Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Con 56 mila kmq di
superficie (due volte la
Sicilia), dal Golfo di Guinea
alle soglie del Sahel, il Togo
è uno dei più piccoli stati
africani. Nessuno ne parla,
se non con imbarazzo: da 35
anni lo governa un dittatore
per nulla intenzionato di
farsi da parte. Per la
mancanza di democrazia e
di rispetto dei diritti umani,
l’Occidente ha chiuso la
borsa degli aiuti: a soffrire,
però, sono 5 milioni di
abitanti, affogati nella
miseria più nera.
Eppure qualcosa si muove:
la gente non è rassegnata a
tale destino e la chiesa è al
suo fianco.
Storia di un dittatore «dinosauro»
L’INNOMINATO
Da secoli il Togo vive nel limbo della storia (vedi
scheda). Pochi saprebbero indicarne la posizione
geografica; meno ancora ne conoscono la
situazione della gente, violentata da una
dittatura che dura da 35 anni, senza sapere come
e quando potrà liberarsene
I pannelli con la sua faccia ossessionano
il paese; spille e distintivi
con la sua immagine sono
su tutti i petti d’impiegati governativi;
nugoli di donne lo accolgono
danzando ogni volta che visita un
villaggio; la sera, la televisione racconta
come ha speso la giornata…
Parlando con la gente, però, il suo
nome non lo sento pronunciare mai.
Anche i più coraggiosi usano i pronomi:
lui, costui, quello lì, quello là.
I sostenitori lo chiamano: timoniere,
padre della nazione, salvatore
della patria; i più prudenti: vecchio,
dinosauro; gli avversari gridano: assassino,
bufalo, elefante, lupo mannaro,
demonio di Pya, suo paese natale,
nel nord del Togo.
«Lui» è Gnassingbé Eyadéma, da 35
anni presidente del Togo, il più longevo
dittatore di tutti i paesi dell’Africa
post-coloniale. E resterà ancora
a lungo sulla scena, secondo diplomatici
e analisti politici.
NAZIONE ALLO SFASCIO
«Radio e televisione presentano la
situazione del paese come la migliore
che possa esistere – afferma un
missionario, che per prudenza non
nominiamo -; “lui” rassicura che tutto
va bene. Ma la realtà è differente:
la povertà impera; manca il lavoro e
la gente sopravvive col piccolo commercio;
la terra disponibile è ancora
molta, ma rende poco, per arretratezza,
siccità o troppe piogge; maestri
e funzionari statali hanno stipendi
da fame, arretrati fino a 5-6
mesi e non tutti retribuiti».
In tali condizioni, non ci si può
aspettare che gli insegnanti siano
motivati e le scuole funzionino: quelle
elementari sono in tutti i villaggi,
ma il tasso di analfabetismo è al
50%, tra le donne soprattutto.
Il rendimento scolastico è in caduta
libera. Nelle superiori i programmi
non sono svolti per intero e, all’esame
di maturità, la percentuale dei
promossi non supera il 10%; in alcuni
licei il tasso è zero. I giovani ripetono
per più anni, finendo d’iscriversi
all’università a 30 anni. Molti abbandonano
gli studi e cercano di
scappare in Europa o America, perché
il paese non garantisce un avvenire
alla sua gioventù.
Il paese è ricco di fosfati; ha industrie
di cemento; produce cotone,
caffè, cacao; ma nessuno sa dove vadano
a finire i proventi di tali risorse,
poiché ormai tutto è privatizzato.
«È stato privatizzato anche l’acquedotto
– aggiunge il missionario -.
L’acqua potabile si paga; chi non può
permettersela attinge ai fiumi, con
deleterie conseguenze per la salute».
La gente non protesta?
«Resistenze e proteste sono frequenti
e nella legalità – continua il
missionario -. Uno sciopero generale,
protratto per molti giorni, ha paralizzato
il paese. Lomé, per esempio
sembrava una città fantasma: tutto
era chiuso e nessuno per strada. Per
ora il popolo è vincente, perché ha
grande forza di sopportazione; sa che
la violenza genera violenza. La pazienza
della gente rasenta il fatalismo;
vorremmo che avesse più iniziativa
e, da parte nostra, bisognerebbe
impegnarsi di più nell’opera di
coscientizzazione: non si può parlare
molto, altrimenti quello là…».
IL COLONNELLO
Di etnia kabyé, nato nel 1935, dopo
un breve curricolo scolastico
Etienne Eyadéma diventò sotto ufficiale
dell’esercito francese e militò
per 12 anni sotto tale bandiera in
Dahomey (attuale Benin), Algeria,
Niger e Indocina. L’esperienza militare
ha supplito alla mancanza di formazione
scolastica, facendo di lui un
grande lavoratore, che si corica a
mezzanotte e si alza alle 4 del mattino.
I vicini lo dipingono affabile, disponibile
all’ascolto, grande intrattenitore
che racconta fatterelli. Tutte
doti abilmente sfruttate per farsi
una buona reputazione all’estero e
interporsi come uomo di mediazione
in vari conflitti africani: Biafra,
Ciad, Niger e Congo (Zaire).
Scampato a vari incidenti e attentati,
veri o presunti, si è costruito
un’aureola d’immortalità
e la gente lo crede dotato di
poteri occulti. A tali credenti
egli dice che, a dargli
forza, c’è un «solo marabutto:
il caro popolo
togolese».
Eyadéma militava
ancora nell’esercito francese il 27
aprile del 1960, quando il Togo, terzo
paese a sud del Sahara, dopo
Ghana (1957) e Camerun (gennaio
1960), raggiunse la piena sovranità.
Artefice dell’indipendenza fu
Sylvanus Olympio, di etnia ewé del
sud, nazionalista moderato, vero
creatore del Togo moderno.
Il presidente, però, sottovalutò
le tensioni tra nord
e sud del paese: le popolazioni settentrionali, da lui definite
petits nordiques, si sentirono trascurate.
E quando, nel 1963, rifiutò d’integrare
nell’esercito nazionale 600
soldati, quasi tutti kabyé del nord, reduci
dal servizio sotto la bandiera
francese, il colonnello Eyadéma ne
approfittò per fare un golpe militare:
Olympio fu freddato mentre cercava
di rifugiarsi nell’ambasciata americana.
Eyadéma rivendica ancora a sé tale
assassinio, anche se altri dicono
che sia stato un soldato francese a
sparare al presidente.
Eyadéma fu il primo a innescare la
danza macabra di colpi di stato militari
che, in breve tempo, avrebbero
consegnato tanti paesi africani a dittatori
senza scrupoli come lui.
Promosso generale dell’esercito,
nel 1967 Eyadéma capeggiò un altro
colpo di stato, incruento, e si autoproclamò
capo dello stato.
IL DITTATORE
In due anni Eyadéma instaurò un
regime autoritario: fece confluire i
movimenti operai in un’unica federazione
sindacale; abolì i partiti politici
e fondò il suo: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
Nei paesi confinanti erano in corso
rivoluzioni marxiste (Ghana, Burkina
Faso e Benin); ma egli rimase legato
all’Occidente, pur senza rompere con
la Corea del Nord. E ne fu largamente
ricompensato con aiuti militari dai
francesi e benevolenza da Washington
e vari governi europei, che chiusero
gli occhi sui suoi eccessi.
Ciò non gli impedì qualche sterzata
nazionalista: nel 1972-76 nazionalizzò
la produzione ed esportazione
dei fosfati. Emulando l’amico Mobutu,
dittatore dello Zaire, si erse a
paladino dell’«autenticità»: ordinò ai
togolesi di rimpiazzare i nomi europei
con quelli africani e lui stesso
cambiò Etienne in Gnassingbé; costruì
uno dei più pervasivi culti della
personalità, circondandosi di uno
stuolo di leccapiedi e di donne festanti
in abiti tradizionali.
Nel 1974 uscì indenne da un incidente
aereo, da lui pubblicamente
attribuito a un complotto di «imperialisti
» stranieri, e diventò più irrazionale
e imprevedibile.
Per una decina d’anni (1970-80)
l’incremento del turismo e l’aumento
del prezzo dei fosfati fecero esplodere
un boom economico che meritò al
Togo l’appellativo di «Svizzera africana
». Eyadéma cavalcò il miracolo
per varare una nuova costituzione
(1979) che sanciva il presidenzialismo
e, manco a dirlo, fu eletto presidente
per sette anni.
La pacchia finì nel 1981: il prezzo
dei fosfati si dimezzò e la recessione
economica mondiale ridusse drasticamente
il turismo europeo; il deficit
della bilancia dei pagamenti fece
schizzare il debito estero a un miliardo
di dollari.
