TEOLOGIA MISSIONARIA: NESSUNA SVENDITA

Un abbozzo
di risposta
alle domande
di un lettore,
che si interroga
su peccato originale,
Antico Testamento
e buddhismo…

Spettabile «Missioni Consolata»,
duemila anni or sono l’insegnamento di
Gesù non aveva alcun precedente nell’area
del Mediterraneo. L’unica predicazione
simile alle sue parole si può trovare nell’area
indiana dell’epoca, dove jainismo e
buddhismo si erano diffusi da cinque secoli.
In particolare, dal secondo secolo a. C.
si era andata differenziando la corrente
del buddhismo detta «Mayana», che aveva
come insegnamento l’estinzione del
desiderio e l’amore compassionevole verso
tutti gli esseri senzienti, oltre all’abolizione
di ogni tipo di casta e gerarchia.
Alla luce di quanto sopra, la chiesa dovrebbe:
– allontanarsi dall’Antico Testamento, con
cui l’insegnamento di Cristo non ha alcun
legame, abbandonando il racconto della
Genesi e la dottrina del peccato originale,
oggetto di grandi perplessità nel mondo
moderno;
– riaccostarsi a quanto è oggi rimasto di
buono del buddhismo, riponendo l’enfasi
sull’amore compassionevole verso tutti gli
esseri senzienti, dopo aver riconosciuto lo
status di esseri senzienti a tutte le entità
naturali.
Un simile collegamento all’antico renderebbe
la chiesa più «modea».
Albino Fedeli
Roma

