Presa visione
della situazione,
i padri Flavio Pante,
Ramon Lazaro
e Michael Wamunyu
stanno mettendo a fuoco
priorità e progetti
di testimonianza
della carità: difesa
dei diritti umani, dialogo
con i musulmani,
alfabetizzazione
e sanità.
Una visita al mercato di Dianra
è indispensabile per vedere
la vita della gente. Sui banchetti
traballanti è sciorinata un’infinità
di mercanzie e prodotti agricoli:
riso, inyame (una specie di manioca),
frutta e verdura d’ogni genere, tutte
prodotte dai senufo.
«Sono gli autoctoni di questa regione
– spiega padre Ramon -, agricoltori
per natura. Per questo le popolazioni
immigrate li hanno chiamati
senufo, termine che in diula, la
lingua franca diffusa dei mercanti
musulmani, significa: coloro che coltivano
la terra. E sono grandi lavoratori
». «Molto sfruttati» aggiunge padre
Flavio.
IL PREZZO NON È GIUSTO
Da vari decenni la risorsa principale
dei senufo è la coltivazione del
cotone. Il guaio è che i contadini,
dall’inizio della coltivazione alla consegna
del prodotto, non conoscono
mai quale sia il prezzo che ne ricaveranno.
Una volta consegnato, devono
accontentarsi di quanto stabilirà
la compagnia.
«Tale sistema va avanti da molti anni
– afferma padre Flavio -. Il sindacato
dei coltivatori di cotone ha organizzato
una protesta, occupato la
fabbrica e minacciato di bruciare i
raccolti, se il prezzo non fosse immediatamente
fissato. Le autorità del
settore agricolo hanno promesso di
risolvere il problema; ma, a distanza
di due mesi, i contadini non sanno
ancora quando e quanto saranno pagati
». Intanto il cotone rimane nelle
capanne, ingiallisce e perde valore.
I padri hanno cercato di difendere
i diritti dei contadini, parlando con i
cristiani impiegati nello stabilimento,
ma questi non hanno voce in capitolo.
«Da alcuni anni la fabbrica è stata
privatizzata – continua padre Flavio
– e non si sa chi sia il padrone.
Qualche mese fa è apparso un russo,
forse uno dei padroni». «Era bianco
come un pezzo di carta. Il giorno dopo
era scottato e rosso come un’aragosta
» aggiunge sorridendo padre
Michael.
La difesa dei diritti umani è una
delle tante sfide che i missionari di
Dianra dovranno affrontare. Ma per
ora concentrano l’attenzione al campo
religioso e culturale.
LIBERAZIONE DALLA PAURA
«La religione tradizionale ha dei
valori su cui innestare quelli del vangelo
– spiega padre Michael -. Uno di
essi è il profondo rispetto per la natura,
ritenuta sacra, abitata da spiriti
e divinità. Ma è pure una sacralità che
alimenta paure irrazionali: tutti hanno
in casa feticci protettivi e si sentono
minacciati da spiriti, sortilegi, malocchi
e maledizioni».
Una sessione della preparazione al
battesimo, presente solo nei catechismi
destinati ai senufo, ha come tema:
Gesù mi libera. Tale sessione inizia
invitando i catecumeni a manifestare
ad alta voce le proprie paure
e a sbarazzarsi dei feticci; si conclude
con un gran falò in cui vengono
bruciati feticci e aesi vari, come segno
di conversione e di fiducia in
Cristo liberatore.
Ma gli spiriti sono duri da sfrattare
dalla mente e dalla vita. Molti cristiani
continuano a vivere sotto l’oppressione
delle paure derivanti dalla
religione tradizionale, intrecciando
riti cristiani con sacrifici di capretti e
polli. Altri chiedono preghiere ed esorcismi
e fanno celebrare messe per
essere liberati da tali oppressioni.
«La religione cristiana è sentita come
un antidoto al male fisico e morale
– continua padre Flavio -; la preghiera
sconfina spesso nella magia.
Un giorno un uomo mi chiese di curare
le sue gambe piagate. Gli dissi
che non avevo con me alcuna medicina.
Mi rispose che era venuto solo
perché imponessi le mani sulle ferite.
Una donna, dopo l’ennesimo litigio,
decise di lasciare il marito; questi le
disse con rabbia che non avrebbe trovato
un altro uomo: quelle parole le
caddero addosso come un sortilegio,
la facevano deperire fisicamente, finché
venne alla missione per essere liberata
dalla maledizione».