Per avere altri prestiti, Eyadéma dovette
adottare le misure imposte dagli
organismi finanziari mondiali:
congelare i salari, ridurre le spese statali,
aumentare le imposte fiscali, privatizzare
le aziende pubbliche e licenziare.
Il debito estero aumentava
e l’economia continuò a decadere.
Sindacati e movimenti di opposizione
alzarono la testa con scioperi
e pubbliche proteste. Ma alle elezioni
del 1986, il presidente fu rieletto
per altri sette anni col 99,95% dei
voti.
Di fronte al plebiscito fasullo, l’opposizione
scese di nuovo in piazza.
Nel settembre dello stesso anno un
gruppo di esuli in Ghana riuscì a entrare
nel palazzo presidenziale e in
un campo militare di Lomé. Ci furono
morti da ambo le parti; Eyadéma
stesso sparò parecchi colpi. Ma a salvarlo
furono 200 paracadutisti francesi,
prontamente inviati dal Gabon
e Centrafrica.
Il dittatore continuò a disfarsi degli
oppositori con ogni mezzo illecito,
finendo regolarmente sulla lista
nera di Amnesty Inteational.
SPERANZA STRANGOLATA
Finita la guerra fredda (1989), la
Francia cominciò a mollare Eyadéma
e fece pressione perché aprisse il paese
al multipartitismo, come stavano
facendo altre ex colonie francesi.
Per mettere in cattiva luce i sistemi
pluralisti, la televisione di stato
mostrava scioperi e violenze; ma ottenne
l’effetto contrario: all’inizio
del 1991 le forze favorevoli alla democrazia,
in maggioranza ewé e mina
del sud, iniziarono scioperi e tumulti,
repressi brutalmente: 28 corpi
furono ripescati nella laguna di
Lomé e scaricati sulla gradinata dell’ambasciata
americana.
Di fronte alle pressioni estee e
intee, Eyadéma dovette concedere
libertà di stampa, liberare i prigionieri
politici e convocare una Conferenza
nazionale sovrana (Cns), come
era avvenuto l’anno prima in Benin,
per decidere l’avvenire del paese.
Aperta nel giugno 1991 e presieduta
da mons. Philippe Kpodzro, vescovo
di Atapkamé, poi di Lomé, la
Cns spogliò il dittatore d’ogni potere,
formò un governo di transizione, guidato
da Kokou Koffigoh, già presidente
della Lega per i diritti umani, e
istituì l’Alto consiglio della repubblica
(Atr), massimo organo legislativo,
sempre presieduto dal vescovo.
Ma i militari disertarono subito
l’Assemblea: non ci stavano a perdere
i privilegi e sentirsi rinfacciare torture,
assassinii e carneficine. Quando
fu deciso lo scioglimento del partito
unico (Rpt), essi sequestrarono
e umiliarono i membri dell’Atr finché
non si rimangiarono il decreto; la
settimana seguente presero in ostaggio
il primo ministro, obbligandolo a
formare un governo d’unità nazionale,
cioè con uomini di Eyadéma.
Tattiche intimidatorie e mini colpi
di stato continuarono per tutto il
1992, costringendo Koffigoh a continui
rimpasti governativi, secondo
gli umori del dittatore. Diversi leaders
dell’opposizione subirono attentati,
tra cui Gilchrist Olympio, figlio
di Sylvanus e capo dell’Unione di forze
per il cambiamento (Ufc). Prontamente
ricoverato a Parigi, si salvò.
Più volte Koffigoh chiese alla Francia
di difendere la democrazia; ma
questa non mosse un dito, pur avendo
300 paracadutisti nel Benin, pronti
a evacuare i 3.500 connazionali
ancora in Togo.
In un anno Eyadéma riacquistò
quasi tutto il potere. Sindacati, organizzazioni
politiche e partiti d’opposizione
lanciarono uno sciopero
generale a oltranza, durato nove mesi:
la guardia presidenziale uccise un
centinaio di manifestanti; migliaia di
togolesi fuggirono in Ghana e Benin.
Eppure la Cns è stato un evento
storico: ha permesso alle forze democratiche
di emergere, guardarsi in
faccia; ha fatto il processo al regime,
costringendolo a gettare la maschera;
ha attirato sul paese l’attenzione
della comunità internazionale.
Inoltre la Cns ha varato la nuova costituzione
(1992), fissando la durata
del mandato presidenziale a cinque
anni, rinnovabile una sola volta:
un cavallo di Troia in mano alle forze
democratiche, che possono mobilitarsi
per esigee il rispetto.
FARSA CONTINUA
Ma le elezioni presidenziali del
1993, da tenersi secondo le regole
della nuova costituzione e sotto gli
occhi di osservatori africani e occidentali,
furono una farsa: il principale
oppositore, Gilchrist Olympio, fu
squalificato dalla competizione per
un cavillo burocratico; altri due candidati
si ritirarono. Gli osservatori tedeschi
e americani tornarono a casa;
restarono quelli francesi e del Burkina
Faso e avallarono le elezioni «democratiche
»: il dittatore fu eletto col
96,5% di suffragi; solo un terzo degli
aventi diritto si recò alle ue.
Le elezioni parlamentari del 1994
furono preparate da coprifuoco e sparatorie
giornaliere; ciò nonostante,
l’opposizione ottenne la maggioranza:
su 78 seggi, 34 andarono al Comitato
d’azione per il rinnovamento
(Car), guidato da Yao Abgoyibo, 6 all’Unione
democratica togolese (Udt)
di Edem Kodjo, 38 al partito di Eyadéma.
Ma il dittatore riuscì a dividere
l’opposizione: affidò a Kodjo la formazione
del governo con il suo partito
(Rpt) e il Car fu messo fuori gioco.
Di fronte alle frodi elettorali e violazioni
dei diritti umani, nel 1994 la
Comunità Europea, Stati Uniti e organismi
finanziari mondiali esclusero
il Togo da aiuti e prestiti. Eyadéma
cominciò a stringere rapporti col
Giappone, Arabia Saudita, Emirati
Arabi, Kuwait, Iran, Cuba…
Le elezioni presidenziali del 1998
si svolsero all’insegna «della legge
del terrore, in un clima d’impunità»
secondo Amnesty Inteational, che
portò davanti all’opinione mondiale
centinaia di uccisioni di oppositori e
testimoni. La rivelazione fece imbestialire
il dittatore, costretto ad accettare
una commissione d’inchiesta
internazionale.
La vittoria del dittatore arrivò con
la «frode sistematica», parole del Dipartimento
di stato americano: la
conta delle schede fu bloccata, quando
apparve chiaro che Eyadéma stava
perdendo; la commissione elettorale
fu costretta a dare i numeri: 52%
ad Eyadéma, 34% all’Udt, 9,5% al
Car: un altro plebiscito non era più
credibile.
Inutili furono le contestazioni, disperse
con pallottole e gas lacrimogeni.
Le elezioni parlamentari del
1999 furono boicottate da Car e Udt
e il partito di Eyadéma ottenne quasi
tutti i seggi: 78 su 81. Il governo
fu affidato ad Agbéyomé Kodjo, tuttora
in carica.
TOGO: STATO DI TERRORE»
Ora tutto sembra in pace, ma la povertà
aumenta di giorno in giorno. La
gente è stanca di protestare o, piuttosto,
è terrorizzata. L’opposizione è
imbavagliata: il suo leader principale,
Yao Abgoyibo, è appena uscito di
prigione; molti dirigenti di partiti sono
in esilio; altri cambiano ogni notte
domicilio; continuano la caccia ai
«democratici» e le sparizioni.
Per rientrare nelle grazie dell’Occidente
Eyadéma ha promesso di anticipare
le elezioni presidenziali al
2001: l’anno è passato e nessuno sa
dire se e quando si terranno. La scadenza
naturale è il 2003; si spera che
non si ricandidi: la Costituzione non
permette più di due mandati.
«Lo sanno tutti – afferma un oppositore
-. “Quello là” vuole restare al
potere fino alla morte e tenterà di farlo.
Vuole far credere al mondo che il
Togo è diventato democratico; ma
non è neppure uno stato a partito
unico: è un paese di un uomo solo, di
una famiglia sola. Con un esercito di
12 mila uomini ben pagati, per il 75%
kabyé, che lo riconoscono come unico
capo tribù e due figli in posizioni
chiave, addestrato in ogni tattica di
repressione da istruttori nordcoreani,
è difficile immaginare un rapido e pacifico
cambiamento».
«Più impensabile sarebbe una rivoluzione
– spiega un missionario -.
