Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Lo scorso maggio il governo brasiliano
ha inaugurato una caserma militare
in pieno territorio indigeno. È l’ennesimo
atto di prepotenza, che mette a rischio
la sopravvivenza dei popoli autoctoni
dell’Amazzonia, già prostrati da problemi
più grandi di loro.
Nel frattempo, su iniziativa dei missionari
della Consolata, parte una nuova,
grande campagna in favore degli indigeni
di Roraima. Si chiama «Vogliamo vivere!».
Il 2 maggio 2002 l’esercito brasiliano
ha inaugurato, nella località
di Uiramutàn, nello stato di
Roraima, con festeggiamenti, spari
e grande dispiegamento militare, la
caserma del 6° plotone di frontiera.
Hanno partecipato soldati, ufficiali,
quattro generali, politici, fazendeiros.
La cerimonia è stata impeccabile,
ma nell’aria e nel cuore
degli organizzatori non c’era tanto
lo spirito di chi è lieto per aver portato
a termine una buona impresa,
quanto piuttosto il sentimento segreto
di chi è conscio (anche se non
lo dice) di aver affermato il suo potere
per prevenire qualsiasi velleità
di ribellione.
Era presente anche un gruppo di
indios, antichi e veri abitatori della
regione, incapaci, eccetto pochi, di
comprendere la ragione, la portata
e le conseguenze di quella costruzione
e della festa. Erano stati spinti
a venire dal desiderio di vedere, in
un luogo di solito silenzioso, tanti
aerei in una sola volta, soldati che
sfilano, ufficiali che danno ordini,
trombette che suonano, politici ben
vestiti e compiacenti, discorsi altisonanti.
Davanti a questo spettacolo inusuale
gli indios si sono sentiti ancora
più piccoli ed estranei al mondo
dei bianchi.
CORPO ESTRANEO
Uiramutàn è il nome del villaggio
e della regione, situata molto lontano
dai grandi centri abitati, ma non
distante dal monte Roraima (2.772
metri) che dà il nome allo stato. Chi
vi giunge ha subito l’impressione di
essere in un altro mondo, tale è il silenzio,
la pace e serenità.
È una regione poco abitata: c’è il
piccolo villaggio di Uiramutàn e pochi
altri, sparsi e distanti chilometri
gli uni dagli altri. Impressionante a
quell’altezza è la luminosità intensa
e il panorama formato da una distesa
di basse montagne intramezzate
da vallate strette ed erbose. Il suolo,
quasi tutto arenoso, non ha molta
vegetazione. Qua e là qualche albero
di piccole dimensioni, mentre è
più intensa la presenza di arbusti
lungo i due piccoli torrenti portanti
scarsa acqua e infossati rispetto all’altopiano.
Sono questi torrenti la sola riserva
idrica per la popolazione indigena
locale le cui semplici abitazioni, fat-
te di materiale raccolto nella zona, si
allineano in una ristretta area. Il terreno
coltivabile è limitato e appena
sufficiente agli abitanti, che non sanno
cosa sia il mercato: ciascuna famiglia
produce il proprio sostentamento
o se lo procura con la caccia
e la pesca (anche queste, invero,
piuttosto scarse).
Oltre alle abitazioni degli indios,
si trovavano nell’area, fino a poco
tempo fa, poche costruzioni in muratura:
una chiesetta, la scuola, il
municipio e rare abitazioni di bianchi.
Oggi c’è anche la caserma del 6°
plotone. Perché – si chiede qualcuno
– una costruzione così grande?
Perché una simile ostentazione di
forze, potere e superiorità al cospetto
di abitanti tanto ingenui?
DIFESA DA CHI?
I giornali di Boa Vista e di altri stati
del Brasile hanno commentato gli
eventi del 2 maggio ripetendo il solito
ritornello stereotipato e trionfalistico:
«difesa delle frontiere, onore
della patria».
La frontiera con la Guyana, costituita
dal fiume Maù, si trova poco
lontana ed oltre la stessa esiste una
regione ugualmente montagnosa, arida
e totalmente spopolata. È difficile
immaginare che possano esistere
nemici da quelle parti, tanto più
che, da secoli, la bandiera brasiliana
sventola anche nei villaggi indigeni.
Chi la porta e la difende, ora come
nel passato, sono gli indios. Chi parla
la lingua brasiliana e porta un nome
brasiliano sono gli indios.
Mai gli indios furono nemici, ma
al contrario sempre amici e difensori
del suolo nazionale. Lo dimostra
chiaramente il libro As muralhas do
Sertão, scritto dalla storiografa Farage.
Gli indios della regione sono di
etnia macuxì del gruppo karib.
Hanno una cultura analoga a quella
di tanti altri indios e vivono in un regime
comunitario, pacifici, ma
preoccupati della vicinanza dei
bianchi e timorosi della ingordigia
della società che si dice civile. Non
c’è ragione che qualcuno vada a turbare
la loro pace e i loro modi di vivere.
