L’ARGENTINA UCCISA DAL «TERRORISMO ECONOMICO»

Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…

«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?

«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».

NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.

Paolo Moiola




LA MALEDIZIONE DEL DOLLARO


«Adesso non si capisce più niente: non c’è lavoro,
non ci sono medicine, non c’è cibo nel paese
che era il granaio del mondo».
Dal colloquio con la gente in fila davanti
alle odiate banche emerge la drammaticità
della situazione argentina. In tanti avevano
i loro risparmi nella valuta statunitense.
Ora si ritrovano (forse) dei «pesos».
A parte coloro che sono riusciti ad esportare
i capitali all’estero, per una somma complessiva
pari a 130 miliardi di dollari, quasi quanto
l’intero debito estero del paese.
C’è da stupirsi che gli argentini siano furiosi?

Buenos Aires. Avenida Rivadavia
sembra la via di una grande
metropoli occidentale:
marciapiedi affollati, insegne luminose,
boutiques, librerie e bar eleganti.
Eppure, a ben guardare, le
differenze ci sono e non sono poche.
Ad esempio, i cartelli «se alquila»
e «se vende» esposti sui balconi delle
case: non sono tanti, sono troppi.
La gente, strangolata dalla crisi, tenta
di vendere i propri appartamenti,
ma nessuno ha i soldi per comprare.
Le banche sono tantissime. Alcune
sono argentine, ma la gran parte
sono straniere: Banco de la Nacion
Argentina, Banco Galicia, Banco
Sudameris, Banco Francés, Banco
Rio, Boston Bank, Citibank, Banca
Hsbc, Banca Nazionale del Lavoro
e molte altre. Qualche anno fa arrivarono
qui in massa, attratte dai mirabolanti
guadagni promessi dal sistema
ultra-liberista messo in piedi
dal presidente Carlos Menem. Oggi
tutte le banche vorrebbero chiudere
i battenti e scappare dal paese.
Gli istituti di Avenida Rivadavia
sono stati più fortunati di quelli localizzati
in centro, non lontano da
Plaza de Mayo. Là le banche si sono
trasformate in fortini assediati, qui
la gente si è limitata ad imbrattare
qualche vetrata: «bancos ladrones»,
«maldidos bancos».
A poca distanza dalla Banca Nazionale
del Lavoro, si dipana una
lunga fila di persone. Copre largamente
l’angolo della via che sbocca
su Rivadavia e si allunga per molti
metri fino all’entrata del Banco Piano.
Stretto tra un negozio di scarpe
e uno di elettrodomestici, a due passi
da un McDonald’s, il Banco Piano
non è un vero istituto di credito,
ma una «casa di cambio». E, in
quanto tale, ha meno restrizioni di
una banca normale.

ITALIANI
Mi avvicino per fare qualche domanda.
«Cosa vuole che le racconti?
– mi dice una coppia di signori
immigrati da Genova -. Lo può vedere
con i suoi occhi quello che sta
succedendo. Qui ci sarà la coda per
tutto il giorno, fino alla chiusura. La
gente ha lavorato tutta la vita, ha
messo i risparmi in banca ed ora che
succede? Le banche non ti restituiscono
il denaro. Il tuo denaro!
A Genova abbiamo fratelli e sorelle,
ma non toeremo in Italia,
perché, grazie a Dio, nostro figlio ha
un lavoro e così la sua famiglia».
Nel giro di pochi minuti si avvicinano
altre persone; quasi tutte parlano
o intendono l’italiano e vogliono
dire la loro.
«Tutta l’Argentina ormai è un manicomio.
Non si capisce più niente:
non c’è lavoro, non ci sono medicine,
non c’è cibo nel paese che era il
granaio del mondo. E i poveri sono
sempre più poveri, oltre che in costante
crescita…».
Un signore di una certa età mi tira
per la maglietta e mi mette sotto
gli occhi la sua carta d’identità. Leg-
go: Francesco Costanzo, nato a Reggio
Calabria.
«Arrivai in Argentina nel 1948.
Ma ho ancora molti familiari in Italia;
in Calabria, ma anche a Volpiano,
in provincia di Torino, dove vivono
i miei due nipoti». Pensa di
tornare in Italia, signor Francesco?
«Non ha visto quanti anni ho? Ne
ho 80. Comunque vada, ormai starò
qui».
La voce di Francesco è ferma, ma
gli occhi tradiscono l’emozione.

IL GRANDE FURTO
«Sono qui – racconta l’anziano immigrato
– per vendere i pochi dollari
che mi sono rimasti. Debbo vendere
per pagare i debiti, ma anche
per mangiare. Nessuno ha fiducia
nella nostra moneta, ma dopo la
“pesificazione” dell’economia non
c’è altra soluzione per vivere».
Quanto ha influito la parità tra peso
e dollaro in vigore dal 1991 fino
all’inizio di quest’anno? «La convertibilità
doveva essere una misura
temporanea per salvarci dall’iperinflazione.
Una volta raggiunto lo scopo,
avrebbe dovuto sparire e il cambio
essere flessibile, con il dollaro libero
di fluttuare».
Pare che in poco tempo siano usciti
dal paese qualcosa come 130
miliardi di dollari, una somma quasi
pari al debito estero argentino. È
così?, chiedo a Francesco.
«Già un anno fa, fiutando il crollo
del sistema, le imprese locali, le
multinazionali, i politici hanno iniziato
a portare all’estero i loro depositi
bancari. Altre somme rilevantissime
sono state prestate dalle banche
ad uno stato che si sapeva a rischio
insolvenza. A questo punto,
per evitare il crollo del sistema bancario,
il ministro Cavallo ha dovuto
instaurare il corralito, in base al quale
ogni correntista non può prelevare
il proprio denaro, se non in misura
minima».
E poi tutti i depositi in dollari sono
stati trasformati in pesos… «Ovvio,
i dollari sono oramai tutti fuori
dal paese. Tutta questa vicenda è un
grande furto ai danni del popolo argentino,
prima da parte del governo
e poi delle banche». Senza dimenticare
il Fondo monetario internazionale…
«Sì, ovviamente. Ma l’Fmi fa il suo
lavoro. Lui dice: io ti do i soldi a
queste condizioni. Chi è il Fondo
monetario? Gli stati più industrializzati,
che non ti danno mai nulla
per nulla».