In compenso, i senufo sono molto
ben disposti verso i missionari e il
cristianesimo, mentre hanno il dente
avvelenato contro l’islam. Tale avversione
risale alla fine del 1800,
quando Samori, un guerriero della
Guinea, conquistò tutta la regione
settetrionale della Costa d’Avorio e,
per costruirsi un regno islamico, impose
la sua fede con massacri e distruzioni
(vedi riquadro p. 68). I musulmani
lo celebrano come eroe, le
popolazioni animiste lo ricordano
come un sanguinario e i senufo rifiutano
ancora oggi di convertirsi al
musulmanesimo, mentre si aprono
facilmente al messaggio del vangelo.
TE LO DO IO IL DIALOGO
La presenza dei missionari è apprezzata
anche dai musulmani. «Sul
piano umano il dialogo è possibile e
già esiste – racconta padre Flavio -. Al
nostro arrivo, l’iman-capo è venuto
due volte a darci il benvenuto. Noi
abbiamo ricambiato le visite, fatto atto
di presenza al funerale di un suo
familiare e, all’inizio del ramadan, siamo
andati a fare gli auguri e lui è venuto
a ringraziarci».
«L’iman di Marandallah – aggiunge
padre Michael – ha chiesto al vescovo
di mandare missionari stabili
in quella zona». Il fatto è sorprendente,
ma non troppo: la chiesa cattolica
porta asili, scuole, ospedali e
altre opere sociali.
«Il dialogo religioso è ancora lontano
– continua padre Flavio – e richiederà
da parte nostra una conoscenza
più profonda del mondo musulmano.
Per ora vorremmo tentare
a livelli più concreti: coinvolgere i
musulmani nei progetti sociali che
abbiamo nel cassetto, asili, scuole di
alfabetizzazione, strutture sanitarie».
Una visita all’iman potrebbe essere
l’occasione per tastare il polso. Lo
troviamo in casa, che funge anche da
moschea; ma non riusciamo a comunicare:
egli parla solo diula; il figlio
traduce in un francese incomprensibile.
L’iman promette di venire,
la sera, alla missione con un interprete
più ferrato.
E arriva puntuale. Dopo le rituali
presentazioni, risponde pacatamente
alle domande. Dice di chiamarsi
Karim Karaté; ha fatto il pellegrinaggio
alla Mecca, come pure gli altri
quattro iman di Dianra. Afferma che
non ci sono conflitti tra cristiani e
musulmani, poiché adorano la stessa
divinità; la differenza è solo sulle labbra,
gli uni dicono Dio, gli altri Allah;
ma nel cuore è lo stesso Dio.
Domando quanti sono i musulmani
di Dianra. Risponde di non conoscere
il numero esatto, ma che sono
più dei cristiani e provengono da
vari gruppi etnici del Mali, Guinea,
Burkina Faso. Ci informiamo sulle
scuole coraniche: gli alunni imparano
a memoria brani del Corano in arabo,
usando traduzioni in francese
e diula per la comprensione.
Arriviamo alla domanda cruciale:
«Come e in quali campi possono lavorare
insieme musulmani e cristiani
per il bene della gente?». L’iman si esibisce
in un lungo e generico discorso
sulla necessità della collaborazione
e aiuto reciproco. Lo incalzo
con una domanda più precisa: «Quali
sono i problemi e necessità della
popolazione in generale?». «Non
conosco le necessità degli altri – risponde
serafico l’iman -; ma solo della
mia gente: per ora abbiamo bisogno
della moschea; chiediamo ai cri-
stiani di aiutarci a costruirla».
La conversazione perde interesse,
ma, a sorpresa, l’iman dice che anche
lui ha da farmi una domanda: «Tornato
in Italia, la prego di procurarmi
una motocicletta».
Mi viene da ridere; ma mi trattengo.
Spengo il registratore: per me il
«dialogo» è ormai su un binario morto.
Padre Flavio sembra più imbarazzato
di me, ma si ricompone in
fretta e risponde: «Il nostro ospite è
qui per rendersi conto dei problemi
di tutta la gente, anche della comunità
musulmana. Prima di tutto,
però, dovrà occuparsi delle necessità
della missione, poiché, come vede,
siamo agli inizi. Ma Dio ci ha dato
due mani, perché con una sola non
riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo.
Quando la comunità musulmana
vorrà comperare la motocicletta
per l’iman, anche noi saremo
felici di offrire il nostro contributo».
