IL MISSIONARIO FA POLITICA. MA COME ?


È finita l’era della «cristianità». La chiesa si trova povera,
senza appoggi politici, né può contare su partiti cattolici
che le garantiscano i diritti.
Pertanto: su quali forze può contare oggi l’evangelizzazione,
mentre i missionari invecchiano e le vocazioni scarseggiano?
Quale spazio ha la chiesa in una società
plurireligiosa e multiculturale? In primo luogo, occorre «metterci
in ascolto della cultura del nostro
mondo», per disceere i «semi del
verbo» già presenti in essa, anche al
di là dei confini visibili della chiesa.
Ascoltare le attese più intime dei nostri
contemporanei, cogliee desideri
e ricerche, capire che cosa fa ardere
i cuori e cosa, invece, suscita
paura… è importante per divenire
servi della speranza. Non possiamo
affatto escludere, inoltre, che i non
credenti abbiano qualcosa da insegnarci
circa la comprensione della
vita e che, per vie inattese, il Signore
possa farci sentire la sua voce attraverso
di loro (2).
In secondo luogo, occorre prestare
attenzione alla novità del vangelo
e rimanervi fedeli. Infatti vi è una
novità irriducibile del messaggio
cristiano: pur additando un cammino
di piena umanizzazione, esso non
si limita a proporre solo un umanesimo.
Gesù Cristo è venuto a renderci
partecipi della vita nell’«umanità
di Dio». Il Signore ci ha fatti annunciatori
della sua vita rivelata agli
uomini e non possiamo misurare
con criteri mondani l’annuncio che
siamo chiamati a compiere (3).
Siamo immersi in tre grandi processi
di cambiamento: SECOLARIZZAZIONE,
CRISI DI VALORI e GLOBALIZZAZIONE.
Li esamineremo evidenziando
le sfide e opportunità
offerte alla evangelizzazione. Inoltre
vedremo come fare ripartire la missione.

1/ SECOLARIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La secolarizzazione è un profondo
mutamento di mentalità, cultura
e costume. Nasce con il mondo moderno
come reazione alla identificazione
che la cristianità medievale aveva
fatto tra sacro e profano, tra fede
e cultura, fra trono e altare.
Nasce come rivendicazione dell’autonomia
della ragione verso la religione;
si spinge fino al secolarismo,
cioè fino al tentativo di escludere
Dio.
Quando la secolarizzazione degenera
in secolarismo, l’uomo si ritiene
autosufficiente, crede che la salvezza
possa venire da una ideologia.
Il secolarismo esclude Dio dalla vita
sociale; considera la religione un
fatto privato. Insomma: con il secolarismo,
l’uomo «dimentica Dio, lo
ritiene senza significato per la propria
esistenza, lo rifiuta ponendosi in
adorazione dei più diversi idoli» (4).
Quando, invece, la secolarizzazione
viene intesa come legittima autonomia
delle realtà temporali e della
laicità, il fenomeno è positivo. Inoltre
offre nuove opportunità alla
evangelizzazione, perché purifica i
contenuti della fede, accresce la responsabilità
dei credenti, ne stimola
la creatività e apre al dialogo con
tutti gli uomini di buona volontà.
In ogni caso la società secolarizzata
ha assimilato molti valori della
cultura cristiana (dignità della persona,
solidarietà, qualità della vita),
ma li presenta come «valori laici».
Lo stesso cristianesimo è visto come
«religione civile». Si ripete lo
slogan «non possiamo non dirci cristiani
», anche se si tratta di atei o miscredenti.
Aver ridotto il cristianesimo a religione
civile genera gravi contraddizioni
anche in nazioni di antica evangelizzazione.
Per esempio: da un
lato si riconosce che la religione è un
fattore di educazione civica e, dall’altro,
si tolgono i simboli religiosi
dalle scuole e dagli edifici pubblici,
non si fanno udire i canti natalizi ai
bambini dell’asilo in nome della laicità
e della tolleranza verso chi non
è religioso. Da un lato gli stati seguono
con fiducia le iniziative religiose
per la pace (come l’incontro di
Assisi del 25 gennaio 2002) e, dall’altro,
si cancella ogni riferimento
religioso dal proemio della Carta dei
diritti europei, né si invitano le comunità
religiose a partecipare con le
altre realtà sociali alla preparazione
della Costituzione europea.