Il partito del presidente, che continua
a essere unico, è sempre in campagna
elettorale, con menzogne e
insulti all’opposizione e marce di sostegno
al dittatore. Gli stati confinanti
non hanno interesse a destabilizzare
il paese: Benin e Burkina
Faso sono governati da militari puri;
il Ghana è democratico, ma il suo
presidente è stato appena eletto e
accetta il Togo così com’è. Dell’opinione
internazionale il regime se ne
infischia, vomitando insulti da mattino
a sera, specialmente contro Amnesty
Inteational: si è permessa di
dire che “il Togo è uno stato di terrore“,
che esercito e polizia sono la
vera minaccia per la popolazione».
«Anche in Occidente ci sono troppe
forze interessate a lasciare le cose
come sono – aggiunge un altro
missionario -. Il giorno in cui perdesse
il potere, Eyadéma sarebbe messo
sotto accusa, trascinando sul banco
degli imputati potenze e governi stranieri
che lo hanno sostenuto».
Intanto a chi gli domanda se presenterà
per la terza volta la sua candidatura,
Eyadéma risponde che «rispetterà
scrupolosamente la Costituzione
». Ma quale? Il primo ministro
Kodjo getta pietre nello stagno, ventilando
la possibilità di cambiarla, per
dare al suo padrone altri cinque anni
di potere, e il parlamento ha tutti i
numeri per farlo.
Tale cambiamento, tuttavia, sarebbe
una sfida alla Comunità Europea,
che condiziona i suoi aiuti alla ripresa
della democrazia nel paese. Un altro
mandato presidenziale «si tradurrebbe
in un suicidio nazionale – afferma
l’americano Chris Fomunyoh,
direttore degli Affari africani presso
l’Istituto democratico nazionale – e
sarebbe terribile per la regione, per il
Togo e per il continente».
Superficie: 56.785 kmq.
Popolazione: 5,1 milioni di abitanti; è composta da 37 gruppi
etnici; i predominanti sono ewé-mina44%, kabyé27%,
gurma16%, tem4%, kebu3,8%, ana( yoruba) 3,2%, bianchi
0,3%. I brasileños(ex schiavi tornati dal Brasile) costituiscono
una «casta» molto influente sul piano economico e politico.
Lingua: francese (ufficiale) e vari idiomi etnici.
Istruzione: alfabeti 51%; maschi 67%; femmine 35%.
Religione: culti tradizionali 50%; cattolici 24%, musulmani
15%, protestanti 7%.
Capitale: Lomé.
Partiti politici: Raggruppamento del popolo togolese (Rpt), partito
unico fino al 1991; Unione democratica togolese (Udt); Comitato
d’azione per il rinnovamento (Car).
Forma di governo: repubblica presidenziale; presidente è Gnassingbé
Eyadéma dal 1967; primo ministro Koffi Sama dal 27-
6-2002, dopo la rimozione di Agbéyomé.
Moneta: franco C.F.A. (1 euro = 640 C.F.A.).
Debito estero: 1.448 milioni di dollari.
Crescita annua Pil: -1% (1998).
Economia: agricoltura con la produzione per il fabbisogno locale
(mais, miglio, riso, manioca, fagioli, arachidi e frutta) e
per l’esportazione (cotone, cacao, caffè, palma oleifera, cocco).
Minerali: fosfati, di cui il Togo è tra i primi paesi produttori
ed esportatori del mondo. Industrie chimiche, petrolchimiche,
tessili, alimentari e cemento.
Scheda storica politica e religiosa
12°-16° sec.: varie etnie si stabiliscono nell’attuale Togo: kabyéa
nord; ewé, mina, guinlungo le coste.
1470: navigatori portoghesi esplorano le coste dell’Africa occidentale
e iniziano il commercio dell’oro e prodotti esotici.
1482: costruzione del forte a La Mina (Elmina, Ghana).
16°-18° sec.: compagnie commerciali inglesi, olandesi, francesi
e danesi cacciano i portoghesi e monopolizzano il commercio degli
schiavi: Togo e Dahomey prendono il nome di «Costa degli
Schiavi».
1737-1771: la Società dei fratelli moravi (Giacomo Protte) opera
in Costa d’Oro e Togo.
19° sec.: abolizione dello schiavismo: famiglie di afro-brasiliani ritornano
in Togo.
1827: la Società evangelica di Basilea opera tra le popolazioni a
est del Volta.
1842: creazione del vicariato delle due Guinee. Metodisti ad Aneho.
1847: la Missione di Brema fonda missioni nell’interno del Togo.
1860: creazione del vicariato del Dahomey.
18 aprile 1861: primi missionari della Sma sbarcano a Ouidah.
1884: congresso di Berlino: le potenze europee si spartiscono l’Africa
in zone d’influenza; sorprendendo inglesi e francesi, i tedeschi
firmano un trattato di «protezione» col re togolese: per 20 anni sviluppano
infrastrutture e coltivazioni scientifiche.
1886: i padri Moran e Bauquis avvelenati.
1892: creazione della prefettura apostolica del Togo, affidata ai
missionari tedeschi dello Spirito Santo: il loro arrivo segna
la nascita ufficiale della chiesa togolese.
1914: il vicariato del Togo è elevato a prefettura apostolica.
Scoppia la prima guerra mondiale e il Togo è occupato
da inglesi e francesi.
1916: missionari tedeschi dichiarati prigionieri politici,
poi espulsi.
1918: la Società delle Nazioni (oggi Onu) affida due
terzi del Togo alla Francia, la parte occidentale all’Inghilterra.
1921: il Togo francese è affidato ai missionari di Lione
(Sma).
1923-45: mons. Cessou vescovo di Lomé.
1937: erezione della prefettura di Sodoké.
1939-45:2a guerra mondiale: soldati togolesi
nell’esercito francese.
1945: nascita di partiti indipendentisti:
Comitato dell’unione togolese (Cut) e
Partito togolese del progresso (Ptp).
1946: dal regime di mandato a quello
di tutela: il Togo diventa Territorio
d’Oltremare, con proprio parlamento e
deputati a Parigi.
1955: istituzione della gerarchia in Togo:
Lomé diventa arcidiocesi e Sodoké
diocesi.
1956: Togo diventa Repubblica autonoma:
esponente del Ptp, tendenze neocolonialiste.
1958: vince le elezioni Sylvanus Olympio, leaderdel Cut, ewédel
sud, indipendentista moderato.
27 aprile 1960: il Togo ottiene piena indipendenza. Olympio avvia
riforme nazionaliste, attirandosi le ire dei francesi. Si aggrava la tensione
con le etnie del nord.
1962: mons. Dosseh consacrato primo vescovo togolese di Lomé.
1963: colpo di stato guidato da Eyadéma; Olympio deposto e assassinato.
Grunitzky ritorna dall’esilio e guida il nuovo governo.
1964: mons. Atakpah, primo vescovo togolese di Atakpamé.
1965: mons. Bakpessi, primo vescovo togolese di Sodoké.
1967: nuovo golpe(incruento) di Eyadéma, che si autoproclama
capo dello stato e instaura un regime dittatoriale.
1969: movimenti operai riuniti in un’unica Federazione sindacale;
abolizione dei partiti politici e fondazione del partito unico: Raggruppamento
del popolo togolese (Rpt).
1970-80: nazionalizzazione della produzione ed esportazione dei
fosfati e processo di «autenticità» togolese; inizia il miracolo economico,
che merita al Togo il nome di «Svizzera dell’Africa».
1979: nuova costituzione instaura il presidenzialismo: Eyadéma
eletto presidente per sette anni.
1981: crollo del prezzo dei fosfati e recessione internazionale provocano
crisi economica e crescita del debito estero.
1986: Eyadéma presidente col 99,95% dei voti. Tumulti di sindacati
e movimenti di opposizione con scontri e morti.
Eyadéma è salvato dai paracadutisti francesi.
1989: la Francia preme per aperture democratiche.
1991: serie di scioperi e tumulti repressi nel sangue.
Eyadéma è costretto a concedere varie libertà
democratiche.
1991-92: convocazione della Conferenza
nazionale sovrana che avvia il processo democratico
e vara una nuova costituzione, sotto
la minaccia d’intimidazioni, attentati e mini
colpi di stato militari.
1993: elezioni farsa: Eyadéma eletto col 96,5%
di voti.
1994: elezioni parlamentari: l’opposizione ottiene
la maggioranza dei seggi, ma Eyadéma riesce
a imporre il suo governo. Comunità Europea,
Usa e organismi finanziari tagliano aiuti
e prestiti al Togo.
1998: votazioni presidenziali all’insegna di
brogli e terrore: il dittatore vince con il 52%
dei voti.
1999: elezioni parlamentari boicottate dai
partiti di opposizione: Eyadéma ottiene
quasi tutti i seggi in parlamento. Per rientrare
nelle grazie dell’Occidente il dittatore
promette di anticipare le elezioni presidenziali
al 2001: promessa non ancora
mantenuta.
