SFRATTO AGLI SPIRITI

Presa visione
della situazione,
i padri Flavio Pante,
Ramon Lazaro
e Michael Wamunyu
stanno mettendo a fuoco
priorità e progetti
di testimonianza
della carità: difesa
dei diritti umani, dialogo
con i musulmani,
alfabetizzazione
e sanità.

Una visita al mercato di Dianra
è indispensabile per vedere
la vita della gente. Sui banchetti
traballanti è sciorinata un’infinità
di mercanzie e prodotti agricoli:
riso, inyame (una specie di manioca),
frutta e verdura d’ogni genere, tutte
prodotte dai senufo.
«Sono gli autoctoni di questa regione
– spiega padre Ramon -, agricoltori
per natura. Per questo le popolazioni
immigrate li hanno chiamati
senufo, termine che in diula, la
lingua franca diffusa dei mercanti
musulmani, significa: coloro che coltivano
la terra. E sono grandi lavoratori
». «Molto sfruttati» aggiunge padre
Flavio.

IL PREZZO NON È GIUSTO
Da vari decenni la risorsa principale
dei senufo è la coltivazione del
cotone. Il guaio è che i contadini,
dall’inizio della coltivazione alla consegna
del prodotto, non conoscono
mai quale sia il prezzo che ne ricaveranno.
Una volta consegnato, devono
accontentarsi di quanto stabilirà
la compagnia.
«Tale sistema va avanti da molti anni
– afferma padre Flavio -. Il sindacato
dei coltivatori di cotone ha organizzato
una protesta, occupato la
fabbrica e minacciato di bruciare i
raccolti, se il prezzo non fosse immediatamente
fissato. Le autorità del
settore agricolo hanno promesso di
risolvere il problema; ma, a distanza
di due mesi, i contadini non sanno
ancora quando e quanto saranno pagati
». Intanto il cotone rimane nelle
capanne, ingiallisce e perde valore.
I padri hanno cercato di difendere
i diritti dei contadini, parlando con i
cristiani impiegati nello stabilimento,
ma questi non hanno voce in capitolo.
«Da alcuni anni la fabbrica è stata
privatizzata – continua padre Flavio
– e non si sa chi sia il padrone.
Qualche mese fa è apparso un russo,
forse uno dei padroni». «Era bianco
come un pezzo di carta. Il giorno dopo
era scottato e rosso come un’aragosta
» aggiunge sorridendo padre
Michael.
La difesa dei diritti umani è una
delle tante sfide che i missionari di
Dianra dovranno affrontare. Ma per
ora concentrano l’attenzione al campo
religioso e culturale.

LIBERAZIONE DALLA PAURA
«La religione tradizionale ha dei
valori su cui innestare quelli del vangelo
– spiega padre Michael -. Uno di
essi è il profondo rispetto per la natura,
ritenuta sacra, abitata da spiriti
e divinità. Ma è pure una sacralità che
alimenta paure irrazionali: tutti hanno
in casa feticci protettivi e si sentono
minacciati da spiriti, sortilegi, malocchi
e maledizioni».
Una sessione della preparazione al
battesimo, presente solo nei catechismi
destinati ai senufo, ha come tema:
Gesù mi libera. Tale sessione inizia
invitando i catecumeni a manifestare
ad alta voce le proprie paure
e a sbarazzarsi dei feticci; si conclude
con un gran falò in cui vengono
bruciati feticci e aesi vari, come segno
di conversione e di fiducia in
Cristo liberatore.
Ma gli spiriti sono duri da sfrattare
dalla mente e dalla vita. Molti cristiani
continuano a vivere sotto l’oppressione
delle paure derivanti dalla
religione tradizionale, intrecciando
riti cristiani con sacrifici di capretti e
polli. Altri chiedono preghiere ed esorcismi
e fanno celebrare messe per
essere liberati da tali oppressioni.
«La religione cristiana è sentita come
un antidoto al male fisico e morale
– continua padre Flavio -; la preghiera
sconfina spesso nella magia.
Un giorno un uomo mi chiese di curare
le sue gambe piagate. Gli dissi
che non avevo con me alcuna medicina.
Mi rispose che era venuto solo
perché imponessi le mani sulle ferite.
Una donna, dopo l’ennesimo litigio,
decise di lasciare il marito; questi le
disse con rabbia che non avrebbe trovato
un altro uomo: quelle parole le
caddero addosso come un sortilegio,
la facevano deperire fisicamente, finché
venne alla missione per essere liberata
dalla maledizione».
In compenso, i senufo sono molto
ben disposti verso i missionari e il
cristianesimo, mentre hanno il dente
avvelenato contro l’islam. Tale avversione
risale alla fine del 1800,
quando Samori, un guerriero della
Guinea, conquistò tutta la regione
settetrionale della Costa d’Avorio e,
per costruirsi un regno islamico, impose
la sua fede con massacri e distruzioni
(vedi riquadro p. 68). I musulmani
lo celebrano come eroe, le
popolazioni animiste lo ricordano
come un sanguinario e i senufo rifiutano
ancora oggi di convertirsi al
musulmanesimo, mentre si aprono
facilmente al messaggio del vangelo.

TE LO DO IO IL DIALOGO
La presenza dei missionari è apprezzata
anche dai musulmani. «Sul
piano umano il dialogo è possibile e
già esiste – racconta padre Flavio -. Al
nostro arrivo, l’iman-capo è venuto
due volte a darci il benvenuto. Noi
abbiamo ricambiato le visite, fatto atto
di presenza al funerale di un suo
familiare e, all’inizio del ramadan, siamo
andati a fare gli auguri e lui è venuto
a ringraziarci».
«L’iman di Marandallah – aggiunge
padre Michael – ha chiesto al vescovo
di mandare missionari stabili
in quella zona». Il fatto è sorprendente,
ma non troppo: la chiesa cattolica
porta asili, scuole, ospedali e
altre opere sociali.
«Il dialogo religioso è ancora lontano
– continua padre Flavio – e richiederà
da parte nostra una conoscenza
più profonda del mondo musulmano.
Per ora vorremmo tentare
a livelli più concreti: coinvolgere i
musulmani nei progetti sociali che
abbiamo nel cassetto, asili, scuole di
alfabetizzazione, strutture sanitarie».
Una visita all’iman potrebbe essere
l’occasione per tastare il polso. Lo
troviamo in casa, che funge anche da
moschea; ma non riusciamo a comunicare:
egli parla solo diula; il figlio
traduce in un francese incomprensibile.
L’iman promette di venire,
la sera, alla missione con un interprete
più ferrato.
E arriva puntuale. Dopo le rituali
presentazioni, risponde pacatamente
alle domande. Dice di chiamarsi
Karim Karaté; ha fatto il pellegrinaggio
alla Mecca, come pure gli altri
quattro iman di Dianra. Afferma che
non ci sono conflitti tra cristiani e
musulmani, poiché adorano la stessa
divinità; la differenza è solo sulle labbra,
gli uni dicono Dio, gli altri Allah;
ma nel cuore è lo stesso Dio.
Domando quanti sono i musulmani
di Dianra. Risponde di non conoscere
il numero esatto, ma che sono
più dei cristiani e provengono da
vari gruppi etnici del Mali, Guinea,
Burkina Faso. Ci informiamo sulle
scuole coraniche: gli alunni imparano
a memoria brani del Corano in arabo,
usando traduzioni in francese
e diula per la comprensione.
Arriviamo alla domanda cruciale:
«Come e in quali campi possono lavorare
insieme musulmani e cristiani
per il bene della gente?». L’iman si esibisce
in un lungo e generico discorso
sulla necessità della collaborazione
e aiuto reciproco. Lo incalzo
con una domanda più precisa: «Quali
sono i problemi e necessità della
popolazione in generale?». «Non
conosco le necessità degli altri – risponde
serafico l’iman -; ma solo della
mia gente: per ora abbiamo bisogno
della moschea; chiediamo ai cri-
stiani di aiutarci a costruirla».
La conversazione perde interesse,
ma, a sorpresa, l’iman dice che anche
lui ha da farmi una domanda: «Tornato
in Italia, la prego di procurarmi
una motocicletta».
Mi viene da ridere; ma mi trattengo.
Spengo il registratore: per me il
«dialogo» è ormai su un binario morto.
Padre Flavio sembra più imbarazzato
di me, ma si ricompone in
fretta e risponde: «Il nostro ospite è
qui per rendersi conto dei problemi
di tutta la gente, anche della comunità
musulmana. Prima di tutto,
però, dovrà occuparsi delle necessità
della missione, poiché, come vede,
siamo agli inizi. Ma Dio ci ha dato
due mani, perché con una sola non
riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo.
Quando la comunità musulmana
vorrà comperare la motocicletta
per l’iman, anche noi saremo
felici di offrire il nostro contributo».
L’iman annuisce e si mostra soddisfatto.
Padre Flavio tira un sospiro di
sollievo, per essersela cavata con diplomazia;
ma il suo entusiasmo per il
dialogo pare un poco scosso.

GLI SPAVENTAPASSERI
Da non perdere, a Dianra, è una
visita ai fabbri: nella cultura senufo
essi sono ritenuti personaggi dotati
di qualità sovrumane e, per la loro
arte di manipolare il ferro, giocano
un ruolo privilegiato in varie cerimonie
magico-religiose.
Visitiamo due officine, a un tiro di
schioppo dalla missione. Nella prima,
un giovanotto sta ricavando un
vomero d’aratro da vecchi cerchioni
di automobili. Ci mostra zappe e attrezzi
vari già pronti per la vendita.
Ammiro l’inventiva e i mezzi tanto
rudimentali; ma non trovo nulla di
sovrumano; anzi, a girare la ruota di
bicicletta che alimenta un minuscolo
mantice c’è un bambino. Più sconcertante
è la seconda officina, gestita
da tre ragazzini in età scolare.
Padre Flavio sembra leggere ciò
che mi passa per la mente e spiega:
«A Dianra l’analfabetismo è un problema
molto grave. Quasi tutti i villaggi
hanno le scuole elementari; ma
pochi le frequentano: i bambini sono
nei campi fin da piccoli, se non altro
come spaventapasseri nelle coltivazioni
di riso. Per le ragazze la mentalità
locale è anche peggio: per essere
buone mogli e madri non è necessario
aver studiato; anzi, la donna ignorante
è più sottomessa».
Alla mentalità si aggiunge la mancanza
di documenti: la maggior parte
dei figli nasce in casa e i genitori
non si preoccupano di registrarli all’anagrafe.
Per avere l’atto di nascita,
richiesto per iscriversi alla scuola, bisogna
sborsare 30 mila lire, senza
contare le tasse scolastiche: spese che
non producono un utile immediato.
«Incontro adulti, donne soprattutto,
che piangono per non sapere
leggere né scrivere – racconta padre
Flavio – e ci chiedono di aprire scuole
di alfabetizzazione: vogliamo dare
presto una risposta. Al tempo stesso,
bisognerà combattere e smontare la
mentalità dell’immediato, convincendo
i genitori che l’istruzione è un
investimento per il futuro».
Problemi e progetti continuano a
ruota libera: orfani e situazioni di po-
vertà richiedono di inventare forme
di aiuto materiale per incoraggiare e
sostenere i giovani che vogliono studiare.
Preoccupa pure la situazione
post-scolare: finito il ciclo elementare,
i giovani non hanno altri sbocchi
se non il ritorno ai campi. Una scuola
secondaria è stata appena aperta a
Dianra, ma non si sa come funzioni.
Dalla missione la gente si aspetta,
soprattutto, scuole matee: non ce
n’è una in tutto il territorio parrocchiale.
I padri le hanno elencate tra i
progetti prioritari, per togliere i bambini
dalla strada e liberarli dalla condanna
a eterni spaventapasseri.

OPERAZIONE… CESSI
Un’altra sfida è costituita dalla situazione
sanitaria. Nei villaggi non
esiste la benché minima struttura: uniche
medicine sono ancora quelle
tradizionali, basate su erbe e foglie.
A Dianra Centro c’è un dispensario:
fu aperto e sostenuto da un organismo
internazionale per combattere
il verme di Guinea, una malattia
causata da un parassita presente nelle
acque inquinate, che provoca
gonfiore alle gambe e cecità. Da
quando il morbo è stato sconfitto, il
dispensario è inattivo e sprovvisto di
qualsiasi medicina. «Quando scoppiarono
tifo e colera – racconta ancora
padre Flavio – l’infermiere ordinava
ai moribondi di bere acqua
minerale per combattere la disidratazione:
non aveva né flebo né altri
medicinali».
«Prima di tutto – aggiunge padre
Ramon – è necessario fare una campagna
di educazione sanitaria: nella
cultura locale, per esempio, non esistono
i cessi, per cui, in molti luoghi,
l’acqua è sempre inquinata».
«Abbiamo in mente piccoli dispensari
o farmacie – continua padre
Flavio -; nulla di grande, ma strutture
semplici, gestite da persone preparate
con una formazione di base,
capaci di educare la gente alla prevenzione,
curare le malattie più comuni
e somministrare le medicine
essenziali. Naturalmente avremmo
bisogno di una persona diplomata,
suora, volontario o infermiere, che si
assuma responsabilità e direzione di
tali progetti. Oltre che una priorità
richiesta dalla situazione,
sarebbe una forte testimonianza
dell’amore».

