diocesi ormai consolidate. La
scelta poteva far pensare a una fatale
necessità dell’istituto, causata dall’inesorabile
e lenta riduzione di personale;
ma, sul versante positivo, diventava
pure la strada obbligata per
riqualificare le presenze in situazioni
più consone all’ad gentes.
Non è che i vescovi africani fossero
tanto d’accordo. Mons. Gatimu,
vescovo di Nyeri, scriveva ai superiori
di Torino: «Non mi si portino
via i missionari migliori per la mia
diocesi; se non ne approfittiamo ora,
domani potrebbe essere troppo tardi!…
». Ma il ridimensionamento era
(ed è) una «cura» obbligata e cominciò
ad attuarsi. I 224 missionari,
presenti in Kenya nel 1975, scesero a
171 nell’81, quando il settimo Capitolo
generale affrontò il problema
delle nuove presenze sul territorio.
Vennero lasciate missioni «storiche
», iniziate da zero dai primi missionari,
come Embu, Kyeni, Chuka,
Gikondi, Nyeri (il «Vaticano» della
Consolata, dato il complesso di opere:
parrocchia, tipografia, centro catechistico,
ospedale, ecc.), Murang’a,
Nanyuki, Karatina… per scegliere situazioni
di «frontiera»: come tra i
musulmani di Mombasa (1991); o a
Chiga (1992) tra il popolo dei luo, in
diocesi di Kisumu; o nella periferia di
Nairobi, tra i baraccati degli slums a
Kahawa (1993) e Lileleshwa (2001).
Emergeva, inoltre, tra i missionari
una nuova priorità: quella dell’animazione
missionaria e vocazionale,
che assorbe ancora oggi persone e
mezzi, spingendo a nuove presenze
anche fuori dal Kenya, come a Kampala
(Uganda).
Per anni il Kenya ha accolto evangelizzatori
che venivano dall’estero:
un dono prezioso, che ha permesso
a questa chiesa di diventare adulta e,
a sua volta, di restituire ad altri il dono
ricevuto. È un salto di qualità, che
rivela come il lavoro missionario abbia
dato i suoi frutti.
Oggi sono 121 i missionari della
Consolata kenyani, la maggior parte
dei quali è sparsa nei vari paesi del
mondo; ultimo, la Corea del Sud, che
ha appena accolto Joseph Otieno e
Peter Njoroge, due giovani freschi di
ordinazione e decisi ad affrontare una
cultura (e una lingua) così lontana
dalla loro.
Chi avrebbe mai pensato che la
Consolata, assumendo pure il volto
kenyano, arrivasse a tanto?

ATLETA, SOLDATO, CONTEMPLATIVO
Nell’apostolato Carlo Cavallera è impegnato non solo ad amministrare
battesimi, ma ad evangelizzare le culture. Iniziando la missione di
Marsabit, ha ben chiaro in mente che, nell’inculturazione del vangelo,
gli agenti principali sono gli stessi nomadi. Essi, perciò, devono vivere
la fede cristiana in armonia con la loro identità culturale ed esprimere
la propria maturità ecclesiale con il favorire la nascita di vocazioni sacerdotali.
Il vescovo si spende tutto per l’evangelizzazione:
la sua vita è la corsa di un atleta
eccezionale, la battaglia di un soldato valoroso,
il servizio di un amministratore fedele.
Per lui «contemplazione» significa avere
il tempio come epicentro del proprio
essere e agire: stare nel recinto sacro per
guardare il mondo con gli occhi di Dio e
giudicare la storia con il criterio della sua
logica misericordiosa.
In comunità la tensione contemplativa lo
rende capace di comunicare e convocare,
comprendere e concordare, compensare e
convincere, comporre e conservare, completare
e consolidare, commuovere e convertire,
compatire e confortare, compiangere
e consolare. La sua grandezza è proprio
questa: in lui, «la missione diventa
contemplazione».
Lino Zamuner
(autore di «Mons. Carlo Cavallera – Quando la missione invade la vita»,
Edizioni Missioni Consolata, Roma 2000)

