VITA DA «PIQUETEROS»
Il colpo di grazia lo diedero, negli anni Novanta,
le privatizzazioni del presidente Menem.
Oggi, organizzati in vari movimenti, ai milioni
di disoccupati e sottoccupati, di poveri e indigenti
non resta che far sentire la propria voce.
Ogni giorno più forte, considerato che l’incubo
della povertà ha colpito anche le classi medie.
«Se vayan todos», «se ne vadano tutti» grida
la gente a governo e politici. Ma per il paese
più europeo dell’America Latina una via d’uscita
dalla crisi è ancora tutta da inventare.
Buenos Aires. Il cielo è limpido
e il sole fa risaltare il
colore atipico della Casa
rosada, storica sede del governo.
Non è possibile avvicinarsi: una
poderosa rete metallica e un folto
schieramento di poliziotti in
divisa e giubbotto antiproiettile
tengono a debita distanza la gente.
Sulla rete sono stati appesi
striscioni biancorossi con tre parole
scritte a lettere cubitali: hambre,
represión, impunidad.
Plaza de Mayo non è soltanto il
cuore di Buenos Aires, ma dell’intera
Argentina. Non per nulla
quasi tutte le manifestazioni
popolari hanno in questo luogo
il loro punto di riferimento.
Oggi la piazza è invasa da disoccupati,
gente di tutte le età rimasta
senza lavoro o che mai ne ha avuto
uno. Dal palco, posto sotto l’obelisco
(la «Piramide de Mayo»), si sgolano
vari oratori, mentre tutt’attorno
la gente ascolta molto tranquilla,
quasi fosse abituata a questo tipo di
proteste.
«Non ti sbagli – mi spiega Alba
Piotto, giornalista del Clarín, il principale
quotidiano del paese -. Tutte
queste persone appartengono ai
movimenti dei “piqueteros”, divenuti
in pochi anni le organizzazioni
popolari più conosciute e seguite».
In Argentina, il termine piquetero
è utilizzato per designare i disoccupati
che fanno conoscere la propria
condizione attraverso l’interruzione
delle vie di comunicazione (all’inizio
della protesta, la strada nazionale
«22»). La prima manifestazione
dei piqueteros viene segnalata nel
giugno del 1996, in piena epoca menemista,
nella località di Cutral-Cò.
Una siffatta modalità di protesta
si diffonde rapidamente: nel 1998
viene interrotta una strada a settimana,
nel 1999 una ogni giorno e
mezzo, nel 2000 almeno una ogni
giorno e nel 2001 una media di 4-5
strade al giorno. È questa una vera e
propria trasformazione della protesta,
che abbandona le mobilitazioni
delle grandi organizzazioni sindacali
per passare a quelle cresciute
spontaneamente in seguito all’aggravarsi
della crisi e al diffondersi
del malcontento popolare. In particolare,
i cittadini dei luoghi più lontani
ed isolati individuano nella interruzione
delle strade del paese l’unico
modo per attirare l’attenzione
delle autorità pubbliche.
«Sono molti e ben organizzati –
spiega Alba -, anche se non hanno
un leader unico. Sono divisi in vari
gruppi. Ad esempio, uno si chiama
“Teresa Rodriguez”, in ricordo di una
giovane donna che morì durante
una protesta nella provincia di Neuquén,
in seguito alla repressione della
polizia. Era il 12 aprile del 1997.
Un altro gruppo prende il nome di
“Anibal Veron”, un meccanico ucciso
dalle forze dell’ordine a Salta il
10 novembre del 2000. Come si vede,
la polizia argentina ha spesso usato
le maniere forti contro i piqueteros…
».
Forse anche per questo sulla Plaza
de Mayo è schierato un servizio
d’ordine dei manifestanti, con tanto
di bracciale di riconoscimento e una
sorta di manganello in mano.
Mi rivolgo a uno di loro: «Non
temete che i vostri avversari
ne approfittino per accusarvi
di essere pronti…
alla violenza?».