L’iman annuisce e si mostra soddisfatto.
Padre Flavio tira un sospiro di
sollievo, per essersela cavata con diplomazia;
ma il suo entusiasmo per il
dialogo pare un poco scosso.
GLI SPAVENTAPASSERI
Da non perdere, a Dianra, è una
visita ai fabbri: nella cultura senufo
essi sono ritenuti personaggi dotati
di qualità sovrumane e, per la loro
arte di manipolare il ferro, giocano
un ruolo privilegiato in varie cerimonie
magico-religiose.
Visitiamo due officine, a un tiro di
schioppo dalla missione. Nella prima,
un giovanotto sta ricavando un
vomero d’aratro da vecchi cerchioni
di automobili. Ci mostra zappe e attrezzi
vari già pronti per la vendita.
Ammiro l’inventiva e i mezzi tanto
rudimentali; ma non trovo nulla di
sovrumano; anzi, a girare la ruota di
bicicletta che alimenta un minuscolo
mantice c’è un bambino. Più sconcertante
è la seconda officina, gestita
da tre ragazzini in età scolare.
Padre Flavio sembra leggere ciò
che mi passa per la mente e spiega:
«A Dianra l’analfabetismo è un problema
molto grave. Quasi tutti i villaggi
hanno le scuole elementari; ma
pochi le frequentano: i bambini sono
nei campi fin da piccoli, se non altro
come spaventapasseri nelle coltivazioni
di riso. Per le ragazze la mentalità
locale è anche peggio: per essere
buone mogli e madri non è necessario
aver studiato; anzi, la donna ignorante
è più sottomessa».
Alla mentalità si aggiunge la mancanza
di documenti: la maggior parte
dei figli nasce in casa e i genitori
non si preoccupano di registrarli all’anagrafe.
Per avere l’atto di nascita,
richiesto per iscriversi alla scuola, bisogna
sborsare 30 mila lire, senza
contare le tasse scolastiche: spese che
non producono un utile immediato.
«Incontro adulti, donne soprattutto,
che piangono per non sapere
leggere né scrivere – racconta padre
Flavio – e ci chiedono di aprire scuole
di alfabetizzazione: vogliamo dare
presto una risposta. Al tempo stesso,
bisognerà combattere e smontare la
mentalità dell’immediato, convincendo
i genitori che l’istruzione è un
investimento per il futuro».
Problemi e progetti continuano a
ruota libera: orfani e situazioni di po-
vertà richiedono di inventare forme
di aiuto materiale per incoraggiare e
sostenere i giovani che vogliono studiare.
Preoccupa pure la situazione
post-scolare: finito il ciclo elementare,
i giovani non hanno altri sbocchi
se non il ritorno ai campi. Una scuola
secondaria è stata appena aperta a
Dianra, ma non si sa come funzioni.
Dalla missione la gente si aspetta,
soprattutto, scuole matee: non ce
n’è una in tutto il territorio parrocchiale.
I padri le hanno elencate tra i
progetti prioritari, per togliere i bambini
dalla strada e liberarli dalla condanna
a eterni spaventapasseri.
OPERAZIONE… CESSI
Un’altra sfida è costituita dalla situazione
sanitaria. Nei villaggi non
esiste la benché minima struttura: uniche
medicine sono ancora quelle
tradizionali, basate su erbe e foglie.
A Dianra Centro c’è un dispensario:
fu aperto e sostenuto da un organismo
internazionale per combattere
il verme di Guinea, una malattia
causata da un parassita presente nelle
acque inquinate, che provoca
gonfiore alle gambe e cecità. Da
quando il morbo è stato sconfitto, il
dispensario è inattivo e sprovvisto di
qualsiasi medicina. «Quando scoppiarono
tifo e colera – racconta ancora
padre Flavio – l’infermiere ordinava
ai moribondi di bere acqua
minerale per combattere la disidratazione:
non aveva né flebo né altri
medicinali».
«Prima di tutto – aggiunge padre
Ramon – è necessario fare una campagna
di educazione sanitaria: nella
cultura locale, per esempio, non esistono
i cessi, per cui, in molti luoghi,
l’acqua è sempre inquinata».
«Abbiamo in mente piccoli dispensari
o farmacie – continua padre
Flavio -; nulla di grande, ma strutture
semplici, gestite da persone preparate
con una formazione di base,
capaci di educare la gente alla prevenzione,
curare le malattie più comuni
e somministrare le medicine
essenziali. Naturalmente avremmo
bisogno di una persona diplomata,
suora, volontario o infermiere, che si
assuma responsabilità e direzione di
tali progetti. Oltre che una priorità
richiesta dalla situazione,
sarebbe una forte testimonianza
dell’amore».