NON CI RESTA CHE PREGARE
Padre Luigi Graiff è destinato
a South Horr (diocesi di
Marsabit), con l’incarico di occuparsi
anche dell’avamposto di
Parkati, aperto due anni prima
e sua prossima destinazione. La
regione è abitata dai turkana,
tribù nomade minacciata periodicamente
da fame, malattie e
dalle incursioni dei banditi Ngorokos,
un corpo clandestino con
intenti politici eversivi, che si alimenta
di rivalità tribali e di oscure
ingerenze straniere, come
fanno supporre le sofisticate armi di cui sono dotati.
Da South Horr padre Luigi scende ogni settimana nella
valle di Sukuta, dove si trova Parkati: vi si reca in jeep
attraversando la solitudine della steppa, portando viveri,
medicinali, materiale da costruzione e tutto quanto può
servire alle necessità di quelle popolazioni, tra le più povere
della diocesi. Ogni viaggio in quelle distese pietrose
e arroventate è compiuto nel segno del rischio, e rappresentava
una sfida agli Ngorokos, ostili verso chiunque si
sia reso testimone dei loro soprusi e razzie e resi sospettosi
nei confronti del missionario che, raccogliendo le confidenze
di chi va da lui per farsi curare, potrebbe conoscere
gli autori di tante violenze e scorrerie. Di questo rischio padre
Luigi è ben consapevole, ma continua nella sua dedizione.
Prima di compiere il suo ultimo viaggio, padre Luigi è
alla missione di Baragoi, sulla via del lago Turkana,
per rifoirsi di viveri. Mentre carica la Land Rover, suor
Christiana Sestero, sapendo che pochi sono i cristiani rimasti,
date le continue scorrerie delle bande di razziatori,
gli ha detto: «Sono scappati tutti da Parkati: perché si reca
ancora là?». «Faccio solo il mio dovere – è la risposta -;
vi sono ancora i bambini della scuola e i vecchi che non
sono riusciti a fuggire: se non porto loro un po’ di farina,
che cosa mangeranno?».
Questa volta però il missionario non è completamente
tranquillo, anche se ha deciso di partire: sa che la gente
attende, come una benedizione, la
sua visita per ricevere da lui farina,
olio, zucchero, medicine, ma soprattutto
un po’ di coraggio.
All’alba dell’11 gennaio 1981,
dopo aver celebrato la messa, lascia
anche Parkati per raggiungere
Tuum, un piccolo mercato a una
ventina di chilometri. Un viaggio
già compiuto decine di volte
per garantire alla piccola comunità
di cristiani l’assistenza religiosa, ma
anche per promuovere istruzione,
cura dei malati, approvvigionamento
di acqua e viveri in modo da
ovviare ai disagi della siccità. In
macchina con lui ci sono due ragazzi
di South Horr e il fedele catechista
Patrick: hanno il compito
di animare la liturgia e aiutare
il missionario a distribuire
viveri.
Il viaggio procede senza intoppi,
ma ad una dozzina di chilometri
da Tuum ecco l’imprevisto:
alcuni uomini a bordo di una
jeep, armati di mitra e fucili,
costringono padre Luigi a fermare
il mezzo. Il missionario intuisce
il pericolo, sa che i razziatori tendono spesso imboscate
e che, per poco, sono disposti a compiere qualsiasi
azione delittuosa. Vano è il tentativo di invertire la
marcia per evitare lo scontro: alcuni spari bloccano infatti
l’auto, che viene accerchiata. Vano è anche il tentativo
di avere un colloquio con i banditi.
Ormai non c’è più nulla da fare: «Non ci resta che pregare
» sembra abbia sussurrato, rivolgendosi al catechista.
È la sua ultima esortazione.
Il missionario vorrebbe almeno salvare i ragazzi che lo
accompagnano, ma la spietatezza degli assalitori compie
l’inevitabile e la speranza che si limitino a depredare
l’automezzo si infrange ai primi spari. Padre Luigi cade a
terra raggiunto da varie pallottole, assieme ai ragazzi, pure
loro colpiti a morte. Sul corpo del missionario, gli assassini
infieriscono impietosamente: gli squarciano il torace,
i visceri sono sparsi sul terreno, la cavità riempita di
sassi; il cuore gli viene selvaggiamente strappato e al suo
posto gli viene posta una grossa pietra.
La tragedia è consumata, la strada sassosa è una pozzanghera
di sangue delle vittime. Il posto si è trasformato
in un nuovo golgota d’amore e di morte insieme, sul quale
si è compiuto il sacrificio.
Passata la furia dei banditi Ngorokos, il catechista, già
ferito, riconosce nel giovane che gli sta spianando contro
il fucile un suo ex alunno: abbassata l’arma, il guerriero gli
risparmia la vita, perché racconti l’accaduto…
«Martire dell’amore e della fede» si
legge sulla lapide, divenuta per
quella comunità un centro di affetti
e di preghiera. Nei 30 anni vissuti
in terra di missione, tra avversità
e pericoli, padre Luigi ha sempre
voluto rimanere al suo posto
ed essere fedele al suo compito.
MICHELE NICCOLINI

GIACOMO MAZZOTTI