Una chiesa nel cuore della società
Ufficialmente iniziò nel 1892,
ma i precedenti tentativi di evangelizzazione
non sono da trascurare.
L’opera dei missionari ha forgiato
la società togolese, che ancora oggi
guarda alla chiesa come segno
di speranza, per una rinascita
nella giustizia e riconciliazione
nazionale.
Per oltre quattro secoli la storia
del Togo rimase legata a quella
della «Guinea», regione tra il
Senegal e l’equatore, esplorata dai
navigatori portoghesi a partire dal
1470. Per meglio commerciare oro e
prodotti esotici, essi stabilirono vari
insediamenti, ma scartarono le coste
del Togo, prive di porti naturali. Nel
1482 costruirono il forte a Elmina, poi
a Keta (Costa d’Oro, oggi Ghana) e a
Ouidah (Dahomey, oggi Benin).
L’espansione del cristianesimo era
una priorità dei conquistatori portoghesi.
Da ogni viaggio portavano a Lisbona
giovani «guineani» che, dopo
essere stati istruiti, venivano ricondotti
in patria per diffondere la fede
cristiana tra i connazionali. Gli insediamenti
portoghesi erano, quindi,
anche centri missionari, ma è difficile
dire fino a che punto tale irradiazione
abbia toccato il Togo.
0
LA COSTA DEGLI SCHIAVI
Un cronista di quei tempi, Diego
d’Alvarenga, racconta che a Elmina,
nel 1503, «furono battezzati il capo
di Afouto, 6 ufficiali e 100 persone».
Nel 1634 Propaganda fide assegnò
ai cappuccini inglesi l’evangelizzazione
della Costa d’Oro; 10 anni dopo
arrivò a Roma la notizia del battesimo
del capo di Komenda e altri
principi. Poi i calvinisti olandesi presero
Elmina e cancellarono ogni traccia
cattolica.
Nel Dahomey, a est del Togo, i cappuccini
bretoni fondarono una missione
a Ouidah nel 1644; ma gli stregoni,
sobillati da mercanti inglesi e
olandesi, incendiarono la cappella e
i missionari dovettero scappare. Sedici
anni dopo arrivarono i cappuccini
spagnoli, richiesti dal re d’Arda al
sovrano di Spagna, ma furono cacciati
dai portoghesi. Ritentarono nel
1674 tre domenicani francesi: stavano
per convertire il capo di Ouidah,
ma i mercanti di schiavi montarono
la testa ai locali e i missionari morirono
sulla costa, forse avvelenati.
L’evangelizzazione era impossibile:
la tratta degli schiavi portava ad
identificare cristianesimo e schiavismo;
gli schiavisti, indigeni ed europei,
non permettevano che i missionari
turbassero i loro affari. E dovevano
essere enormi, se la regione tra
Keta e Lagos fu per secoli conosciuta
come «Costa degli Schiavi».
I primi a portare il cristianesimo
tra le popolazioni del Togo furono i
missionari protestanti: il loro eroismo
merita tanto di cappello.
Iniziò la Società dei fratelli moravi
con Giacomo Protte, un mulatto
nato in Costa d’Oro da padre danese
e madre africana. Dopo aver studiato
a Copenaghen, nel 1737 fu inviato
a convertire i suoi paesani; quattro
anni dopo toò in Olanda; nel
1757 e 1769 tentò altre due imprese
solitarie. Nel frattempo fu raggiunto
da altri 5 fratelli, tre dei quali scesero
nella tomba nel giro di due mesi.
Nel 1770 altri quattro missionari raggiunsero
i due sopravvissuti: l’anno
dopo morirono tutti e sei senza lasciare
traccia.
Nel 1827 i missionari della Società
evangelica di Basilea arrivarono nel
forte danese di Christianborg. Per
fuggire al clima micidiale della costa,
si concentrarono nell’interno del paese
e cominciarono ad evangelizzare le
popolazioni ad est del Volta.
Nel 1842 i metodisti si stabilirono
a Lagos, Ouidah e Aneho, grazie a ex
schiavi americani, tornati ai paesi
d’origine. Tra i missionari metodisti
si distinse Thomas Freeman, pastore
infaticabile: di padre africano e madre
inglese, fu educato a Londra; in
due riprese (1843 e 1854) visitò tutta
la Costa degli Schiavi, spingendosi
nell’interno del Togo.
Nel 1847 la Società missionaria di
Brema (Germania) si unì agli evangelici
di Basilea. Stabilito il quartiere
generale a Keta, evangelizzarono
la popolazione ewé a est del Volta e
fondarono varie stazioni missionarie,
distrutte dalle guerre e puntualmente
ricostruite; esplorarono le regioni
di Atakpamé e Anfoin, nel cuore del
Togo. Nel giro di 40 anni si succedettero
circa 100 missionari, 54 dei
quali falciati da febbri malariche.
TEMPI EROICI
Con l’abolizione dello schiavismo,
la Costa degli Schiavi vide nascere le
prime comunità cattoliche, formate
da famiglie di afro-brasiliani (Olympio,
de Souza, da Silveira, Santos,
Campos, Sacramento, Paraiso) che
avevano abbracciato il cristianesimo
durante la schiavitù ed erano tornate
nelle terre di origine: mercanti intelligenti,
diventarono l’élite del Togo
e Dahomey.
Nel 1835 Vanessa de Jesus fece costruire
una cappella ad Aneho, la prima
in terra togolese. Distrutta da un
incendio, fu ricostruita da un gruppo
di bahiani, guidati da Joaquim
d’Almeida. Preti portoghesi venivano
da São Tomé per amministrarvi i sacramenti:
il primo battesimo in Togo
porta il nome di Marcos Francisco da
Massa e la data del 1844.
A quel tempo, il Togo era inglobato
nell’immenso vicariato apostolico
delle due Guinee, creato da Propaganda
fide nel 1842, da cui fu ritagliato,
nel 1860, il vicariato del Dahomey
(tra il Volta e il Niger) e affidato
alla Società delle missioni africane di
Lione (Sma). Il 18 aprile 1861 sbarcarono
a Ouidah i primi due missionari,
l’italiano Borghero e lo spagnolo
Feandez.
Senza trascurare i cristiani brasiliani,
i missionari Sma evangelizzarono
i nativi: nel 1963 battezzarono i primi
due togolesi; 10 anni dopo si stabilirono
ad Agoué, in territorio togolese,
e si spinsero nell’interno del
paese, fino a Atakpamé.
Nel 1892 il vicariato fu smembrato
in due prefetture, l’una con sede a
Lagos, l’altra ad Agoué, avendo per
confini i fiumi Ouémé e Volta. Due
anni dopo (1884) il Togo diventò
protettorato tedesco e, con la firma
di accordi con inglesi e francesi, cominciò
ad avere confini più definiti:
tra i fiumi Mono e Volta.
Intanto i missionari francesi continuarono
ad avanzare nell’interno, accolti
a braccia aperte dal cecuziente
re Abasa: all’inizio del 1886, i padri
Moran e Bauquis, fondarono ad Atakpamé
la prima vera stazione missionaria
del Togo. I due padri non stavano
nella pelle per la gioia, ma dovettero
fare i conti con gli stregoni,
che cercarono di avvelenarli insieme
al vecchio re. Dopo vari tentativi, ci
riuscirono (vedi riquadro). Nell’agosto
del 1887 la missione fu abbandonata
e totalmente saccheggiata.
PIONIERI E STRATEGHI
Intanto l’amministrazione tedesca
impose nelle scuole l’insegnamento
della lingua del padrone, pena la
chiusura delle missioni. I missionari
di Brema e Basilea giocavano in casa;
cattolici e metodisti dovettero
correre ai ripari.
La congregazione di Propaganda fide
eresse il territorio del protettorato
a prefettura apostolica del Togo,
e la affidò alla Società del verbo divino
(Svd), la più grande congregazione
missionaria tedesca: era il febbraio
del 1892, data ufficiale della
nascita della chiesa togolese.
Il 27 agosto dello stesso anno, 2
preti e 3 fratelli erano a Lomé e si misero
subito al lavoro; il 18 settembre
era pronta la cappella; il 20 dello
stesso mese apriva la scuola con 25
alunni; il 25 ottobre iniziava il catecumenato;
a natale i primi battesimi.
Alla fine del 1893, la relazione inviata
a Propaganda fide così riassumeva
i 15 mesi di lavoro: 3 missioni
con 5 preti, 8 fratelli e un volontario
laico; 135 alunni nelle scuole di
Lomé, Adidjo e Togoville; 150 cristiani
e 160 catecumeni; battezzati
50 adulti e un migliaio di morenti.
Le cifre non danno conto dei missionari
falciati da malaria e vaiolo, o
costretti a rimpatriare a pochi mesi
dall’arrivo. «Tutti malati! Stop. Aiuto!