EROE O BANDITO?
F iglio di un commerciante malinke, Samori nacque verso il 1830 in un villaggio
presso Sanankoro (Guinea). Seguendo le orme del padre, si dedicò al traffico
della cola, finché scoprì la vocazione di guerriero, a servizio di re musulmani
e animisti, secondo l’opportunità. Quindi si mise in proprio: raccolse un
esercito personale e cominciò a sottomettere al suo potere varie etnie, trattando
i vinti con magnanimità e integrandone i soldati nel suo esercito. Così, dal
1870 al 1885, diventò padrone assoluto di un vasto territorio, comprendente la
regione orientale della Guinea e quella meridionale del Mali.
Per unire popoli tanto diversi, occorreva un buon collante: Samori lo trovò nella
religione musulmana e la impose con la forza alle popolazioni animiste, anche se
lui dell’islam non aveva neppure la scorza. Totalmente analfabeta, imparò a decifrare
qualche parola araba: ciò fu sufficiente per assumere, nel 1884, il titolo
di almani, «capo dei credenti».
Nella furia islamizzatrice non risparmiò neppure i familiari: fece uccidere due figlie,
ingiustamente accusate di aver tradito la verginità prescritta dal corano.
II ntanto, a nord dell’impero di Samori avanzano i francesi. Dopo varie scaramucce,
giocò la carta diplomatica: firmò un trattato (1886), in cui s’impegnava
a non oltrepassare il fiume Niger; l’anno seguente
accettò «di mettersi sotto la protezione della Francia».
Per i francesi era una vittoria strategica: il protettorato
sbarrava la strada alle pretese degli inglesi, già presenti
in Sierra Leone; per Samori diventò una camicia di forza.
Fiducioso che i francesi non lo avrebbero colpito alle
spalle, egli si lanciò alla conquista del regno senufo
di Kénédugu, con capitale Sikasso. Ma varie popolazioni
del suo regno, stremate dalla guerra e dalla carestia,
sobillate dai francesi, si ribellano (1888). Quando si
sparse la voce che Samori era morto, la rivolta divampò
in tutto l’impero come fuoco nella savana.
Ma riapparse come un leone ferito: tagliò teste a tutto
spiano e riprese quasi tutto il territorio; metà della popolazione
scappò sotto la protezione dei francesi.
Firmato l’ennesimo trattato, Samori si alleò con i Tucolor
e altri regni dell’alto Niger, che resistevano all’avanzata
straniera; e fu la fine: cancellata ogni resistenza
(1890-91), i francesi annientarono anche l’impero di Samori.
R iorganizzato l’esercito, Samori decise di costruirsi
un altro impero. Alla fine del 1892, con un esodo
in massa di gente a lui fedele, invase tutta la savana a
nord della Costa d’Avorio, lasciando dietro di sé terra
bruciata, distruggendo i villaggi che rifiutavano di sottomettersi
all’islam e mozzando la testa a chi gli suggeriva
di arrendersi. Vittima illustre fu il suo primogenito,
Dyaulé-Karamogho: inviato a Parigi nel 1885, era
un ammiratore della Francia. Sospettato di tramare col nemico alle spalle del padre,
fu condannato a morire di fame.
Accampato in terre esotiche, tra popolazioni ostili, impedito d’importare armi da
Freetown e Monrovia, Samori giocò la carta della rivalità tra le due potenze coloniali:
in cambio del ritorno nel suo primo impero, offrì ai francesi le terre confinanti
con la Costa d’Oro (Ghana), già colonia inglese.
Ormai i francesi avanzavano dal sud e Samori si rese conto dell’impossibilità di
resistere ai loro cannoni. Nel 1898, radunato l’esercito, con un altro esodo di massa,
si rifugiò nella foresta della Liberia. Ma l’ostilità della gente e le difficoltà dell’ambiente
ridussero la sua gente alla fame. Samori decise di arrendersi, ma venne
catturato prima che la resa fosse firmata.
Alla fine del 1898 al vecchio leone fu notificato l’ordine d’esilio nel Gabon, insieme
a pochi amici e familiari. Morì di polmonite a Ndjolé, il 2 giugno 1900. La
sua tomba, coperta dagli sterpi, è introvabile.

Benedetto Bellesi




Il lettone familiare

Quando un immigrato ha un lavoro e una casa
la prima cosa che desidera fare è avere vicino
a se i propri cari, moglie e figli soprattutto.
Ma il «ricongiungimento familiare»
può essere molto complicato…

Di immigrati si parla tanto. Sempre di più. In effetti, la migrazione di persone
dai paesi del Sud a quelli occidentali (Europa in testa) è un fenomeno di vastissima
portata, che domina quest’epoca e con ogni probabilità anche gli anni a venire.
Pure la nostra rivista pubblica molti articoli su questa tematica. Ora abbiamo
pensato di dedicare agli immigrati una rubrica ad hoc, cui abbiamo dato il titolo
di «DIARIO DI UN EXTRACOMUNITARIO. PICCOLE E GRANDI STORIE DELL’ITALIA MULTIRAZZIALE».
L’abbiamo affidata a Snezana Petrovic, la nostra stimata collaboratrice serba. Nel
frattempo, attendiamo di conoscere i primi effetti della nuova e discussa normativa
sull’immigrazione (meglio nota come legge «Bossi-Fini»). Ne parleremo, senza
perdere di vista quello spirito critico che sempre accompagna il nostro lavoro.

il Direttore

Era appena passato mezzogiorno e nell’ufficio stranieri
non c’era molta gente. Subito approfittammo
dell’insperata fortuna per entrare a ritirare il
permesso di soggiorno della signora D..
Lei era visibilmente emozionata, impaziente, tesa.
Diede in fretta il suo passaporto al giovane uomo dall’altra
parte dello sportello che prese una grossa cartella
e cominciò a cercare. Mentre il ragazzo cercava il permesso
di soggiorno della signora mi attirò l’attenzione
il dialogo allo sportello in fondo.
Un uomo di caagione scura, coi baffi, magro e vestito
leggero per il freddo che c’era fuori, continuava a ripetere:
«Ma io avere lavoro! Io avere casa!». L’uomo
dall’altra parte dello sportello si sforzava di spiegargli
che non è sufficiente avere un lavoro e una casa per portare
la moglie e i figli in Italia, ma un guadagno ben preciso
e una casa grande quanto è grande la famiglia. Ma
non ci riusciva. L’uomo con i baffi continuava a ripetere
di avere un lavoro, di avere una casa e voleva far venire
sua moglie e i suoi quattro figli.
– Devi trovare un altro lavoro con lo stipendio più alto.
E anche un’altra casa, perché questa che hai adesso è
troppo piccola per la tua famiglia.
– Per noi basta. Noi gente modesta. Basta mangiare, vivere.
Casa no piccola. Due stanze. Due stanze. Una io
e moglie, una bambini. In Pakistan tutti una stanza.
– In Italia non si può. Per quanto guadagni e per la casa
puoi portare solo due persone non cinque.
– No persone! No persone! Solo moglie e figli signore!
Solo mia moglie e miei figli.
– Se non cambi lavoro e casa, puoi portare soltanto la
moglie e un figlio. Devi trovare un lavoro con più guadagno
e una casa più grande. Così è la legge!
In quel momento il ragazzo del nostro sportello trovò
il permesso di soggiorno della signora D. e noi uscimmo.
Appena fummo fuori, lei cominciò a baciarmi e abbracciarmi
di gioia, come una ragazzina, ma io non riuscivo
a condividere la sua allegria perché continuavo a
pensare a quel pakistano e all’impiegato allo sportello.
Come si fa a spiegare a un immigrato che lui non
ha il diritto di scegliere come vivere con la sua
numerosa famiglia? Che i suoi figli non hanno il
diritto di dormire tutti insieme in un lettone grande come
si usa nel suo paese, perché questo non è igienico.
Qui siamo in Europa che non sopporta miseria, malattie,
usi e costumi spesso malsani e poco democratici.
L’Europa non sopporta chi si accontenta con poco…

Grassa, ricca ed egoista?
Caro padre Beardi, scrivo questa lettera a
proposito del movimento politico contro gli
immigrati che in questi anni è cresciuto in
Italia e in Europa.
Lo faccio con un mix di dolore, stupore e rabbia.
Non mi offenderò se i lettori di Missioni Consolata
mi accuseranno di aver scritto queste righe sotto
l’influenza di qualsiasi delle sensazioni precedenti.
Però non posso fae a meno. Me lo chiede la mia
storia personale, intima, familiare, quotidiana.
Sebbene ci siano ragioni storiche che mi provano il
contrario, continuerò a pensare che l’Italia sia ancora
quel grande e bel paese che i miei nonni sognarono
fino alla morte. Sempre ricordavano visi, paesaggi,
odori, angustie dell’Italia lontana, sebbene a
loro l’Argentina avesse dato tutto: braccia aperte,
amore, lavoro, figli e nipoti.
Sono migliaia e migliaia gli esuli che oggi abbandonano
questo paese che non riesce a stabilizzare la
propria storia, una storia senza dubbio benedetta
dalle lacrime di coloro che sfidarono la nostalgia
per illudersi con un futuro. Per questo non posso
credere che quell’Italia di emigranti si sia convertita
in una signora ricca, grassa ed egoista, capace di
rifiutare coloro che le chiedono ospitalità.
Mi addolora constatare che anche con documenti in
regola e un passaporto che li accredita come cittadini
europei molti dei miei connazionali con doppia
nazionalità si sentano fuori posto
e discriminati su un suolo, che fu
la terra dei nostri avi. Perché
ormai non interessano più i legami.
Perché – ammettiamolo – a
nessuno importa che ancora esistano
vincoli che ci uniscono.
Mi addolora pensare che la storia
sia passata senza lasciare tracce e
che neppure le sofferenze del passato
servano per ricreare nuovi
legami tra i popoli. Mi addolora
pensare ai miei nonni, che scapparono
dagli orrori di un’Italia
umiliata dalla fame e dall’incubo
della guerra, possano essersi sbagliati
nel trasmetterci l’amore per
quella terra e la famiglia, il rispetto
e l’orgoglio per il lavoro, la
capacità di ringraziare.
Mio nonno Beppo, che venne da
Vicenza, era falegname. Quando
si sposò con Alba, che era arrivata
da Treviso, con il legno delle
piante argentine si costruì i suoi
propri mobili. I nonni morirono, ma i loro mobili
sono ancora qui con noi, perché mai potremmo fare
con essi legna per il fuoco, né consegnarli a mani
estranee. Semplicemente perché essi formano parte
della nostra memoria familiare come le foto, le lettere
ingiallite, i vecchi bauli e i sogni. Soprattutto i
sogni.
Però vedo che l’Italia sta facendo cenere delle sue
riserve. E non parlo delle riserve materiali che – grazie
a Dio – l’hanno resa grande economicamente,
bensì di quelle che nutrono i popoli, che ne costituiscono
l’identità.
La storia potrà dirmi se le mostruosità che oggi si
pretende di fare con i milioni di immigrati in Europa
finiranno per assomigliare a quelle che fecero vari
mostri ideologici del passato e se, in definitiva,
niente è cambiato eccetto i posti a tavola.
Debbo ancora ricordare che 60-70 anni fa erano
l’Italia e l’Europa tutta che battevano ad altre porte,
ricevendo alloggio e calore in molti paesi
dell’America, dal nord al sud.
Per questo mi stupisco nel constatare che
quell’Italia e quell’Europa di emigranti (milioni di
figli che esse non potevano mantenere) oggi si intestardiscono
a invecchiare sole ed isolate, raccogliendosi
a difesa della propria ricchezza, temendo
che gente venuta da fuori possa portargliela via.
Quello che non si comprende (o che non si vuole
comprendere) è che gli affamati e gli esclusi non
sono ladroni, ma vittime; non sono usurpatori, ma
bisognosi. In definitiva, sono uomini, donne, bambini
che chiedono un pezzo di pane, cioè qualcosa di
sacro e considerato come uno dei diritti umani fondamentali.
L’unico documento che queste persone possono
presentare è la loro povertà e questa non è di certo
un delitto. Al contrario, dovrebbe essere la carta di
presentazione per qualsiasi richiesta di soccorso.
L’Antico testamento ci ricorda che con l’esercizio
permanente della memoria, la
tradizione e i legami il popolo di
Dio si aprì il passo per attraversare
il deserto. Allo stesso modo,
oggi, noi che ci chiamiamo cattolici
sosteniamo che nell’eucaristia
e nella orazione ci uniamo a tutti
gli uomini, specialmente ai più
poveri, deboli, indifesi. Però questa
fede comune, questa identità
genetica, quella memoria orgogliosa
sta cedendo alla dimenticanza.
E la storia universale ricorda
che una società senza memoria
finisce per autodistruggersi.
Forse è più facile essere solidali
con uno sconosciuto senza faccia
e senza voce. Forse è meno compromettente
inviare una nave
piena di aiuti alimentari che aprire
la porta a un indifeso.
Mi piacerebbe continuare a pensare,
qui in questa Argentina che
soffre, che l’Italia possa conservare
le sue riserve morali, questa
eredità che ci fu lasciata dai nostri nonni: la capacità
di non nascondere la mano a chi ti chiede aiuto,
né di morderla a chi ti ha dato da mangiare. Perché
neppure i cani mangiano i propri simili. Sarebbe un
sacrilegio.
Credo nel vangelo di Cristo e per questo continuo a
credere nell’uomo, nonostante la rabbia che in questo
momento porto nel mio cuore. Una rabbia che
però sarà passeggera. Deve esserlo.
lettera firmata
da Buenos Aires, Argentina

Snezana Petrovic




I RIFIUTI? FUORI DAL MIO GIARDINO!

Ogni persona produce, in media, 491 chilogrammi di rifiuti all’anno,
che generalmente finiscono nel cassonetto dell’immondizia o, spesso,
ai margini delle strade, nei boschi, nei fiumi.
Nessuno vuole tenere la spazzatura in casa, nessuno vuole la discarica
o l’inceneritore nella propria zona, ma quanti praticano la raccolta
differenziata e soprattutto quanti si preoccupano di produrre
meno rifiuti? Una percentuale ridicola. Insomma, viviamo in una società
dove la cultura ambientale è inesistente, da vergogna, da zero in pagella.
E le conseguenze sono pesantissime. Per tutti.