«Ma se ho persino la
bandiera su questo
bastone! Non lo
porto per usarlo. È come avere un
grosso cane in una casa: anche se
non fa niente, quelli che sono fuori
sanno che c’è e portano rispetto. Insomma,
noi difendiamo in questo
modo le nostre famiglie che
vengono fino qui
con i bambini, le
donne, gli anziani.
Ma non
siamo violenti
noi!
Siamo ben
organizzati per uscire in strada e
portare avanti le nostre lotte contro
questo governo che sta schiacciando
il popolo. Non ci sono soluzioni
qui per la gente comune: c’è soltanto
emarginazione, indipendentemente
da chi sia il presidente».
Mi rivolgo alla persona che gli sta
accanto: «E lei come si chiama?».
– Mi chiamo Andrés.
– E questa sigla che significa?
– È il nome del movimento: “Movimento
indipendente licenziati disoccupati”,
ma presto lo cambieremo,
perché ci sono infiltrazioni di
gruppi che utilizzano il nostro nome
per fare cose strane. Quindi, fra poco
lo cambieremo. È una misura necessaria,
perché qui ci sono persone
prudenti che sono rimaste senza lavoro
e sono scese in strada per reclamare
il giusto.
– Da dove viene?
– Dalla provincia di Buenos Aires.
– Ha famiglia?
– Certamente, come tutti i compagni
che sono qui in piazza: tutti noi abbiamo
famiglia, una moglie e dei figli
da sfamare.
«RUBA AL POVERO,
PER DARE AL RICCO»
A lato della piramide di Plaza de
Mayo e a pochi passi dal palco dei
manifestanti, un uomo in clergyman
grigio, con una grossa croce ben in
vista sul petto, segue con attenzione
gli interventi degli oratori. Ci avviciniamo
con l’intenzione di fargli
qualche domanda, ma lui stesso ci
precede.
«Carissimi, benvenuti in Argentina!
La mia famiglia era di Bologna,
sapete? Il mio cognome è Baldisseri.
Mi chiedete perché sono tra questa
gente? La ragione è una sola:
perché io ho sempre lavorato con i
poveri e quindi aderisco pienamente
a questa convocazione pubblica
contro la politica economica del governo
».
Che tipo di politica? «Una politica
economica che si può riassumere
in uno slogan: “ruba al povero per
dare al ricco”. O alle multinazionali
».
Quindi lei è qui perché concorda
con i motivi della protesta? «Sì, pienamente.
Potrei non essere d’accordo
con qualcuno di quelli che parlano
dal palco, ma sono d’accordo
con questa manifestazione».
Lei opera a Buenos Aires? «Sì, ho
stabilito la mia sede di lavoro in un
luogo molto povero: La Matanza.
Un paese al sud, fra i più poveri,
quelli presi a calci da tutti. Lì lavoro
con altri religiosi».
Le chiese argentine che cosa stanno
facendo per questa crisi senza fine?
«In generale, sono sante e prostitute
ad un tempo: sante per la loro
essenza; prostitute a causa di
molte delle persone che le compongono
che vogliono sempre stare con
i potenti. Ci sono quelli che scelgono di lavorare per i poveri e quelli
che lavorano soltanto per se stessi
stando all’interno della chiesa».
Come giudica la Mesa de dialogo?
«Io penso che la “Mesa de dialogo”
non dovrebbe includere solo la
componente cattolica. Io, per esempio,
faccio parte del “Parlamento argentino
delle religioni”, dove sono
rappresentate tutte le chiese presenti
in Argentina: ci sono evangelisti,
rabbini, pentecostali, calvinisti,
luterani. Al suo interno nessuno fa
proselitismo per la propria chiesa,
ma cerca di lavorare di comune accordo
con gli altri su alcune cose che
si possono fare con la gente e per la
gente. Ecco, in questa direzione dovrebbe
muoversi anche la “Mesa de
dialogo”».