ALLA RICERCA DI «UN» FUTURO
In Italia si fa un gran parlare
dei movimenti popolari dell’Argentina:
prima i piqueteros,
poi i cacerolazos.
Insomma, sembra che la
sventura abbia molto unito
la gente. Francesco, è d’accordo?
«No, non lo sono. Fino a poco
tempo fa, ognuno pensava soltanto
a se stesso e non si preoccupava degli
altri. Adesso inizia la solidarietà,
perché la crisi sta colpendo tutti i ceti
e non soltanto quelli più bassi.
Se il popolo fosse stato intelligente, i governi non avrebbero potuto
approfittae. E invece, finché c’era
da mangiare, nessuno si è interessato
della situazione. E i signori deputati,
senatori, presidenti hanno potuto
governare per i loro interessi».
La chiesa argentina che cosa fa?
«La chiesa sta cercando delle soluzioni
attraverso la cosiddetta “mesa
di dialogo”. Ma non si conclude nulla,
perché tutti si limitano a chiedere
sussidi. Come si fa a dare sussidi
se nel paese non c’è più niente! L’unica
soluzione per uscire dalla crisi
sarebbe di ridare agli argentini il lavoro
». Altrimenti la gente cerca di
abbandonare il paese…
«Se potessero – conferma Francesco
-, in tanti scapperebbero. Io sono
tornato due volte in Italia, nel
1986 e nel 1994. L’ho trovata molto
cambiata rispetto al 1948, anche se
il paese non ha le risorse naturali
dell’Argentina. Qui siamo appena in
36 milioni, ma per l’estensione potremmo
essere in 150. Eppure siamo
ridotti in miseria. Il perché si dovrebbe
chiedere ai nostri politici,
che sono… Ma lasciamo perdere; è
inutile dire cose che tutti sanno».
Ottant’anni, ma quanta grinta ha
ancora in serbo quest’uomo! Ancora
una domanda, Francesco: come
vede il futuro dell’Argentina?
«Ma quale futuro? Adesso non c’è
futuro in questo paese. Con il 25%
di disoccupazione e le fabbriche che
non ci sono più, che futuro può esistere?
Un paese che non produce e
non ha commercio, che cosa può fare?
Prova a domandare a questo ragazzo
che futuro ha…».
«È vero – risponde subito il giovane
interpellato -: qui nessuno può avere
un futuro e la gioventù meno
ancora. Hanno venduto tutto».
Sei uno studente?, chiedo. «No, in
questo momento lavoro, ma non so
per quanto tempo. Sono venuto a
sostituire mia nonna nella fila». Il
tuo nome? «Adrian».
Grazie Francesco, buona fortuna
Adrian.

«PATACONES»
Lascio la fila davanti al Banco Piano
e, a piedi, mi incammino lungo
Avenida Rivadavia.
C’è molta gente e si muove in fretta,
proprio come avviene nella maggior
parte delle città occidentali. Ma
poi le difficoltà del presente tornano
a manifestarsi. Come in quegli
avvisi appiccicati sulle vetrate dei
negozi: «Confianza en el pais: aceptamos
patacones».
Che sono i patacones? Il nome è
quasi onomatopeico ed evoca le patacche,
ovvero cose di nessun valore.
I patacones tecnicamente sono
dei «pagherò» emessi dalle tesorerie
delle province argentine; in pratica,
rappresentano la dimostrazione tangibile
del fallimento dello stato.
Come faceva quella famosa canzone?
«Non piangere Argentina…».

CACEROLA: è «la pentola da cucina»;
da cui il nome di «cacerolazo», manifestazione
di protesta popolare
durante la quale la gente si fa sentire
picchiando sulle pentole; ha avuto
un’eco internazionale con le
proteste del dicembre 2001
CORRALITO: letteralmente è «il recinto
»; il corralito bancario, introdotto
dal ministro Cavallo, limita
fortemente i prelievi bancari
da parte dei clienti, stimati in più
di 3 milioni; la misura, confermata
dal governo
Duhalde, mira ad evitare
il tracollo del sistema
finanziario
ESCHRACE: significa mettere
in piazza la storia di una persona
compromessa con la dittatura
militare, ma rimasta a
piede libero; sono varie le modalità
dell’eschrace: manifesti affissi
per le strade, assembramenti rumorosi
sotto la casa della persona,
ecc.
GATILLIO FÁCIL: letteralmente il «grilletto
facile» della polizia argentina,
mostrato anche durante le proteste
dello scorso dicembre (con
30 morti); nel 2001 hanno perso
la vita per spari «facili» delle forze
dell’ordine 220 persone
PATACONES: sono buoni cartacei emessi
dalle province argentine al
posto del denaro reale; attualmente
ci sono in circolazione 20
tipi di buoni (ciascuno con un proprio
nome), quasi uno per provincia
(sono 23 le province argentine)
PIQUETEROS: indica i disoccupati
che protestano con picchetti
che bloccano le
strade principali; il
movimento è
nato nel
1996, all’epoca delle privatizzazioni
del presidente Menem (*)
TRUEQUE: è una forma evoluta
di baratto; i «club di trueque
» (nodi) sono luoghi dove le
persone (produttrici e consumatrici
al medesimo tempo) si
scambiano beni e servizi senza utilizzare
il denaro (**)
VILLAS MISERIAS: così sono chiamate,
in Argentina, le baraccopoli alle
periferie delle città

(*) Dei «piqueteros» parleremo nella
puntata di luglio-agosto di questo reportage
dall’Argentina.

