Tre giovani missionari
della Consolata, Flavio
Pante, lo spagnolo
Ramon Lazaro e il
kenyano Michael
Wamunyu, hanno da
poco preso in consegna
la missione di Dianra,
nel nord della Costa
d’Avorio. Ristrettezze
materiali e novità della
lingua e cultura sono
iniezioni di entusiasmo.
Da Grand Béréby padre Zaccaria
mi porta a Dianra, l’ultima
missione affidata ai missionari
della Consolata nell’estremo
nord della Costa d’Avorio, oltre 700
chilometri dal litorale. Per 200 km la
strada si snoda tra la fitta foresta tropicale,
finché sfocia gradualmente in
larghe praterie, punteggiate da diradati
alberi di alto fusto.
CATTEDRALE NEL DESERTO
Al confine tra foresta e savana, la
strada si dilata fino ad avere otto corsie
che immettono nella città di Yamoussoukro
(120 mila abitanti), costruita
in tempo di vacche grasse dal
defunto presidente Houphouët Boigny,
per elevare il suo villaggio natale
a capitale politica del paese. Ecco
all’improvviso apparire la basilica
della Madonna della Pace: «La San
Pietro africana; la più grande cattedrale
del mondo» nella mente del
suddetto presidente.
In effetti, essa è costruita «a immagine
» della basilica vaticana; in
realtà è più piccola, anche se in fatto
di dimensioni non scherza: l’area totale
misura 30 mila mq e può contenere
7 mila persone. È costata oltre
200 milioni di lire italiane: una cifra
enorme per un paese appena entrato
in una profonda crisi economica.
L’idea fu molto criticata, più all’estero
che nell’interno del paese in verità.
Il presidente si è sempre difeso
dicendo di avere pagato di tasca sua.
Le polemiche si sono riaccese quando
Boigny ne fece dono al papa, che
la consacrò di persona nel ’90.
Per l’occhio occidentale, rimane la
classica «cattedrale nel deserto»; ma
per gli avoriani è motivo di orgoglio,
meta di turismo e pellegrinaggi.
Le guide si affannano a sottolineare
le somiglianze con la basilica romana
e perfino elementi di superiorità.
Lascio il cicerone africano e continuo
per mio conto, soffermandomi
ad ammirare i colori sfolgoranti delle
vetrate. Alla fine della visita provo
un senso di piacevole ammirazione,
aumentata dalla suggestione del tramonto,
quando il disco rosso del sole
circonda la cupola di un’aureola di
autentico mistero.
La scena fa dimenticare ogni polemica:
in fondo, se ammiriamo le cattedrali
medioevali dell’Europa, costruite
quando la gente tirava la cinghia
più degli avoriani, perché questo
angolo africano non dovrebbe avere
qualcosa di bello da ammirare?
Riprendiamo il viaggio e attraversiamo
la città. Su una collina troneggia
il palazzo del parlamento, ma il
resto delle case sono di modeste proporzioni.
I viali che s’intersecano
nell’abitato sono esageratamente larghi,
ma scarsamente frequentati, eccetto
le strade di attraversamento. Fa
un certo effetto vedere una mandria
di bovini sfilare tranquillamente nella
capitale, come in un qualsiasi villaggio
di campagna.
A notte fonda raggiungiamo la
missione di Sakassou, accolti calorosamente
dai preti fidei donum di Belluno
e abbracciati dai tre confratelli,
venuti a prelevarmi e, al tempo stesso,
per confabulare con padre Zaccaria,
loro superiore regionale.
RITI DI BENVENUTO
Il risveglio è avvolto da una nebbia
fitta e appiccicosa, che sale da un
grande lago artificiale. Ma, appena
fuori della zona, la nebbia si dirada
e un sole che spacca le pietre ci accompagna
per tutto il viaggio: 100
km di asfalto, con fermata a Bouaké
per le provviste, e altri 170 su terra
battuta fino a destinazione.
Appena entrati nel territorio della
parrocchia, ci fermiamo nei villaggi
più importanti, per salutare catechisti
e leaders delle comunità. Ad ogni
sosta si ripete il rito della nouvelle
(notizia), già sperimentato nelle missioni
della costa, ma con qualche novità.
Si inizia con calorose strette di
mano, quindi ci si siede all’ombra di
un albero; ed ecco arrivare una donna
con in mano dei bicchieri e una
bottiglia d’acqua. Dopo chilometri di
polvere, a 40 gradi all’ombra, nulla è
più gradito di un bicchiere d’acqua.