Lei è sempre stato sulle barricate,
dalla parte dei poveri? «Sì, sempre.
Ho 78 anni: fino a quando potrò
sarò al loro fianco».
UN MARITO, DIECI FIGLI,
NESSUN LAVORO
Sulla maglietta rosa è appiccicato
un adesivo: delegado.
«Mi chiamo Francisca Paz e vengo
da Cordoba» ci dice quando le
avviciniamo il registratore. Capelli
lisci e lunghi tenuti assieme da una
fascetta bianca con la scritta Polo obrero,
occhi malinconici su una faccia
simpatica, la signora Francisca si
spiega con parole semplici.
«La situazione economica è pessima,
perché è tutto molto caro e non
c’è lavoro. Io vivo a Villa Libertador
a Cordoba. Ho 10 figli e sia io sia
mio marito siamo disoccupati. È una
situazione molto critica».
Da quanto tempo siete senza lavoro?
«Mio marito da due anni. Io
ho fatto qualche lavoretto. Ogni tanto
».
E come riuscite a vivere? «Con gli
aiuti di altra gente: a volte mia suocera,
a volte i vicini. Ma, anche
quando riceviamo del pane, non è
mai sufficiente con 10 bambini».
Cosa pensa di fare, Francisca?
«Voglio continuare nella lotta. Spero
che questa ci aiuterà ad ottenere
qualcosa o almeno ad avere un nostro
futuro».
SCENDE IN CAMPO
LA CLASSE MEDIA
Quando si sono unite le bandiere
dei piqueteros con
quelle dei cacerolazos?
Come sono nati i violenti
disordini del
dicembre 2001?
Il movimento dei
piqueteros è nato
e si è sviluppato
tra la gente appartenente
ai ceti sociali
più bassi,
quelli che l’ultima
crisi ha portato a
livelli di indigenza
assoluta. Per anni la
classe media (dipendenti
statali, piccoli commercianti,
professionisti) era rimasta a
guardare, quasi indifferente ai
problemi dei disoccupati. Fino
al dicembre 2001, quando le
ultime decisioni del governo
De la Rua (il corralito, in particolare)
le fanno rompere gli
indugi.
Il 12 dicembre in migliaia
scendono per le strade battendo
sulle pentole da cucina.
Le cacerolas, appunto. È una
protesta originale che vuole dare la
sveglia ai potenti e, al tempo stesso,
ricordare a tutti che le pance sono
vuote e la misura colma. Il 18 il Frenapo
(«Frente nacional contra la pobreza
») diffonde il risultato di una
consultazione popolare sull’introduzione
di una indennità statale per
affrontare la disoccupazione, la povertà
e la recessione economica: oltre
3 milioni di argentini si esprimono
a favore della proposta.
Il 19 avvengono in tutto il paese
numerosi saccheggi ai danni di negozi,
in particolare di alimentari, elettrodomestici
e vestiti. Fa impressione
vedere donne con i bimbi in
braccio che entrano nei negozi messi
a soqquadro e freneticamente
riempiono le borse con pacchi di latte
o di farina. Sette persone rimangono
uccise. La polizia fa sapere
che, nella sola provincia di Buenos
Aires, sono state tratte in arresto
2.213 persone, accusate di aver partecipato
a saccheggi.
Il 20, mentre si diffonde la notizia
delle dimissioni di Domingo Cavallo,
la polizia federale comincia a lanciare
lacrimogeni sui manifestanti
riuniti (pacificamente) in Plaza de
Mayo. È il caos. Nei disordini perdono
la vita almeno 5 persone. La
sera arriva la rinuncia del presidente
Feando De la Rua, che lascia la
Casa rosada con un elicottero (e un
bel fardello di ignominia).
UNITI, MA PER DOVE?
In Plaza de Mayo svetta un cartellone
con una scritta: «Piquete y cacerola
la lucha es una sola».