(**) Al «trueque» dedicheremo l’articolo
di settembre.

Paolo Moiola




HARRIS: UN PROFETA… SPECIALE

Aveva quasi 50 anni William Wade Harris quando si affacciò
sul litorale della Costa d’Avorio. Era nato nel 1865
nel sud est della Liberia, da etnia grebo, gruppo kru. Predicatore
e responsabile della chiesa metodista di Cape Palmas,
conosceva la bibbia a menadito. Nel 1910 fu imprigionato
per motivi politici. Un’esperienza mistica decise la sua vocazione
profetica: si impegnò di portare il vangelo ai suoi
fratelli.
Nell’estate del 1913 varcò la frontiera della Costa d’Avorio
e cominciò a predicare lungo il litorale, fino alla Costa
d’Oro (Ghana), finché nell’aprile del 1915, scambiato per
un agitatore politico, fu espulso dal governo coloniale
francese.
Alto e corpulento, sguardo vivo e parlantina affascinante,
turbante bianco, tunica candida e fascia nera incrociata sul
petto, un bastone di bambù a forma di croce, la bibbia sfogliata
senza sosta, una zucca piena di semi per ritmare i
canti e una ciotola per battezzare, Harris predicava con impero
e tono dei profeti dell’Antico Testamento.
Anche il suo messaggio era basato sull’antica alleanza: unicità
di Dio, decalogo, lotta all’idolatria. Insisteva sulla necessità
d’imparare a leggere, per conoscere la parola di Dio,
scritta nel libro che sfogliava davanti agli occhi della gente.
Parlava pure del Dio d’amore, che ha mandato il figlio Gesù
Cristo a salvare il mondo, spiegando il significato della croce
che reggeva in mano. Se qualcuno la mirava con lo stesso
terrore e passione con cui si guarda un feticcio, la spezzava
e ne costruiva un’altra, per dimostrare che non era
un talismano, ma un simbolo del peccato umano e dell’amore
divino.
Contro idoli e superstizioni era più focoso del profeta
Elia. Predicava per tre giorni in una località,
concludendo il suo lavoro con un grande
falò, dove i feticci venivano bruciati, e con
il battesimo dei nuovi adepti. Si dice che
abbia personalmente amministrato più di
100 mila battesimi. Una volta, vicino ad
Abidjan, c’era tanta folla che il profeta si
sentì perduto: fece inginocchiare tutti e,
mentre la pioggia inzuppava le loro teste,
pronunciò la formula del battesimo.
Si raccontano pure di malati guariti e paralitici
tornati a camminare. «Dio è grande!
» esclamava con semplicità a ogni fatto
portentoso. Nessuno mai gridò al miracolo.
Harris non voleva attirare l’attenzione sulla
sua persona, tanto meno fondare una nuova
religione. Come il gallo annuncia l’aurora, diceva,
lui annunciava la venuta dei «bianchi
con il libro», i missionari che un giorno avrebbero
portato quella parola di cui egli
era primo testimone.
In ogni gruppo convertito, Harris lasciava
dei predicatori, incaricati della vita
spirituale e del culto, «apostoli», responsabili
dell’organizzazione e condotta morale
della comunità, e un «Pietro», come punto di
riferimento. E raccomandava di attendere i
missionari, riconoscibili dal libro sacro.
Di fatto, la maggior parte dei seguaci di Harris entrarono
nella chiesa cattolica e, soprattutto, protestante. Ma i seguaci
più ferventi rimasero fuori del cristianesimo importato.
Dopo la seconda guerra mondiale, con l’esplosione dell’autenticità
africana, vari personaggi carismatici fondarono
chiese autonome, ispirate ad Harris che, dopo la sua
morte (1929), i fedeli ritenevano più messia che profeta.
Oggi l’harrismo è ancora radicato lungo tutto il litorale
della Costa d’Avorio, con tre centri indipendenti e significative
differenze morali e dottrinali. Una costola dell’harrismo,
inoltre, è costituita dalla religione deima, fondata
dalla profetessa Marie Lalou e diffusa nella regione di Ganoa.
Denominatore comune dell’harrismo è il richiamo alla bibbia,
mescolato con questioni di stregoneria; il culto è molto
vicino a quello protestante; la poligamia è autorizzata.
Alcuni gruppi si caratterizzano per l’impegno nella carità e
solidarietà; altri per le severe esigenze di moralità nei riguardi
di alcornol, denaro e sessualità.
Tutti i fedeli harristi si aspettano dall’intercessione di Harris
una prosperità uguale a quella degli europei.

Benedetto Bellesi




DA BABELE A PENTECOSTE

Fondata negli anni ’60 dai missionari della Sma
(Società missionaria per l’Africa), la missione
di Grand Béréby è stata affidata ai missionari
della Consolata che, oltre a continuare
il lavoro dei predecessori, affrontano
nuove sfide nel campo
dell’evangelizzazione,
sanità e promozione umana.