Il signor Fedeli, senza lungaggini,
in modo gentile e garbato, pone
sul tappeto tre gravi problemi, importanti
anche da un punto di vista
missionario.
Innanzitutto sul buddhismo da adottare,
poi sull’Antico Testamento
da eliminare e sul peccato originale
eventualmente da ridimensionare,
per non cadere nel ridicolo.
Viene pure da sorridere.
Perché anche un incompetente
di astronomia può rivolgere
a un astronomo di
professione domande alle
quali, per rispondere, occorre
avere studiato tutta una vita.
Alla stessa maniera che
un tizio, premendo con un
ditino il grilletto di una pistola,
può ferire gravemente
una persona; ma il chirurgo
che lo opera deve mettere in
atto tutta la sua scienza ed esperienza.
Il buddhismo è la più inafferrabile
delle religioni universali,
se di religione si
tratta. Non si può che rimanere
ammirati nel prendere
contatto con le cosiddette
quattro nobili verità (per eliminare
o sublimare il dolore),
o con le tre gemme, con
le cinque fascine, con gli otto
sentirneri (che convergono
a tre impegni fondamentali:
moralità, meditazione, compassione),
con i quattro possibili
stati mentali dell’uomo,
che sono: bontà, compassione,
gioia, equanimità. La
bontà che prova una madre
verso il proprio figlio quando
è piccolo, la sua compassione
quando il figlio è ammalato, la sua
gioia quando il figlio è ormai diventato
un giovane gagliardo, l’equanimità
quando il figlio è cresciuto e ha
messo su famiglia, ecc. ecc.
Quindi, niente di male che un cattolico
prenda conoscenza di qualcosa
(o qualcosa in più) del buddhismo,
anche per abbellire con una
piccola operazione di cosmesi il suo
volto, proprio nel senso indicato dal
signor Fedeli. Tanto per intenderci:
ebrei, cristiani e musulmani potrebbero,
ad esempio, smettere un po’ di
massacrare una moltitudine di agnelli
in occasione delle loro festività
religiose. Padre Eesto Balducci si
chiedeva se il Buddha non fosse l’altra
parte di noi che abbiamo non solo
dimenticato, ma represso (cfr.
L’uomo planetario, 1985, p. 170).
Tuttavia il cristianesimo non può
essere messo in svendita, come una
merce ormai avariata o fuori moda.
Poiché anche nel buddhismo molte
cose sfuggono di mano come anguille
(ad esempio, cosa succede dopo
la morte?), la cosa da fare non è
la «svendita», ma il confronto e il
dialogo, per chi è in grado di affrontarlo.
Il cristianesimo, poi, è tutto in Cristo,
che diceva: «Misericordia voglio
e non sacrifici» (di animali viventi)
(Mt 9, 12-13; cfr. Os 6, 6). Oppure:
«Siate misericordiosi come è misericordioso
il Padre vostro» (Lc 6, 36).
Inoltre il nome di Padre, che Gesù
attribuisce a Dio, è la chiave e la sintesi
di tutto il cristianesimo.
Giovanni Battista intonava il Dies
irae sul mondo presente; Gesù invece
annunciava che, dietro l’angolo,
c’era un tempo di salvezza giorniosa,
anche banchettando insieme agli emarginati.
Ci si deve allontanare dall’Antico
Testamento, con il quale l’insegnamento
di Cristo non ha alcun legame?
Un’operazione del genere è
assolutamente impossibile;
significherebbe la morte di
entrambi; in ogni caso certamente
del cristianesimo.
Lo diceva già Gesù stesso alla
samaritana: «La salvezza
viene dai giudei» (Gv 4, 22).
Paolo aggiunse che essi
«possiedono l’adozione a figli,
la gloria, le alleanze, la legislazione,
il culto, le promesse,
i patriarchi; da essi
proviene Cristo!» (Rom 9, 4-
5).
È più che ovvio che il Nuovo
Testamento, a confronto
con l’Antico, costituisca non
un rigetto, ma un superamento
e un perfezionamento,
secondo la normale legge
(anche religiosa) di un buon
educatore che procede per
gradi: «Né troppo; né troppo
presto; né tutto in una
volta».
Già nel secondo secolo,
qualcuno aveva tentato di
prendersela con l’Antico Testamento:
Marcione, ad esempio,
ma fu condannato.
Verso il 170 d. C. aveva scritto
un’opera dal titolo «Antitesi
»: sono così grandi le differenze
tra i due Testamenti
che non possono stare insieme
e il Dio della giustizia
non può stare insieme al Dio dell’amore.
Recentemente ci fu chi tentò di paragonare
Simone Weil (1909-1943) a
Marcione. Cosa assurda, anche se la
Weil, nonostante fosse ebrea, provasse
un appassionato risentimento
verso la religione dell’Antico Testamento,
trovando che lo stornicismo
greco era migliore; e scelse il cristianesimo.
Ci fu pure qualche teorico
africano (ma si tratta di un fenomeno
marginale) che propone la cultura
africana (compresa la religione
tradizionale) come sostituzione dell’Antico