Da qui viene un pericolo per la
missione: limitare l’annuncio cristiano
alla proposta di «valori civili
», in nome di un malinteso rispetto
della laicità e della tolleranza…
Nessuno nega che la promozione umana
sia parte integrante della evangelizzazione,
ma essa non si può
ridurre ad un mero impegno di civilizzazione.
b) Fare ripartire la missione
La missione che Cristo ha affidato
alla chiesa non è di ordine politico,
economico e sociale: il fine è religioso.
La chiesa in nessun modo si
confonde con la comunità politica e
non è legata ad alcun sistema politico(
5). Stato e chiesa, avendo una natura
diversa, devono essere liberi di
perseguire ciascuno il proprio fine e
di usare gli strumenti propri di cui
dispongono.
Tuttavia, pur essendo autonomi,
chiesa e stato devono collaborare al
bene comune, senza però invadere
il campo altrui.
Il vangelo non solo ci svela il mistero
di Dio, ma svela anche l’uomo
all’uomo. Perciò l’annunzio del vangelo
è destinato a influenzare i comportamenti
personali e sociali, privati
e pubblici, di chi liberamente lo
accoglie. E il missionario quando evangelizza
non parla solo di Dio, ma
fa un discorso sull’uomo.
Che cos’è la «politica» se non un
discorso sull’uomo, sui suoi valori?
Pertanto il missionario non può non
«fare politica» in senso culturale ed
etico. Egli si deve mantenere equidistante
dalle fazioni in lotta per il
potere e non si schiera per l’uno o
l’altro partito; però la sua equidistanza
non significa neutralità. Non
tutte le politiche né tutti i programmi
si equivalgono; le coscienze vanno
formate al discernimento.
Il vescovo Oscar Romero, in El
Salvador, era equidistante dai partiti,
ma non era neutrale nei confronti
dell’oppressione degli squadroni
della morte. A tal punto, che – come
spiega Giovanni Paolo II – «si possono
dare casi eccezionali di persone,
gruppi e situazioni in cui può apparire
opportuno (o addirittura necessario)
svolgere una funzione di
aiuto e supplenza in rapporto alle istituzioni
carenti e disorientate, per
sostenere la causa della giustizia e
della pace» (6).
La chiesa ha svolto «supplenza
politica» in Italia, dopo la seconda
guerra mondiale, quando il paese si
trovò impreparato a fronteggiare il
pericolo comunista e doveva ristabilire
la democrazia dopo il fascismo.
La stessa funzione ha svolto la
chiesa in America Latina, dove è stata
l’unica forza morale, l’unica voce
autorevole, in grado di difendere i
poveri e gli oppressi e affermare le
ragioni della giustizia e della pace.
Ebbene anche l’impegno civile
rientra nella missione evangelizzatrice,
ma rimane sempre vero che il
primato spetta alla testimonianza
della Parola e della vita. Giovanni
Paolo II insiste sulla priorità della testimonianza
nel mondo secolarizzato:
«[Gli uomini] vogliamo vedere
Gesù (Gv 12, 21) – ricorda il papa…
Come i pellegrini di 2.000 anni fa,
gli uomini del nostro tempo, magari
non sempre consapevolmente,
chiedono ai credenti di oggi non solo
di “parlare” di Cristo, ma in certo
senso di farlo loro “vedere”» (7).

2/ CRISI DEI VALORI
a) Sfide e opportunità
In che cosa consiste la crisi di valori?
In questo: oggi la tradizionale
omogeneità culturale di tante nazioni
(durata secoli) ha lasciato il posto
a una pluralità di visioni della vita
e della storia, spesso in contrasto
con il vangelo. Questo è insieme
causa ed effetto della crisi delle «evidenze
etiche», cioè dei valori morali
su cui si modellava fino a ieri la
convivenza civile.
«È avvenuta – rilevano i vescovi italiani
-, un’eclissi del senso morale.
È diventato difficile parlare di bene
e male senza suscitare una forte incomprensione.
Gli uomini e le donne
del nostro tempo hanno indubbiamente
dei valori di riferimento,
ma spesso trovano difficile o poco
interessante dar ragione di ciò che
guida le loro scelte di vita, rischiando
così di esporsi all’arbitrarietà delle
emozioni o (fatto molto più insidioso)
ai miti occulti che permeano
la nostra società su diversi temi morali
non periferici» (8).
Questo processo può condurre a
un relativismo etico dagli effetti devastanti;
ma allo stesso tempo offre
nuove opportunità alla missione. Infatti,
mentre capitoli fondamentali
dell’etica tradizionale minacciano di
scomparire, altri capitoli, ieri disattesi,
vengono riscoperti: si pensi, per
esempio, all’impegno per la giustizia,
alla nuova coscienza della solidarietà
e della pace, alla salvaguardia
dell’ambiente.