Dall’alto della collina, dove
sorge la missione di Grand
Béréby, l’oceano sembra a
portata di mano e lo sguardo si estende
all’infinito. Ma tra l’altura e il
mare il panorama non è affatto entusiasmante:
un agglomerato di abitazioni
sgangherate e tetre, come l’asfalto
che le spacca in due, è reso ancora
più triste da un velo di vapori
tropicali che il sole non riesce a
perforare. L’unico edificio che rompe
la monotonia del paesaggio è il
municipio, che spicca con prepotente
dignità per il pulito giallo ocra
della sua tozza mole.
Prima che il sole sparisca nelle acque
dell’oceano, il congolese Rombaut
Ngaba, missionario fratello, mi
accompagna a visitare il paese.

QUASI UN PRESEPIO
Dieu est grand (Dio è grande) recita
la scritta sui parabrezza di scassatissimi
pulmini e taxi, posteggiati ai
bordi della strada. La leggo con devozione,
come una giaculatoria, finché
mi sovviene che è la traduzione
dell’arabo Allah akbar. Continuo a ripeterla
mentalmente, con spirito ecumenico,
ma meno devozione,
mentre osservo botteghe e bottegucce
tuttofare che costeggiano l’asfalto.
L’abbigliamento dei gestori non lascia
dubbi: sono musulmani.
«Commerci e trasporti sono quasi
tutti in mano loro – spiega la mia guida
-. L’amministrazione è appannaggio
dei locali kru; togolesi e beninesi
gestiscono rudimentali ristoranti; ad
altri gruppi stranieri sono riservati lavori
più pesanti o rifiutati dai locali».
«I pescatori vengono dal Ghana»,
continua il fratello, mentre arriviamo
al porto. Alcuni uomini nerboruti
rattoppano le reti; altri, con grosse
ceste sulla testa e acqua alla cintura,
scaricano il pesce dalle barche e lo
ammucchiano sulla terra ferma. I
bambini guardano curiosi e festanti,
mentre un nugolo di donne vocianti
acquistano la merce; altre sono già
al lavoro: puliscono e friggono grossi
pesci per rivenderli al minuto su
banchetti traballanti.
Il sole è tramontato; la notte scende
veloce. Le fioche lampadine penzolanti
nei negozi e le candele delle
bancarelle trasformano il paese in un
presepio. Lo spettacolo è suggestivo,
ma la realtà non cambia. La vita è dura
a Grand Béréby, specie per le donne,
che rimarranno fino a notte fonda
accanto alle loro mercanzie, in attesa
di racimolare qualche centesimo
per sfamare la famiglia.
Altra gente, invece, comincia a divertirsi.
Due discoteche, pomposamente
chiamate «ministeri della cultura
», hanno aumentato il volume
dei giradischi e richiamano i clienti
che, essendo stagione di raccolti,
hanno qualche franco in tasca e tante
cose da dimenticare.
Per i missionari, invece, arriva l’ora
di andare a riposare. Cerchiamo
di chiudere occhi e orecchi, perché
la musica durerà tutta la notte.

PROBLEMI E PROBLEMI
Baciato dalla luce del mattino,
Grand Béréby appare meno scalcinato.
Ma a rituffarmi nella realtà del
luogo arriva Paul Ino, capo tradizionale
e presidente del consiglio parrocchiale.
Parla dell’isolamento della
regione, perché la strada asfaltata
è dissestata e quelle che si addentrano
nella foresta non meritano tal nome;
della vita sempre cara, dal momento
che, fuorché il pesce, Grand
Béréby deve importare tutto da lontano.
Si passa al problema dell’istruzione:
le scuole elementari sono insufficienti;
quella secondaria è praticamente
interdetta alla popolazione
dell’interno, a causa delle distanze e
alla mancanza di alloggi per studenti,
maestri e altri funzionari. Come altri
capi, anche il signor Ino prospetta
l’esigenza di una scuola cattolica.
«Il problema più grave è quello
della sanità – continua il capo -. Comune
di circa 5 mila abitanti e capitale
di regione che si estende per oltre
80 km verso la Liberia e altrettanti
nell’interno, Grand Béréby dispone
di un dottore e un dispensario, con
un reparto di mateità, per decine
di migliaia di persone. Mancano le
medicine essenziali e, per i casi gravi,
bisogna ricorrere a San Pedro, a più
di 50 km di distanza. Ma se i casi sono
più di uno, dato che disponiamo
di una sola ambulanza, la gente deve
servirsi di taxi, che costano un occhio
della testa».
Conoscendo un poco la situazione
creatasi negli ultimi mesi, stuzzico il
capo sul problema dei rapporti sociali.
«Grand Béréby è un paese cosmopolita» attacca il capo, ripetendo
un ritornello che mi ronza nelle orecchie
da parecchi giorni. Dopo aver
sciorinato la babele di etnie e lingue
sotto la sua giurisdizione, continua
imperterrito: «Da Grand Béréby
alla Liberia e oltre i confini, è terra dei
kru, da secoli popolazione di marinai.
Ora che tutto è automatizzato, essi
non hanno più lavoro e neppure i
campi da coltivare, da generazioni in
mano agli stranieri: i kru li rivogliono
indietro».