Testamento.
Posizioni incomposte. Gesù stesso, nell’accompagnare i due discepoli
di Emmaus, «cominciando da
Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro
in tutte le Scritture ciò che si riferiva
a lui» (Lc 24, 27). Sarebbe come
se, per esaltare e valorizzare in letteratura
un autore moderno italiano,
si eliminasse Dante!
E infine, l’eterna questione sul
peccato originale. È un po’ di
moda ridicolizzare i racconti della
Genesi e coloro che li accettano. Andrei
invece adagio a scagliare fulmini
o proferire giudizi di anti-modeità
su un’opera altamente «poetica
», oltre che religiosa, qual è il libro
della Genesi.
Chi prendesse in mano il ponderoso
volume di 440 pagine del rabbi
Rashi di Troyes (1040-1105), dal titolo
«Commento alla Genesi», troverebbe
che il «fermarsi su ogni parola
della Scrittura, è una ricerca dominata
da un irresistibile slancio ad
andare oltre il senso letterale dei testi,
per cogliee il profondo e misterioso
significato».
Sulla intrigante dottrina del peccato
originale, occorre tenere presente,
anzitutto, che va letta in chiave
«religiosa» o di fede, a causa del
rapporto misterioso tra uomo-creato
e Dio. Come l’ha visto Paolo nella
Lettera ai Romani: da una parte Adamo
e dall’altra Cristo; da una parte
l’origine del male, il «mistero di
iniquità» (2 Tess 2, 7) e, dall’altra, il
«mistero della grazia» (1 Tim 3, 16).
Perché Adamo è ciascuno di noi.
«Dove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato
la grazia» (Rom 5, 20).
Inoltre va tenuto presente che una
cosa è accettare l’esistenza del
peccato originale, un’altra è l’investigazione
sulla sua natura, aperta a
nuovi sviluppi.
I padri greci, ad esempio, sono più
sobri e con mano più leggera dei latini
e di sant’Agostino, tallonato dal
pelagianesimo e portato a sottolineare
il racconto con qualche riga in
più; fino a Lutero e ai cinque canoni
del Concilio di Trento (secondo il
quale però il peccato originale non
ha corrotto radicalmente l’uomo).
Così si può dire che ogni uomo
che mette piede sulla scena di questo
mondo, per recitare la sua parte,
non inizia dal punto zero; molti altri
sono entrati in scena prima di lui,
sollevando polvere, impregnando
l’ambiente di fumo, dicendo e compiendo
balordaggini… Pertanto al
nuovo venuto risulta difficile la respirazione.
Se poi costui accende una
sigaretta, contribuisce, per parte
sua, a deturpare l’atmosfera.
Si tratta di una nativa fragilità o finitezza
umana che colpisce tutti, anche
se di per sé l’uomo è «un essere
in relazione», destinato a convivere
con la terra (da cui è tratto), con il
giardino (che è chiamato a coltivare),
con gli animali (ai quali dà un
nome), con la donna (senza la quale
è nulla); e anche con Dio (che gli dà
l’esistenza), la cui presenza è simboleggiata
dai due alberi, per ricordargli
che non sta a lui decidere arbitrariamente
e a piacimento ciò che è
bene e ciò che è male.
Tutto ciò espresso in un linguaggio
«simbolico» o
«mitico», come una
parabola da
interpretare o un
rebus. Per dire
che si tratta di una
rottura di un’armonia
congenita e che
la vita dell’uomo è anche
una lotta.
La natura del peccato
originale, sotto il rivestimento
del racconto, mutuato
da tradizioni antiche
e che la bibbia intende purificare,
è stato espresso anche con un linguaggio
«sapienziale». Ecco come lo
presenta Isaia: «Guai a coloro che
chiamano bene il male e male il bene,
che cambiano le tenebre in luce
e la luce in tenebre, che cambiano
l’amaro in dolce e il dolce in amaro…
» (5, 20).
In una parola, il peccato originale
sarebbe la pretesa di voler essere padroni
del bene e del male. Un atteggiamento
del genere è espresso molto
chiaramente dal «figlio prodigo»,
che esige dal padre la parte di eredità
che ancora non gli spetta, per
fae ciò che più gli piace. Il peccato
originale è Faust in compagnia del
demoniaco e gaudente Mefistofele:
questi non può fare che Mefistofele,
mentre Faust può scegliere.
Ma quale fatica!
S’impone, comunque, una moderazione
di tono o almeno di rispetto
verso coloro che accettano una dottrina,
senza essere creduloni o stupidi.
Ricordando (se ciò può essere
utile) che le traversie teologiche di
Teilhard de Chardin ebbero inizio
banalmente dall’avere egli scritto una
breve «Nota» sul peccato originale,
su richiesta di un suo confratello
e destinata solo a lui; poi, passata
di mano in mano, dopo tre anni
finì a Roma, dando origine a tutti i
suoi guai di «gesuita proibito».