«Verrebbe da ridere, ma bisognerebbe piangere».
Questo potrebbe essere la morale di ciò
che non è una favola ma, purtroppo,
il risultato di una ricerca
del CNA, il Consorzio Nazionale
per il riciclo degli imballaggi
in Acciaio.
L’inchiesta, condotta su 1.000
persone tra i 18 ed i 65 anni, ha
fatto emergere la profonda ignoranza
degli italiani in campo
ambientale. Qualche esempio.
Il 28% degli intervistati sostiene
che l’ecosistema sia un
nuovo e rinfrescante sistema di
condizionamento dell’aria,
mentre per il 24% si tratta di uno
speciale ed utile apparecchio
acustico; il benzene sarebbe addirittura
un carburante di nuova
generazione ed evoluzione ecologica
della benzina (63%)!
Limitatamente al tema dei rifiuti
la situazione non è certo
più rosea. La raccolta differenziata
viene definita come un sistema
di lavorazione del settore
agricolo (33%) o come un sistema
di classificazione per appassionati
di collezionismo
(11%): ciò significa che il 44%
non sa cosa sia la raccolta differenziata.
Per biodegradabilità il
29% degli intervistati intende lo
stato di degrado in cui versano molti
parchi e giardini ed un altro 29%
i tempi di scadenza di un prodotto
biologico. Il 35% considera il riciclaggio
dei rifiuti un irregolare
smaltimento dei rifiuti volto all’elusione
della relativa tassa, mentre il
18% pensa che si tratti di un sistema
truffaldino di vendita perpetrato
ai danni dei consumatori. Per un
buon 28%, inoltre, il compostaggio
sarebbe un metodo educativo che
prevede una postura ordinata e corretta!
Questi risultati rappresentano solo
uno dei tanti elementi che confermano
la profonda mancanza di
conoscenze ambientali fra la popolazione,
in particolare per quanto
concee l’argomento rifiuti. Eppure,
tra le infinite interconnessioni
esistenti fra l’uomo e la natura, il
legame fra noi ed i rifiuti che produciamo
dovrebbe essere tra i più
evidenti. Se non è immediato immaginare
lo zaino ecologico di un anello
d’oro o di un computer (MC,
giugno 2002), o i cambiamenti climatici
indotti dall’emissione di
CO2 relativa ai nostri consumi, la
quota di rifiuti prodotta direttamente
dal nostro stile di vita ci accompagna
invece costantemente.
In quale famiglia non si discute
per andare a buttare l’«immondizia
»? Allora, se gli «immondi» sacchi
neri prodotti da noi stessi sono
così sgraditi nelle nostre case, perché
non chiedersi che fine faranno
dal momento in cui li poniamo nel
cassonetto? Perché non sentirne in
qualche modo la responsabilità? Al
contrario, il problema non è solo relativo
all’ignoranza in questo campo
ma, fatto ben più grave, all’indifferenza
nei confronti dei nostri
rifiuti e delle conseguenze che la loro
produzione ed il loro smaltimento
comportano.
COSA SONO I RIFIUTI
Se nelle puntate precedenti si è analizzata
l’origine di un prodotto
(dal punto di vista dello sfruttamento
delle risorse naturali e dei
flussi di materia associati al prodotto
stesso), vediamo ora il percorso
che compie il prodotto morto (buttato),
ossia il rifiuto.
Secondo il D.P.R. 915/82, per rifiuto
si intende «qualsiasi sostanza
od oggetto derivante da attività umane
o da cicli naturali, abbandonato
o destinato all’abbandono».
Essere rifiuto non è quindi una caratteristica
intrinseca di un oggetto.
Un prodotto può essere ancora funzionante,
utile o riparabile, ma essere
abbandonato ad esempio perché
fuori moda o perché non soddisfa
più le richieste originarie.
È fondamentale distinguere con
chiarezza le differenti fasi del ciclo
di vita del rifiuto:
1) la produzione
2) la raccolta
3) lo smaltimento.
LA PRODUZIONE
Quello dei rifiuti è diventato un
problema ambientale molto grave,
sotto diversi punti di vista. In questo
secolo, infatti, si è avuto:
– un aumento vertiginoso della produzione
di rifiuti, dovuto in particolare
alle abitudini legate alla società
consumistica;
– un aumento della tossicità per
l’ambiente, dovuto al passaggio dalla
società agricola a quella industriale;
– una diminuzione delle possibili aree
per il tradizionale smaltimento
(la discarica).
I rifiuti prodotti sono definiti urbani,
se provengono dal settore civile,
oppure speciali, se di natura industriale,
artigianale o commerciale.
I rifiuti solidi urbani (RSU)
comprendono circa il 29% di sostanze
organiche (alimenti), il 28%
di carta e cartone, il 16% di plastica,
il 4% di legno e tessuti, il 4% di
metalli, l’8% di vetro e un 11% di
altri materiali.
Nel 1999 sono stati prodotti in Italia
più di 28 miliardi di tonnellate
di rifiuti urbani, per una media pro
capite di circa 491 kg di rifiuti all’anno!
Le quantità variano da regione
a regione ed anche in base al
periodo dell’anno. Nella provincia
di Torino, ad esempio, la produzione
di RSU è in costante ascesa dal
1969, con un tasso medio annuale
d’incremento di circa il 3%. Nel
1969 ogni torinese produceva circa
183 kg di rifiuti, 317 kg nel 1985, fino
ad arrivare a 540 kg nel 2000.
Interessante è inoltre il rapporto tra
l’andamento del prodotto interno
lordo (Pil) e la produzione di rifiuti:
all’aumentare del Pil pro-capite,
aumenta anche la quota di rifiuti
urbani pro-capite prodotta. La
quantità di rifiuti prodotta, infatti,
dipende strettamente dalla quantità
di beni fabbricati e consumati.
LA RACCOLTA
La raccolta del rifiuto può essere
di due tipi:
1) raccolta indifferenziata ossia tutti
i tipi di rifiuti vengono raccolti insieme;
2) raccolta differenziata ossia i rifiuti
vengono raccolti in base alla tipologia.
Per molti anni, in Italia la raccolta
differenziata (r.d.) è consistita
nella raccolta del vetro nelle campane.
Solo alla fine degli anni ’80 è
stata introdotta la raccolta della carta,
delle lattine in alluminio e della
plastica. Dal 1996 sta inoltre aumentando
la raccolta del verde e
della frazione organica. Si sono, infine,
aggiunte la raccolta delle pile e
dei farmaci.
Vale la pena di ricordare che la
r.d. (praticata da una percentuale
ancora molto bassa di cittadini) non
è volontaria, bensì obbligatoria. Il
Decreto legislativo del 5 febbraio
1997, n. 22, più noto come «Decreto
Ronchi», ha infatti fissato precisi
obiettivi da raggiungere nell’arco
di 6 anni dall’entrata in vigore: 15%
di rifiuti raccolti in modo differenziato
entro il 1999, 25% entro il
2001, 35% entro il 2003. La media
italiana, invece, è di circa il 13%,
con notevoli differenze fra le diverse
regioni.
LO SMALTIMENTO
Dopo essere stato raccolto, il rifiuto
è destinato ad una qualche forma
di smaltimento: la messa in discarica
(oggi avviene per il 74,4%
della quantità di rifiuti), l’incenerimento
(7,2%), il recupero dei materiali
o riciclaggio (7,4%) il compostaggio
(11%).
L’INCENERITORE
L’inceneritore si sta affermando
come metodo di smaltimento in
quanto dà la sensazione di eliminare
il problema rifiuti in modo rapido
ed efficace: il rifiuto, bruciando,
«sparisce»…
In realtà, è noto che «nulla si crea,
nulla si distrugge» e ciò vale anche
per un inceneritore, che altro non è
che un impianto di combustione ad
alta temperatura, nel quale il combustibile
è rappresentato dal rifiuto
stesso. Nell’impianto entrano appunto
i rifiuti, del combustibile che
sostenga il processo di combustione,
aria (cioè ossigeno per la combustione),
acqua (per le operazioni
di filtraggio dei fumi e di raffreddamento
delle ceneri).
Dopo la combustione, dall’impianto
fuoriesce la stessa quantità di
materiali, ma trasformata in: ceneri,
fumi di combustione (contenenti
anidride carbonica, vapore acqueo
ed altri gas), polveri, acqua inquinata
(che, dopo essere stata depurata,
darà vita ai fanghi).
Da 1 tonnellata di RSU, quindi, si
ottengono circa 6000 Nm3 («normalmetricubi
»: unità di misura dei
gas) di fumi, 6,7 kg di polveri e 300
kg di ceneri e scorie. Da un lato,
quindi, l’incenerimento causa un
problema di inquinamento atmosferico
(fumi e sostanze inquinanti
in essi contenute), dall’altro crea un
problema di smaltimento delle ceneri
e dei fanghi. Le ceneri, i carboni
attivi usati nei filtri dei fumi ed
i fanghi, infatti, contengono cloro,
fluoro, zolfo, metalli tossici, inquinanti
non presenti nei rifiuti in entrata
(diossine, furani, fenoli…): si
tratta in molti casi di sostanze persistenti
che si accumulano nel terreno
e che possono tornare all’uomo
attraverso l’alimentazione. Ecco
perché questi rifiuti in uscita
sono classificati come rifiuti speciali
e necessitano di discariche speciali,
la cui gestione e localizzazione
presenta generalmente maggiori
difficoltà rispetto ad una discarica
per rifiuti urbani.
Gli inceneritori, quindi, anche se
riducono il volume dei rifiuti, pongono
problemi di inquinamento atmosferico
e di salute pubblica e necessitano
comunque di una discarica.
Se fra i vantaggi principali
dell’incenerimento compare la riduzione
del volume iniziale dei rifiuti,
in realtà molti sostengono che
tale risultato può essere raggiunto
anche con un moderno processo di
pressatura.
Spesso gli inceneritori vengono
definiti anche «termovalorizzatori»:
ossia è possibile utilizzare il calore
prodotto dalla combustione dei rifiuti
per produrre energia elettrica.
Tuttavia, perché tale operazione sia
conveniente, è necessario che gli
impianti siano di grosse dimensioni
e siano localizzati in prossimità di utenze
civili ed industriali alle quali
inviare il vapore o l’energia elettrica
prodotti.
LA DISCARICA
La discarica «controllata» (aggettivo
che vuole sottolineare la distinzione
rispetto alla discarica selvaggia,
fuorilegge) è un impianto nel
quale vengono «stoccati» i rifiuti.
Esistono varie tipologie di discarica
in base ai rifiuti ospitati (urbani,
speciali). Secondo il Decreto Ronchi,
in discarica potranno essere
confinati soltanto i rifiuti inerti (non
in grado di reagire con altre sostanze)
e i rifiuti derivanti da operazioni
di riciclo, recupero e smaltimento
(come ad esempio l’incenerimento).
La discarica deve soddisfare alcuni
requisiti generali: deve essere
localizzata in luoghi stabili per tempi
anche molto lunghi; deve possedere
barriere naturali (ad es. spessi
strati argillosi) o artificiali (ad es. fogli
di polietilene di diverse tipologie)
che isolino i rifiuti dall’ambiente
esterno, in particolare dall’aria
e dalle acque sotterranee; deve
essere controllata con differenti sistemi
di monitoraggio. Nonostante
la discarica sia spesso associata ad
una «buca» in cui si possa gettare di
tutto senza creare problemi, due sono
i possibili impatti sull’ambiente:
1) sulle acque sotterranee: il contenuto
acquoso dei rifiuti, veicolato
dalle acque piovane, può infiltrarsi
nel sottosuolo e raggiungere eventualmente
la falda sottostante la discarica;
2) sull’aria: i processi di degradazione
naturale della parte organica
del rifiuto provocano la formazione
del biogas, un gas composto essenzialmente
da metano ed anidride
carbonica; esso può dare problemi
di incendi e soprattutto di cattivo odore,
e quindi dovrebbe essere bruciato
oppure recuperato ed utilizzato per produrre piccole quantità
di energia elettrica.
IL RECUPERO DEI MATERIALI
Per recupero o riciclaggio si intende
la valorizzazione e l’utilizzo
delle risorse naturali presenti nel rifiuto,
in modo da poterle reintrodurre
nei cicli di produzione e consumo,
con due vantaggi principali:
1) risparmio di materie prime (recuperando
il vetro si risparmia la
sabbia estratta dalle cave e tutte le
sostanze aggiuntive necessarie alla
produzione del vetro);
2) risparmio di energia (l’energia
impiegata per estrarre la sabbia e le
altre sostanze, per i trasporti, per ottenere
la temperatura a cui fonde la
sabbia…).
Gli esempi più noti sono il recupero
della carta, del vetro, della plastica
e dell’alluminio. Anche il compostaggio
è una forma di recupero:
tramite un’operazione naturale di
biodegradazione, la sostanza organica
(il verde e gli alimenti) si trasforma
in ammendante per l’agricoltura.
Essendo dei veri e propri impianti
industriali, anche gli impianti di
recupero presentano vantaggi e
svantaggi dal punto di vista ambientale
ed economico. Ad esempio,
è noto che, nel recupero della
carta, la fase di disinchiostrazione
abbia un pesante impatto sull’ambiente.
La plastica non può essere
recuperata molte volte perché perde
le proprietà iniziali: una bottiglia
di plastica non può tornare ad essere
una bottiglia ma può diventare
materiale per oggetti vari (ad esempio
panchine, maglioni in pile, materiale
espanso per le automobili…).
Il vetro, invece, può essere fuso infinite
volte senza perdere le sue caratteristiche.
Ecco perché il recupero
del vetro è forse quello che
comporta meno problemi a livello
di mercato: la qualità di una bottiglia
di vetro proveniente da vetro riciclato
(quello che noi mettiamo
nelle campane della raccolta differenziata)
è la stessa di una bottiglia
fabbricata a partire dalle materie
prime (sabbia, carbonati di calcio e
sodio, ossidi di ferro…).
Al contrario, il mercato della carta
non è ancora abbastanza sviluppato,
in quanto la qualità della carta
riciclata non soddisfa le richieste
di tutti gli acquirenti (anche se nella
maggior parte dei casi non è necessario
scrivere una lettera o una
relazione su carta bianchissima…).
Gli impianti di recupero sono molto
complessi e costosi e quindi giustificabili
per quantità elevate di rifiuti.
Essi inoltre necessitano che il
materiale da riciclare (vetro, carta,
plastica…) sia il più possibile privo
di altri elementi estranei. Ad esempio,
se nelle campane del vetro sono
presenti anche piccole quantità
di ceramica (come la tazzina di
caffè), la probabilità che le bottiglie
ottenute dalla fusione del vetro si
rompano è molto elevata.
A questo punto risultano evidenti
alcune considerazioni:
– qualsiasi tipologia di smaltimento
(inceneritore, discarica, recupero)
presenta vantaggi e svantaggi;
– la raccolta differenziata non è una
forma di smaltimento alternativa alla
discarica o all’inceneritore, come
molti pensano; essa rappresenta invece
il passaggio dalla produzione
dei rifiuti al recupero (della carta,
del vetro, della plastica, ecc….) e,
quindi, costituisce una prima fase di
separazione dei materiali, alla quale
seguiranno trattamenti più accurati;
– affinché il recupero possa essere
efficiente, la r.d. deve essere fatta
nel migliore dei modi, sia da parte
del cittadino, sia dell’amministrazione
comunale.
LOCALISMO E
SOSTENIBILITÀ