I vescovi italiani, mentre denunciano
i gravi pericoli dell’eclissi del
senso morale, sottolineano anche le
nuove opportunità per l’evangelizzazione;
citano il fatto che gli occhi
dei nostri contemporanei continuano
a schiudersi sull’altro, specie se
sofferente e bisognoso. E questo è
un motivo di speranza. Anche lo
sviluppo della scienza e della tecnica
presenta aspetti da valorizzare.
L’uomo che si spinge avanti nelle vie
del sapere si trova di fronte a domande
non tecniche, e tuttavia ineludibili,
che riguardano il senso dell’esistenza
(9).
b) Fare ripartire la missione
Per fare ripartire la missione nel
contesto della delicata crisi di valori,
bisogna innanzitutto comprenderne
le ragioni, se vogliamo «comunicare
» il vangelo in modo efficace
agli uomini e alle donne del
nostro tempo. Si tratta di restituire
alla cultura del mondo post-moderno
l’anima etica perduta.
Lo si può fare partendo dagli elementi
di verità che si trovano anche
fuori della chiesa cattolica, presso le
religioni non cristiane, che «non raramente
riflettono un raggio di quella
verità che illumina tutti gli uomini
» (10), e perfino presso quei non
credenti «che hanno il culto di alti
valori umani, benché non ne riconoscano
ancora la sorgente» (11).
In altre parole, lo strumento privilegiato
della nuova evangelizzazione
è il dialogo interculturale.
Questo non va affidato soltanto a
un corpo specializzato di missionari.
Oggi, chiusa la stagione delle rigide
contrapposizioni, la cultura cristiana
e le altre culture sono chiamate
ad incontrarsi, muovendo dai
valori condivisi e dagli elementi comuni
di verità, per proseguire insieme
verso la verità tutta intera. Non
esistono culture superiori e inferiori,
così come non lo sono le razze. Le
varie culture sono complementari
tra loro, essendo tutte elaborazioni
sull’uomo, su Dio e il suo mistero.
Ancora una volta la storia dimostra
che il binomio Dio-uomo è inscindibile.
Tutte le volte che l’uomo
perde il senso di Dio perde se stesso.
E ogni qual volta l’uomo ritrova
se stesso e la sua dignità, ritrova ineluttabilmente
Dio. Il tentativo della
modeità di sostituire il sentimento
religioso con le ideologie non poteva
non fallire. «Senza dubbio – diceva
Paolo VI – l’uomo può organizzare
la terra senza Dio; ma, senza
Dio, egli non può che organizzarla
contro l’uomo» (12).
Una clamorosa conferma di questa
verità è venuta dalla crisi del comunismo,
che è stato il tentativo più
spinto di costruire una società senza
Dio… Del resto, l’esperienza dimostra
che la perdita di senso dell’esistenza
è legata, pure nell’occidente
libero, a una forma di ateismo
pratico, che si esprime nel materialismo
della vita, nell’egoismo, nel
consumismo sfrenato.
Se l’uomo ritrova il vero umanesimo,
ritrova pure Dio. È compito
della missione reagire alla cultura disumanizzante
e ripartire da valori
religiosi per fondare la coscienza etica
che, a sua volta, costituisce il
cuore della cultura di un popolo,
fondamento su cui poggia ogni progetto
di società. Oggi è possibile.
Ha affermato all’Onu Giovanni
Paolo II: «Se vogliamo che un secolo
di costrizione lasci spazio a uno
di persuasione dobbiamo trovare la
via per discutere, con un linguaggio
comprensibile e comune, circa il futuro
dell’uomo. La legge morale universale,
scritta nel cuore dell’uomo,
è quella sorta di “grammatica”
che serve al mondo per affrontare
questa discussione circa il suo stesso
futuro» (13).
Ciò che ci unisce tra diversi è molto
di più di quello che ci divide.

3/ GLOBALIZZAZIONE
a) Sfide e opportunità
La globalizzazione è un fenomeno
esploso dopo il fallimento del socialismo.
Sono apparsi con gravità
gli squilibri esistenti tra i popoli ricchi
e quelli poveri del mondo: squilibri
aggravati dalla rivoluzione tecnologica.
Oggi tocchiamo con mano che si
impone un nuovo ordine mondiale
dell’economia, un nuovo modello di
sviluppo planetario. Tutti i problemi
sono planetari. Nessuna nazione
può affrontarli da sola, ma si esige la
cooperazione internazionale. O costruiamo
tutti insieme un mondo
migliore o periamo tutti insieme.