IGINO TUBALDO




NEMMENO UN BOCCONE DI ARROSTO!

Ho letto con attenzione il
dossier su Porto Alegre/
Brasile «L’utopia possibile»
(Missioni Consolata, aprile
2002). Se un proverbio dice
«molto fumo e poco arrosto»,
dopo la suddetta lettura dico: una nuvola atomica
di fumo e nemmeno un boccone di arrosto! A Porto
Alegre hanno venduto solo illusioni.
Mi permetto di allegare un breve articolo che,
nel dicembre scorso, ho inviato al mensile San Vincenzo
di Torino sullo stesso argomento. Avete il coraggio
di pubblicarlo su Missioni Consolata?
GIANNI ROCCHIETTA – IVREA (TO)

La sfida al nostro «coraggio» è ormai un luogo comune
abusato… Al Forum sociale mondiale di Porto Alegre
eravamo presenti con un redattore (Paolo Moiola)
e un collaboratore (Marco Bello, già volontario in Burundi
e Haiti). Che abbiano riportato i contenuti in
modo «fumoso»… passi. Ma che abbiano sprigionato
«una nuvola atomica di fumo» ci pare francamente esagerato.
Prima di pubblicare il testo del lettore, ricordiamo
che il mensile «San Vincenzo» è dei padri vincenziani;
si ispirano all’omonimo santo, che affermava: i poveri
«sono i nostri signori e padroni».
Scrive il signor Gianni Rocchietta:
«Dalla lettura degli articoli e delle lettere al
direttore comparsi sui numeri di «San Vincenzo
» e usciti dopo il G 8 di Genova e dopo l’11
settembre 2001, è emersa l’enorme gravità dei problemi
della società mondiale: 36 mila bambini
muoiono di fame ogni giorno! Molti invocano «la
sostituzione dell’attuale modello economico occidentale
con uno alternativo che difenda i 2/3 della
popolazione mondiale che vive in condizioni disumane
».
Le persone anziane come me o che conoscono la
storia degli ultimi due secoli sanno che i filosofi K.
Marx e F. Engels hanno pensato di distruggere tutti
i difetti del capitalismo con una nuova dottrina economico-
sociale chiamata comunismo, che dal
1917 ad oggi è stata attuata in molti paesi dell’Europa,
dell’Asia, dell’Africa e dell’America. Qual è
stato il risultato?
Anni fa a Parigi fu pubblicato un libro, frutto
della collaborazione di una decina di giornalisti,
che con un’analisi oggettiva ha denunciato che, dal
1917 al 1990, nei paesi comunisti sono morti 85-
100 milioni di persone per omicidi politici o per
fame. Ahimé: si è passati dalla padella alla brace!
La povertà investe gli stessi Stati Uniti, che hanno
il reddito pro capite più alto del mondo: i vescovi
hanno denunciato che 40 milioni di americani, su
280 milioni, non riescono a sbarcare il lunario.
Pertanto la frase che ricorre sulla bocca dei vincenziani
o dei cattolici in genere
«modificare l’attuale economia
in favore dei poveri»
appare astratta, senza indicazioni
concrete e reali.
E fra le centinaia di migliaia
di persone che hanno manifestato al G8 di Genova
o Seattle non se n’è trovata una che abbia saputo
dire: «Io come singolo sono capace di combattere
la povertà diventando datore di lavoro dei poveri»,
che sarebbe l’unica indicazione concreta e reale
che forse risolverebbe alla radice il problema.
Né il comunismo né il capitalismo sostengono che il
singolo possa risolvere la povertà nel mondo. È il sistema
economico mondiale che viene sottoposto a
giudizio, un sistema che genera… pochi ricchi sempre
più ricchi e tantissimi poveri sempre più poveri, specialmente
nel sud del mondo.
La povertà non è solo questione di posti lavorativi.
Ricordando che molti poveri lavorano (e duramente),
il problema investe le «condizioni generali di lavoro
»: multinazionali, trattamento salariale, prezzi dei
beni e servizi prodotti dagli stessi poveri, infortuni,
salute, tutela dell’ambiente, formazione, famiglia, lavoro
nero e sommerso, ecc.
Caro direttore, dopo aver parlato con padre Gottardo
Pasqualetti (superiore dei missionari della
Consolata in Italia), scrivo per manifestare la mia
più completa adesione alla linea della rivista.
Dire che non esiste guerra «giusta» è dire la verità,
e non essere «comunisti» o al soldo del nemico
(detto fra noi: chi è il nemico?). Dire che la pazzia
suicida dei palestinesi è stata scatenata dalla
pazzia terroristica di Ariel Sharon è dire la verità.
Dire che gli iracheni sono affamati da un embargo
delinquenziale degli Stati Uniti e dei paesi della
Nato è dire la verità. E così è per le azioni (da stato
autoritario) della polizia a Genova e Napoli: aggredire
e impaurire ragazzi e ragazze giovani, ingiuriarli
e picchiarli è un atto vergognoso e denunciarlo è
dire la verità. Dire che la globalizzazione e il capitalismo
stanno portando nel mondo più fame e ingiustizia
è dire la verità.
Non demorda, direttore. Nostro Signore dice: «Il
vostro parlare sia sì, sì… no, no». E ancora: «Beato
chi ha sete di giustizia e verità».
LUCIANO TEODOLI – ROMA

A Roma (da dove scrive il lettore) abbiamo studiato
filosofia e teologia. Numerosi professori, citando san
Tommaso d’Aquino, ci ricordavano che nella storia non
è mai esistito un sistema di pensiero completamente
falso né uno totalmente vero.
Ecco perché, a prescindere da ragioni religiose, suggeriamo
a tutti il rispetto dell’opinone altrui.
Uno solo è veramente ed interamente giusto.

vari




IL BENE SENZA RUMORE di quattro generazioni insieme

Nella quaresima di quest’anno i bambini e i ragazzi
delle scuole elementari e medie di Corti
Sant’Antonio in Costa Volpino hanno raccolto una
somma, che intendono devolvere ai missionari. Di
questi ragazzi, che frequentano la catechesi, non
molti sanno dell’esistenza dei missionari della Consolata;
però ciò che conta è il messaggio che proviene
dal loro cuore, diffuso anche con l’impegno
generoso che hanno dimostrato.
Non sempre ci rendiamo conto del sacrificio dei
missionari, testimoni della fede, che offrono interamente
la vita per gli altri; ma siamo certi che la
preghiera che innalziamo per essi sia la
massima espressione della nostra solidarietà;
e, se talvolta ce ne dimentichiamo,
i nostri don Gianfranco e
don Endrio riaccendono la fiamma.
La somma che inviamo serva a
sostenere l’operato dei padri Rinaldo
Do (Congo) e Sandro Moreschi
(Kenya), che vivono realtà diverse,
ma entrambe difficili.
Cari missionari, nelle vostre preghiere
alla Madonna Consolata ricordatevi
anche della comunità di Corti
Sant’Antonio, perché sia sempre unita nella
fede e nell’amore.
LUIGI COCCHETTI – CORTI SANT’ANTONIO (BG)