Quindi inizia lo scambio di saluti:
– Qui niente di male.
– Anche per noi niente di male.
– Grazie a Dio sono qui e vi vedo.
– Grazie a Dio, anche noi siamo
qui e ti vediamo.
Si prosegue con la «notizia» che,
nel nostro caso, consiste nel dire la
provenienza e scopo del viaggio. Il
pezzo forte della nouvelle, naturalmente,
è la spiegazione della mia presenza.
«L’ospite viene dall’Italia». I
leaders saltano in piedi e mi stringono
la mano dicendo: «Fo tama na»
(benvenuto). Il padre continua: «È
mio confratello, missionario come
me». Nuove strette di mano condite
di sorrisi. «Ha lavorato come missionario
in Sudafrica. È giornalista. Si
fermerà alcuni giorni. Verrà a visitarvi
e fare qualche fotografia». A ogni
mozzicone di notizia si ripetono sorrisi
e strette di mano. Alla fine perdo
il conto di quante volte mi alzo in piedi
per ricambiare i saluti, con un esercizio
ginnico che rimette in sesto
le ossa indolenzite dal viaggio.
La «notizia» continua con la comunicazione
di futuri incontri o la
discussione di eventuali problemi
della comunità. Esauriti gli argomenti,
padre Flavio dice: «Ora chiediamo
la strada».
Non si tratta di domandare informazioni
sulla via per arrivare a casa,
dal momento che di strada ce n’è
una sola e i padri ormai la conoscono
troppo bene. Anche questa espressione
fa parte del rituale di ospitalità:
chi riceve un visitatore si
sente in qualche modo responsabile
perché egli giunga sano e salvo a destinazione;
per cui le ultime parole
rituali sono sempre: «Buona strada!
Cammina bene!».
SPIRITI SFRATTATI
Di fatto il viaggio procede bene,
condito da una miriade di notizie. La
missione di Dianra faceva parte della
parrocchia di Mankono. Con due
missionari, in un territorio vasto come
una diocesi, era impossibile una
evangelizzazione sistematica; perciò
nel 2000 il territorio fu diviso in quattro;
la parte settentrionale è stata affidata
ai missionari della Consolata;
quando sarà arrivato altro personale,
essi prenderanno in consegna anche
quella confinante di Marandallah.
Mentre passiamo accanto a Dianra
Village, padre Ramon mi indica la
chiesa, in bella posizione panoramica,
su un’altura a ridosso dell’abitato,
e ne racconta la storia singolare:
«I primi fedeli si radunavano nella
scuola. Quando questa non fu più
disponibile, chiesero al capo del villaggio
di usare la collinetta. “Non sapete
cosa chiedete: quel luogo è abitato
da spiriti vendicativi, che spesso
bruciano il villaggio” disse il capo.
Coperta da fitto sottobosco e grandi
alberi, la collina era ritenuta un
luogo sacro e la gente vi si recava per
pregare e offrire sacrifici a spiriti e
antenati. Spesso, durante la stagione
secca, la sterpaglia s’incendiava e il
fuoco si propagava alle capanne circostanti. La disgrazia veniva attribuita
all’ira degli spiriti, offesi da
qualche malefatta della gente».
Il catechista insistette, dicendo che
i cristiani non temono il potere di tali
spiriti. E poiché la gente non oppose
alcuna difficoltà, dal momento
che i cristiani avrebbero usato il luogo
sacro per venerare i propri spiriti,
il capo acconsentì. «A vostro rischio
e pericolo» aggiunse lavandosi
le mani.
«Piano piano – contina padre Ramon
– i cristiani ripulirono l’altura. I
più zelanti avrebbero voluto abbattere
anche gli alberi secolari, per cancellare
ogni traccia di superstizione,
ma i missionari ordinarono di non
toccarli. Eliminata la sterpaglia, finirono
gli incendi: un fatto portentoso
agli occhi di tutta la popolazione
del villaggio.
La gente continuò a frequentare la
collina con i propri riti, finché un
giorno una vecchietta toò indietro
trafelata e domandò al catechista:
“Chi c’era oggi sulla collina? Chi era
l’uomo bianco, con la lunga veste
bianca e un libro in mano?”. “Nessuno.
Oggi non vi abbiamo fatto la
preghiera” rispose il catechista. “No,
no! – insisteva la donna -. Ho visto
un uomo vestito di bianco, che leggeva
e pregava con un grosso libro in
mano”. “Sarà lo spirito del nuovo
culto cristiano, la religione della bibbia”
spiegò il catechista divertito.
