ETICA ED ECONOMIA / A proposito di cristiani e comunisti
Perché chi desidera un posto sicuro e una retribuzione decorosa viene denigrato? Perché la flessibilità è un concetto sacro? Perché speculare è più importante che produrre? «Missioni Consolata» ospita le considerazioni di un suo vecchio abbonato, che (ancora una volta) faranno discutere.
Dalla lettura di Missioni Consolata di aprile
(pag. 7,8,9) ho avuto la conferma che l’ostilità
contro i comunisti è più viva che mai.
È un atteggiamento che non posso condividere. Se
un comunista tradisce Marx e cerca di imporre un
modello di società basata sul culto della personalità
del dittatore o una partitocrazia dove non solo si nega
Dio, ma non c’è neppure rispetto per la vita e la dignità
umana, il cristiano ha il dovere di ribellarsi; ma,
quando un comunista afferma principi retti e onesti,
il cristiano non è un buon cristiano se snobba o contesta
codeste affermazioni in quanto pronunciate dal
membro di un partito a lui non gradito.
Vorrei citare a questo proposito l’intervento dell’onorevole
Diliberto il quale, durante il dibattito parlamentare
seguito al vile assassinio del prof. Marco
Biagi, ha equiparato il terrorismo dei brigatisti a quello
che caratterizza certi rapporti di lavoro e si è spinto
ad affermare che «anche chi licenzia una persona
senza giusto motivo commette violenza…».
Condivido questa affermazione, perché la ritengo
in linea con il vangelo e con la dottrina della chiesa.
Se gli esperti, i tecnici, i consulenti, i supervisori che
collaborano con il ministero del lavoro hanno un po’
di etica professionale e vogliono davvero far sì che il
sacrificio del prof. Biagi non diventi un sacrificio inutile,
si astengano dal collaborare con quelle che l’anti-
lingua del capitalismo criminale chiama «riforme».
Abbiano invece il coraggio di replicare agli ultra-liberisti
che il vero nemico da battere non è il welfare,
ma la sfrenata rincorsa al profitto finanziario, dove
tutto diventa lecito perché non solo il lavoro vale più
dell’uomo, ma il capitale vale più dell’azienda e speculare
diventa più importante che produrre.
In nome della competitività oggi si licenzia non perché
si produce male o troppo o troppo poco, ma perché,
se non si licenzia, il valore delle azioni quotate in
borsa… non sale!
Se invece si investono centinaia di milioni di euro
per acquistare un Zidane o per «non lasciarsi scappare
» un Vieri (o Ronaldo, Totti, Batistuta, Nesta,
Shecchenko), allora la risposta positiva della borsa arriva.
Marco Biagi sapeva queste cose fin troppo bene,
perché era anche un appassionato di calcio (tutte le
volte che il Bologna aveva impegni casalinghi, andava
allo stadio assieme ai suoi due figli…), ma sapeva
pure, da cristiano, che l’attaccamento allo sport significa
disponibilità a lottare contro le intollerabili
sperequazioni retributive che vigono tra una categoria
e l’altra, tra una squadra e l’altra e, non di rado, tra
giocatori che militano nella stessa squadra. Sapeva
che il calcio non è solo serie A e conosceva il drammatico
fenomeno delle «morti bianche del pallone».
Una semplice regola dell’economia dice: «Per ogni
persona che percepisce un reddito che non produce,
c’è almeno un’altra persona che produce un reddito
che non percepisce».
Se, per esempio, le gambe di certi calciatori della
Juventus, la società di calcio più blasonata d’Italia,
valgono tanti soldi (lo facevano amaramente notare
alcuni anni fa i curatori di un reportage dal Kurdistan
iracheno) è anche perché le gambe di un pastore kurdo,
di una contadina cambogiana, di un bimbo somalo o angolano non godono di alcuna forma di tutela
e, se vengono dilaniate da una mina prodotta dalle fabbriche
dello stesso colosso imprenditoriale e finanziario
che controlla la Juventus, nessuna borsa crolla, nessuno
stadio si svuota, nessun mercato si «deprime»…
Se un allenatore di serie A riesce a percepire milioni
di euro anche dopo esser stato esonerato, perché il contratto
firmato a suo tempo gli dà ragione, è chiaro che
questo denaro dovrà in qualche modo essere recuperato
dai suoi ex padroni e sponsor vari, anche perché
una cifra pressappoco uguale sarà finita, nel frattempo,
nelle tasche del nuovo trainer. Allora è inevitabile che,
prima o poi, liquidazione d’indennità, diritto alla riassunzione
con l’articolo 18, diritto alla contribuzione,
diritto alla pensione vengano negati (o messi in seria discussione)
alle migliaia di persone il cui stipendio mensile
era o è 1.000 – 10.000 volte inferiore a quello percepito
da ognuno dei 2 allenatori.