Finora l’analisi del problema rifiuti
è stata affrontata da un punto
di vista locale, ossia limitatamente
al territorio in cui un certo impianto
(discarica, inceneritore…) è costruito.
Se, in questo contesto, ci ponessimo
la domanda «perché la questione
rifiuti è grave?», sicuramente la
risposta sarebbe «perché non sappiamo
più dove metterli!». Questo
effettivamente corrisponde al vero,
e di conseguenza l’intero dibattito
verte su quale sia la migliore tipologia
di smaltimento.
Se però si cambia il punto di vista,
possono emergere alcune considerazioni
inaspettate e sorprendenti.
Tale nuovo punto di vista è quello
dello sviluppo sostenibile (MC, giugno
2002). La sostenibilità ambientale,
infatti, analizza i problemi nel
lungo periodo (e quindi non nel
breve) e in uno spazio più ampio rispetto
al locale: essa si chiede le
conseguenze di una certa azione
antropica sia a livello planetario sia
a distanza di tempo.
In quest’ottica il problema rifiuti
rivela le due facce di una stessa medaglia:
da un lato il problema dello
smaltimento, dall’altro il sovrasfruttamento
delle risorse naturali.
Ricordando infatti che il rifiuto è un
prodotto morto e che un prodotto
è un insieme di risorse naturali, è evidente
che la maggior produzione
di rifiuti significa un sempre maggiore
sfruttamento delle risorse del
pianeta. Maggiori rifiuti significa
anche maggiori impronte ecologiche
e, quindi, disequilibri ambientali
e sociali crescenti (MC, giugno
2002).
Ecco che il problema dello smaltimento
diventa secondario. La parola
d’ordine dovrebbe essere «ridurre
i rifiuti», come lo stesso Decreto
Ronchi invita a fare. Della
quota di rifiuti prodotta bisognerebbe
poi fare una raccolta differenziata
(r.d.) accurata, tale da incentivare
il recupero dei materiali e
limitare al massimo la costruzione di
inceneritori e discariche. Tuttavia
questo non avviene, anzi, viene attribuita
un’importanza primaria alla
r.d.: è certamente vero che essa sia
una pratica fondamentale, ma il fatto
che aumenti non significa automaticamente
che diminuisca la produzione
dei rifiuti. Allora, perché
premiare solo i comuni che aumentano
la r.d. e non quelli che diminuiscono
la produzione dei rifiuti?
Anche l’analisi relativa all’inceneritore
cambia aspetto sotto il punto
di vista della sostenibilità. Essendo
una sorta di «macchina» che funziona
«a rifiuto» anziché a benzina,
l’inceneritore necessita di rifiuti, favorendone
paradossalmente l’aumento
anziché la diminuzione.
Altri aspetti interessanti emergono
dallo studio degli impianti di recupero.
Prendiamo come esempio
un impianto di recupero del vetro.
In provincia di Torino non esiste un
impianto di riciclaggio del vetro: i
vetri provenienti dalle campane della
raccolta differenziata sono quindi
trasferiti ad Asti, a Dego (Savona)
o a Milano, con un notevole impatto
ambientale dovuto ai
trasporti. Questi impianti, inoltre,
generalmente esportano il vetro riciclato
(sottoforma di contenitori e
bottiglie dalle numerose forme) anche
sui mercati esteri, in Europa ed
oltreoceano. L’impatto dovuto ai
trasporti (estrazione di petrolio ed
emissioni di gas che alterano il clima)
non rischia così di annullare
quel risparmio di materie prime ed
energia che il recupero consentirebbe
di offrire?
Ci si può chiedere allora se grossi
impianti localizzati potrebbero essere
sostituiti da piccoli impianti
diffusi sul territorio, in grado sia di
rivitalizzare l’economia e l’occupazione
locali, sia di minimizzare i trasporti.
Purtroppo, però, questi impianti
sono molto costosi e gli investimenti
iniziali sono facilmente
ammortizzabili solo se l’impianto è
di grandi dimensioni.
Non è possibile allora ripensare il
funzionamento del sistema? Ad esempio,
si potrebbe potenziare la
pratica del vetro a rendere, affiancandola
al recupero? Bisogna inoltre
ricordare che, generalmente, un
impianto di recupero vetri utilizza
due terzi di vetro proveniente dalle
campane della r.d. ed un terzo di
materie prime. Ogni bottiglia prodotta,
quindi, è costituita per un terzo
da sabbia vergine! Se la richiesta
di contenitori in vetro aumenta
sempre di più, come sta succedendo,
aumenterà comunque la frazione
di materie prime estratte, anche
se il vetro viene recuperato. Risulta
di primaria importanza, quindi, la
riduzione della richiesta di contenitori.
E qui si apre un altro capitolo
interessante: gli imballaggi.
L’aumento smisurato degli imballaggi
rappresenta l’emblema dello
spreco di materie prime. Ha senso
utilizzare un materiale prezioso come
l’alluminio per contenere semplici
bevande? Non è un paradosso
che il contenitore sia più prezioso
del contenuto? Perché consumare
la plastica (derivante da una risorsa
scarsa ed inquinante come il petrolio)
non solo per le sue caratteristiche
chimico-fisiche, ma soprattutto
per fabbricare sacchetti ed imballaggi
vari, destinati ad una vita brevissima?
(Fine 4.a puntata – continua)

Consigli per RIDURRE i rifiuti:
scegliere i prodotti con minor zaino
ecologico;
scegliere i prodotti con meno imballaggio
possibile;
preferire prodotti duraturi, riparabili,
smontabili;
preferire materiali riciclabili;
provare a riutilizzare i prodotti per
scopi differenti dall’originario;
evitare i prodotti usa e getta;
diminuire l’uso di prodotti chimici
pericolosi;
evitare i cibi confezionati con involucri
inutili;
non fare incartare dai commessi prodotti
che hanno già una propria confezione;
preferire i liquidi (alimentari e non)
alla spina o in contenitori a rendere;
evitare i contenitori di plastica mono
uso;
preferire i contenitori di vetro a quelli
in plastica o alluminio;
evitare gli imballaggi in tetrapak,
costituiti da cartone ed alluminio (ad
esempio per il latte, i succhi di frutta…);
evitare i prodotti con «omaggi» che si
rivelano spesso come oggetti inutili,
destinati a diventare subito rifiuti;
preferire borse di juta e cotone alle
borse di plastica;
preferire le pile ricaricabili;
utilizzare i fogli con una facciata bianca
per la brutta copia;
fotocopiare fronte e retro;
non prendere volantini o fogli pubblicitari
se non interessano;
usa il più possibile la carta riciclata.

Silvia Battaglia




IL MISSIONARIO FA POLITICA. MA COME ?


È finita l’era della «cristianità». La chiesa si trova povera,
senza appoggi politici, né può contare su partiti cattolici
che le garantiscano i diritti.
Pertanto: su quali forze può contare oggi l’evangelizzazione,
mentre i missionari invecchiano e le vocazioni scarseggiano?
Quale spazio ha la chiesa in una società
plurireligiosa e multiculturale?</b< Ivescovi italiani stanno affrontando il problema di «comunicare il vangelo in un mondo che cambia» (1). La chiesa si interroga su come fare ripartire la missione nel «crocevia contemporaneo».
In primo luogo, occorre «metterci
in ascolto della cultura del nostro
mondo», per disceere i «semi del
verbo» già presenti in essa, anche al
di là dei confini visibili della chiesa.
Ascoltare le attese più intime dei nostri
contemporanei, cogliee desideri
e ricerche, capire che cosa fa ardere
i cuori e cosa, invece, suscita
paura… è importante per divenire
servi della speranza. Non possiamo
affatto escludere, inoltre, che i non
credenti abbiano qualcosa da insegnarci
circa la comprensione della
vita e che, per vie inattese, il Signore
possa farci sentire la sua voce attraverso
di loro (2).
In secondo luogo, occorre prestare
attenzione alla novità del vangelo
e rimanervi fedeli. Infatti vi è una
novità irriducibile del messaggio
cristiano: pur additando un cammino
di piena umanizzazione, esso non
si limita a proporre solo un umanesimo.
Gesù Cristo è venuto a renderci
partecipi della vita nell’«umanità
di Dio». Il Signore ci ha fatti annunciatori
della sua vita rivelata agli
uomini e non possiamo misurare
con criteri mondani l’annuncio che
siamo chiamati a compiere (3).
Siamo immersi in tre grandi processi
di cambiamento: SECOLARIZZAZIONE,
CRISI DI VALORI e GLOBALIZZAZIONE.
Li esamineremo evidenziando
le sfide e opportunità
offerte alla evangelizzazione. Inoltre
vedremo come fare ripartire la missione.

1/ SECOLARIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La secolarizzazione è un profondo
mutamento di mentalità, cultura
e costume. Nasce con il mondo moderno
come reazione alla identificazione
che la cristianità medievale aveva
fatto tra sacro e profano, tra fede
e cultura, fra trono e altare.
Nasce come rivendicazione dell’autonomia
della ragione verso la religione;
si spinge fino al secolarismo,
cioè fino al tentativo di escludere
Dio.
Quando la secolarizzazione degenera
in secolarismo, l’uomo si ritiene
autosufficiente, crede che la salvezza
possa venire da una ideologia.
Il secolarismo esclude Dio dalla vita
sociale; considera la religione un
fatto privato. Insomma: con il secolarismo,
l’uomo «dimentica Dio, lo
ritiene senza significato per la propria
esistenza, lo rifiuta ponendosi in
adorazione dei più diversi idoli» (4).
Quando, invece, la secolarizzazione
viene intesa come legittima autonomia
delle realtà temporali e della
laicità, il fenomeno è positivo. Inoltre
offre nuove opportunità alla
evangelizzazione, perché purifica i
contenuti della fede, accresce la responsabilità
dei credenti, ne stimola
la creatività e apre al dialogo con
tutti gli uomini di buona volontà.
In ogni caso la società secolarizzata
ha assimilato molti valori della
cultura cristiana (dignità della persona,
solidarietà, qualità della vita),
ma li presenta come «valori laici».
Lo stesso cristianesimo è visto come
«religione civile». Si ripete lo
slogan «non possiamo non dirci cristiani
», anche se si tratta di atei o miscredenti.
Aver ridotto il cristianesimo a religione
civile genera gravi contraddizioni
anche in nazioni di antica evangelizzazione.
Per esempio: da un
lato si riconosce che la religione è un
fattore di educazione civica e, dall’altro,
si tolgono i simboli religiosi
dalle scuole e dagli edifici pubblici,
non si fanno udire i canti natalizi ai
bambini dell’asilo in nome della laicità
e della tolleranza verso chi non
è religioso. Da un lato gli stati seguono
con fiducia le iniziative religiose
per la pace (come l’incontro di
Assisi del 25 gennaio 2002) e, dall’altro,
si cancella ogni riferimento
religioso dal proemio della Carta dei
diritti europei, né si invitano le comunità
religiose a partecipare con le
altre realtà sociali alla preparazione
della Costituzione europea.
Da qui viene un pericolo per la
missione: limitare l’annuncio cristiano
alla proposta di «valori civili
», in nome di un malinteso rispetto
della laicità e della tolleranza…
Nessuno nega che la promozione umana
sia parte integrante della evangelizzazione,
ma essa non si può
ridurre ad un mero impegno di civilizzazione.
b) Fare ripartire la missione
La missione che Cristo ha affidato
alla chiesa non è di ordine politico,
economico e sociale: il fine è religioso.
La chiesa in nessun modo si
confonde con la comunità politica e
non è legata ad alcun sistema politico(
5). Stato e chiesa, avendo una natura
diversa, devono essere liberi di
perseguire ciascuno il proprio fine e
di usare gli strumenti propri di cui
dispongono.
Tuttavia, pur essendo autonomi,
chiesa e stato devono collaborare al
bene comune, senza però invadere
il campo altrui.
Il vangelo non solo ci svela il mistero
di Dio, ma svela anche l’uomo
all’uomo. Perciò l’annunzio del vangelo
è destinato a influenzare i comportamenti
personali e sociali, privati
e pubblici, di chi liberamente lo
accoglie. E il missionario quando evangelizza
non parla solo di Dio, ma
fa un discorso sull’uomo.
Che cos’è la «politica» se non un
discorso sull’uomo, sui suoi valori?
Pertanto il missionario non può non
«fare politica» in senso culturale ed
etico. Egli si deve mantenere equidistante
dalle fazioni in lotta per il
potere e non si schiera per l’uno o
l’altro partito; però la sua equidistanza
non significa neutralità. Non
tutte le politiche né tutti i programmi
si equivalgono; le coscienze vanno
formate al discernimento.
Il vescovo Oscar Romero, in El
Salvador, era equidistante dai partiti,
ma non era neutrale nei confronti
dell’oppressione degli squadroni
della morte. A tal punto, che – come
spiega Giovanni Paolo II – «si possono
dare casi eccezionali di persone,
gruppi e situazioni in cui può apparire
opportuno (o addirittura necessario)
svolgere una funzione di
aiuto e supplenza in rapporto alle istituzioni
carenti e disorientate, per
sostenere la causa della giustizia e
della pace» (6).
La chiesa ha svolto «supplenza
politica» in Italia, dopo la seconda
guerra mondiale, quando il paese si
trovò impreparato a fronteggiare il
pericolo comunista e doveva ristabilire
la democrazia dopo il fascismo.
La stessa funzione ha svolto la
chiesa in America Latina, dove è stata
l’unica forza morale, l’unica voce
autorevole, in grado di difendere i
poveri e gli oppressi e affermare le
ragioni della giustizia e della pace.
Ebbene anche l’impegno civile
rientra nella missione evangelizzatrice,
ma rimane sempre vero che il
primato spetta alla testimonianza
della Parola e della vita. Giovanni
Paolo II insiste sulla priorità della testimonianza
nel mondo secolarizzato:
«[Gli uomini] vogliamo vedere
Gesù (Gv 12, 21) – ricorda il papa…
Come i pellegrini di 2.000 anni fa,
gli uomini del nostro tempo, magari
non sempre consapevolmente,
chiedono ai credenti di oggi non solo
di “parlare” di Cristo, ma in certo
senso di farlo loro “vedere”» (7).