La notizia della visione si sparse in
un baleno e i cristiani si affrettarono
a spianare la collina, costruire la cappella
e altri modesti fabbricati: oggi
tutta l’altura è a disposizione dei cattolici,
con tanta invidia dei protestanti
che, arrivati molto prima di
noi, non hanno avuto tanto coraggio
e fantasia».
DESERTO… SENZA CATTEDRALE
Ancora 20 km e siamo in vista di
Dianra Centro. Passiamo davanti alla
fabbrica per la lavorazione del cotone,
quindi tra un modesto motel e
belle case per gli impiegati della fabbrica,
infine arriviamo nel grosso del
paese: case in muratura e capanne di
fango allineate lungo due strade che
s’incrociano a sghimbescio.
Svoltiamo a sinistra e siamo nella
missione. Sembra di essere in un piccolo
deserto: il sole canicolare è allo
zenit; il termometro sfiora i 40° all’ombra,
ma è un caldo molto secco,
ben diverso da quello umido del sud.
Le strutture sono ridotte all’osso:
una modesta cappella, un piccolo
centro per i catechisti, ancora in costruzione,
e l’abitazione dei missionari,
simile a un minuscolo cubo in
muratura, per metà usato come sala
da pranzo e d’accoglienza; il resto adattato
a camerette, in cui si sta come
sardine.
«L’evangelizzazione della zona di
Dianra – spiega padre Ramon – è iniziata
nel 1985: un padre arrivava in
motocicletta da Mankono, 110 km
di distanza, una o due volte all’anno.
I primi incontri avvenivano in qualche
famiglia; poi nella scuola, finché
nel 1989 fu costruita la cappella e,
più tardi, la casetta per il prete di
passaggio».
«Siamo ancora agli inizi – continua
padre Flavio -. Prima che alla nostra
sistemazione, dobbiamo pensare a
organizzare la vita cristiana delle comunità,
catechesi e catecumenati soprattutto.
Ma il problema è avere
bravi catechisti. Per questo stiamo
costruendo un piccolo centro, in cui
accogliere e formare i leaders. Vogliamo
cominciare dalla base, senza
dare nulla per scontato, per progredire
gradualmente con una formazione
sistematica».
«Siamo arrivati alla fine di maggio
2001- aggiunge padre Ramon -. Nei
primi mesi abbiamo imparato la geografia
del luogo. Ora sappiamo che
ci sono 75 villaggi, alcuni dei quali
hanno visto il missionario per la prima
volta. Nei quattro centri più grandi
c’è la chiesa in muratura, con comunità
di un centinaio di fedeli, in
maggioranza non ancora battezzati;
in una trentina di villaggi il numero
dei cristiani non supera la ventina e si
radunano in cappelle di fango o sotto
gli alberi».
I tre missionari parlano con l’entusiasmo
dei pionieri, mettendo in evidenza
speranze e difficoltà. «Rispetto
alle missioni del sud – dice padre
Ramon – qui abbiamo un popolo solo:
l’80% è senufo, con forte identità
linguistica e culturale: dobbiamo imparare
una sola lingua». «Che è molto
difficile» aggiunge padre Michael.
In realtà i senufo, 2 milioni circa,
sono divisi in una trentina di gruppi
linguistici che, in generale, s’intendono
tra loro. Nella zona di Dianra
ci sono 7 gruppi, con prevalenza dei
batto; ma la loro lingua è ancora intonsa:
non esiste nulla di scritto. Inoltre,
nell’insegnamento scolastico
viene usato il francese; per cui gli stessi
senufo non sanno leggere il proprio
idioma, eccetto pochi intraprendenti
autodidatti.
Tutti e tre i missionari si sono tuffati
nello studio autodidatta della lingua
e cultura locale: padre Michael
comincia a capire e farsi capire a sufficienza;
padre Ramon lo segue a ruota;
padre Flavio riesce a leggere l’ordinario
della messa e a pronunciare
le frasi convenzionali.
È FESTA VERA
«Di tutta la diocesi, noi siamo i primi
a usare il senufo nella liturgia»
confessa padre Michael con un pizzico
d’orgoglio. Ma viene usato anche
il francese, poiché parte della comunità
è composta da famiglie di impiegati
nella fabbrica di cotone e
funzionari governativi, provenienti
da altre regioni della Costa d’Avorio.