L’ALTRA CAMPANA…
Quella dei missionari ha un suono
differente: i kru sono sfaticati; per
questo hanno affittato la terra agli
stranieri. I burkinabé, invece, sono
grandi lavoratori: hanno sudato sangue
per dissodare la foresta e organizzare
belle piantagioni; proprio ora
che ne raccolgono i frutti e vedono
realizzarsi il sogno di una vita, si sentono
minacciati di espulsione: non ci
stanno a cedere su un piatto d’argento
tanti anni di fatica.
Se non ci fossero gli immigrati,
specie i burkinabé, l’economia della
Costa d’Avorio crollerebbe all’istante:
sono essi a fare i lavori più pesante
o rifiutati dai locali. «Anche la parrocchia
di Grand Béréby sarebbe ridotta
al lumicino» aggiunge padre
Willy, missionario della Consolata
congolese.
Tra i kru, infatti, i cristiani sono pochissimi:
alcuni sono arruolati nei
gruppi evangelici protestanti; la maggioranza
ha abbracciato l’harrismo,
un movimento sincretista affermatosi
lungo la costa avoriana all’inizio del
1990 (vedi riquadro). «La chiesa cattolica
è arrivata troppo tardi» sentenzia
il capo Ino. «Cultura e tradizioni,
specie la poligamia, ostacolano
la loro conversione al cristianesimo»
spiega invece padre Willy.
L’evangelizzazione della regione fu
avviata negli anni ’50 dai missionari
della Sma, provenienti da San Pedro;
essi si occuparono più di alcune zone
dell’interno che del centro. La
presenza di un missionario a Grand
Béréby è iniziata negli anni ’60.
Dall’aprile del 2000 la parrocchia
è affidata ai missionari della Consolata.
Essa conta oltre 5 mila cristiani,
distribuiti in 21 comunità sparse per
lo più nella foresta. Sotto l’aspetto
geografico il territorio è diviso in 7
zone, in cui i villaggi minori ruotano
attorno alle comunità più grandi. Il
centro di Dobo, per esempio, comprende
vari villaggi per un raggio di
30 km; ha una comunità bene organizzata,
una chiesa più bella di
Grand Béréby e potrebbe diventare
parrocchia indipendente.

MINISTERO DI CONSOLAZIONE
Alle 8 del mattino i primi clienti
sono in fila davanti al dispensario, sistemato
accanto alla chiesa. Dentro,
in maglietta e ventilatore al massimo,
fratel Rombaut, specializzato in infermieristica,
esamina gli occhi di un
uomo magro come un chiodo. Appena
mi vede, indossa il camice bianco
per la rituale fotografia; se lo toglie
e ritorna a interrogare il suo
cliente. «La tua malattia si chiama fame
» sentenzia sorridendo, mentre
ordina alla sua assistente di preparare
alcune confezioni di vitamine e
raccomanda alla moglie del paziente
di cucinargli tanto pesce.
«All’inizio la gente arrivava col
contagocce – racconta il fratello -.
Pensava che il dispensario si prendesse
cura solo dei cattolici. Poi una
mamma musulmana ha portato il
proprio figlio e la fama si è sparsa in
un baleno. Oggi abbiamo una ventina
di pazienti al giorno; il sabato raddoppiano,
attirati anche dal fatto che
diamo medicine a un prezzo più basso
che nelle farmacie e, quando qualcuno
non riesce a pagare tutto, chiudiamo
un occhio».
Il dispensario è parte del progetto
sanitario esteso a tutti i villaggi del
territorio parrocchiale. In ognuno di
essi c’è la «caisse pharmacie», una
specie di pronto soccorso, dotato di
medicinali di prima necessità e gestito
da due «agenti di sanità comunitaria
», appositamente preparati per
far fronte ai casi più frequenti: malaria,
diarrea, ferite e infezioni varie.
Ogni settimana fratel Rombaut visita
i villaggi, per continuare la formazione
degli agenti e fare «animazione
sanitaria» tra la gente, con corsi
d’igiene per mamme e levatrici
tradizionali. Ha iniziato pure una
campagna di vaccinazione dei bambini
contro la poliomielite, difterite,
morbillo, tetano. «Dovrebbe essere
un dovere dello stato – continua fratel Rombaut – ma i responsabili della
sanità non hanno mezzi o voglia di
spingersi nell’interno della foresta
per le vaccinazioni. Mi sono messo
d’accordo col centro sanitario di San
Pedro, offrendomi di fare il suo lavoro;
ho scoperto dei lebbrosi e foisco
medicine pure a loro».
Oltre al lavoro professionale, il fratello
dà una valida mano in quello
prettamente religioso. Il sabato pomeriggio
spiega il catechismo ai giovani
della scuola secondaria di
Grand Béréby; la domenica si reca
in uno dei villaggi per animare la comunità,
spiegare la parola di Dio,
portare l’eucaristia agli ammalati.
«Tale attività mi procura tanta soddisfazione
– conclude -. All’inizio il
lavoro con i giovani è stato duro; ma
ora il contatto è aperto e cordiale.
Nei villaggi, poi, non ci sono mai state
difficoltà: straniero tra stranieri, ci
capiamo di primo acchito».

INSEGNARE A «PESCARE»

«Il progetto sanitario ci fa conoscere
come evangelizzatori – aggiunge
padre Willy -. È un servizio di
consolazione concreta, anche se con
dei limiti, poiché per i casi più gravi
bisogna ricorrere all’ospedale. Molte
altre realtà umane sfidano la nostra
presenza, ma non possiamo abbracciarle
tutte. Siamo appena arrivati;
le domande su cosa fare sono
più delle risposte».
Nonostante la modestia, a Grand
Béréby c’è già molta carne al fuoco.
I missionari hanno avviato una scuola
di alfabetizzazione, dove i giovani
imparano a leggere e scrivere e qualche
parola di francese. «È umiliante
per un giovane dover dire di non saper
leggere, quando è invitato a fare
una lettura nei nostri incontri – continua
il padre -. E sono molti i ragazzi
analfabeti, perché la scuola costa
e i genitori non hanno la possibilità
di mandarvi i figli».
Le donne hanno chiesto di fare
qualche cosa anche per loro: nella sede
parrocchiale si tengono corsi di
taglio e cucito e maglieria, in cui un
gruppetto di signore imparano il mestiere
e, tornate nei propri villaggi, lo
insegnano ad altre donne, si aiutano
a vicenda e organizzano una piccola
cornoperativa. La missione, quando
può, fornisce lana e materiale che arriva
dai benefattori.