2/ CRISI DEI VALORI
a) Sfide e opportunità
In che cosa consiste la crisi di valori?
In questo: oggi la tradizionale
omogeneità culturale di tante nazioni
(durata secoli) ha lasciato il posto
a una pluralità di visioni della vita
e della storia, spesso in contrasto
con il vangelo. Questo è insieme
causa ed effetto della crisi delle «evidenze
etiche», cioè dei valori morali
su cui si modellava fino a ieri la
convivenza civile.
«È avvenuta – rilevano i vescovi italiani
-, un’eclissi del senso morale.
È diventato difficile parlare di bene
e male senza suscitare una forte incomprensione.
Gli uomini e le donne
del nostro tempo hanno indubbiamente
dei valori di riferimento,
ma spesso trovano difficile o poco
interessante dar ragione di ciò che
guida le loro scelte di vita, rischiando
così di esporsi all’arbitrarietà delle
emozioni o (fatto molto più insidioso)
ai miti occulti che permeano
la nostra società su diversi temi morali
non periferici» (8).
Questo processo può condurre a
un relativismo etico dagli effetti devastanti;
ma allo stesso tempo offre
nuove opportunità alla missione. Infatti,
mentre capitoli fondamentali
dell’etica tradizionale minacciano di
scomparire, altri capitoli, ieri disattesi,
vengono riscoperti: si pensi, per
esempio, all’impegno per la giustizia,
alla nuova coscienza della solidarietà
e della pace, alla salvaguardia
dell’ambiente.
I vescovi italiani, mentre denunciano
i gravi pericoli dell’eclissi del
senso morale, sottolineano anche le
nuove opportunità per l’evangelizzazione;
citano il fatto che gli occhi
dei nostri contemporanei continuano
a schiudersi sull’altro, specie se
sofferente e bisognoso. E questo è
un motivo di speranza. Anche lo
sviluppo della scienza e della tecnica
presenta aspetti da valorizzare.
L’uomo che si spinge avanti nelle vie
del sapere si trova di fronte a domande
non tecniche, e tuttavia ineludibili,
che riguardano il senso dell’esistenza
(9).
b) Fare ripartire la missione
Per fare ripartire la missione nel
contesto della delicata crisi di valori,
bisogna innanzitutto comprenderne
le ragioni, se vogliamo «comunicare
» il vangelo in modo efficace
agli uomini e alle donne del
nostro tempo. Si tratta di restituire
alla cultura del mondo post-moderno
l’anima etica perduta.
Lo si può fare partendo dagli elementi
di verità che si trovano anche
fuori della chiesa cattolica, presso le
religioni non cristiane, che «non raramente
riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini
» (10), e perfino presso quei non
credenti «che hanno il culto di alti
valori umani, benché non ne riconoscano
ancora la sorgente» (11).
In altre parole, lo strumento privilegiato
della nuova evangelizzazione
è il dialogo interculturale.
Questo non va affidato soltanto a
un corpo specializzato di missionari.
Oggi, chiusa la stagione delle rigide
contrapposizioni, la cultura cristiana
e le altre culture sono chiamate
ad incontrarsi, muovendo dai
valori condivisi e dagli elementi comuni
di verità, per proseguire insieme
verso la verità tutta intera. Non
esistono culture superiori e inferiori,
così come non lo sono le razze. Le
varie culture sono complementari
tra loro, essendo tutte elaborazioni
sull’uomo, su Dio e il suo mistero.
Ancora una volta la storia dimostra
che il binomio Dio-uomo è inscindibile.
Tutte le volte che l’uomo
perde il senso di Dio perde se stesso.
E ogni qual volta l’uomo ritrova
se stesso e la sua dignità, ritrova ineluttabilmente
Dio. Il tentativo della
modeità di sostituire il sentimento
religioso con le ideologie non poteva
non fallire. «Senza dubbio – diceva
Paolo VI – l’uomo può organizzare
la terra senza Dio; ma, senza
Dio, egli non può che organizzarla
contro l’uomo» (12).
Una clamorosa conferma di questa
verità è venuta dalla crisi del comunismo,
che è stato il tentativo più
spinto di costruire una società senza
Dio… Del resto, l’esperienza dimostra
che la perdita di senso dell’esistenza
è legata, pure nell’occidente
libero, a una forma di ateismo
pratico, che si esprime nel materialismo
della vita, nell’egoismo, nel
consumismo sfrenato.
Se l’uomo ritrova il vero umanesimo,
ritrova pure Dio. È compito
della missione reagire alla cultura disumanizzante
e ripartire da valori
religiosi per fondare la coscienza etica
che, a sua volta, costituisce il
cuore della cultura di un popolo,
fondamento su cui poggia ogni progetto
di società. Oggi è possibile.
Ha affermato all’Onu Giovanni
Paolo II: «Se vogliamo che un secolo
di costrizione lasci spazio a uno
di persuasione dobbiamo trovare la
via per discutere, con un linguaggio
comprensibile e comune, circa il futuro
dell’uomo. La legge morale universale,
scritta nel cuore dell’uomo,
è quella sorta di “grammatica”
che serve al mondo per affrontare
questa discussione circa il suo stesso
futuro» (13).
Ciò che ci unisce tra diversi è molto
di più di quello che ci divide.

3/ GLOBALIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La globalizzazione è un fenomeno
esploso dopo il fallimento del socialismo.
Sono apparsi con gravità
gli squilibri esistenti tra i popoli ricchi
e quelli poveri del mondo: squilibri
aggravati dalla rivoluzione tecnologica.
Oggi tocchiamo con mano che si
impone un nuovo ordine mondiale
dell’economia, un nuovo modello di
sviluppo planetario. Tutti i problemi
sono planetari. Nessuna nazione
può affrontarli da sola, ma si esige la
cooperazione internazionale. O costruiamo
tutti insieme un mondo
migliore o periamo tutti insieme.
La globalizzazione presenta gravi
rischi. Bisogna dire che la logica di
mercato (la ricerca del maggior profitto),
priva di orientamento etico,
non sarà mai il motore dello sviluppo
umano: infatti genera mancanza
di solidarietà, egoismo, frammentazione
sociale, allarga la forbice tra
ricchi e poveri, crea nuovi colonialismi,
altera l’equilibrio ecologico. I
drammatici effetti sono sotto i nostri
occhi.
«All’alba del XXI secolo – scrive
J. Bindé, direttore dell’Ufficio analisi
e previsioni dell’Unesco – oltre 1
miliardo e 300 milioni di persone vivono
in povertà assoluta, e il loro
numero aumenta: ha già raggiunto i
2 miliardi. Oggi più di 800 milioni
di individui soffrono fame e malnutrizione;
oltre 1 miliardo non hanno
accesso a servizi sanitari, istruzione
di base e acqua potabile; 2 miliardi
non sono collegati a una rete elettrica
e più di 4 miliardi e mezzo
non dispongono dei
mezzi di comunicazione
di base, e quindi di strumenti per
accedere alle nuove tecnologie, che
sono la chiave dell’istruzione a distanza.
Oggi si vanta il boom di Inteet,
ma per molto tempo ancora
vivremo in un mondo dove l’informazione
avrà le sue autostrade e i
suoi deserti…
Il futuro è illeggibile al nord, dove
i popoli ricchi fanno sempre meno
figli; è già ipotecato al sud, perché
i bambini e le donne sono le prime
vittime della miseria. Due terzi
della popolazione mondiale, in povertà
assoluta, sono al di sotto di 15
anni, e più dei 2 terzi dei poveri sono
donne» (14).
D’altro canto, la globalizzazione
offre prospettive positive: serve ad
una maggiore intesa tra i popoli, alla
pace, lo sviluppo, la promozione
dei diritti umani. In particolare, la
globalizzazione, nata dalla comunicazione
sociale,
è divenuta una «cultura», un nuovo
modo di capire il mondo, la vita e
l’uomo.
La globalizzazione, se non si può
fermare, si può e si deve orientare.
Non possiamo accettare «la logica
del più forte, l’idea che la presenza
dei poveri, sfruttati, sia frutto dell’inesorabile
fluire della storia. Su questo
il cristianesimo non può scendere
a compromessi (15).
La dottrina sociale della chiesa esorta
a ricercare la soluzione dei gravi
squilibri all’interno di uno sviluppo
sostenibile a livello planetario,
che realizzi la sintesi tra efficienza economica,
libertà politica e coesione
sociale, senza ripetere gli errori
del socialismo reale e del capitalismo
selvaggio.
In una parola: è necessario che la
interdipendenza economica, politica
e sociale si traduca in globalizzazione
della solidarietà. La cooperazione
internazionale – disse Giovanni
Paolo II all’Onu nel 1995 – non
può essere pensata esclusivamente
in termini di aiuto e di assistenza, o
addirittura mirando ai vantaggi di ritorno
per le risorse messe a disposizione.
Quando milioni di persone
soffrono la povertà, dobbiamo non
solo ricordare a noi stessi che nessuno
ha il diritto di sfruttare l’altro,
ma anche e soprattutto riaffermare
l’impegno a quella solidarietà che
consente ad altri di vivere».
Come ha confermato la contestazione
dei no global al G8 di Genova
(20-22 luglio 2001), la coscienza del
nostro tempo non tollera più una umanità
spaccata tra 5 miliardi di poveri
e 1 miliardo di ricchi. I beni della
terra sono di tutti, e un mondo diverso
è possibile.
b) Fare ripartire la missione
In un mondo globalizzato occorre
prendere atto che la missione ad
gentes non ha più confini… neppure
in Italia.
«La nostra società – dicono i vescovi
– si configura sempre di più come
multietnica e multireligiosa. Occorre
evangelizzare le persone condotte
tra noi dalle migrazioni…
Seppure con molto rispetto e attenzione
per le loro tradizioni e culture,
dobbiamo essere capaci di testimoniare
il vangelo anche a loro e,
se piace al Signore ed essi lo desiderano,
annunciare la parola di Dio, in
modo che li raggiunga la benedizione
di Dio promessa ad Abramo per
tutte le genti (Gen 12, 3)» (16).
In un mondo globalizzato, la via
per fare ripartire la missione è il dialogo
interreligioso, accanto a quello
interculturale: contribuisce a risolvere
le sfide delle migrazioni, del terrorismo
internazionale, della costruzione
della pace nella giustizia e nell’amore.
Il fenomeno migratorio è ormai
planetario. Nel mondo sono 150 milioni
le persone che si spostano verso
le aree più ricche, che sono anche
le più popolate: ciò aggrava l’odissea
degli immigrati, che per lo più
vengono ritenuti invasori. Il problema
non si risolve chiudendo loro le
frontiere, discriminandoli in base a
razza, religione o impronte digitali.
Occorre orientare i flussi migratori
in modo legale e strutturale.
Anche il terrorismo si è globalizzato.
Forse non l’avevamo capito…
Solo dopo l’«11 settembre» ci siamo
accorti che il conflitto israelo-palestinese
e altre esplosioni di violenza
non erano episodi sporadici di «terrorismo
locale», ma focolai di un
terrorismo senza confini e senza volto.
Per estirparlo non serve la guerra
(meno che meno una guerra di civiltà!),
perché l’abbattimento delle
«torri gemelle» non è stato una dichiarazione
di guerra, ma un crimine
contro l’umanità.
Il terrorismo globalizzato appartiene
a un nuovo capitolo del diritto
internazionale: il diritto umanitario.
I crimini contro l’umanità sono
imprescrittibili, e sono perseguibili
ovunque; non possono essere considerati
affari interni di una nazione.
Quindi il terrorismo internazionale
non si combatte con rappresaglie e
ritorsioni (contro chi?), ma (per esempio)
congelando le fonti finanziarie
che alimentano la violenza,
potenziando e cornordinando i servizi
di intelligence, soprattutto spegnendo
i focolai esistenti: a cominciare
dal Medio Oriente, dove bisogna
presto giungere a riconoscere lo
stato palestinese. E rinnovando l’Onu.
Ma, se la giustizia può richiedere
che si ricorra all’intervento armato
come extrema ratio (per stanare i terroristi
e portarli dinanzi ai giudici),
dobbiamo dire però che la giustizia
da sola non basta. Oltre alla giustizia
(il primo scalino dell’amore), c’è
bisogno di riconciliazione e perdono
(il vertice dell’amore).
La ragione è – spiega Giovanni
Paolo II – che la giustizia si limita a
garantire l’equità nell’ambito dei beni
e diritti oggettivi, mentre «l’amore
e la misericordia fanno sì che gli
uomini si incontrino tra loro in quel
valore che è l’uomo stesso, con la dignità
che gli è propria» (17).
Riuscirà la missione a evitare
che la secolarizzazione degeneri
in secolarismo… e tutti gli
altri pericoli?
Dalla lettura dei «segni dei tempi
» deduciamo che la chiesa oggi si
trova in stato di purificazione… La
storia dimostra che ogni qual volta
la chiesa, condizionata da uomini ed
eventi, rischia di trasformarsi da lievito
in pasta, lo Spirito interviene: le
toglie gli appoggi umani e la riporta
alla purezza del vangelo. E ritorna a
essere «lievito». La forza del lievito
non sta nella quantità…
L’efficacia della nostra missione
non sta nei soldi, nel favore dei potenti,
nei privilegi, nei concordati.
La forza sono i poveri e la povertà
della chiesa; la croce, la
parola di Dio, la santità
dei suoi figli.
v
(1) Cfr. Conferenza episcopale italiana
(Cei), Comunicare il vangelo in un mondo
che cambia, 2001
(2) Ivi, n. 35
(3) Ibidem
(4) Cfr. Christifideles laici (1988), n. 4
(5) Cfr. Gaudium et spes (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), nn. 42, 76
(6) L’Osservatore Romano, 29 luglio 1993
(7) Novo millennio ineunte (2001), n. 16
(8) Cei, op. cit., n. 41
(9) Cfr. Ivi, n. 37
(10) Nostra aetate (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), n. 2
(11) Gaudium et spes, n. 92
(12) Populorum progressio (1968), n. 42
(13) L’Osservatore Romano, 6 ottobre
1995
(14) la Repubblica, 23 agosto 1998
(15) Cfr. Cei, op. cit., n. 43
(16) Cfr. Ivi, n. 58
(17) Dives in misericordia (1978), n. 14

(*) Padre Bartolomeo Sorge,
gesuita, già direttore de La Civiltà
Cattolica, è anche saggista socioreligioso
e conferenziere. È direttore
della rivista missionaria Popoli.

Bartolomeo Sorge




Viaggio in Togo: paese del vodoun

Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.

Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene

I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.

NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».

IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.

IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.

SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.

FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.

TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».

Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.

Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.

Una chiesa nel cuore della società
PIÙ VOLTE RINATA
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.

Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
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LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.

TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.

PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.

SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.

CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.

SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».

PRIMI MARTIRI

Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».

Vodoun: religione tradizionale del Togo
NEL MONDO DEI GRI-GRI
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.

Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.

RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.

I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…

Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.

MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA

Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.

A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v

Benedetto Bellesi




EDUCAZIONE È…

Fin dall’indipendenza
il Tanzania ha scommesso
sulla scuola, per vincere
il principale nemico
del paese: l’ignoranza.
Tale impegno continua
ed è scritto anche su cippi
e tabelloni
delle singole scuole.

Per le strade del Tanzania s’incontrano
innumerevoli cippi,
che annunciano la presenza di
scuole elementari: foiscono indirizzo
e distanza. In quasi tutti si possono
leggere anche interessanti motti
distintivi, che esprimono una filosofia
dell’educazione e orientamento
della vita. Ne ho raccolti una piccola
antologia. Eccone alcuni.

ELIMU NI UKOMBOZI
Educazione è liberazione
Il mwalimu Nyerere asseriva che
sono tre i nemici da debellare in Tanzania:
ignoranza, malattie, povertà.
La prima è l’ignoranza.
Oggi l’educazione, anche universitaria,
non è garanzia di successo e
di lavoro. È così nei paesi sviluppati;
lo è maggiormente in quelli in via di
sviluppo: le opportunità d’impiego
sono limitate rispetto al numero di
giovani. Tuttavia è innegabile che l’educazione,
anche solo elementare, è
dignità: è importante quanto il cibo.
Scriveva Paolo VI nella Populorum
progressio, di cui ricorre quest’anno
il 35° anniversario, ma sempre attuale,
come ogni profezia, che «la fame
di educazione non è meno umiliante
della fame di cibo: una persona illetterata
è una persona con una mente
denutrita». Aggiungeva: «Essere capaci
di leggere e scrivere, acquistare
una formazione professionale, significa
recuperare confidenza in se stesso
e scoprire che uno può progredire
assieme agli altri» (Pp 35).
Davvero, l’educazione è liberazione,
o salvezza. Salva da sospetti e timori,
da imbrogli e schiavitù della dipendenza,
assicura l’ottenuta libertà.
Nell’ottobre del 1968 Nyerere diceva:
«Fino a quando il nostro paese
rimane illetterato, la nostra libertà
è in pericolo. Deve essere forte la coscienza
che siamo persone libere,
con valori da difendere». L’educazione,
aggiunge il mwalimu, permette
lo sviluppo di se stessi; dà forza
per non capitolare di fronte ai più
forti; favorisce discussione intelligente
e partecipazione attiva: ciò vale
per la persona e per la nazione.