» gridava il telegramma del prefetto
al superiore generale nel giugno
1896. Ma dalla casa madre, almeno
nei primi anni, arrivano pochi
soldi e tante critiche: si parlava d’infantilismo,
ambizioni e sprechi, anche
se, per sopravvivere, i missionari
si arrangiavano con artigianato e
agricoltura.
Anche sul campo abbondavano le
spine. Il manipolo di cristiani afrobrasiliani
trovati in Togo vivevano
«nelle condizioni dell’Antico Testamento
– scriveva il prefetto, padre
Schäfer -; molti sono tornati alla poligamia;
ma sono ben disposti verso
i missionari». Più dura era la lotta
con gli stregoni, che proibivano di
mandare i ragazzi a scuola e tentarono
di avvelenare un missionario.
Inoltre, bisognava sgomitare per
farsi largo tra i protestanti, arrivati
decenni prima. Il governo fu costretto
a dividere il territorio in zone
d’influenza e proibire invasioni di
campo. Solo nel 1913, i padri poterono
spingersi nell’estremo nord.
Autentici strateghi, i missionari tedeschi
si stabilirono nei centri popolosi,
mercati e incroci di vie di comunicazione.
Poiché il mondo degli
adulti resisteva alla penetrazione del
vangelo, a causa dell’attaccamento
alla religione tradizionale (vodoun e
feticismo) e poligamia, essi concentrarono
gli sforzi sui giovani, seminando
il paese di scuole primarie,
agricole e professionali.
Alla formazione umana e religiosa,
i verbiti univano lo studio di lingue
e culture locali, traduzioni e pubblicazioni
di libri religiosi. Studiarono i
problemi più spinosi, come la poligamia,
prospettando soluzioni audaci:
dare almeno il battesimo ai poligami
più aperti ai valori del vangelo.
I fratelli, spesso in numero superiore
ai padri, innalzarono le strutture
materiali (case, chiese, cappelle,
scuole e cattedrale di Lomé) e si immersero
nella formazione scolastica,
sfoando maestri, artigiani e catechisti.
Altrettanto preziosa, nella formazione
femminile, fu la presenza
delle suore, arrivate nel 1897.
Tale strategia lungimirante si dimostrò
vincente: la maggioranza dei
battezzati e famiglie cristiane nascevano
sui banchi di scuola. In 20
anni la chiesa in Togo era impiantata
e consolidata. Nel 1914 essa contava
quasi 20 mila battezzati, 6.425
catecumeni e 1.235 matrimoni religiosi;
47 padri, 15 fratelli e 25 suore
erano distribuiti in 15 missioni, attendevano
a un numero impressionante
di stazioni periferiche e gestivano
198 scuole con 8.463 alunni e
228 maestri e catechisti. C’erano più
alunni nelle scuole cattoliche del Togo
che in tutte le colonie francesi
dell’Africa occidentale.
«Se i tedeschi fossero rimasti, oggi
tutto il Togo sarebbe cattolico»
sospira un missionario italiano con
lunga esperienza nel paese.
SECONDA NASCITA
Con lo scoppio della prima guerra
mondiale (1914), il Togo fu occupato
dalle truppe inglesi e francesi, prima
vittima del conflitto. Inizialmente
tollerati, ma con le ali tarpate da
restrizioni d’ogni genere, i missionari
tedeschi vennero dichiarati prigionieri
politici nel 1916 e, nel giro
di un anno, erano tutti fuori del paese:
padri e fratelli deportati in Inghilterra,
le suore rimpatriate.
Per quattro anni i vescovi della Costa
d’Oro e Dahomey presero in consegna
il vicariato e inviarono alcuni
missionari per tenere aperte alcune
missioni e scuole. Finita la guerra, i
verbiti cercarono di ritornare nelle
amate missioni, ma Parigi e Londra
non ne vollero sapere. Nel 1921 Propaganda
fide affidò la parte francese
ai missionari di Lione; quella amministrata
dagli inglesi fu annessa al vicariato
di Keta.
La chiesa togolese cominciò a riprendersi,
ma molto lentamente: i
missionari arrivavano col contagocce,
sempre insufficienti a coprire tutte
le opere avviate dai verbiti: nel
1958 il numero dei missionari era di
poco superiore a quello del 1914.
Nonostante ciò, la chiesa togolese
sperimentò una nuova nascita, grazie
al sacrificio del personale missionario
e alla lungimiranza del vicario,
mons. Jean-Marie Cessou. Egli continuò
lo sviluppo delle scuole, aprì
nuove missioni nel centro e nord del
paese e, per neutralizzare l’influenza
islamica, facilitò la creazione della
prefettura di Sodoké (1937).
Grande merito di mons. Cessou fu
la promozione delle vocazioni indigene.
Nel 1922 fu ordinato il primo
prete africano nella zona britannica;
6 anni dopo un togolese nella zona
francese. Alla sua morte (1945) il vescovo
lasciava 23 preti europei e 4
togolesi, 26 suore e 292 catechisti,
191 scuole e 13 mila allievi, 88 mila
cristiani e 200 chiese e cappelle.
CHIESA MAGGIORENNE
Dopo il secondo conflitto mondiale,
che aveva richiamato sotto le armi
i missionari più giovani, arrivarono
una quindicina di congregazioni
maschili e femminili di diverse nazionalità
e la chiesa togolese fu rivitalizzata.
Furono promesse numerose
associazioni, confrateite religiose
e istituzioni varie: collegi, seminari,
noviziati di suore indigene, per rispondere
ai venti nuovi che soffiavano
sulla società del Togo.
Nel 1955 il vicariato di Lomé fu
elevato ad arcidiocesi e la prefettura
di Sodoké a diocesi; pochi anni dopo
la chiesa cominciò a passare nelle
mani della gerarchia togolese: nel
1962 Robert Dosseh fu consacrato
vescovo di Lomé; due anni dopo Beard
Ogouki-Atakpah guidava la diocesi
di Atakpamé; l’anno seguente
Chretien Bakpessi quella di Sodoké.
Il Togo è stato definito «figlio primogenito
della chiesa». Non è retorica.
Con le solide strutture e organizzazioni,
qualità delle scuole, formazione
di quadri ed élites, strutture
sanitarie e ospedaliere, opere agricole
e idrauliche, sociali o di beneficenza
sviluppate prima e dopo l’indipendenza
(1960) la chiesa cattolica
ha modellato la nascita e la crescita
della società togolese.
Nel 1958, per esempio, alle votazioni
per il parlamento della Repubblica
autonoma, 37 deputati su 46 e
8 ministri su 10 erano cattolici, tra
cui il primo ministro, Sylvanus Olympio,
padre del Togo indipendente.
Oggi, su una popolazione di circa 5
milioni di abitanti, la chiesa conta
quasi un milione e mezzo di cattolici
(25%) e 65 mila catecumeni, 7 diocesi
guidate da altrettanti vescovi autoctoni,
oltre 300 preti diocesani
(erano 170 nel 1990) e 200 seminaristi,
160 religiose di origine straniera
e più di 400 religiose autoctone,
appartenenti a una trentina di istituti
missionari; quattro istituti locali
che contano oltre 300 suore.
SFIDE DEL TERZO MILLENNIO
Nell’ultima visita ad limina (1999),
i vescovi togolesi hanno sentito dal
papa queste parole: «Auguro che una
vera solidarietà si manifesti tra le
diocesi, attraverso una ripartizione
adeguata di personale apostolico,
che permetta di aiutare generosamente
quelle più povere».
Di fatto, la chiesa del Togo sembra
spaccata in due: al sud è ultracentenaria,
tradizionalista e clericalizzata,
ricca di clero, suore e risorse finanziarie;
al nord è appena cinquantenne,
povera d’organizzazione e totalmente
dipendente dalla chiesa universale
in quanto a personale e aiuti
materiali. Il cammino verso la solidarietà
della «chiesa famiglia», ideale
del sinodo per l’Africa, in Togo è
ancora ai primi passi.
La sfida più lacerante viene dalla situazione
politica e sociale del paese.
Se all’inizio della dittatura la chiesa
si era appiattita sulle posizioni del regime,
scegliendo il male minore, ben
presto ha recuperato il suo ruolo profetico:
nel 1976 il vescovo di Atakpamé
fu costretto a dimettersi per
aver osato criticare il dittatore. Questi
diede ordine all’esercito d’impedie
la consacrazione del successore,
mons. Kpodzro: il giorno prima
dell’ordinazione fu cambiato il luogo
e i soldati arrivarono alla fine della
cerimonia. Ma il vescovo rimase sequestrato
a Lomé per cinque anni,
prima di entrare nella sua diocesi.
Nel passaggio alla democrazia la
chiesa c’era: comunità cristiane e preti
erano contro la dittatura e mons.