La globalizzazione presenta gravi
rischi. Bisogna dire che la logica di
mercato (la ricerca del maggior profitto),
priva di orientamento etico,
non sarà mai il motore dello sviluppo
umano: infatti genera mancanza
di solidarietà, egoismo, frammentazione
sociale, allarga la forbice tra
ricchi e poveri, crea nuovi colonialismi,
altera l’equilibrio ecologico. I
drammatici effetti sono sotto i nostri
occhi.
«All’alba del XXI secolo – scrive
J. Bindé, direttore dell’Ufficio analisi
e previsioni dell’Unesco – oltre 1
miliardo e 300 milioni di persone vivono
in povertà assoluta, e il loro
numero aumenta: ha già raggiunto i
2 miliardi. Oggi più di 800 milioni
di individui soffrono fame e malnutrizione;
oltre 1 miliardo non hanno
accesso a servizi sanitari, istruzione
di base e acqua potabile; 2 miliardi
non sono collegati a una rete elettrica
e più di 4 miliardi e mezzo
non dispongono dei
mezzi di comunicazione
di base, e quindi di strumenti per
accedere alle nuove tecnologie, che
sono la chiave dell’istruzione a distanza.
Oggi si vanta il boom di Inteet,
ma per molto tempo ancora
vivremo in un mondo dove l’informazione
avrà le sue autostrade e i
suoi deserti…
Il futuro è illeggibile al nord, dove
i popoli ricchi fanno sempre meno
figli; è già ipotecato al sud, perché
i bambini e le donne sono le prime
vittime della miseria. Due terzi
della popolazione mondiale, in povertà
assoluta, sono al di sotto di 15
anni, e più dei 2 terzi dei poveri sono
donne» (14).
D’altro canto, la globalizzazione
offre prospettive positive: serve ad
una maggiore intesa tra i popoli, alla
pace, lo sviluppo, la promozione
dei diritti umani. In particolare, la
globalizzazione, nata dalla comunicazione
sociale,
è divenuta una «cultura», un nuovo
modo di capire il mondo, la vita e
l’uomo.
La globalizzazione, se non si può
fermare, si può e si deve orientare.
Non possiamo accettare «la logica
del più forte, l’idea che la presenza
dei poveri, sfruttati, sia frutto dell’inesorabile
fluire della storia. Su questo
il cristianesimo non può scendere
a compromessi (15).
La dottrina sociale della chiesa esorta
a ricercare la soluzione dei gravi
squilibri all’interno di uno sviluppo
sostenibile a livello planetario,
che realizzi la sintesi tra efficienza economica,
libertà politica e coesione
sociale, senza ripetere gli errori
del socialismo reale e del capitalismo
selvaggio.
In una parola: è necessario che la
interdipendenza economica, politica
e sociale si traduca in globalizzazione
della solidarietà. La cooperazione
internazionale – disse Giovanni
Paolo II all’Onu nel 1995 – non
può essere pensata esclusivamente
in termini di aiuto e di assistenza, o
addirittura mirando ai vantaggi di ritorno
per le risorse messe a disposizione.
Quando milioni di persone
soffrono la povertà, dobbiamo non
solo ricordare a noi stessi che nessuno
ha il diritto di sfruttare l’altro,
ma anche e soprattutto riaffermare
l’impegno a quella solidarietà che
consente ad altri di vivere».
Come ha confermato la contestazione
dei no global al G8 di Genova
(20-22 luglio 2001), la coscienza del
nostro tempo non tollera più una umanità
spaccata tra 5 miliardi di poveri
e 1 miliardo di ricchi. I beni della
terra sono di tutti, e un mondo diverso
è possibile.
b) Fare ripartire la missione
In un mondo globalizzato occorre
prendere atto che la missione ad
gentes non ha più confini… neppure
in Italia.
«La nostra società – dicono i vescovi
– si configura sempre di più come
multietnica e multireligiosa. Occorre
evangelizzare le persone condotte
tra noi dalle migrazioni…
Seppure con molto rispetto e attenzione
per le loro tradizioni e culture,
dobbiamo essere capaci di testimoniare
il vangelo anche a loro e,
se piace al Signore ed essi lo desiderano,
annunciare la parola di Dio, in
modo che li raggiunga la benedizione
di Dio promessa ad Abramo per
tutte le genti (Gen 12, 3)» (16).