ELIMU
NI UFUNGUO WA MAISHA

Educazione è chiave della vita
Con riferimento biblico, un’antifona
di avvento canta che il Messia
promesso ha in mano la chiave per aprire
e chiudere. La chiave ha quindi
una prospettiva di futuro. Le chiavi
sono simbolo di liberazione o di
chiusura. Lo sanno i carcerati!
Come chiave, l’educazione schiude
le potenzialità; apre persone e popoli
verso il futuro. Afferma ancora
Paolo VI nell’enciclica citata che «l’educazione
è un fattore fondamentale
per l’integrazione sociale, come
anche di arricchimento personale; e
per la società è uno strumento privilegiato
di progresso economico e sociale
» (Pp 35). Senza educazione
non si hanno aperture mentali, né orizzonti,
né sogni; tanto meno nozioni
che indichino alternative e possibilità;
ci sono invece rachitismo e
perdurare di convinzioni, atteggiamenti
e pratiche spesso in contrasto
con l’evidenza della scienza.
Lo si nota chiaramente in alcune
tradizioni e situazioni. Lo si verifica,
in modo particolare, nelle culture a
carattere pastorale, dove la tradizione
è più accattivante del nuovo. Una
persona chiusa, come pure una nazione
e cultura, è votata alla povertà
perenne, non solo economica. Davvero,
l’educazione è la chiave per lo
sviluppo integrale.

ELIMU NI DIRA
L’educazione è una bussola
La bussola indica il nord, facilitando
di navigare con certezza verso
il luogo di destinazione. Oggi la bussola
è sostituita dal radar e sofisticati
strumenti computerizzati, che con
maggior certezza indicano tutto.
L’educazione equivale a questi
strumenti: offre direzione, traccia
cammini, indica la meta. Ciò vale anche
a livello di nazione o popolo.
Da decenni il Tanzania si lascia dirigere
dalla bussola dell’educazione.
Ma è finanziariamente gravoso sostenere
un sistema scolastico efficiente.
Spesso le strutture delle scuole tanzaniane
sono fatiscenti e insufficienti.
Mancano libri, sussidi e banchi. Scarseggiano
pure i maestri, poiché la loro
è una professione poco remunerata,
che spesso obbliga a stare lontano
dalla famiglia e in posti isolati.
Il futuro si prospetta deteriore: si
scrive apertamente che la classe dei
maestri è la più colpita dal flagello
Aids: le nuove leve non sono sufficienti
a sostituire le vecchie. Ma è sorprendente
lo sforzo degli ultimi decenni,
di dotare tutti i villaggi di scuole
elementari: sono povere, ma sono
germi di dignità, libertà e sviluppo.
L’anno scorso, cancellato metà del
suo debito estero, il Tanzania ha subito
abolito la tassa scolastica e altre
forme di contributo e investito nella
costruzione di nuove aule, per rendere
veramente accessibile a tutti l’educazione
elementare.
Il miglioramento di tutte le strutture
e infrastrutture è ancora lungo.
Ma quanto è bello, il mattino, vedere
centinaia di studenti recarsi a piedi
alla propria scuola e, alla sera, tornare
a casa. Pur nelle precarietà di
vario genere, tra questi ci sono intelligenze
brillanti. Lo confermano i loro
risultati scolastici a dispetto della
carenza di tutto.
«Da Nazaret può mai venire qualcosa
di buono?» commentava scetticamente
Natanaele a Filippo, che gli
annunciava con gioia l’incontro con
Gesù, «colui di cui hanno scritto
Mosè, la legge i profeti». Inutile argomentare.
«Vieni e vedi» gli ritorce
Filippo (cfr. Giovanni 1,45-47).
Vieni e vedi: da certe scuole escono
alunni meravigliosi sotto tutti i
profili.

ELIMU NI BAHARI
L’educazione è un mare
Il mare suggerisce interminabilità
e profondità: organico sviluppo di sé
e della nazione, apprendimento e formazione
non hanno confini. E se non
si accoglie la novità si muore. L’isolamento
preclude crescita e progresso.
Un fattore importante nel cammino
delle nazioni è costituito dalle comunicazioni.
Quale sarà in futuro la
posizione dell’Africa in questo campo?
Per quanto riguarda il Tanzania,
si dice che sia il paese subsahariano
più avanzato in questa dimensione.
Se sia vero, non lo so. È certo, però,
che vi ammette grande importanza.
Affermare e credere che l’educazione
è un mare significa mettersi in
condizioni d’imparare: per crescere.
Altri motti simili suonano che
l’educazione è un tesoro, luce,
sapienza; alcuni ne esaltano
i valori connessi: «Educazione,
disciplina, lavoro; educazione, libertà,
unità; educazione, disciplina,
professione». Siano formati da soggetto
e predicato o enumerino una
serie di valori, ognuno di questi slogan
è un tassello del mosaico che ritrae
la convinzione e l’impegno del
Tanzania e delle singole scuole nel
campo educativo, perché l’istruzione
diventi sempre più alimento
di dignità, libertà e
sviluppo.

Giuseppe Inverardi




Argentina. ll mercato dove il denaro non conta

Non c’è lavoro, non ci sono soldi: che fare per vivere? Si torna ad un’economia di baratto dove le persone si scambiano beni e servizi senza utilizzare denaro. Il primo «club del trueque» dell’Argentina cominciò a funzionare nel maggio del 1995. Oggi ce ne sono migliaia, diffusi in tutto il paese. Per capire come questo sistema funziona, abbiamo visitato il club che si trova a «La Boca», noto quartiere di Buenos Aires. Tra un banchetto di vestiti e uno di torte, ecco ciò che la gente ci ha raccontato.

Buenos Aires. La tipica forma della «bombonera», lo stadio del Boca Juniors (la squadra che lanciò Maradona), si nota anche a distanza. «Attenti a dove andate – ci mette in guardia il taxista -. Oggi c’è la partita tra il Boca e il San Lorenzo!». Le tifoserie delle due squadre non si amano e per questo spesso avvengono incidenti. Ci troviamo a «La Boca», un quartiere popolare (e turistico) cresciuto dove il Riachuelo confluisce nel Rio de la Plata. Siamo qui non per andare allo stadio o al porto, ma ad un «club del trueque» (nodo), vale a dire un mercato con una caratteristica molto particolare: non prevede l’utilizzo del denaro.

Tutti in fila

In via Olavarria la fila arriva fino all’angolo. La gente attende con pazienza di entrare al numero 486, la scuola salesiana che ogni domenica ospita il trueque.

In attesa ci sono soprattutto donne, quasi tutte cariche di borse e pacchetti. Come Ilda, che viene dal vicino quartiere di Barracas ed è accompagnata da uno dei 4 figli e dal marito: «Oggi porto vestiti, ma in altre occasioni cibo. In questo momento di crisi ognuno si arrangia come può per sopravvivere». Ilda, lei parla di sopravvivenza… «Certo. Se una persona è occupata, il trueque è un aiuto importante, ma per chi non ha lavoro (e sono sempre di più) è una vera ancora di salvezza. Qui è possibile procurarsi da mangiare e molte delle cose di cui una famiglia ha bisogno». In realtà, in America Latina il trueque è sempre esistito tra i contadini e le comunità aborigene. Però, a partire dagli anni Novanta, arrivò anche nelle città, afflitte da disoccupazione e mancanza di denaro. La gente, accomunata dalle difficoltà, iniziò ad incontrarsi per scambiarsi prodotti e servizi. In Argentina, il primo club nacque a Beal, nella provincia di Buenos Aires, il 1° maggio 1995 per iniziativa di un gruppo ecologista.

«Tutti i giorni c’è una coda così?» domandiamo ad una signora che ci precede nella fila.

– Sì, la domenica è sempre così. Questo è uno dei nodi principali.

– E quanti nodi ci sono in città?

– Moltissimi, ma non saprei dire quanti esattamente. Ormai sono diffusi in tutto il paese.

– Lei che cosa fa?

– Anch’io porto vestiti. Si porta ciò di cui una persona dispone in quel momento.

– Vuole prendere qualcosa oggi?

– Vorrei portare a casa qualcosa da mangiare: pane, verdura, quello che c’è.

Le persone in fila maneggiano strani assegni, sul tipo di quelli che si usano nel gioco del monopoli. Si chiamano «ticket trueque» e la loro unità di misura sono i «crediti». Viviana ci spiega: «Ho cominciato a vendere perché non avevo un credito. Adesso posso anche comperare. Ma non le cose care!».

«Questo posto ha un responsabile?» chiediamo. «Sì, sì. È quello lì all’entrata».

Le torte dei disoccupati

Quando finalmente raggiungiamo l’entrata, siamo accolti da un signore con capelli nerissimi e baffi. «Horacio Cavalieri, coordinador» si legge sul cartellino appiccicato alla maglia. «Stiamo diventando famosi – ci dice aprendosi in un ampio sorriso -. Oggi c’è anche una troupe televisiva francese a fare delle riprese nel nostro mercato». «Il trueque è una risposta concreta alle esigenze della gente. Siamo il contrario del governo, che non dà risposte al bisogno di lavorare. Noi, invece, siamo generatori di lavoro. Il principio di base è l’aiuto reciproco. Migliaia di argentini oggi stanno vivendo soltanto grazie alla rete dei club di trueque». La signora Maria Cristina Marabelli è un’altra coordinatrice del nodo de La Boca.

«Come funziona un mercato senza denaro? Significa che ognuno si arrangia con quello che sa fare. Tutti noi abbiamo qualcosa di speciale. Tutti noi, in un periodo di crisi, abbiamo interesse ad aiutarci reciprocamente per creare un sistema autosufficiente. C’è chi viene al trueque per offrire i propri prodotti agricoli, chi il cibo cucinato a casa, chi le proprie prestazioni di estetista o parrucchiera, chi le proprie abilità di sarta. Ma non mancano neppure i professionisti più accreditati: medici, dentisti, psicologi». Lasciamo i coordinatori per aggirarci un po’ tra le decine di banchetti, raggruppati all’interno di un grande capannone e nei cortili esterni della scuola salesiana. C’è tantissima gente, che vende di tutto: dai vestiti ai giocattoli, dalle torte alle empanadas.

La nostra curiosità non passa inosservata. Siamo avvicinati da una signora di bassa statura e corporatura piuttosto robusta, che ha voglia di parlare.

– Da dove viene, signora?

– Dalla Sicilia. Mi chiamo Giuseppina Coppola. Arrivai a Buenos Aires nel 1951.

– Allora, signora Giuseppina, provi a spiegarci questo strano mercato…

– Potrà apparire strano, ma è necessario. Questa crisi dell’Argentina ci ha riportato indietro nel tempo: a scambiare le cose. Avete già visto che qui dentro si può trovare di tutto.

– Come si regola nelle compravendite?

– Ogni biglietto vale 0,50 di peso. Uno calcola più o meno quanto può ottenere dando una cosa e poi torna a casa con dei crediti che utilizzerà per avere altre cose. Oggi sono qui per comprare, ma di solito vendo. Vendo un po’ di tutto, ma soprattutto vestiti, perché mia figlia aveva una boutique. Ha dovuto chiudere perché non bastavano i soldi per la luce, l’affitto e tutte le spese. È rimasta molta merce che cerco di vendere, anche se in questo nodo va di più il mangiare. Per questo a volte faccio delle pizze.

– Il coordinatore ha detto che ci sono anche professionisti qui.

– Sì, ce ne sono, ma qui non molti, a parte estetiste e parrucchiere. Io vado in club dove ci sono anche cardiologi, dentisti, oculisti. Ogni giorno della settimana c’è un posto dove si può andare.

– Questo è un sistema per cercare di vivere normalmente?

– È un sistema per sopravvivere alla crisi. Una persona disoccupata non è obbligata a spendere soldi. Si arrangia in questo modo vendendo qualcosa che ha in casa. Prende i crediti e usa quelli per comprare, soprattutto cibo. Quello che compra la gente è soprattutto mangiare.

– Che gente frequenta il trueque?

– C’è gente della classe bassa, ma anche di quella media. Ci sono sempre più persone che non hanno nulla da fare e nulla da mangiare.

– Lei ha famiglia, signora?

– Sì, ho un marito e tre figli.

– Loro cosa dicono?

– Di non fare fatica. Ma a volte non riescono a capire che anch’io ho delle esigenze. Ho un figlio in Canada e qui una ragazza e un ragazzo che sono sposati e lavorano. Ma non mi aiutano perché non possono. La situazione è pessima per tutti. Non per poche famiglie dei ceti bassi. Oggi è così per tutti gli argentini.

NUMERI IMPRESSIONANTI

Il trueque non significa soltanto vestiti, cibo, servizi alla persona. Oggi il fenomeno ha assunto dimensioni tali (4.500 club di trueque, 2,5 milioni di partecipanti, 50 milioni di ticket trueque in circolazione) che con i crediti attribuiti dai ticket si possono comprare terreni, costruire case, affittare appartamenti, andare in vacanza e persino pagare le imposte municipali.

Horacio Cavalieri gonfia il petto per l’orgoglio quando spiega: «Siamo ormai la terza moneta del paese e i crediti vengono accettati anche in altri paesi latinoamericani (ad esempio, in Brasile, Cile, Paraguay) dove funzionano club a noi associati». Ci rivolgiamo al giovane che ci sta accanto e che ascoltava con attenzione la nostra conversazione.

«Crediamo profondamente in un’idea di progresso come conseguenza del benessere sostenibile del maggior numero di persone» (princìpi del trueque).

«A me piace molto – ci spiega – la gente che c’è al trueque, perché si dà da fare e non si chiude in casa ad aspettare che le cose cadano dall’alto. Però sono molto preoccupato per la situazione del paese, perché è ovvio che non si può andare avanti in queste condizioni per tanto tempo». «L’Argentina – continua il giovane – è un paese ricco in tutto. Molto più ricco dell’Italia per esempio. Abbiamo grano e petrolio. Sulla nostra terra basta buttare sementi e le piante crescono rigogliose È un delitto trovarci nella situazione in cui siamo ora». Grazie ai politici?, chiediamo. «Sì, grazie ai politici, ma questo ci ha fatto prendere coscienza di quello che dobbiamo fare. Ora sappiamo chi votare e chi no, guardando non alla bella faccia, ma ai progetti che queste persone hanno in testa». Un tifoso del Boca sta offrendo le maglie della sua squadra. Tutte le domeniche siete qui?, chiediamo. «Sì, noi siamo qui tutte le domeniche, mentre durante la settimana andiamo in altri trueque di Buenos Aires e provincia».