Buona parte del tempo è assorbito
dall’organizzazione delle comunità
di base e dalla formazione umana
e religiosa di animatori e catechisti.
Ogni anno si tengono tre corsi
sistematici. «È una formazione continua,
poiché la gente va e viene –
spiega padre Willy, incaricato di tale
compito -. A Grand Béréby abbiamo
già qualche catechista locale; ma
nei villaggi sono tutti immigrati dall’interno
del paese e da altre nazioni,
specie il Burkina Faso. Se un leader
torna a casa, bisogna procurare un
sostituto. Grazie a Dio, non è difficile
trovare persone motivate per
servire la comunità; resta sempre il
problema di prepararle adeguatamente.
Intanto la chiesa cresce. Ogni
anno abbiamo circa 400 battesimi
» sospira padre Willy.

IL SOFFIO DELLO SPIRITO
La catechesi è l’attività principale
della parrocchia; il catecumenato
quella dei singoli villaggi. I catecumeni
sono coinvolti in tutte le attività
comunitarie: s’incontrano, pregano,
cantano, giorniscono insieme agli
altri cristiani.
Una volta al mese le cappelle minori
si uniscono alla comunità più
grande, dove il padre si reca a celebrare
la messa. Così tutti gli animatori,
catechisti e comitati ecclesiali
della zona si ritrovano e discutono
tutto ciò che riguarda la loro vita cristiana:
catechesi, catecumenati, formazione
e altre attività.
Tutte le domeniche l’eucaristia diventa
un evento pentecostale. Anche
se il francese fa la parte del leone, le
letture vengono fatte anche in altri idiomi,
a seconda della consistenza
dei gruppi linguistici presenti. Così
pure l’omelia viene tradotta in tre o
quattro lingue.

Dopo la celebrazione, i vari gruppi
linguistici si radunano dentro e
fuori la chiesa e, sotto la guida del catechista,
riprendono e approfondiscono
quanto è avvenuto nella liturgia
domenicale. Così gli autoctoni ascoltano
il messaggio di Dio in lingua
kru; quelli del Burkina Faso in moré,
gourcy e dogary; i gruppi avoriani in
baoulé, bété, abron, koulango; i ghanesi
in fantis. «Non bisogna avere
fretta – conclude serafico padre Willy
-, perché si ripeta anche qui il miracolo
della pentecoste, quando tutti
i popoli “udirono annunciare nella
propria lingua le grandi
opere di Dio” (cfr Atti 2,
6-11)».

Benedetto Bellesi




II pomodorro dei caporali

Leggo con molto interesse la rubrica «Il mondo
in un libro», a cura di Benedetto Bellesi, dedicata
alle pubblicazioni dell’Editrice missionaria italiana
(Emi). I libri sono uno strumento importante
per far compiere un salto di qualità a chi accetta
di impegnarsi per la costruzione di una società più
cristiana e più umana. Apprezzo, in particolare, i
libri che denunciano le ingiustizie e gli abusi nella
produzione e nel commercio di beni, alimentari
e no, provenienti dai paesi del Sud del mondo e
che invitano i consumatori a scelte responsabili
quando fanno la spesa nei supermercati.
Però mi domando: l’Emi ha la stessa attenzione
al Sud d’Italia? Siamo sicuri che ananas, banane,
cacao e caffè delle multinazionali debbano essere
boicottati più dei pomodori e dei loro derivati prodotti
nel nostro meridione?
Non siete convinti anche voi che il latifondismo
e il caporalato (che flagellano Campania, Puglia,
Basilicata) siano da condannarsi almeno quanto i
fazendeiros del Brasile e i loro squadroni della morte?
Non credete che il consumatore coerente con
la sua morale cristiana, prima di acquistare conserve
e passate di pomodoro, debba fare una riflessione
sulle vittime dei caporali nel brindisino
e nel napoletano, così come le fa sui lavoratori,
sulle donne e sui bambini vittime della Nestlé, Chiquita
o Del Monte in Nigeria, Guatemala e Kenya?
Dico la verità: dopo aver letto alcuni articoli e
visto diversi filmati, non sono affatto sicura che
certe pappe al pomodoro, così esaltate da alcuni
vegetariani ed ambientalisti, siano innocue come
una bistecca ricavata con i metodi rispettosi della
tradizione agroalimentare nostrana.
Insomma: dico NO all’hamburger dei fast-food,
condannato nei libri dell’Emi, ma dico NO anche al
pomodoro dei caporali di Oria, Foggia e Sao, che
umiliano (e talvolta uccidono) le donne, avvelenano
i fiumi e sconvolgono l’assetto idrogeologico del
territorio, creando i presupposti per nuove calamità,
nuove stragi, nuove speculazioni da parte delle
organizzazioni di stampo mafioso.