In un mondo globalizzato, la via
per fare ripartire la missione è il dialogo
interreligioso, accanto a quello
interculturale: contribuisce a risolvere
le sfide delle migrazioni, del terrorismo
internazionale, della costruzione
della pace nella giustizia e nell’amore.
Il fenomeno migratorio è ormai
planetario. Nel mondo sono 150 milioni
le persone che si spostano verso
le aree più ricche, che sono anche
le più popolate: ciò aggrava l’odissea
degli immigrati, che per lo più
vengono ritenuti invasori. Il problema
non si risolve chiudendo loro le
frontiere, discriminandoli in base a
razza, religione o impronte digitali.
Occorre orientare i flussi migratori
in modo legale e strutturale.
Anche il terrorismo si è globalizzato.
Forse non l’avevamo capito…
Solo dopo l’«11 settembre» ci siamo
accorti che il conflitto israelo-palestinese
e altre esplosioni di violenza
non erano episodi sporadici di «terrorismo
locale», ma focolai di un
terrorismo senza confini e senza volto.
Per estirparlo non serve la guerra
(meno che meno una guerra di civiltà!),
perché l’abbattimento delle
«torri gemelle» non è stato una dichiarazione
di guerra, ma un crimine
contro l’umanità.
Il terrorismo globalizzato appartiene
a un nuovo capitolo del diritto
internazionale: il diritto umanitario.
I crimini contro l’umanità sono
imprescrittibili, e sono perseguibili
ovunque; non possono essere considerati
affari interni di una nazione.
Quindi il terrorismo internazionale
non si combatte con rappresaglie e
ritorsioni (contro chi?), ma (per esempio)
congelando le fonti finanziarie
che alimentano la violenza,
potenziando e cornordinando i servizi
di intelligence, soprattutto spegnendo
i focolai esistenti: a cominciare
dal Medio Oriente, dove bisogna
presto giungere a riconoscere lo
stato palestinese. E rinnovando l’Onu.
Ma, se la giustizia può richiedere
che si ricorra all’intervento armato
come extrema ratio (per stanare i terroristi
e portarli dinanzi ai giudici),
dobbiamo dire però che la giustizia
da sola non basta. Oltre alla giustizia
(il primo scalino dell’amore), c’è
bisogno di riconciliazione e perdono
(il vertice dell’amore).
La ragione è – spiega Giovanni
Paolo II – che la giustizia si limita a
garantire l’equità nell’ambito dei beni
e diritti oggettivi, mentre «l’amore
e la misericordia fanno sì che gli
uomini si incontrino tra loro in quel
valore che è l’uomo stesso, con la dignità
che gli è propria» (17).
Riuscirà la missione a evitare
che la secolarizzazione degeneri
in secolarismo… e tutti gli
altri pericoli?
Dalla lettura dei «segni dei tempi
» deduciamo che la chiesa oggi si
trova in stato di purificazione… La
storia dimostra che ogni qual volta
la chiesa, condizionata da uomini ed
eventi, rischia di trasformarsi da lievito
in pasta, lo Spirito interviene: le
toglie gli appoggi umani e la riporta
alla purezza del vangelo. E ritorna a
essere «lievito». La forza del lievito
non sta nella quantità…
L’efficacia della nostra missione
non sta nei soldi, nel favore dei potenti,
nei privilegi, nei concordati.
La forza sono i poveri e la povertà
della chiesa; la croce, la
parola di Dio, la santità
dei suoi figli.
v
(1) Cfr. Conferenza episcopale italiana
(Cei), Comunicare il vangelo in un mondo
che cambia, 2001
(2) Ivi, n. 35
(3) Ibidem
(4) Cfr. Christifideles laici (1988), n. 4
(5) Cfr. Gaudium et spes (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), nn. 42, 76
(6) L’Osservatore Romano, 29 luglio 1993
(7) Novo millennio ineunte (2001), n. 16
(8) Cei, op. cit., n. 41
(9) Cfr. Ivi, n. 37
(10) Nostra aetate (Concilio ecumenico
Vaticano II – 1965), n. 2
(11) Gaudium et spes, n. 92
(12) Populorum progressio (1968), n. 42
(13) L’Osservatore Romano, 6 ottobre
1995
(14) la Repubblica, 23 agosto 1998
(15) Cfr. Cei, op. cit., n. 43
(16) Cfr. Ivi, n. 58
(17) Dives in misericordia (1978), n. 14

(*) Padre Bartolomeo Sorge,
gesuita, già direttore de La Civiltà
Cattolica, è anche saggista socioreligioso
e conferenziere. È direttore
della rivista missionaria Popoli.

Bartolomeo Sorge

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