Cari missionari, siamo un gruppo di giovani dai
16 ai 25 anni. Tutti gli anni, nel mese di maggio,
facciamo un pellegrinaggio in pullman ad un
santuario che dista 10 chilometri da casa nostra…
L’anno scorso, invece di prendere il pullman, siamo
andati a piedi; inoltre abbiamo fatto pranzo al sacco
e non al solito ristorante.
È stata un’esperienza bellissima, soprattutto
perché, con i soldi risparmiati, abbiamo potuto adottare
un bambino in Brasile. È stata pure una
grande gioia aiutare chi è meno fortunato di noi.
Alcuni ragazzi (che non si sono uniti a noi, ma
sono andati in pullman pensando che si sarebbero
stancati), vedendoci così felici, hanno deciso per il
prossimo anno di fare con noi la stessa camminata.
Facciamo conoscere l’esperienza ad altri giovani
sperando che seguano il nostro semplice esempio.
IL «GRUPPO GIOVANI» – BUSSETO (PR)

Siamo 10 anziani, abitanti in un paesino dell’alta
Val Tidone. Da quando è venuto a trovarci un padre
missionario (che ci ha parlato del terzo mondo),
abbiamo sentito il desiderio di adottare a distanza
un bambino; però non sapevamo come fare,
perché la nostra pensione ci consente ben poco.
Ma ecco che Tina Paulat, catechista dei nostri nipoti
(una santa donna!), ci ha dato un’idea: bere
qualche caffè in meno e destinare gli euro risparmiati
al progetto dell’adozione.
Da allora sono passati tre anni. Oggi siamo molto
orgogliosi di quanto stiamo facendo. Senza atteggiarci
ad eroi, ci sentiamo di dire: «C’è più gioia nel
dare che nel ricevere».
DIECI ANZIANI DI PIANELLO – VAL TIDONE (PC)

Spettabile redazione, fino a qualche tempo fa, una
volta alla settimana ci riunivamo per giocare
a carte; e, fra una partita e l’altra, ci rimpinzavamo
di torte e pasticcini, con l’immancabile spumante.
Siamo un gruppetto di amiche di mezza età.
Tempo fa la nipote di una di noi (missionaria
in Africa) è ritornata al paese per un
breve periodo di riposo. Una sera ci
ha fatto vedere una videocassetta,
che illustra la sua missione. Vedendo
alcuni lebbrosi anziani che
vivono in condizioni precarie (solo
una ciotola di cibo al giorno),
ci siamo sentite un po’ colpevoli.
Pertanto abbiamo deciso di non
mangiare più dolci (che ci fanno anche
male alla salute). Così, quando ci
ritroviamo per la solita partita, ci accontentiamo
di una tazza di caffè. I soldi (che
prima spendavamo per i dolci) li mettiamo in un
salvadanaio e, quando abbiamo raccolto una certa
cifra, li spediamo a quei poveri lebbrosi.

«LE AMICHE DELLA BRISCOLA»
POST SCRIPTUM
Non ci firmiamo, né riveliamo il nome del nostro
paese, perché non vogliamo metterci in mostra e
nemmeno farci intervistare da Emilio Fede.
Quello ci farebbe una telenovela.

Un «bravo» speciale alle «amiche della briscola»,
che rifuggono dai paparazzi della pubblicità. «Il bene
va fatto bene, e senza rumore»: affermano da sempre i
missionari della Consolata…
Le lettere ci propongono modi semplici e concreti di
fare il bene. È un bene che ci piace per tre ragioni:
– coinvolge quattro generazioni (bambini, giovani, adulti,
anziani);
– supera il «privato» ed entra nel «pubblico»: cioè è
fatto insieme; in altre parole (usando la celebre favola
dello scrittore e politico irlandese Jonathan Swift), la
generosità imprigiona il «mostro dell’indifferenza» con
la strategia di «tanti esili fili»… che diventano una
«rete» fitta e robusta;
– c’è pure l’invito a fare altrettanto…
Recita un noto principio etico-filosofico bonum diffusivum
sui: il bene si propaga di per sé… e contagia.