CHIARA BARBADORO




1 PECCATORE PENTITO E 99 GIUSTI

Grazie per la coraggiosa impostazione
di Missioni Consolata… La rubrica
«Cari missionari» è uno spazio veramente
aperto, al servizio delle idee (e
coscienze) di tutti, senza distinzioni di
opinione e forma.
Ho letto il numero di aprile, con le tre
lettere che criticano la mia rilettura della
parabola del «buon samaritano» alla
luce della guerra in Afghanistan; in
particolare, del sostegno (votato dai
partiti cristiani del parlamento italiano)
all’intervento militare in quel martoriato
paese. Ringrazio le persone che
hanno scritto: hanno esteato il loro
dissenso e sdegno, senza limitarsi a coltivarli
nel proprio animo (come spesso
succede), rendendo così il proprio giudizio
inappellabile ed elevando piccole
barriere di incomprensione e diffidenza,
che possono diventare muraglie invalicabili
(Kosovo, Palestina e «Brigate
Rosse» insegnano).
Quanto è difficile parlarsi! E, invece,
com’è facile essere fraintesi, anche nelle
migliori intenzioni! Ma, proprio per
questo, è vitale insistere su tale strada
senza scoraggiarsi, facendo dell’ascolto
e del dialogo una priorità assoluta,
anche (e soprattutto) quando gli interlocutori
sono scomodi.
Non era mia intenzione fare l’apologia
del comunismo. Anche Gesù, con la
sua parabola, non voleva fare l’apologia
dei samaritani, bensì mettere in crisi le
coscienze degli ebrei del suo tempo, invitandoli
a riflettere su un punto cruciale:
non la dottrina o l’abito o la carica
o l’appartenenza ad un gruppo, ma i
comportamenti (e solo questi) qualificano
come giusta di fronte a Dio un’azione;
e ogni azione è giusta o ingiusta
di per sé, non in funzione dei meriti o
demeriti del passato. «Non chi dice “Signore,
Signore” entrerà nel regno dei
cieli, ma colui che fa la volontà del Padre
mio» (Mt 7, 21).
Il giorno in cui si decideva se andare
o non andare in guerra ad uccidere (in
risposta ad altri che già avevano ucciso)
chi ha fatto la volontà del Padre?
Non mi risulta che nel vangelo esista
una parola a legittimazione di uccisioni
a scopo di difesa o a giustificazione
di guerre per costruire la pace. Mi
chiedo: siamo consapevoli di cosa significhi
la Croce, elevata a simbolo della
nostra fede? Non significa forse che
Qualcuno si è lasciato calunniare, umiliare,
torturare ed uccidere (senza invocare
«bombardamenti chirurgici» da
parte delle sue schiere celesti), per insegnarci
nella sua carne (non a parole)
la via per arrivare, noi tutti, alla vera
pace, cioè a Lui stesso?
Affermo questo con l’umiltà di chi si
sforza di compiere ciò che ci è stato richiesto
come cristiani, rendendo testimonianza
agli insegnamenti ricevuti. E
con la consapevolezza dell’enormità di
quanto ci viene domandato, di quanto
sia «contro natura», di quanto sia fuori
da questo mondo. Però non ci è chiesto
di capire, ma di avere fiducia e di
non vergognarci di chiedere aiuto a Colui
che ci indica tale via, anche quando
essa sembra fuori della nostra portata.
Sta scritto: «Non si può servire insieme
Dio e mammona» (Lc 13, 16). Oggi,
parafrasando, potremmo dire: non si
può servire, nello stesso tempo, Dio e
Machiavelli. Nel vangelo non esistono
fini che giustifichino i mezzi.
Too ai comunisti che votano contro
la guerra. Se oggi qualcuno (che si
riconosce in una ideologia che, per quasi
un secolo, ha predicato l’ateismo e la
legittimità di contrastare con la violenza
le violenze subite) si batte contro la
guerra, questo non dovrebbe essere motivo
di gioia? Oppure preferiamo cercare
conforto ai nostri tentennamenti,
coltivando il dubbio che sia ipocrita ed
agisca per sordidi secondi fini?
Non dovrebbe essere nostro dovere di
cristiani incoraggiarlo a proseguire sulla
buona strada, invece di disprezzarlo
per gli errori che, tra l’altro, non lui, ma
il suo gruppo può avere commesso? Se
un ateo crede nella solidarietà, nella
giustizia e nella pace, non sarà forse
che crede pure in Dio, anche se ancora
non lo dice?
«Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore
convertito che per 99 giusti che
non hanno bisogno di penitenza» (Lc
15, 7)… Cerchiamo anche noi, almeno,
di desiderare questa gioia.

GIANCARLO TELLOLI




Mamma Letizia

Caro direttore,
avendo un figlio missionario
della Consolata, ricevo
la rivista da tanti anni. Nel
passato, a causa della famiglia
numerosa, non avevo
sempre il tempo di leggerla
con attenzione. Ora
che sono sola, alla bella
età di 83 anni, ho tanto
tempo e provo un vero
piacere nel leggere Missioni
Consolata dalla prima
all’ultima pagina. Sono
pure riuscita ad abbonare
delle mie conoscenti, sicura
che la apprezzeranno.
Trovo la rivista ricca di
valori cristiani, che mi
riempiono il cuore e mi
aiutano anche a dialogare
meglio con i figli e nipoti…
Il Signore vi ricompensi
per tutto quello che
fate e vi accompagni nel
vostro non facile lavoro.
Io vi assicuro la mia matea
preghiera.

Mamma di padre Luciano
(missionario e professore
universitario in
Kenya), Letizia è missionaria
pure lei. Come ogni
mamma di missionario.