La protesta delle pentole si è unita
a quella, più vecchia, dei piqueteros.
E il grido che ne esce è unico,
forte e deciso: «Se vayan todos!».
Che se ne vadano tutti!
(Fine 3.a puntata – continua)
La chiesa argentina davanti alla crisi del paese
IL PERICOLO DELLA DISSOLUZIONE
Ai tempi della dittatura militare, una parte della
chiesa argentina era stata criticata per non
essersi opposta con chiarezza alla deriva autoritaria.
Oggi la chiesa fa parte assieme al governo di un
organo consultivo denominato «mesa de dialogo». Di
esso fanno parte 6 persone, tra cui 3 vescovi: Jorge
Casaretto, Juan Carlos Maccarone e Artemio
Staffolani.
«La “mesa de dialogo” – spiega Mario Guglielmin,
missionario della Consolata a Buenos Aires -, accettata
dai vescovi dopo un lunghissimo e giustificato
tentennamento, si deve all’obbligo morale di tentare
l’ultima carta per portare la dirigenza argentina (a
tutti i livelli) a prendere coscienza della gravissima
responsabilità politico-sociale che le compete in
questo momento drammatico». In un breve discorso
all’inaugurazione della “mesa”, mons. Karlich, presidente
della Conferenza episcopale, aveva ribadito
che l’efficacia del dialogo sarebbe dipesa esclusivamente
dalla capacità di ogni settore di rinunciare a
una parte delle proprie esigenze per favorire il bene
comune, condizionando a tale atteggiamento la continuità
della partecipazione della gerarchia ecclesiastica.
Servirà a qualcosa la «mesa de dialogo»? «In
questo momento – risponde con franchezza padre
Guglielmin -, la “mesa” continua per rispetto del
popolo disperato, ma non ci sono speranze fondate
di qualche risultato positivo».
Intanto, lo scorso 25 maggio, il cardinale Jorge
Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires e primate
dell’Argentina, nella cattedrale metropolitana e
davanti al presidente Eduardo Duhalde, ha pronunciato
una durissima omelia contro il comportamento
di molti alti dirigenti del paese, accusati di lavorare
soltanto per mantenere il proprio potere e i
propri privilegi.
«La sofferenza altrui e la distruzione causate da questi
drogati del potere e della ricchezza sono per loro
soltanto numeri, statistiche, variabili». E, mentre la
distruzione cresce, per giustificare ed esigere più
sacrifici, si ripete la solita frase «non c’è altra via
d’uscita».
Il cardinale ha avuto parole pesanti anche per i
cosiddetti tecnocrati: «Gli ambiziosi scalatori, che
dietro i propri diplomi inteazionali e il linguaggio
tecnico (tra l’altro, facilmente intercambiabile)
camuffano i propri saperi precari e la quasi inesistente
umanità» (chissà, c’è da chiedersi, se il cardinale
aveva in mente l’ex ministro dell’economia
Domingo Cavallo, certamente il più famoso tra i tecnocrati
argentini…).
Poi il porporato ha alzato la voce per difendere la
gente comune: «Sappiamo bene – ha detto – che questo
popolo potrà accettare umiliazioni, ma non la
bugia di essere ritenuto responsabile dell’esclusione
di 20 milioni di fratelli colpiti dalla fame e calpestati
nella dignità».
Mons. Bergoglio ha concluso richiamando la necessità
di «aprire gli occhi per tempo», perché dietro
l’angolo c’è la dissoluzione nazionale.
Servirà questo potente atto d’accusa del cardinale
Bergoglio? «La dirigenza nazionale – annota
ancora padre Guglielmin -, teme gli interventi dell’arcivescovo,
ma è troppo condizionata dalla sua
cronica corruzione e, forse, anche dalla sua oggettiva
incapacità per trae insegnamento».
Per maggiori informazioni si veda il sito
della «Agencia informativa católica argentina» (Aica):
www.aica.org
Paolo Moiola