Kpodzro fu chiamato a guidare la
Conferenza nazionale (1991-92). Il
prestigio che gode nella società togolese
è uno stimolo in più per impegnarsi
nella promozione della giustizia
e riconciliazione nazionale.
Alcune lettere pastorali presentano
diagnosi inequivocabili dei mali della
società: paura, violenze, vendette,
corruzione, impunità. «Come missionari
– afferma uno di essi – vorremmo
dai vescovi un po’ più di interventismo
in occasione delle elezioni, nel
campo sociale e dei diritti umani».
La chiesa rimane una spina nel
fianco del regime, che reagisce con
meccanismi diabolici e, per tagliarle
l’erba sotto i piedi, strizza l’occhio alle
sètte, massoneria, Rosa Croce e
mondo islamico soprattutto.
Presenza percettibile solo nel centro-
nord, l’islam è passato dal 5% del
1960 all’11% nel 1970, al 16% nel
2001. Da un decennio si assiste a una
fioritura di moschee, centri islamici
e scuole coraniche in tutto il paese,
soprattutto da quando il Togo è diventato
membro dell’Organizzazione
della conferenza islamica nel 1997.
Tale adesione non è disinteressata:
i paesi islamici aprono la borsa dei loro
petrodollari; in compenso, il regime
concede spazio ai musulmani nella
stanza dei bottoni, amministrazione
e uso di radio e televisione.
«L’islam fa breccia anche tra i più
poveri – afferma mons. Kpodzro -.
Promesse di denaro e promozione sociale
sono forti tentazioni per farsi
musulmano. Malgrado tutto, la chiesa
intrattiene buone relazioni con i
musulmani. Ma come arginare tale
offensiva legata essenzialmente alla
potenza del denaro?».
Alla domanda il vescovo di Lomé
ha già trovato la risposta: nella sua
diocesi ha aperto la «Scuola cristiana
della fede», che opera su tre direttive:
formazione dei laici, studi biblici
e Forum fede e vita, destinata a
incontri e dibattiti ad alto livello sulla
dottrina sociale della chiesa.
«C’è bisogno di una rinascita nella
catechesi, sia a livello popolare, per
aiutare i cristiani a difendersi dall’aggressività
delle sètte e dell’islam,
sia a livello di élites cristiane, poiché
hanno una cultura religiosa rudimentale.
Con la nostra “Scuola” vogliamo
dare loro una formazione dottrinale,
spirituale e morale, per avere
una classe dirigente ancorata ai
valori cristiani e pienamente impegnata
nella promozione della pace,
giustizia, bene comune e un’autentica
democrazia. E che Dio ci aiuti!».
PRIMI MARTIRI
Due donne stavano raccogliendo legna.
Sbadatamente raccattarono
frasche di un albero sacro. Era un crimine
meritevole di morte, anche se
commesso inavvertitamente: furono
avvelenate. L’una morì, l’altra fu portata
ai missionari, che riuscirono a salvarla.
Gli stregoni le diedero un’altra
porzione di veleno; e i missionari la salvarono
una seconda volta.
I fattucchieri erano infuriati: quei due
stranieri erano più forti di loro. Il sabato
santo del 1886 li avvelenarono, non
si sa come, insieme al re. Questi morì
all’istante; i missionari se la cavarono;
ma erano così indeboliti che dovettero
andare a riposarsi sulla costa.
Toati ad Atakpamé, padre Moran
si guadagnò la simpatia di alcuni
capi e stregoni, distribuendo regali, e
ottenne il permesso di esercitare la medicina.
Per qualche mese i missionari
furono lasciati in pace. La gente accorreva
alla missione, disertando le
pratiche feticiste, provocando rabbia e
gelosia tra vari fattucchieri.
Questi studiarono i movimenti dei missionari
e videro che, ogni giorno, un ragazzo
andava a comperare una zucca
di vino di palma per i padri; avvicinarono
il mercante, avvelenarono il vino
e raccomandarono al ragazzo di non
berlo, perché sarebbe stato un furto.
Appena i missionari bevvero il vino,
sentirono subito gli effetti del veleno.
Presero immediatamente dei rimedi e
vomitarono anche l’anima: era il 7
agosto 1887. Padre Bauquis si salvò;
ma padre Moran spirò tra atroci contorsioni,
senza medico e senza prete,
poiché il confratello era troppo debilitato
per assisterlo. Aveva solo 28 anni.
I nemici della missione avevano raggiunto
lo scopo: un missionario morto
e l’altro in fin di vita. Padre Bauquis dovette
ritirarsi sulla costa, dove morì nel
1891.
Nel 1939 si venne a sapere che il
calice di padre Moran era stato
usato come feticcio in una festa pagana
ufficiale. I missionari lo reclamarono
energicamente. Ma i fattucchieri ricorsero
di nuovo ai veleni. Il vescovo
dovette ritirare i preti perché non rischiassero
la vita.
La storia riemerse nel 1951: per l’ordinazione
del primo prete di Atakpamé
i giovani gli offrirono un calice «per
cancellare l’onta dell’avvelenamento di
padre Moran».
Vodoun: religione tradizionale del Togo
Per capire una cipolla bisogna sfogliarla. Così il
vodoun: non esistono definizioni; per comprenderlo
bisogna guardare le sue manifestazioni.
Gli europei li chiamano feticci; i locali tolegba (spirito
del paese); è una testa di terra, con occhi spalancati,
piantata al suolo. Impossibile non notarli: sono posti ai
crocicchi, all’entrata dei villaggi e nei luoghi più frequentati.
A Fiata ce ne sono due a poca distanza: uno accanto
alla strada, protegge il paese; l’altro nel mercato, sotto una
pianta, aiuta la gente a fare buoni affari.
Spesso ci si imbatte in tempietti, altarini, simulacri, oamenti
e altri feticci di vario genere e forma: tutti simboli
del vodoun, la religione tradizionale praticata dalla
maggioranza della popolazione del Togo e del Benin.
«In principio Mawu (Dio) viveva fra gli uomini – racconta
un mito degli ewé -. Il cielo era così basso che
lo si poteva toccare con la mano. Un giorno una donna stava
cuocendo la polenta e, non potendo girare il mestolo
perché il cielo era troppo vicino, s’indispettì e gettò la polenta
contro il cielo. Mawu si arrabbiò e disse: “D’ora in poi
non voglio più stare fra gli uomini!”. E tirò su anche il cielo».
Mawu, il Dio creatore e trascendente, è inteso lontano e
irraggiungibile, impassibile alle preghiere e vicende umane:
ma per compensare il suo allontanamento, affida la cura
della creazione a divinità minori: i vodoun. Il termine,
infatti, nella lingua fon (Benin) significa «cosa misteriosa,
nascosta, sacra», tra le popolazioni togolesi «messaggero
del profondo». Tale parola sta a indicare, quindi, l’insieme
delle forze da cui dipende l’uomo, nel bene e nel male,
e la religione che ne deriva.
Nessuno sa quanti siano i vodoun; i più informati dicono
che possono essere quasi duemila. I più antichi e importanti
sono identificati
con le forze della natura (fulmine,
vaiolo, mare, terra, foresta,
animali, serpenti), altri
si rifanno a personaggi
storico-mitici e antenati; ne
esistono di modei, inventati
per far fronte a potenze
occulte (magia e violenza) e
ottenere favori «immediati»:
protezione, benessere o maledizioni
per i nemici.
I vodoun cosmici e degli
antenati hanno propri templi
e conventi, sacerdoti, sacerdotesse
e adepti, ai quali
vengono trasmessi i relativi
poteri. Tale iniziazione dura tre anni: novizi e novizie apprendono
tutto lo scibile e la saggezza religiosa ricevuta
dagli antenati: storia, leggende, miti, erbe medicinali e arte
divinatoria… una vera e propria enciclopedia orale.
Nella natura e nella vita umana non si muove foglia che
il vodoun non voglia. Esso, di per sé non è né buono
né cattivo: tutto dipende dal comportamento dell’uomo.
Perciò i fedeli, attraverso giochi divinatori, devono conoscere
il proprio destino e imparare come comportarsi e soprattutto,
mediante preghiere e danze, sacrifici animali e
libagioni di olio di palma, offerte di farina di mais e altri
doni di vario genere, devono convincere i vodoun a elargire
favori e protezione.
I vodoun, inoltre, sono «energie vitali» presenti dappertutto
e che si concretizzano in diverse forme del regno
animale, vegetale e minerale. Tale forza vitale può essere
controllata, aumentata o diminuita mediante offerte e sacrifici.
Più le offerte sono abbondanti, più le divinità hanno
forza e migliori sono le loro intenzioni; se esse diminuiscono,
i vodoun s’indeboliscono.