Anche i legislatori brasiliani
hanno compreso questo e la Costituzione
del 1988 decreta che siano
demarcate le terre dei popoli indigeni,
allo scopo di difenderli da invasioni
e aggressioni.
Lungo la storia furono sovente attaccati
e persino fatti prigionieri e
schiavi per lavorare nelle fazendas
dei grandi latifondisti dell’Amazzonia
a sud del fiume Amazonas. Ma
poi le relazioni con i bianchi ebbero
momenti di concordia e con la legge
suprema del paese si pensava che
le invasioni, le violenze e lo sfruttamento
sarebbero cessate. Invece no:
la demarcazione è stata iniziata e
non conclusa, forze politiche si opposero
ad essa e, fatte rare eccezioni,
le comunità indigene continuarono
a essere oppresse, a volte con
modi astutamente amichevoli, altre
con la prepotenza e le minacce.
L’insediamento militare, realizzato
con tanta pompa al cospetto delle
rocce montagnose, pare costituire
un’aggressione camuffata contro
una popolazione inerme e pacifica.
Il 2 maggio soltanto una voce si è
posta fuori dal coro, quella del
tuxaua Orlando, capo indigeno del
villaggio. Questi, dopo i discorsi laudatori
ufficiali, ha affermato che la
caserma militare è deleteria per la
convivenza, perché viene a sopraffare
costumi ed abitudini indigene,
stronca il naturale avvicinamento ai
bianchi e, quel che è peggio, porta
prostituzione e diffusione delle bevande
alcoliche contro le quali i responsabili
delle comunità stanno da
tempo lottando.
L’ARROGANZA DEI BIANCHI
I giornali che hanno descritto l’evento
danno rilievo al fatto che i
massimi esponenti delle forze militari
si sono stupiti dello svolgersi
«pacifico» delle cerimonie. C’era
quindi la coscienza di fare qualcosa
che feriva gli animi dei gruppi indigeni,
soprattutto di quelli organizzati
nella associazione chiamata
Conselho Indigena de Roraima (Cir),
che da anni difende i diritti e la dignità
degli indios. Gli organizzatori
della festa avevano quindi timore
che l’esile organizzazione facesse dimostrazioni
pubbliche di dissenso.
Ma era assurdo pensarlo.
Gli indios, da tanti secoli umiliati
perché nullatenenti e differenti, abituati
allo sfruttamento, alla prepotenza
e arroganza dei bianchi, ma
anche attratti dal benessere a cui in
cuor loro ambiscono, cosa potevano
fare contro quello spiegarsi di
forze militari? E poi perché opporsi
quando essi si sentono parte della
nazione brasiliana?
Trovano sbagliato e incoerente
con lo spirito della Costituzione la
caserma nel bel mezzo di un loro villaggio
ed hanno manifestato il loro
disappunto all’inizio dei lavori di costruzione.
Poi, facendo violenza su
se stessi, hanno dichiarato apertamente
l’opposizione al progetto, ricorrendo
ai tribunali. Questi hanno
dato loro ragione, ma i militari hanno
fatto ricorso e benché non sia ancora
venuta la sentenza, essi – sfidando
la giustizia – hanno proseguito
i lavori e terminato la costruzione,
fiduciosi di prevalere sulla legge.
Così, come tante volte nella storia,
le autorità che devono difendere la
popolazione specialmente la più umile
e indifesa, si sono comportate
da aggressore.
La coscienza etnica, che da qualche
anno si è risvegliata negli indios,
ora si sente non solo impotente ma
costeata ed esasperata. Anni addietro
era il piede delle mucche del
fazendeiro che calpestava il suolo e
l’animo degli indios, oggi è il crepitio
delle pallottole e il fragore delle
bombe che esplodono durante le
manovre militari eseguite intenzionalmente
in terre indigene per intimorire
un popolo inerme.
I missionari, obbedienti al vangelo,
da decine di anni stanno vicini a
tutto il popolo brasiliano, impegnato
seriamente a consolidare le strutture
nazionali e progredire sulla via
del benessere. Essi sono pure compagni
delle numerose etnie indigene
che vivono nel territorio dello stato
di Roraima, condividendo lo sforzo
per raggiungere un tenore di vita
degno, senza rinunciare alla loro
cultura e valori tradizionali.
A questo scopo, i missionari cercano
di infondere coraggio e speranza
per resistere contro chi tenta
di farli scomparire distruggendone
l’identità. Purtroppo anche a Uiramutàn
si sta mettendo in atto questa
strategia di eliminazione delle etnie
indigene. Chi conosce i retroscena,
non ha difficoltà a comprendere cosa
si nasconde dietro l’apparato militare
esterno.
Quello che si vuole ottenere non
è una conquista del territorio «manu
militare», perché è chiaro come
il sole che non ce n’è bisogno. Invece,
una caserma militare abitata da
60 giovani soldati, situata in mezzo
a villaggi indigeni, è proprio quello
che ci vuole perché le giovani donne
indie mettano al mondo un grande
numero di meticci, inquinando e
snervando la loro etnia.