vari




Voci fuori del coro

Caro direttore,
esprimo il mio apprezzamento
per gli articoli di
PAOLO MOIOLA e per la
posizione assunta da Missioni
Consolata (cui i miei
genitori sono abbonati)
sugli avvenimenti di Genova
e New York: una posizione
aperta a più voci,
equilibrata; equilibrata
proprio perché a più voci.
Sono stato in Kenya
con l’associazione di p.
Giordano Rigamonti
«Impegnarsi serve». Mi
ha colpito ciò che ho visto
e quanto mi hanno raccontato
i missionari della
Consolata e i volontari
sulla situazione sociale
del paese, simile a quella
di tanti altri stati subsahariani.
Tornato a casa, ho cercato
una risposta alla fastidiosa
domanda: «c’è un
legame tra la miseria e
l’ingiustizia in cui vivono
tanti popoli e il nostro benessere?
». Ho trovato
delle risposte (parziali,
certo, ma convincenti) negli
interventi di padre Zanotelli
e di altri cattolici
(vescovi, teologi e «semplici
» laici) che cantano
«fuori dal coro».
Secondo me, c’è proprio
un coro, cui si aggregano
purtroppo tanti cattolici
(compresi sacerdoti
e religiosi consacrati), che
cantano: «Va tutto bene,
va come deve andare e
noi viviamo nel migliore
dei mondi possibili». Un
coro che alza la voce per
sovrastare altre voci deboli
e (per ora) divise.
Quanto a voi, grazie
perché presentate vari
punti di vista per ricordare
che la verità è più sfaccettata
e distribuita di
quanto crediamo per pigrizia
mentale (o addirittura
cattiva coscienza).

«Cos’è la verità?» chiese
Pilato a Gesù. Ma non
attese la risposta. Accettò
che Gesù fosse ucciso…
«lavandosi le mani» (cfr.
Gv 18, 38; Mt 27, 24).

Fabio Dechigi




I fucilati del Martinetto

Il 5 aprile di ogni anno
si commemorano i caduti
del Martinetto di Torino.
In tale giorno del 1944 furono
fucilati dai nazifascisti
gli otto componenti del
Comitato militare di Liberazione
del Piemonte, comandato
dal generale
Giuseppe Perotti.
Il 25 aprile si festeggia
la Liberazione. È una ricorrenza
che ricorda la fine
di un periodo storico e
tragico per l’Italia. Va ribadito
che, prima di tale
data, sono state affrontate
lotte e sofferenze inaudite
fino al sacrificio della vita.
La libertà e la democrazia
furono conquistate nel
tempo anche da persone
che sostennero, moralmente
e civilmente, vari
partigiani e deportati.
Sono da ricordare anche
i missionari della Consolata
che, durante il Fascismo
e la Resistenza, assistettero
tanti carcerati politici
nelle prigioni Le
Nuove di Torino.
Il Comitato «Nessun
uomo è un’isola» intende
ricuperare il legame storico
tra i missionari della
Consolata e il carcere giudiziario
Le Nuove. Per tale
ragione è stato invitato
il giovane missionario torinese,
Ugo Pozzoli, a
presiedere l’eucaristia nella
cappella centrale, una
volta destinata alle funzioni
religiose per i detenuti
e oggi alla santa messa
nella seconda e quarta domenica
di ogni mese.
Padre Ugo ha ricordato
i confratelli che operarono
nel carcere, mettendo
in risalto come lo stesso
beato Giuseppe Allamano,
fondatore dei missionari
della Consolata, si
fosse interessato alla vita
carceraria. Infatti, il 16
febbraio 1895, avviò il
processo di beatificazione
dello zio Giuseppe Cafasso,
il prete degli impiccati.
«Nessun uomo è un’isola
» si augura di collaborare
ancora con i missionari
della Consolata sia per un
dovere di memoria storica,
sia per ribadire i principi
della convivenza civile,
sia per stimolare la crescita
umana delle nuove
generazioni, cui i missionari
rivolgono speciale attenzione.
In occasione della festa
della Liberazione, si ringraziano
i missionari della
Consolata per la loro partecipazione
storica al migliore
trattamento dei carcerati
presso Le Nuove di
Torino, nonché per il contributo
umano e spirituale
all’affermazione dell’Italia
unita, libera e democratica,
oggi parte integrante
della Comunità europea e
sesta potenza economica
mondiale.

Felice Tagliente è presidente
del Comitato «Nessun
uomo è un’isola»…
Oggi padre Ugo è missionario
in Ecuador.

prof. Felice Tagliente




«Storielle» benvenute

Caro direttore,
innanzitutto mi congratulo
per la sua ottima conduzione
professionale di
Missioni Consolata. Senza
entrare in lunghi dettagli,
ritengo che i contenuti espressi,
la presentazione
fotografica, l’impaginatura
e tutto il resto facciano
della rivista una pubblicazione
di «classe».
Abbiamo un legame comune
con «la Consolata»,
che si perde nel passato,
ma che si rifiuta di sparire
dalla mente e dal cuore,
nonostante il passare del
tempo.
Senza alcuna pretesa,
continuerò a mandarle
qualche «storiella» dal
Kenya. La lunga permanenza
nel paese mi ha
messo in contatto con
quasi tutti gli strati della
società kenyana: dai ban-
diti somali (shifta) negli
anni ’60, sulla rotta Isiolo-
Marsabit, ai personaggi
attuali che hanno raggiunto
i gradini più alti della
scala politica. Gli aneddoti
sono una legione.
Tuttavia la «nostra» rivista
è diventata internazionale
e bisogna giustamente
dare spazio a tutti.