«Assaggi questa empanada…»

Ci avviciniamo a un banco di cibarie, molto attraenti…

– Cosa vende, signora?

– Torte, empanadas e tutti i cibi che la gente mi commissiona.

– Mi stava spiegando che la situazione economica è pessima?

– Diciamo che, dal punto di vista economico, siamo schiacciati. Non c’è lavoro e la mancanza di lavoro permette che accadano certe cose, no? Se una persona ha famiglia, in qualche modo deve sopravvivere. E una forma di sopravvivenza è quella del trueque: fare alcune cose che si sanno fare e scambiarle con altre di cui si ha bisogno. È anche un modo per tenersi occupati, per non chiudersi in casa a dormire.

– Lei lavora qui alla domenica. Negli altri giorni cosa fa?

– Siccome non c’è denaro, devo fare altre attività. Vado in altri club a fare quello che faccio qui.

– Lei crede in questo sistema?

«Crediamo che le nostre azioni, prodotti e servizi possano rispondere a norme etiche ed ecologiche, prima che ai dettati del mercato, del consumismo e del profitto immediato» (princìpi del trueque).

– Sì, ovviamente. Questa è una buona soluzione, ma non può essere definitiva. Speriamo soprattutto che ci sia una ripresa del mercato del lavoro, perché ognuno possa guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte.

«Ho paura, perché se continuiamo su questa strada non c’è futuro. Cosa diranno gli argentini ai loro bambini? Io ho tre figli e tre nipoti. Ho sempre lavorato, anche quando studiavo giornalismo. Ora mi trovo qui a un banchetto a vendere torte. Ma non mi arrendo e non mi vergogno, nonostante i miei studi. Devo fare questo per sopravvivere. Però ora basta parlare dei nostri disastri. Noi argentini siamo già abbastanza depressi. Assaggi questa empanada piuttosto…».

(Fine 4.a puntata – le precedenti sono state pubblicate in maggio, giugno e luglio)

  • Trueque: oggi possiamo considerarlo come una forma evoluta di baratto, ma la sua origine è antica; il termine «trueque» deriva dal verbo «trocar» che significa «scambiare, permutare, barattare»
  • Prosumidores: sono le persone che scambiano beni e servizi all’interno del sistema del trueque
  • Créditos: rappresentano l’unità di misura dei «ticket trueque», cioè dei buoni simil-monetari emessi dal trueque; i ticket funzionano come strumento compensatore e sono anche chiamati «moneta sociale»
  • Coordinador: è un membro del club che apre la sede e ne facilita il funzionamento
  • Clubes de trueque: sono i luoghi fisici (detti «nodi») della rete del trueque, dove le persone («prosumidores ») si scambiano beni e servizi
  • principios del club de trueque: sono i fondamenti etici su cui deve basarsi ogni club

www.revistargt.org: è il sito ufficiale della rete globale del trueque

IN ATTESA DI MARZO 2003 (e di Carlos Menem?)

12-21 GIUGNO: L’FMI SI DICE DELUSO Una delegazione del «Fondo monetario internazionale » (Fmi) fa visita al governo argentino, per cercare un accordo sugli aiuti finanziari, congelati dal dicembre 2001. La discussione non approda a risultati positivi. Il direttore generale dell’Fmi, Horst Köhler, si dichiara deluso dall’Argentina.

26 GIUGNO: SCONTRI E MORTI Una protesta dei piqueteros si trasforma in tragedia. La polizia attacca i dimostranti sul ponte di Pueyrredón, nei pressi del quartiere di Avellaneda, nella periferia sud di Buenos Aires. Due piqueteros (Dario Santillán e Maximiliano Costeki) rimangono uccisi, altri 90 feriti, 173 vengono arrestati.

2 LUGLIO: INDETTE ELEZIONI ANTICIPATE Con un breve discorso pronunciato alla radio e in televisione il presidente Eduardo Duhalde annuncia le elezioni generali per il marzo 2003, sei mesi prima della naturale scadenza della legislatura.

3 LUGLIO: DI NUOVO MENEM?  In un’intervista al Clarin, l’ex presidente Carlos Menem confessa l’intenzione di presentarsi come candidato alle prossime elezioni presidenziali. A dicembre, nelle primarie intee del partito giustizialista (i peronisti), dovrebbe battersi con l’attuale presidente Eduardo Duhalde.

4-5 LUGLIO: TRA MERCOSUR ED ALCA A Buenos Aires si incontrano i paesi appartenenti al Mercosur («Mercato comune del sud»): Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con la presenza anche di Bolivia, Cile e Messico. Si cerca (inutilmente) una strategia comune per affrontare la crisi economica e finanziaria. L’influenza del Mercosur, già debole, è destinata ad annullarsi, qualora dovesse andare in porto la nascita dell’Alca («Area di libero scambio delle Americhe»), fortemente voluta dagli Stati Uniti.

9 LUGLIO: «L’ARGENTINA AL LIMITE DEL TRACOLLO» In occasione dell’anniversario dell’indipendenza, il presidente Duhalde tiene a Tucumán un discorso incentrato sull’orgoglio nazionale: «L’Argentina è in pericolo e al limite di un tracollo epico, mai conosciuto prima. Gli argentini sono passati dal sogno all’incubo: il Primo mondo, al quale erano sicuri di appartenere, li sta espellendo. Soltanto uniti possiamo tornare ad essere una nazione libera e sovrana. Soltanto uniti possiamo affrontare la favolosa epopea della ricostruzione della patria». 11 LUGLIO: SEMPRE MENO LAVORO I dati di Indec (riferiti a maggio 2002) parlano di un ulteriore peggioramento della situazione economica: 3,2 milioni di argentini sono disoccupati, 3,05 milioni sottoccupati, cioè il 45% della popolazione attiva del paese ha problemi di lavoro.

11 LUGLIO: LE «BASI PER LA RIFORMA» La «tavola del dialogo» (organo consultivo tra chiesa cattolica e governo) presenta il documento «Basi per la riforma». Con esso si chiedono soluzioni profonde e a lungo termine per costruire una società più equa, che risolva l’emergenza sociale. Per arrivare a questo è necessario realizzare, in contemporanea con le presidenziali del marzo 2003, anche un rinnovamento di tutti gli incarichi elettivi, nazionali, provinciali e municipali (*).

(*) La cronologia storica dell’Argentina è stata pubblicata su MC nella puntata di maggio 2002.

 

CONTAGIO SÌ, CONTAGIO NO, CONTAGIO FORSE

Il timore c’è tutto. Brasile, Uruguay, Cile guardano con crescente preoccupazione alla crisi argentina, mentre altri paesi latinoamericani (Paraguay, Bolivia, Ecuador, Perù, Venezuela) sono già al collasso per proprio conto.

In Brasile, il paese economicamente più importante, la situazione è grave, ma drogata dalle imminenti elezioni presidenziali. Le agenzie di rating internazionale (quelle che valutano quanto sia conveniente investire) hanno alzato il «rischio paese», anche in considerazione di un’eventuale vittoria di Lula, leader del «Partito dei lavoratori» (Pt), che a loro dire non darebbe garanzie sul debito estero. Ancora più esplicito è stato il megaspeculatore statunitense George Soros, secondo il quale, se il Brasile vuole evitare il caos, sarà obbligato ad eleggere José Serra, il candidato scelto dagli Stati Uniti e dal mercato finanziario (1).

Detto per inciso, varrebbe la pena di chiedersi: perché le agenzie di rating si esprimono con grande rapidità e severità quando si tratta di giudicare persone o istituzioni a loro non graditi, ma tacciono quando si tratta di valutare il comportamento di grandi gruppi multinazionali? (2)  In questa ennesima crisi del sistema neoliberista ancora una volta risulta fondamentale il doppio ruolo ricoperto dal Fondo monetario internazionale (Fmi): da un lato primo artefice del collasso, dall’altro potenziale (e presunto) salvatore.

L’esempio argentino è molto istruttivo al riguardo. Durante il decennio di Carlos Menem (che, tra l’altro, pare voglia ripresentare la propria candidatura), l’Fmi considerava l’Argentina uno degli allievi più bravi, soprattutto perché obbediva in pieno alle proprie direttive (le privatizzazioni in primis) (3). Poi quello studente tanto elogiato è entrato in coma e al suo capezzale si è presentato, come niente fosse, lo stesso carnefice…

(1) Sulle gravi irregolarità della campagna elettorale brasiliana si veda il quindicinale «Adista» dell’8 luglio 2002.

(2) Si pensi ai recenti scandali planetari che hanno avuto come protagoniste due (ma molte altre sono sospette) grandi multinazionali statunitensi, la Enron (energia) e la WordlCom (telefonia). I più penalizzati dagli imbrogli contabili sono stati i dipendenti delle compagnie e i piccoli investitori di borsa.

(3) Le privatizzazioni volute dall’Fmi hanno creato molti problemi anche in Perù, dove il presidente Toledo, lo scorso giugno, ha dovuto sospendere la vendita di due imprese elettriche pubbliche in seguito alla violenta opposizione della popolazione.

 

CHE NON PREVALGA LA «VIVEZA CRIOLLA» (ovvero barattare sì, barare no!)

La parrocchia «Nuestra Señora de Pompeya» (Merlo) è una delle prime fondate e rette dai missionari della Consolata nel Gran Buenos Aires. Conta circa 60 mila abitanti. Riassume tutta la realtà di disoccupazione, impoverimento, violenza e… ricerca di modi per far fronte alla situazione disastrosa abbattutasi recentemente sull’Argentina. Per quanto riguarda il «trueque», in due dei quattro centri pastorali la parrocchia ha dato spazio a questo strumento di sopravvivenza nell’emergenza. Peraltro, nell’accettare la richiesta da parte dei coordinatori di poter funzionare all’interno delle nostre strutture, abbiamo sentito il bisogno di chiarire con loro, sin dall’inizio, l’impegno all’onestà, affinché il trueque, basato fondamentalmente sulla solidarietà, non fosse svilito dalla tentazione di approfittarsene, considerando soprattutto il contesto di povertà generalizzata. Purtroppo la stessa situazione di povertà e miseria crescenti, a volte, inducono al «si salvi chi può e in qualsiasi modo», magari anche imbrogliandosi fra poveri. E poi c’è anche l’altro comportamento nazionale, denominato «viveza criolla», cioè la furbizia malintenzionata che, in relazione all’attuale grave crisi nazionale, ne è una delle con-cause. Questo pericolo può diventare molto concreto nel momento in cui i politici (come, ad esempio, stanno già facendo alcuni sindaci) si impossessano dell’idea e finiscono per svuotarla del contenuto e creare «trueques truchos» (truccati, falsati).

Abbiamo tradotto «trueque» con baratto, barattare: viene allora spontaneo ricordare: «Attenti a non barare». Inoltre, giocando con le parole, se al termine italiano baratto togliamo una «t», abbiamo «barato», che in castigliano vuol dire economico, cioè non caro. Ecco, è importante che nel baratto tutto sia «más barato», più a buon mercato, perché sia veramente conveniente. Dato che riceviamo lamentele dei partecipanti al trueque circa i prezzi di alcuni articoli quasi più cari di quelli che si trovano nei negozi di quartiere, sentiamo il dovere di farlo presente ai coordinatori. Nell’articolo principale si accenna al baratto come forma abituale di sussistenza delle comunità indigene. Gli indios tobas della Colonia Aborigen (con cui ho lavorato per anni) sono soliti portare in paese, a Machagai, nostra ex parrocchia, i loro prodotti, ma lo scambio non si svolge quasi mai in parità di condizioni: consegnando un bel carico di zucche, pompelmi, manioca o altri prodotti, gli indigeni si ritrovano poi con un pezzetto di carne o un po’ di zucchero o yerba mate. I forti e i furbi l’hanno sempre vinta.

padre Giuseppe Auletta, da Merlo (Buenos Aires)

 

Paolo Moiola

 

 




UIRAMUTAN, L’ULTIMA FRONTIERA

Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».

Il 2 maggio 2002 l’esercito brasiliano
ha inaugurato, nella località
di Uiramutàn, nello stato di
Roraima, con festeggiamenti, spari
e grande dispiegamento militare, la
caserma del 6° plotone di frontiera.
Hanno partecipato soldati, ufficiali,
quattro generali, politici, fazendeiros.
La cerimonia è stata impeccabile,
ma nell’aria e nel cuore
degli organizzatori non c’era tanto
lo spirito di chi è lieto per aver portato
a termine una buona impresa,
quanto piuttosto il sentimento segreto
di chi è conscio (anche se non
lo dice) di aver affermato il suo potere
per prevenire qualsiasi velleità
di ribellione.
Era presente anche un gruppo di
indios, antichi e veri abitatori della
regione, incapaci, eccetto pochi, di
comprendere la ragione, la portata
e le conseguenze di quella costruzione
e della festa. Erano stati spinti
a venire dal desiderio di vedere, in
un luogo di solito silenzioso, tanti
aerei in una sola volta, soldati che
sfilano, ufficiali che danno ordini,
trombette che suonano, politici ben
vestiti e compiacenti, discorsi altisonanti.
Davanti a questo spettacolo inusuale
gli indios si sono sentiti ancora
più piccoli ed estranei al mondo
dei bianchi.

CORPO ESTRANEO
Uiramutàn è il nome del villaggio
e della regione, situata molto lontano
dai grandi centri abitati, ma non
distante dal monte Roraima (2.772
metri) che dà il nome allo stato. Chi
vi giunge ha subito l’impressione di
essere in un altro mondo, tale è il silenzio,
la pace e serenità.
È una regione poco abitata: c’è il
piccolo villaggio di Uiramutàn e pochi
altri, sparsi e distanti chilometri
gli uni dagli altri. Impressionante a
quell’altezza è la luminosità intensa
e il panorama formato da una distesa
di basse montagne intramezzate
da vallate strette ed erbose. Il suolo,
quasi tutto arenoso, non ha molta
vegetazione. Qua e là qualche albero
di piccole dimensioni, mentre è
più intensa la presenza di arbusti
lungo i due piccoli torrenti portanti
scarsa acqua e infossati rispetto all’altopiano.
Sono questi torrenti la sola riserva
idrica per la popolazione indigena
locale le cui semplici abitazioni, fat-
te di materiale raccolto nella zona, si
allineano in una ristretta area. Il terreno
coltivabile è limitato e appena
sufficiente agli abitanti, che non sanno
cosa sia il mercato: ciascuna famiglia
produce il proprio sostentamento
o se lo procura con la caccia
e la pesca (anche queste, invero,
piuttosto scarse).
Oltre alle abitazioni degli indios,
si trovavano nell’area, fino a poco
tempo fa, poche costruzioni in muratura:
una chiesetta, la scuola, il
municipio e rare abitazioni di bianchi.
Oggi c’è anche la caserma del 6°
plotone. Perché – si chiede qualcuno
– una costruzione così grande?
Perché una simile ostentazione di
forze, potere e superiorità al cospetto
di abitanti tanto ingenui?