Tale interdipendenza tra
l’uomo e le forze cosmiche e
ancestrali presenta una visione
altamente positiva
dell’universo: il mondo è
un’immensa manifestazione
del sacro, mistero «tremendo
e fascinoso», che permea
tutta l’esistenza quotidiana;
la relazione tra vita e pratica
religiosa è così stretta che
rende impossibile stabilire
una netta divisione tra sacro
e profano.
I l mondo visto dal vodoun
è solidarietà, unità, totalità,
eloquentemente tradotto in simbolo dal serpente che
si morde la coda; ma presenta pure aspetti patologici. Lungo
le rive del Volta, in Ghana, per esempio, esistono vari
templi in cui vivono le trokosi o schiave di Tro: donne che,
fin da bambine, sono state offerte alla divinità in riparazione
di colpe commesse dai genitori; in pratica sono proprietà
dei sacerdoti e passano la loro vita in stato di schiavitù,
soggette a ogni genere di abuso.
Inoltre, i confini tra religione e magia sono incerti; anzi,
spesso entrano in cortocircuito. Mentre la religione cerca di
onorare e propiziarsi la divinità, la magia cerca, con precisi
e vincolanti rituali, di sottomettere al proprio potere spiriti
e forze della natura e sfruttae la potenza per provocare
effetti benefici (magia bianca) o malefici (magia nera).
Tutto dipende dagli addetti ai lavori: indovini, curatori,
maghi, stregoni, uomini e donne, che praticano
la magia con abilità, turlupinando la gente. Non
per nulla la popolazione del Benin chiama il bokono
(sacerdote di fa, lo spirito dell’oracolo) awono: bugiardo.
Un esempio di magia nera è il chakata, chiamato «fucile
africano»: serve ad avvelenare o a infiggere nel corpo
della vittima, distante anche vari chilometri, chiodi,
aghi, sassi, lamette, pezzi di vetro e simili, provocando
atroci dolori, fino alla morte. Per prevenire
o liberarsi da simili disgrazie, si ricorre a stregoni
più potenti, capaci di diagnosticare il maleficio
e rimuoverlo con medicine, incantesimi, sacrifici,
dietro lauta ricompensa.
Esistono anche mezzi fai-da-te: amuleti o grigri.
E sono innumerevoli. Si può richiederli
agli stregoni: basta pagare. Ma li si può
comprare anche al mercato:
sono di ogni forma e grandezza,
pezzi di legno o di ferro,
statuette di creta, tutti decorati
da piume, denti di rettili, pesci
e uccelli. Per farli agire basta pronunciarvi
una formula oscura e il gri-gri è confezionato,
pronto da portare a casa.
I primi missionari videro nel vodoun una religione politeista,
simile a quella dell’antica Roma, opera del diavolo,
e come tale da combattere frontalmente, bruciando
feticci e distruggendo idoli e altarini. Oggi il loro atteggiamento
è cambiato: i vodoun non sono dèi, al pari di
Mawu, ma semplici creature; non più lo scontro, ma la cristianizzazione
degli aspetti cultuali più significativi.
Ne è un esempio il santuario della Madonna del Lago,
costruito nel 1973
a Togoville, cuore
del feticismo. Qui
risiede il capo dei
sacerdoti vodoun, il
quale ha rappresentato
la religione
tradizionale africana
all’incontro interreligioso
di preghiera
per la pace,
tenuto ad Assisi nel
1986. Qui la gente
viene per sottomettersi
a riti di purificazione
individuali
e collettivi.
Oggi il tempio
mariano è diventato
santuario nazionale,
meta di pellegrinaggi
provenienti da tutte le
parti del Togo: così la purificazione
continua, ma in senso cristiano.
Nel febbraio 1993, Giovanni Paolo
II, in visita al Benin, incontrò i
capi del vodoun e, nel suo discorso,
insistette sulla «necessità del
dialogo tra tutti i credenti in
Dio». I vescovi presenti masticarono
amaro, timorosi
che le parole papali potessero
accrescere la confusione
tra i cristiani, già così
facili a conciliare le due
religioni.
Alcuni cristiani, infatti, si
comportano come tali la
domenica; ma nelle case
conservano i soliti feticci e
amuleti; varie donne sgranano
il rosario inginocchiate davanti
alla Vergine; poi si abbandonano
alle danze più sfrenate in
preda alla possessione. Non sono
pochi coloro che si fanno contemporaneamente
cristiani e musulmani,
considerando Allah e Cristo
alla stregua dei vodoun
tradizionali. Non si sa mai: se
uno non funziona si ricorre all’altro.
RESTITUIRE DIGNITÀ
Da una decina d’anni, le Figlie di S. Gaetano sono
presenti in Togo e, secondo il loro carisma, si
occupano «dei più poveri tra i poveri», curando
ammalati, assistendo handicappati, aiutano la
gente a camminare con le proprie gambe.
Èancora scuro a Fiata, ma la
gente è già in strada per recarsi
nei campi, sfruttando le
ore fresche del mattino. Quando il
sole è alto e il caldo troppo forte, lavorare
diventa più faticoso. Anche il
guardiano della casa delle suore è già
in azione: pulisce il cortile, annaffia
i fiori, apre il portone che immette al
dispensario e subito si forma la lunga
fila di pazienti.
I PIÙ POVERI TRA I POVERI
È così ogni mattina. Suor Fatima,
brasiliana, responsabile della direzione
del dispensario, comincia ad
accogliere i malati e, coadiuvata da
suor Alfonsa e un’infermiera locale,
riempie le schede sanitarie, ascolta
le sofferenze della gente, prescrive e
distribuisce medicine. Malaria e
malnutrizione infantile sono le patologie
più frequenti, insieme alle
infezioni e malanni vari causati dal
clima tropicale e dalla miseria. Negli
ultimi tempi si è aggiunto il flagello
dell’Aids.
Il dispensario è la prima struttura
che le Figlie di San Gaetano, arrivate
in Togo una decina di anni fa,
hanno costruito per rispondere al
loro carisma: amare «i più poveri tra
i poveri». E la povertà è visibile e
tangibile, scolpita nel viso di bimbi
scheletriti soprattutto.
La struttura è semplice, ma dignitosa
ed efficiente, attrezzata per sfidare
le necessità della gente e le precarietà
della situazione del paese: un
sistema di pannelli solari, realizzato
di recente, permette ai frigoriferi di
conservare vaccini e medicine deperibili,
anche quando la rete elettrica
nazionale non funziona; il che
capita spesso.
L’elettricità solare ha reso possibile
attivare un laboratorio di analisi.
Lo hanno organizzato Donato ed
Elena Calocero, due volontari torinesi
che, ottenuto un anno di aspettativa
dall’ospedale delle Molinette
di Torino, hanno montato le strutture,
messo in funzione il laboratorio
e passato le consegne a suor Innocence,
infermiera togolese della
stessa famiglia gaetanina.
Fiore all’occhiello di tutta la diocesi
di Aneho, il dispensario di Fiata
è un’autentica testimonianza di
carità e la gente vi accorre con fiducia,
sia perché vi trova le medicine di
cui ha bisogno, sempre scarse o inesistenti
nelle strutture statali, sia perché
si sente trattata con amore e rispetto
della propria dignità.
I CIECHI VEDONO
GLI ZOPPI CAMMINANO…
Tra i poverissimi le missionarie
hanno incontrato gli handicappati,
con alle spalle storie di degrado ed
abbandono, come quella di Ekoué
Kankoé. Colpito da malformazione
congenita, orfano di madre, rifiutato
dal padre passato in seconde nozze,
il ragazzo conduceva una vita
randagia quando fu scoperto dalle
suore: si trascina a fatica con mani e
piedi; incapace perfino di tirare l’acqua
dal pozzo, era sopravvissuto
grazie alla compassione della gente
e qualche furtarello.
Dopo aver rintracciato un cugino,
che lasciò la scuola per assisterlo all’ospedale,
le suore provvidero a farlo
operare. Quando Ekoué ritoò
al villaggio, la gente non credeva ai
propri occhi, vedendolo ritto sulle
proprie gambe; il padre rimase impietrito,
in un misto di stupore e
rabbia, e continuò a ignorarlo.
Per alcuni mesi il cugino lo portò
a scuola sulle spalle, finché il ragazzo,
con la forza di volontà, riuscì a
recarvisi da solo, con l’aiuto delle
stampelle. Nel frattempo, gli fu trovata
una sistemazione in una famiglia
che, oltre ai propri figli, si prende
cura di quattro orfani.
Oggi Ekoué frequenta la quinta
elementare; nella nuova famiglia ha
trovato la gioia di vivere e ottenuto
tutti i documenti di un normale cittadino.