Tale progetto già è in atto nella regione
della serra Surucucus, a ponente
di Roraima, con effetti disastrosi
per gli indios yanomami.
È questo progetto, sottinteso a
tanto apparato celebrativo, che naturalmente
rattrista. Il popolo indio
che ha voglia di crescere ed essere
autosufficiente e che porta in se tanti
valori morali, è forzato ad accettare
situazioni avvilenti e a veder corrosa
la propria identità e dignità per
obbedire a interessi nascosti sotto la
scusa della integrità territoriale nazionale.
L’indio Massaranduba, tuxaua emerito
di Uiramutàn, ora con 104
anni, nel giorno festivo della inaugurazione,
è stato premiato davanti
alla comunità che lo venera, con la
consegna di un simbolico «bastone
di comando».
Quando lo incontrai la prima volta,
nel suo villaggio, nel gennaio del
1976, mi si avvicinò, nella oscurità
della notte per dirmi triste, che un
bianco, venuto abusivamente da poco
a risiedere presso il loro villaggio,
proibiva, con minacce, tutta la comunità
indigena di allevare galline
ed ogni animale da cortile. L’arroganza
del bianco faceva soffrire lui
e la sua gente, e anche temere.
Ora, passati 25 anni, astutamente
manipolato con vane illusioni,
da persone interessate, Massaranduba
accetta non solo un fazendeiro
che impone ordini nel suo piccolo
villaggio, ma addirittura una
caserma di militari. Quegli stessi
militari, che consegnandogli il bastone
del comando, invece di onorarlo,
in realtà gli hanno tolto, senza
che l’anziano capo se ne accorgesse,
tutta l’autorità e il
potere che la legge indigena
gli conferisce.
(*) Mons. Aldo Mongiano è stato
vescovo di Roraima dal 1975 al
1996.
Sul problema dell’insediamento
militare, nel luglio 2001 «MISSIONI
CONSOLATA» aveva lanciato una
campagna dal titolo «Ma la caserma
no!». Tutto è stato inutile, come ben
si comprende dall’articolo. Oggi si
riparte con una campagna di più
ampio respiro, perché abbraccia
una pluralità di tematiche.
VOGLIAMO VIVERE!
Da troppo tempo i popoli indigeni dello stato brasiliano di Roraima soffrono continue aggressioni fisiche, psicologiche e culturali.
Latifondisti, risicoltori, cercatori d’oro, imprese del legname e minerarie, nazionali e multinazionali, occupano le loro terre causando la
distruzione dell’ambiente naturale e minacciandone la sopravvivenza. Un’intera classe politica pratica varie forme di razzismo e
discriminazione e semina l’odio all’interno dei gruppi indigeni, mettendo comunità contro comunità, provocandone così la disgregazione
socio-culturale. Inoltre, continua ad incentivare, verso una foresta inadatta all’agricoltura, la migrazione di coloni dalle zone più povere del
Paese, creando masse di diseredati che si riversano nelle periferie dei centri urbani o premono sulle terre indigene. Infine, i militari si
oppongono alla demarcazione delle aree indigene creando disagi e conflitti in tali aree.
Per porre fine a questa lunga serie di violenze, i popoli di Roraima hanno rivolto alle organizzazioni della società civile nazionale e
internazionale una richiesta di appoggio nella lotta che essi conducono per il riconoscimento dei loro diritti fondamentali, come popoli
indigeni e come esseri umani.
Preso atto della gravità della situazione, nonché dell’appello del Consiglio Indigeno e della Diocesi di Roraima, chiediamo:
Al Goveo brasiliano:
– L’approvazione dello “Statuto dei Popoli Indigeni”, tenendo conto dei suggerimenti proposti da questi ultimi nell’aprile 2001,
– la demarcazione immediata in area continua delle terre indigene prevista dalla Costituzione vigente, il mantenimento dei limiti di
quelle già demarcate e l’omologazione dell’Area Raposa/Serra do Sol,
– di regolamentare la presenza militare nelle terre indigene di frontiera,
– di fermare il disboscamento, l’inquinamento, lo sfruttamento minerario e agricolo e l’allevamento, in atto o programmato, sulle terre
indigene
– di non incoraggiare con false speranze l’afflusso di coloni verso le terre di Roraima.
Al Parlamento europeo:
– di controllare l’utilizzo dei fondi inteazionali ed europei destinati all’Amazzonia brasiliana e, in particolare, allo stato di Roraima,
affinché essi siano usati prioritariamente per la tutela dei diritti dei popoli indigeni,
– di farsi interprete delle suddette richieste davanti al governo e al parlamento brasiliano.
Alle organizzazioni della società civile brasiliana e internazionale:
– di sottoscrivere questo appello ed aderire alla campagna in tutte le forme possibili.
Coordinamento italiano della Campagna Internazionale“VOGLIAMO VIVERE!”
in difesa della foresta amazzonica e della vita dei suoi abitanti.
e-mail: indiosroraimabrasile@libero.it
Aldo Mongiano