EROE O BANDITO?
F iglio di un commerciante malinke, Samori nacque verso il 1830 in un villaggio
presso Sanankoro (Guinea). Seguendo le orme del padre, si dedicò al traffico
della cola, finché scoprì la vocazione di guerriero, a servizio di re musulmani
e animisti, secondo l’opportunità. Quindi si mise in proprio: raccolse un
esercito personale e cominciò a sottomettere al suo potere varie etnie, trattando
i vinti con magnanimità e integrandone i soldati nel suo esercito. Così, dal
1870 al 1885, diventò padrone assoluto di un vasto territorio, comprendente la
regione orientale della Guinea e quella meridionale del Mali.
Per unire popoli tanto diversi, occorreva un buon collante: Samori lo trovò nella
religione musulmana e la impose con la forza alle popolazioni animiste, anche se
lui dell’islam non aveva neppure la scorza. Totalmente analfabeta, imparò a decifrare
qualche parola araba: ciò fu sufficiente per assumere, nel 1884, il titolo
di almani, «capo dei credenti».
Nella furia islamizzatrice non risparmiò neppure i familiari: fece uccidere due figlie,
ingiustamente accusate di aver tradito la verginità prescritta dal corano.
II ntanto, a nord dell’impero di Samori avanzano i francesi. Dopo varie scaramucce,
giocò la carta diplomatica: firmò un trattato (1886), in cui s’impegnava
a non oltrepassare il fiume Niger; l’anno seguente
accettò «di mettersi sotto la protezione della Francia».
Per i francesi era una vittoria strategica: il protettorato
sbarrava la strada alle pretese degli inglesi, già presenti
in Sierra Leone; per Samori diventò una camicia di forza.
Fiducioso che i francesi non lo avrebbero colpito alle
spalle, egli si lanciò alla conquista del regno senufo
di Kénédugu, con capitale Sikasso. Ma varie popolazioni
del suo regno, stremate dalla guerra e dalla carestia,
sobillate dai francesi, si ribellano (1888). Quando si
sparse la voce che Samori era morto, la rivolta divampò
in tutto l’impero come fuoco nella savana.
Ma riapparse come un leone ferito: tagliò teste a tutto
spiano e riprese quasi tutto il territorio; metà della popolazione
scappò sotto la protezione dei francesi.
Firmato l’ennesimo trattato, Samori si alleò con i Tucolor
e altri regni dell’alto Niger, che resistevano all’avanzata
straniera; e fu la fine: cancellata ogni resistenza
(1890-91), i francesi annientarono anche l’impero di Samori.
R iorganizzato l’esercito, Samori decise di costruirsi
un altro impero. Alla fine del 1892, con un esodo
in massa di gente a lui fedele, invase tutta la savana a
nord della Costa d’Avorio, lasciando dietro di sé terra
bruciata, distruggendo i villaggi che rifiutavano di sottomettersi
all’islam e mozzando la testa a chi gli suggeriva
di arrendersi. Vittima illustre fu il suo primogenito,
Dyaulé-Karamogho: inviato a Parigi nel 1885, era
un ammiratore della Francia. Sospettato di tramare col nemico alle spalle del padre,
fu condannato a morire di fame.
Accampato in terre esotiche, tra popolazioni ostili, impedito d’importare armi da
Freetown e Monrovia, Samori giocò la carta della rivalità tra le due potenze coloniali:
in cambio del ritorno nel suo primo impero, offrì ai francesi le terre confinanti
con la Costa d’Oro (Ghana), già colonia inglese.
Ormai i francesi avanzavano dal sud e Samori si rese conto dell’impossibilità di
resistere ai loro cannoni. Nel 1898, radunato l’esercito, con un altro esodo di massa,
si rifugiò nella foresta della Liberia. Ma l’ostilità della gente e le difficoltà dell’ambiente
ridussero la sua gente alla fame. Samori decise di arrendersi, ma venne
catturato prima che la resa fosse firmata.
Alla fine del 1898 al vecchio leone fu notificato l’ordine d’esilio nel Gabon, insieme
a pochi amici e familiari. Morì di polmonite a Ndjolé, il 2 giugno 1900. La
sua tomba, coperta dagli sterpi, è introvabile.
Benedetto Bellesi