Per risolvere queste contraddizioni e
molte altre, i rimedi non sono e non
potranno mai essere quelli proposti
dal governo Berlusconi o da Confindustria.
Non è colpa dello «Statuto dei lavoratori
», se certe industrie non attraversano
un buon momento e se le casse dello stato
non sembrano più in grado di pagare altre
pensioni, ma del fatto che questo Statuto
(a cominciare dall’articolo 18) raramente
è stato applicato. Ci si è comportati come
se non esistesse. In Italia troppe leggi non
vengono rispettate e troppi trasgressori
non vengono puniti; troppo facilmente i
furbi vengono premiati e c’è troppo incoraggiamento
a forzare i testi legislativi in
modo che il male diventi bene e il bene
male.
Le cifre astronomiche che lo stato ha speso a causa
degli incidenti sul lavoro (prima dell’avvento dell’euro,
la rimessa annua si aggirava attorno ai 55 mila miliardi
di lire), degli incidenti stradali (prevalentemente provocati
da alta velocità), delle alluvioni, del dissesto idrogeologico,
dell’inquinamento di aria, acqua, suolo…
non si recuperano mostrando i muscoli ai sindacati, irrigidendo
la mascella davanti ai microfoni e ripetendo
all’infinito: «Il governo andrà avanti per la sua strada,
la maggioranza del paese è con noi…».
L’abusivismo edilizio, le tangenti, la mafia degli appalti,
il racket non si contrastano con la flessibilità. La
mortalità e gli infortuni nei cantieri, nelle fabbriche, nei
campi, sulle navi e sui pescherecci non diminuiranno
abolendo l’articolo 18; è assai più probabile che aumenteranno
e lo stesso avverrà col mobbing, col caporalato,
coi ricatti e le molestie a sfondo sessuale e con i
controlli-burletta da parte degli ispettorati del lavoro.
Contro il lavoro minorile (in Italia almeno 300 mila
bambini che non dovrebbero lavorare vengono costretti
invece a farlo), le tratte delle cinesi e delle nigeriane,
dei kurdi e dei singalesi, le prepotenze degli scafisti
e di tutti i nuovi schiavisti, la risposta non può essere
la desindacalizzazione…
Le evasioni fiscali, i paradisi fiscali, le bande degli
estorsori e degli usurai sono realtà che le ricette
del liberismo e della «deregulation» possono solo
aiutare a espandersi, come è accaduto in tanti altri
paesi, compresi gli Stati Uniti.
Il terrorismo, la dipendenza da droga e alcornol, da lotterie,
quiz (adesso in Argentina, con 5 milioni di disoccupati
il posto di lavoro è diventato la… posta in gioco
tra i concorrenti che partecipano ai telegiochi) e video
poker, il tabagismo, l’imbarbarimento delle relazioni
all’interno dell’istituzione familiare, il fascino perverso
che le attività criminali esercitano sulle giovani generazioni…
non si prevengono deridendo «il mito del posto
fisso» e bollando come «sognatori» e «nostalgici»
coloro che aspirano semplicemente a un lavoro sicuro
e dignitoso e lottano perché una retribuzione decorosa
sia garantita a tutti.
Le ecomafie, le zoomafie, le piccole e grandi truffe ai
danni dello stato e dei singoli consumatori, le frodi alimentari
non si debellano con le privatizzazioni, i condoni,
la riduzione delle superfici dei parchi nazionali e
con la denigrazione di chi «osa» suggerire una politica
di rilancio dei lavori socialmente utili…
Fonti:
«Licenziano la madre, suicida a 14 anni» (in Corriere della Sera,
13/10/1999, pag.19); «Non fermiamo il girotondo» (whs
Retebrescia Handicap Inteational, 1995); «Lo sdegno di
Cacciatori» (in la Repubblica, 16/11/2000, pag. 57); «Quando
Biagi veniva in Africa» (in la Repubblica/Bologna, 24/03/2002,
pag. 1); «Il meno flessibile? D’Amato» (in Avvenire, 17/04/2002,
pag. 3); «Circus» (RaiTre, 11/01/2000).
Francesco Rondina