Letizia F. Mattei




Bandito padre Stefano

Caro direttore,
sapendoti sensibile ai temi
russi ti comunico una notizia
allarmante. È possibile
farla arrivare anche ai lettori
di Missioni Consolata?
Padre Stefano Caprio,
un sacerdote legato alla
fondazione Russia Cristiana,
da 12 anni in Russia, si
è visto stracciare il visto e
rifiutare il permesso di
rientrare nel paese.
Viene da pensare che il
fatto sia da ricondurre al
recente conflitto tra il Patriarcato
ortodosso di Mosca
e la Santa Sede circa la
creazione di diocesi cattoliche
in territorio russo.
Possibile che la Chiesa ortodossa
ricorra a metodi
stalinisti pur di sbarazzarsi
di sacerdoti cattolici intraprendenti?
Padre Stefano,
infatti, ha ricostruito due
chiese (di cui è parroco), è
attivo presso la Caritas locale
e insegna in due università.

Il trattamento subìto
mostra in quale conto siano
tenute le libertà della
persona presso il governo
di Putin. Che fastidio vedere
i baci e gli abbracci
che gli riservano i governanti
dell’occidente!

I rapporti tra la Santa
Sede e il Patriarcato ordosso
di Mosca non sono
mai stati facili: oggi meno
che mai. E, di fronte ai diritti
umani, la Realpolitik
è talora spregiudicata.

Biancamaria Balestra




Se le bombe cadessero su di noi

Spett. redazione,
complimenti a MASSIMO
VENEZIANO per il «Battitore
libero» (Missioni
Consolata, gennaio 2002).
Mai un articolo così breve
è stato tanto eloquente. In
poche righe ha messo a
fuoco le vere realtà sociali
del mondo, evidenziando
il mal comportamento dei
«benpensanti».
È un caso che le riviste
missionarie ospitino articoli
di questo tipo? O è
perché i missionari subiscono,
con le popolazioni
del terzo mondo, il frutto
delle azioni dei nostri governi
che noi, forse, non
immaginiamo?
Mi è piaciuta la dizione
«capitalismo compassionevole
», che prima sfrutta
l’uomo e, poi, con le briciole,
finge di aiutarlo. Padre
Alex Zanotelli, al 19°
Congresso nazionale Aifo,
ha ricordato che la somma
stanziata dal G8 a Genova
è stata una presa in giro:
infatti, se divisa tra gli
ammalati di Aids, equivale
a 0,31 euro pro capite.
Sarebbe stato meglio se avessero
chiesto alle case
farmaceutiche (che di soldi
ne hanno fatti abbastanza)
di abbassare i
prezzi dei farmaci per permettere
a tutti di curarsi.
Nel 1954 Raoul Follereau
asseriva che, con il
costo di un aereo da guerra,
si poteva debellare la
lebbra. È rimasto inascoltato,
perché non c’è volontà
di aiutare i bisognosi.
E Paolo VI dichiarava
che i poveri ci sono, perché
fanno comodo ai ricchi.
Inoltre le statistiche
dicono che i poveri sono
sempre più poveri e i ricchi
sempre più ricchi: il
che vuol dire che pure noi,
cristiani, facciamo solo
finta di seguire l’insegnamento
di Gesù.
Inoltre, finché una buona
parte dell’utile di molti
paesi è determinato dalla
vendita di armi, non ci
sarà scampo: le guerre si
inventano, si provocano,
si cercano. Ora poi, che
non abbiamo una controparte,
che non rischiamo
granché, che (pur in guerra)
possiamo continuare
la nostra bella vita, ci sentiamo
giudici del mondo.
Ma se le bombe cadessero
sulle nostre teste, distruggessero
le nostre case e
uccidessero i nostri familiari,
quanti degli attuali
interventisti troverebbero
giuste certe guerre?
Continuate, vi prego, a
scrivere articoli sulla vera
realtà socioeconomica del
mondo: servono ad una libera
informazione, tendente
a risolvere la iniquità,
e anche a smascherare
i falsi cristiani.

Il risultato «briciole»
del G8 di Genova fu
stigmatizzato pure da noi
(Missioni Consolata, ottobre-
novembre 2001).
E, a proposito di armi,
Missioni Consolata (giugno
2001) ricordava che
l’Italia è terza al mondo
nella vendita di armi leggere,
nonostante le restrizioni
della legge 185/90.
Oggi c’è il disegno di
legge 1.927 che prevede
un allentamento dei vincoli
della legge 185/90…
Confidiamo nell’opposizione
di alcuni parlamentari
della Margherita, dei
DS, di Forza Italia, ecc.,
affinché il disegno non
diventi legge.

Dante Busetti




«Nuova Colombia»

Cari missionari,
benché sia stato volontario
in Africa, oggi faccio
parte dell’associazione
Nuova Colombia, che ha
come scopo di aiutare il
paese nei diversi problemi
che l’affliggono e che sono:
povertà (problema comune
a tutti i paesi sudamericani),
coltivazione di
coca e guerra civile. Vi
chiedo cortesemente di
dedicare un po’ di spazio
alla nostra associazione.
Nuova Colombia è capeggiata
dall’avvocato
Wainer. Al suo interno diversi
giuristi (tra cui il sottoscritto)
hanno contatti
con il governo colombiano
per tutelare i diritti umani
nell’attuale conflitto
che vede opposti militari e
paramilitari ai movimenti
guerriglieri Farc e Eln.
Si sta programmando
anche una collaborazione
con l’associazione contadina
Arauca, per creare un
allevamento di polli e
maiali. Tale allevamento è
una delle tante iniziative
volte a sostituire la coltivazione
di coca, di cui i
missionari della Consolata
sono stati antesignani.
Al progetto partecipano
altre associazioni.

Per maggiori informazioni
su Nuova Colombia:
-ancjos@tiscalinet.it
– gtonti@comune.it
– vburani@libero.it.
– panepacelavoro@tin.it

avv. Alessio Anceschi