In chiesa, la domenica, i senufo si
accomodano da una parte, i francofoni
dall’altra, non per ragioni etniche,
ma per motivi pratici: ogni
gruppo ha la propria corale, con relativi
tamburi, xilofoni e altri strumenti
musicali, ed esegue i canti nel
proprio idioma. Letture, omelia e
canti sono tutti ripetuti nelle due lingue.
La messa dura almeno un paio
d’ore, ma non ci si accorge. Ogni celebrazione
è indimenticabile, come la
notte di natale, vissuta insieme a padre
Michael a Dianra Village.
Fin dal tardo pomeriggio la gente
comincia a gremire la collina dove
sorge la cappella. Ai cristiani e catecumeni
si è unita una folla di simpatizzanti
e semplici curiosi. Alle 10 di
notte inizia la celebrazione; ma i catechisti
fanno fatica a selezionare coloro che devono entrare in chiesa.
E inizia la festa, come solo gli africani
sanno fare. Vengono cantate
tutte le parti possibili e immaginabili
della messa. Sostenuta dal coro, la
gente partecipa con tutto il proprio
essere. Dall’altare si vede una marea
di teste che si piegano a destra e a sinistra,
avanti e indietro con sincronia
perfetta, accompagnando i movimenti
con battiti di mani e piedi,
seguendo il ritmo di tamburi e xilofoni.
Pur restando tra i banchi, nessuno
resta fermo, ma canto e danza
s’intrecciano in un ritmo travolgente,
che contagia vecchi e bambini.
Lo scambio della pace è un’esplosione
di frateità: cantando e danzando,
tutti stringono la mano a tutti,
finché il celebrante, a fatica, richiama
al dovuto raccoglimento.
La messa finisce dopo mezzanotte,
ma la gente continua la festa, cantando
e danzando fino all’alba. Padre
Michael ed io ci ritiriamo in due capanne,
agli antipodi del villaggio,
messe a disposizione dalla gente per
farci riposare. Potremmo tornare a
casa, ma da queste parti solo i malintenzionati
viaggiano di notte.
FRATERNITÀ
La mattina di natale padre Flavio
passa a prelevarmi e mi porta con sé
a Biélou, uno dei quattro centri della
parrocchia di Dianra. La cappella
in muratura è molto grande e piena
come un uovo.
La messa si svolge come al solito:
letture bilingue e canti e danze al ritmo
di xilofoni e tamburi indiavolati.
Ma quando questi tacciono, qualche
testa comincia a piegarsi sotto il peso
del sonno: anche a Biélou la gente ha
fatto la veglia, pregando, cantando e
danzando tutta la notte. Alcuni catechisti
passano tra i banchi e, con discreti
colpi di bacchetta, invitano a
sollevare il capo e aprire gli occhi.
Alla fine della messa il padre augura
a tutti buon natale, li ringrazia per
la festosa partecipazione alla liturgia
e chiama per nome tutte le comunità
dei villaggi circostanti e le incoraggia
a perseverare nella fede, come hanno
dimostrato nel giorno di natale: alcuni
hanno fatto 40 km a piedi e meritano
un caloroso battimano.
Ma ce n’è anche per me: non contento
di avermi presentato all’inizio
della messa, padre Flavio invita la
gente a darmi il benvenuto ufficiale:
mi siedo davanti all’altare, su un basso
scranno di legno, a pochi centimetri
dal pavimento, e tutti i presenti
sfilano a stringermi la mano, ripetendo:
«Fo tama na» (benvenuto).
Dovendo alzare le braccia centinaia
di volte, alla fine della cerimonia i
muscoli sono indolenziti per l’insolito
esercizio, ma il cuore è pieno di
grata ammirazione.
Ma le sorprese non sono finite. La
comunità di Biélou ha preparato il
pranzo per tutti i convenuti alla festa
di natale. Seduti all’ombra di
due giganteschi alberi di mango, gli
ospiti sono serviti per primi, perché
possano al più presto riprendere la
strada di ritorno e arrivare a casa
prima del tramonto. I più lontani
dovranno peottare in qualche villaggio
intermedio.
Padre Flavio e io siamo serviti in
casa del catechista. Un piatto di riso,
una coscetta di pollo con relativa salsa
e una gassosa è il nostro pranzo di
natale. Eppure, l’ospitalità della gente,
la condivisione della loro gioia, la
testimonianza di frateità e solidarietà,
nonostante la loro povertà, tanto
ricca di valori umani ed evangelici,
è un’esperienza indimenticabile,
che fa toccare con mano il mistero
del natale: Dio fatto uomo
per insegnarci a vivere come
fratelli veri.
Benedetto Bellesi