DIFESA DA CHI?
I giornali di Boa Vista e di altri stati
del Brasile hanno commentato gli
eventi del 2 maggio ripetendo il solito
ritornello stereotipato e trionfalistico:
«difesa delle frontiere, onore
della patria».
La frontiera con la Guyana, costituita
dal fiume Maù, si trova poco
lontana ed oltre la stessa esiste una
regione ugualmente montagnosa, arida
e totalmente spopolata. È difficile
immaginare che possano esistere
nemici da quelle parti, tanto più
che, da secoli, la bandiera brasiliana
sventola anche nei villaggi indigeni.
Chi la porta e la difende, ora come
nel passato, sono gli indios. Chi parla
la lingua brasiliana e porta un nome
brasiliano sono gli indios.
Mai gli indios furono nemici, ma
al contrario sempre amici e difensori
del suolo nazionale. Lo dimostra
chiaramente il libro As muralhas do
Sertão, scritto dalla storiografa Farage.
Gli indios della regione sono di
etnia macuxì del gruppo karib.
Hanno una cultura analoga a quella
di tanti altri indios e vivono in un regime
comunitario, pacifici, ma
preoccupati della vicinanza dei
bianchi e timorosi della ingordigia
della società che si dice civile. Non
c’è ragione che qualcuno vada a turbare
la loro pace e i loro modi di vivere.
Anche i legislatori brasiliani
hanno compreso questo e la Costituzione
del 1988 decreta che siano
demarcate le terre dei popoli indigeni,
allo scopo di difenderli da invasioni
e aggressioni.
Lungo la storia furono sovente attaccati
e persino fatti prigionieri e
schiavi per lavorare nelle fazendas
dei grandi latifondisti dell’Amazzonia
a sud del fiume Amazonas. Ma
poi le relazioni con i bianchi ebbero
momenti di concordia e con la legge
suprema del paese si pensava che
le invasioni, le violenze e lo sfruttamento
sarebbero cessate. Invece no:
la demarcazione è stata iniziata e
non conclusa, forze politiche si opposero
ad essa e, fatte rare eccezioni,
le comunità indigene continuarono
a essere oppresse, a volte con
modi astutamente amichevoli, altre
con la prepotenza e le minacce.
L’insediamento militare, realizzato
con tanta pompa al cospetto delle
rocce montagnose, pare costituire
un’aggressione camuffata contro
una popolazione inerme e pacifica.
Il 2 maggio soltanto una voce si è
posta fuori dal coro, quella del
tuxaua Orlando, capo indigeno del
villaggio. Questi, dopo i discorsi laudatori
ufficiali, ha affermato che la
caserma militare è deleteria per la
convivenza, perché viene a sopraffare
costumi ed abitudini indigene,
stronca il naturale avvicinamento ai
bianchi e, quel che è peggio, porta
prostituzione e diffusione delle bevande
alcoliche contro le quali i responsabili
delle comunità stanno da
tempo lottando.

L’ARROGANZA DEI BIANCHI
I giornali che hanno descritto l’evento
danno rilievo al fatto che i
massimi esponenti delle forze militari
si sono stupiti dello svolgersi
«pacifico» delle cerimonie. C’era
quindi la coscienza di fare qualcosa
che feriva gli animi dei gruppi indigeni,
soprattutto di quelli organizzati
nella associazione chiamata
Conselho Indigena de Roraima (Cir),
che da anni difende i diritti e la dignità
degli indios. Gli organizzatori
della festa avevano quindi timore
che l’esile organizzazione facesse dimostrazioni
pubbliche di dissenso.
Ma era assurdo pensarlo.
Gli indios, da tanti secoli umiliati
perché nullatenenti e differenti, abituati
allo sfruttamento, alla prepotenza
e arroganza dei bianchi, ma
anche attratti dal benessere a cui in
cuor loro ambiscono, cosa potevano
fare contro quello spiegarsi di
forze militari? E poi perché opporsi
quando essi si sentono parte della
nazione brasiliana?
Trovano sbagliato e incoerente
con lo spirito della Costituzione la
caserma nel bel mezzo di un loro villaggio
ed hanno manifestato il loro
disappunto all’inizio dei lavori di costruzione.
Poi, facendo violenza su
se stessi, hanno dichiarato apertamente
l’opposizione al progetto, ricorrendo
ai tribunali. Questi hanno
dato loro ragione, ma i militari hanno
fatto ricorso e benché non sia ancora
venuta la sentenza, essi – sfidando
la giustizia – hanno proseguito
i lavori e terminato la costruzione,
fiduciosi di prevalere sulla legge.
Così, come tante volte nella storia,
le autorità che devono difendere la
popolazione specialmente la più umile
e indifesa, si sono comportate
da aggressore.
La coscienza etnica, che da qualche
anno si è risvegliata negli indios,
ora si sente non solo impotente ma
costeata ed esasperata. Anni addietro
era il piede delle mucche del
fazendeiro che calpestava il suolo e
l’animo degli indios, oggi è il crepitio
delle pallottole e il fragore delle
bombe che esplodono durante le
manovre militari eseguite intenzionalmente
in terre indigene per intimorire
un popolo inerme.

<b<LA CASERMA COME «CAVALLO DI TROIA»
I missionari, obbedienti al vangelo,
da decine di anni stanno vicini a
tutto il popolo brasiliano, impegnato
seriamente a consolidare le strutture
nazionali e progredire sulla via
del benessere. Essi sono pure compagni
delle numerose etnie indigene
che vivono nel territorio dello stato
di Roraima, condividendo lo sforzo
per raggiungere un tenore di vita
degno, senza rinunciare alla loro
cultura e valori tradizionali.
A questo scopo, i missionari cercano
di infondere coraggio e speranza
per resistere contro chi tenta
di farli scomparire distruggendone
l’identità. Purtroppo anche a Uiramutàn
si sta mettendo in atto questa
strategia di eliminazione delle etnie
indigene. Chi conosce i retroscena,
non ha difficoltà a comprendere cosa
si nasconde dietro l’apparato militare
esterno.
Quello che si vuole ottenere non
è una conquista del territorio «manu
militare», perché è chiaro come
il sole che non ce n’è bisogno. Invece,
una caserma militare abitata da
60 giovani soldati, situata in mezzo
a villaggi indigeni, è proprio quello
che ci vuole perché le giovani donne
indie mettano al mondo un grande
numero di meticci, inquinando e
snervando la loro etnia.
Tale progetto già è in atto nella regione
della serra Surucucus, a ponente
di Roraima, con effetti disastrosi
per gli indios yanomami.
È questo progetto, sottinteso a
tanto apparato celebrativo, che naturalmente
rattrista. Il popolo indio
che ha voglia di crescere ed essere
autosufficiente e che porta in se tanti
valori morali, è forzato ad accettare
situazioni avvilenti e a veder corrosa
la propria identità e dignità per
obbedire a interessi nascosti sotto la
scusa della integrità territoriale nazionale.
L’indio Massaranduba, tuxaua emerito
di Uiramutàn, ora con 104
anni, nel giorno festivo della inaugurazione,
è stato premiato davanti
alla comunità che lo venera, con la
consegna di un simbolico «bastone
di comando».
Quando lo incontrai la prima volta,
nel suo villaggio, nel gennaio del
1976, mi si avvicinò, nella oscurità
della notte per dirmi triste, che un
bianco, venuto abusivamente da poco
a risiedere presso il loro villaggio,
proibiva, con minacce, tutta la comunità
indigena di allevare galline
ed ogni animale da cortile. L’arroganza
del bianco faceva soffrire lui
e la sua gente, e anche temere.
Ora, passati 25 anni, astutamente
manipolato con vane illusioni,
da persone interessate, Massaranduba
accetta non solo un fazendeiro
che impone ordini nel suo piccolo
villaggio, ma addirittura una
caserma di militari. Quegli stessi
militari, che consegnandogli il bastone
del comando, invece di onorarlo,
in realtà gli hanno tolto, senza
che l’anziano capo se ne accorgesse,
tutta l’autorità e il
potere che la legge indigena
gli conferisce.

(*) Mons. Aldo Mongiano è stato
vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.

Sul problema dell’insediamento
militare, nel luglio 2001 «MISSIONI
CONSOLATA» aveva lanciato una
campagna dal titolo «Ma la caserma
no!». Tutto è stato inutile, come ben
si comprende dall’articolo. Oggi si
riparte con una campagna di più
ampio respiro, perché abbraccia
una pluralità di tematiche.

VOGLIAMO VIVERE!
Da troppo tempo i popoli indigeni dello stato brasiliano di Roraima soffrono continue aggressioni fisiche, psicologiche e culturali.
Latifondisti, risicoltori, cercatori d’oro, imprese del legname e minerarie, nazionali e multinazionali, occupano le loro terre causando la
distruzione dell’ambiente naturale e minacciandone la sopravvivenza. Un’intera classe politica pratica varie forme di razzismo e
discriminazione e semina l’odio all’interno dei gruppi indigeni, mettendo comunità contro comunità, provocandone così la disgregazione
socio-culturale. Inoltre, continua ad incentivare, verso una foresta inadatta all’agricoltura, la migrazione di coloni dalle zone più povere del
Paese, creando masse di diseredati che si riversano nelle periferie dei centri urbani o premono sulle terre indigene. Infine, i militari si
oppongono alla demarcazione delle aree indigene creando disagi e conflitti in tali aree.
Per porre fine a questa lunga serie di violenze, i popoli di Roraima hanno rivolto alle organizzazioni della società civile nazionale e
internazionale una richiesta di appoggio nella lotta che essi conducono per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, come popoli
indigeni e come esseri umani.
Preso atto della gravità della situazione, nonché dell’appello del Consiglio Indigeno e della Diocesi di Roraima, chiediamo:
Al Goveo brasiliano:
– L’approvazione dello “Statuto dei Popoli Indigeni”, tenendo conto dei suggerimenti proposti da questi ultimi nell’aprile 2001,
– la demarcazione immediata in area continua delle terre indigene prevista dalla Costituzione vigente, il mantenimento dei limiti di
quelle già demarcate e l’omologazione dell’Area Raposa/Serra do Sol,
– di regolamentare la presenza militare nelle terre indigene di frontiera,
– di fermare il disboscamento, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario e agricolo e l’allevamento, in atto o programmato, sulle terre
indigene
– di non incoraggiare con false speranze l’afflusso di coloni verso le terre di Roraima.
Al Parlamento europeo:
– di controllare l’utilizzo dei fondi inteazionali ed europei destinati all’Amazzonia brasiliana e, in particolare, allo stato di Roraima,
affinché essi siano usati prioritariamente per la tutela dei diritti dei popoli indigeni,

– di farsi interprete delle suddette richieste davanti al governo e al parlamento brasiliano.
Alle organizzazioni della società civile brasiliana e internazionale:

– di sottoscrivere questo appello ed aderire alla campagna in tutte le forme possibili.

Coordinamento italiano della Campagna Internazionale“VOGLIAMO VIVERE!”
in difesa della foresta amazzonica e della vita dei suoi abitanti.
e-mail: indiosroraimabrasile@libero.it

Aldo Mongiano




Mary e gli altri

Egregio direttore,
leggo su Missioni Consolata
di maggio 2002: «MARY
ROBINSON LICENZIATA
(senza giusta causa)».
Penso, e come me molti
miei amici, che la giusta,
anzi, la giustissima causa
c’era quando «senza giri
di parole» aveva definito
Israele un paese «razzista
colpevole di atti di genocidio
nei confronti del popolo
palestinese».
E dei kamikaze cosa ha
detto? Niente! Siamo alle
solite parole a senso unico.
Così come, regolarmente,
ogni mese, trovate
qualcuno che immancabilmente
parla contro gli Usa,
anche lui scordandosi
di parlare di kamikaze.
Questa volta è un «nome
importante del giornalismo
italiano» (importante
per chi?) che dice tante
belle… (censura) tipo
«guerra afghana… cortina
fumogena… per nascondere
le responsabilità Usa…
una guerra keynesiana
(paroloni) ecc….» e finisco
con l’ultima
affermazione, la più ridicola.
«Questa guerra non ci
sarebbe stata se non esistesse
un mondo mediatico
al servizio degli Stati
Uniti». Ha dimenticato
di dire che le migliaia di
morti a New York sono
opera della… Cia.
Rinaldo Banti
Milano
P.S. Elenco alcune riviste
che ricevo dove il
90% degli articoli sono
missionari o notizie culturali
e religiose e il 10%
politica (il contrario di
Missioni Consolata):
Bollettino Salesiano,
Missioni del Pime, Dio e
il prossimo, Messaggero
di Sant’Antonio, Maria
Ausiliatrice, Continenti
missionari cappuccini,
Cuore Amico.

1) Il nostro dossier sul
Medio Oriente (giugno)
è stato molto apprezzato.
2) Abbiamo sempre messo
in primo piano la pietà
cristiana per tutti i morti,
che (alla data del 3 luglio
2002) sono: palestinesi
1.553, israeliani 556.
3) Su Mary Robinson e
Giulietto Chiesa non aggiungiamo
altro: è sufficiente
conoscere la loro
storia personale.
4) All’elenco delle riviste
ne mancano molte (ad esempio:
Nigrizia dei
comboniani, Missione
Oggi dei saveriani, Popoli
dei gesuiti ecc.). La distribuzione
percentuale
delle notizie non l’abbiamo
mai calcolata. Di sicuro,
Missioni Consolata
dedica molto spazio ai
problemi e alle ingiustizie
del mondo d’oggi,
non soltanto con la denuncia
giornalistica, ma
anche cercando di indagae
le cause.
Se gli Usa ricattano la
neonata «Corte penale
internazionale», non
dobbiamo forse parlarne
e chiederci il perché?

Rinaldo Banti




Poco cattolica?

Spettabile redazione,
non mandatemi più la rivista.
È troppo musulmana,
mentre è troppo poco cattolica.
Lettera firmata
Gambettola (FO)

Musulmani non siamo.
Forse siamo troppo poco
cattolici. «Cattolico» significa
«universale». E
chi lo è non divide gli uomini
e le donne in ebrei,
buddhisti o musulmani…
«contrapponendoli» fra
loro. Non sono tutti figli
di un unico Dio?

Lettera firmata