Le sue storielle, signor
Giorgio, non sono affatto
tali, ma tessere di un
complesso mosaico. Ben
vengano dunque! E controlli
quanto abbiamo riportato
a pagina 28-30.

Giorgio Ferro




Piccolo grande eroe

Caro direttore,
leggendo la sua rivista, che
ricevo come membro dell’associazione
«Spazio aperto
» dell’università cattolica
di Milano, ho ritenuto
che essa sia il luogo
consono alla pubblicazione
dei miei scritti. Sono
componimenti che credo
possano dare un contributo
ad una migliore comprensione
del messaggio
di cui il suo giornale è portatore.
Questi componimenti
sono frutto della mia esperienza,
nata con il progetto
«Adozioni a distanza»
di qualche anno fa.

Carla, poiché ti impegni
per uno «spazio aperto» a
tutti, è dovere accogliere
la tua richiesta. Per non
parlare della validità del
tuo messaggio.
«Piccolo grande eroe /
ogni giorno lotti per la
strada / mendicando pane
con umiltà / fuggendo /
nascondendoti dietro gli
angoli / con gli occhi
lucidi / davanti
all’ignoranza di chi ha /
ma non sa donare /
Piccolo grande eroe /
non ti nascondere /
ma sconvolgi il nostro
superfluo / con la tua
“povera” dignità /
di uomo semplice».

Carla Radaelli




Buona permanenza in…

Kenya. Quando chiudo
gli occhi, strade affollate
di volti percorrono i miei
ricordi. Odori densi, bancarelle
di legno scuro, frutti
verde-arancio riposano
sulla strada ad aspettare
passaggi.
Villaggi su villaggi lungo
l’asfalto che corre verso
nord, che apre paesaggi
variegati, senza orizzonte,
verdi, brulli, inaspettatamente
brulicanti di vita.
Acacie maestose ristorano
la vista di quell’Africa assaporata
sui libri di scuola.
Quando popoli, lingue,
colori si fondevano in
un’unica figura, disegnando
un continente tutto uguale,
senza voce.
Ora l’Africa ha per me
una voce. Volti diversi
s’affacciano a raccontarmi
la loro storia, le loro diverse
e infinite storie, ora si
distinguono al mio udito
lingue dai suoni variopinti.
Riconosco le tracce di
culture lontane, alterate, a
volte lasciate da parte. Ora
vedo. Mi sembra di vedere.
E così vado avanti in
questa ricerca, in questo
cammino da cui non riesco
più a distogliermi.
Nairobi, Sagana,
Nanyuki, South Horr, il
Turkana, Marsabit, nuovamente
Nairobi. Tutto si è
aperto, mi ha ospitato, mi
sono fatta ospitare, ho
parlato con tutti, ho pianto
commossa mille volte.
Ho visto dignità, fermezza,
donne dal volto sincero,
bambini veloci, vivaci,
curiosi. Gentilezza.
Ho sentito qualcosa di
sacro tra le immondizie di
Korogocho, una storia sacra
di sofferenza, sopravvivenza,
ma anche di devozione,
devozione verso
un Dio che vive tra le preghiere,
le mani unite, il rispetto
di chi lavora lì. Di
chi non riesce più a tornare.
Di chi ama troppo e
non riesce a dimenticare.
Sono partita, ho imparato,
ho portato con me a casa
una strana discrezione.
Leggera leggera l’Africa ritorna
in tutto ciò che faccio,
provo, penso.
Con discrezione.
Mi sento più vicina a
tutti, ai miei familiari, ai
miei progetti, a tutto ciò
cui giro intorno. Un’incredibile
discrezione. Non
posso descrivere in altro
modo il mio rientro. E ora,
ora mi preparo a ritornare.
Seriamente.
Ora voglio davvero lavorare.
Finirò i miei studi,
lascerò la fanciullezza che
ancora mi circonda e poi
prenderò in mano le mie
responsabilità. Discreta,
attenta, sincera.
Quando chiudo gli occhi…
Preghiere su preghiere.
La distesa del
Turkana. Il cielo giallastro
di Nairobi. Nanyuki e tutti
i suoi bambini.
Io e la mia decisione.
Grazie, grazie. Questo
piccolo viaggio spero sia
l’inizio di una vita intera.