Anche Yawo Missadjo, detto Tata,
è stato rifiutato dai genitori, ma
è stato accolto da una zia. «È il pri-
mo dramma degli handicappati –
continua suor Luciana -: i genitori li
considerano un castigo divino, una
vergogna da tenere nascosta il più
possibile; quando non sono abbandonati
a se stessi, tali figli vengono
affidati a nonni o zii».
Per 16 anni Yawo non aveva alzato
le mani da terra più di un palmo.
Ma riusciva a fare qualche lavoretto,
intrecciando la paglia. Sottoposto
all’operazione, è riuscito a rimettersi
in piedi. Quindi fu iscritto
alla scuola di alfabetizzazione, ma
con scarso successo: riesce appena
a scrivere il suo nome. Ma ha molte
doti pratiche e alcuni stregoni lo
hanno ingaggiato per fare collane e
altri oggetti artigianali; con i guadagni
riesce a badare a se stesso, anche
se per rinnovare gli apparecchi ortopedici
dipende ancora dall’aiuto
della missione.
Gloria Kankoé è cieca dalla nascita.
Anche lei abbandonata dai genitori,
è stata raccolta dalle suore e
affidata a un istituto per non vedenti,
dove ha imparato a impagliare sedie,
fare stuoie e tappeti. Ha incominciato
a studiare e già maneggia
una macchina da scrivere braïlle.
Il caso di Missan Afli fa eccezione:
fu il padre in persona a portare
la figlia alla missione, quando seppe
che le suore si prendevano cura degli
handicappati. L’esempio delle
suore ha risvegliato in lui l’amore
paterno, offrendo tutta la collaborazione
possibile per restituire alla
figlia la sua dignità.
La bambina camminava con mani
e piedi, ma l’attenzione delle suore
e l’amore del padre le hanno dato
tale forza di volontà per reagire
al suo handicap, finché è
riuscita a camminare senza bisogno
di alcuna operazione. Nonostante
una mano ancora gravemente menomata,
ha imparato a scrivere. La
domenica, mentre procede danzando
in processione con le offerte
della messa, non manca di dare una
sbirciata alla suora, per esprimere la
felicità di camminare come le compagne.
Storie di «ciechi che vedono e
storpi che camminano» ce ne sono
altre 130, racchiuse in un faldone
che suor Luciana sfoglia con la reverenza
dovuta a un messale. Sono
schede con fotografie scattate prima
e dopo l’operazione, dati anagrafici,
situazioni familiari, progressi di
riabilitazione, resoconti contabili,
relazioni aggiornate e spedite regolarmente
al Lilian Fonds, un’associazione
olandese che si occupa del
recupero di handicappati.
«È un lavoro che assorbe energie
fisiche e mentali – confessa sorridendo
suor Luciana, responsabile
di fronte all’associazione dei progetti
di recupero -. Ma procura soddisfazioni
impareggiabili: rimettere
in piedi questi infelici significa reintegrarli
nell’umanità, restituire loro
la dignità umana. Oggi, nel raggio
30-40 km, non si vedono più handicappati
chiedere l’elemosina per
strada. Alcuni di essi hanno raggiunto
la piena indipendenza».
È il caso di Ekoué Gakpea: rimesso
in piedi, ha imparato a fare il sarto;
ha ricevuto una macchina da cucire
e con il suo lavoro mantiene se
stesso e tutta la famiglia. Anzi, è diventato
tanto esperto di macchine
da cucire che va in giro ad aggiustare
quelle degli altri.
MANAGER DELLA…
PROVVIDENZA
Fino a quando non è raggiunta la
piena autonomia, il processo di riabilitazione
è lungo e faticoso: bisogna
seguire caso per caso, controllare
se gli apparecchi sono in buono
stato o troppo stretti, riportarli all’ospedale
per eventuali riparazioni
o adattamenti.
Speciale attenzione è rivolta alle
famiglie degli handicappati, per esigere
la loro collaborazione, specialmente
quando i figli incontrano delle
difficoltà, rifiutano gli apparecchi
ortopedici, si buttano per terra e ritornano
a una situazione peggiore
di quella precedente l’operazione.
«Il mio lavoro consiste nel cornordinare
iniziative e progetti – continua
la missionaria, sentendosi quasi in
colpa per mancanza d’umiltà -. Va-
do a visitare i genitori solo quando
essi rifiutano di essere coinvolti nel
recupero dei figli. Il grosso del lavoro
è fatto da collaboratori, due
uomini e due donne, che scovano i
casi più pietosi, visitano regolarmente
i 130 ragazzi e ragazze, ne seguono
da vicino il processo di riabilitazione
e fanno i rapporti sulla situazione.
Uno dei collaboratori è il mio
braccio destro: battezzato otto anni
fa insieme a tutta la famiglia, macina
chilometri e chilometri, sostenuto da
fede granitica e tanta passione per gli
handicappati, che mi sembra di toccare
con mano la misericordia del Signore
per questa popolazione, povera
e sofferente da fare pietà».
Un’altra iniziativa intrapresa dalle
suore è quella delle adozioni a distanza.
Anche questa attività è racchiusa
in grossi faldoni e gestita da
suor Luciana. «L’adozione dura cinque
anni – spiega la missionaria -: oltre
500 adottati ne hanno beneficiato
e concluso il ciclo elementare; altre
900 sono ancora in corso. Spesso
devo fare le ore piccole per compilare
e aggioare le schede degli
adottati e inviare relazioni ai padrini
e madrine sulla situazione dei figliocci».
Il lavoro più delicato consiste nel
vagliare i casi da aiutare, poiché tutti
sono poveri, ed evitare di creare
dipendenze e, soprattutto, gelosie
tra le famiglie del villaggio. In questo
campo i collaboratori africani si
rivelano indispensabili: una bianca
darebbe troppo nell’occhio. E se la
cavano da veri 007, sia nello scoprire
le reali situazioni familiari, sia nell’evitare
la curiosità dei vicini, sia
nello scattare le fotografie senza che
gli interessati se ne accorgano.
Inoltre, non si parla mai di «adozione
», affinché i genitori non avanzino
pretese, ma il denaro viene distribuito
in tre rate annuali, sotto
forma di prestiti, aiuti di emergenza
o pagamento diretto alla scuola dalla
quale gli alunni sono stati cacciati,
perché i genitori non hanno pagato
la tassa scolastica.
Secondo il sistema proposto dalle
Figlie di San Gaetano, la cifra di
adozione è assai modesta (100 mila
lire, ora portata a poco più di 80 euro);
sbriciolata in tre rate, appare ancora
più esigua, ma non in Togo,
dove tali briciole equivalgono allo
stipendio mensile di molti maestri
di scuola elementare.
A PICCOLI SOGNI
Dopo il ciclo elementare, non c’è
speranza di continuare gli studi: le
tasse per accedere alle scuole superiori
e liceali sono proibitive. Ragazzi
e ragazze cercano di imparare un
mestiere e, magari, mettersi in proprio.
Per realizzare tale sogno occorre
prima di tutto avere un diploma,
senza il quale è impossibile ottenere
la licenza dal governo, e i soldi per
procurarsi strumenti e materiali.
Quando un falegname del luogo,
diplomato in Nigeria, ha presentato
a suor Luciana il progetto di avviare
una falegnameria, con scuola
per giovani apprendisti, e le hanno
chiesto una spinta per avere attrezzi
e rifoirsi di legname, la missionaria
non ha saputo dire di no: ha
scritto alla Caritas di Montegranaro
(Ascoli Piceno), suo paese di residenza,
e sono arrivati alcuni macchinari
e i fondi necessari.
Les Olivieres, così si chiama la
nuova società, è in piena attività: costruisce
e vende mobili di vario genere
e dimensione, preparano assi e
travi per fabbricare case. Mentre i
tre falegnami che gestiscono tale iniziativa
si guadagnano da vivere onestamente,
i quattro giovani imparano
il mestiere e, alla fine dei due anni
di apprendistato avranno il
diploma e potranno realizzare il sogno
di mettersi in proprio.
Ma poiché l’appetito viene mangiando,
suor Luciana ha presentato
alla Caritas marchigiana i progetti
per allargare la società con officine e
relativi corsi di formazione per elettricisti,
fabbri e meccanici. «Les Olivieres
si appoggiano ancora su di me,
ma spero che presto diventino autonomi
e camminino con le proprie
gambe», conclude la missionaria.
Un progetto diventato autonomo
è quello dei mulini per aiutare le madri
di famiglia. Il processo è molto
semplice: un gruppo di donne hanno
chiesto un prestito per comperare
il frantornio, costruire la struttura
muraria, acquistare granoturco, manioca,
palme da olio; una volta macinati
questi prodotti vengono ven-
duti al minuto; il ricavato viene diviso
in v
Benedetto Bellesi