Giulia è stata in Kenya.
Ha visitato pure le missioni.
E ci ha rivelato le
sue emozioni. Ma anche
gli impegni. Il tutto con
stile intenso.
Nel presente luglio e
nel successivo agosto altri
ragazzi e ragazze, altri uomini
e donne stanno
scrutando «il cielo giallastro
di Nairobi» o «la distesa
del Turkana». Altri
raggiungeranno il Tanzania
o il Brasile. A tutti
l’augurio di buona permanenza.
E che bello sarebbe se,
tornando a casa, tutti potessero
dire «grazie, grazie
»! E iniziare subito una
vita diversa.

Giulia Cavallo




ADELANTE, MA…

Sono in Colombia da due giorni. Padre José è
addetto al mio soggiorno a Bogotá, prima di
«andare in missione». Oggi è giorno di spesa
e decide di portarmi al mercato o Carrefour.
«No ai nada de terzer mundo»
mi anticipa ridendo.
L’auto percorre le vie di Modelia, il quartiere dove
risiediamo, evitando le grandiose buche nell’asfalto
o piombandoci dentro a tutta birra. Il sindaco
della capitale ha, nel rilancio del sistema dei trasporti,
uno dei punti forti del suo programma politico.
Ma le dimensioni di Bogotá (7 milioni di abitanti)
sono tali che…
Siamo arrivati. Il Carrefour si staglia davanti con
il suo parcheggio ancora semivuoto e le insegne così
uguali in tutto il mondo. Sorpresa.
Ma non mi sorprende l’ipermercato in se stesso,
bensì il trovare il «mio» ipermercato, dove 10
giorni prima ho comprato il giubbetto di tela blu
leggera (che taglia l’aria), le lamette da barba di riserva
(perché «non si sa mai») e le pile per la radio-
sveglia (anche se l’«orologio biologico» mi sveglia
regolarmente alle due del mattino).
Dunque la prima sensazione, positiva, è l’incontrare
il mio Carrefour dietro l’angolo. È la cancellazione
dell’imprevisto, dell’incognita «x», che rappresenta
una palla al piede per la civiltà superoccidentalizzata.
Grazie, Carrefour.
Entro e mi trovo davvero a… Torino, al centro
commerciale Le Gru. Ho impiegato 13
ore di aereo per ritornare esattamente dove
ero partito. Mi vengono
in mente alcuni versi di
Thomas Eliot:
«Non cesseremo mai di
esplorare.
E alla fine di ogni nostra
esplorazione
arriveremo dove abbiamo
iniziato.
E conoscere il luogo per
la prima volta».
In altre parole, grazie al
Carrefour, conoscerò
meglio me stesso in
Colombia… Il primo assaggio di frutta esotica avviene
in una sala spaziosa con… mele e pere; ma
c’è pure un oceano di papaie, manghi, guayabas.
L’ipermercato è enorme, lussuoso, asettico. I ragazzi
del banco «macelleria» indossano berretti e
mascherine bianche: sembrano infermieri. La ragazza
con radio-microfono lancia messaggi interni,
rullando su velocissimi pattini a rotelle. Se non
fosse per l’agente di sicurezza all’ingresso (che ci
ha fatto aprire il baule dell’auto e ne ha scandagliato
il fondo con il metal detector prima di concederci
di parcheggiare), parrebbe proprio di essere
altrove.
Poi la domanda: «Chi compra in questo ipermercato?». In un paese dove lo stipendio medio di un
impiegato si aggira sui 200 euro mensili, chi può
permettersi acquisti consistenti al Carrefour?
«Carrefour» in francese significa «incrocio».
Penso a Il libro dei proverbi, secondo il quale la
sapienza è presente anche agli incroci delle strade
(cfr. Pro 8, 2). Ma dubito che essa abiti nel regno
del consumismo.
A meno che uno sappia scegliere!
Toando a casa, scorgo in cielo due aerei
militari in rotta verso il sud del paese. Il
pensiero corre al Caquetá, ieri zona di distensione
e oggi di scontro. Là operano confratelli,
silenziosi segni di speranza fra stragi di «destra» e
di «sinistra». E ora? Due aerei in più, carichi di
bombe e di vite umane. Altre madri in ansia, altri
dolori da lenire. Forse altri morti ammazzati.
Riconciliazione e pace.
Ma come?
La patata bollente (narcotraffico,
guerriglie, sequestri
di persona, violenza
generalizzata) è
anche nelle mani del
nuovo presidente
ALVARO URIBE, eletto
il 26 maggio scorso.
«Adelante, signor presidente,
ma… con juicio».

UGO POZZOLI