SOLO UNO FRA TANTI

La mia «terza età», provata a volte da tante fatiche,
mi obbliga a fermarmi. Avendo però conosciuto
voi, cari amici, sono spinto a continuare a lavorare insieme:
Dio, voi, io e i poveri, che ci sono affidati per
constatare che è sempre possibile crescere, liberare, amare.
Crescere nei valori cristiani portandoli in ogni
angolo della terra; liberare gli oppressi dall’odio, dalle
ingiustizie, dall’egoismo dilagante di oggi; amare col
cuore di Dio, che predilige gli ultimi della terra dando
a noi il privilegio di essere le sue mani.
Se viviamo nell’incertezza del futuro e nella paura, abbandoniamoci
a Dio che ci ha pensati fin dall’eternità.
È vero che viviamo in un tempo molto duro; ma è «il
nostro tempo». Abbiamo solo questo da vivere. Il segreto
consiste nell’agire per il bene comune.
Ieri sera sono andato a letto tardi (come al solito),
per finire il lavoro d’ufficio e la corrispondenza.
Pensavo alle vacanze che passerò tra voi. Pensavo alla
messa che celebrerò sulla tomba di mio fratello Piero
nell’anniversario della morte. Riflettevo sulle sue ultime
parole: «Il Signore continua a chiedere: “Chi manderò?”.
“Eccomi, Signore, manda me!”».
Ripensavo a mia madre Palmina: dagli occhi azzurri,
meravigliosa, quasi analfabeta. Durante la guerra faceva
le notti al telaio per preparare lenzuola ai suoi nove
figli. L’ho rivista in sogno. Era nell’orto della vecchia
casa, dove siamo nati tutti.
– Che fai, mamma?
– Sto innaffiando un seme molto raro. Nella nostra parentela
è da molti anni che porta frutto.
– E che cos’è?
– È il seme della vocazione. Non vorrei che finisse con
don Guido, don Mario, don Stefano, don Mariano e con
te, padre Renato, l’ultimo missionario dei Saudelli.
Se vogliamo vedere una nuova fioritura di vocazioni
nell’orto della chiesa, dobbiamo rimettere in uso il
vecchio concime della… povertà, castità e obbedienza.
Funziona ancora. Basta guardare il «campo» di Madre
Teresa come continua a fruttificare.
In Etiopia mi consola che, fra i tanti chierichetti (alcuni
musulmani), uno mi abbia dichiarato in segreto:
«Abba, voglio farmi missionario della Consolata come
te». Ogni sera, prima di andare a letto, viene a pregare
con me.
Sono in Etiopia da 19 anni, durante i quali sono venuti
ad aiutarmi tanti giovani; ma solo uno è in seminario
a Roma, per rispondere alla vocazione missionaria. Mi
incoraggia, tuttavia, il fatto che tutti gli altri siano stati
«scossi» e intendano dare un nuovo senso alla loro vita.
Me lo confermano le loro lettere.
Un giovane, andato pure in India e Cina, mi scrive:
«Ho capito che la povertà materiale è nulla a confronto
di quella umana, interiore. Ho visto gente vivere
sotto un ombrello, ed era felice, con una dignità commovente.
Ora vedo persone che possiedono castelli e
si impiccano, perché non riescono più a dormire».
Una ragazza da Londra mi dice: «La mia vita ha senso
solo se faccio qualcosa per gli altri, meno fortunati di
me. Ogni momento che vivo è prezioso e lo porto nel
cuore con tutti i suoi insegnamenti».
Un’altra dalla Svizzera: «È notte e sto per andare a
dormire; ma la nostalgia per l’Etiopia, le emozioni
provate in quei giorni indescrivibili sono così forti che
devo scriverle. Cerco di trasmettere ad altri tutto
quello che mi avete insegnato. Ogni giorno che passa
è un granellino di fede in più; la scintilla di tutto, dopo
un periodo buio, è stata la missione in Etiopia»…
Dalla «città dei ragazzi» (tutti bisognosi) di Asella dove
lavoro, a tutti un saluto riconoscente ed affettuoso.

padre Renato Saudelli




FINO A TRABOCCARE

A dire il vero, «Vilanculos» non è proprio un bel
nome, almeno per il suono! Però, vedeste che
paese pittoresco! In riva all’Oceano Indiano, con
spiagge che non hanno nulla da invidiare a quelle del
Mar dei Caraibi o della mia Cesenatico!
Il termine vilanculos deriva da un clan e in lingua locale
significa «cresciuto molto, fino a traboccare».
Qui, dal 1966, i missionari della Consolata hanno aperto
una missione. Allora non c’era molta gente. Vilanculos
era appena stato costituito, dall’amministrazione
coloniale del Portogallo, capoluogo della provincia
omonima.
Con l’indipendenza del Mozambico (1975) e la successiva
guerra civile la popolazione dai villaggi vicini
si riversò su Vilanculos: il mare si offriva come l’unica
uscita di sicurezza di fronte a possibili attacchi armati.
Ma, a guerra finita, la gente è rimasta. Ora Vilanculos
è un paese che cresce a vista d’occhio, proprio come
dice il nome.
L’oceano assicura pesce, attrae turisti, crea posti di lavoro:
insomma c’è da mangiare per tanti e stanno nascendo
alcune strutture di sviluppo.
Abbandonata la terraferma con un’agricoltura ingrata,
con le alluvioni degli scorsi anni e la siccità di quest’anno,
la popolazione delle campagne (mato) raggiunge
Vilanculos in cerca di… qualsiasi cosa.
D’altronde qui opera anche un piccolo ospedale e ci
sono le scuole; dallo scorso anno c’è luce, telefono e
persino la tivù. Così la gente aumenta, ma anche l’emarginazione
e la povertà.
Sta nascendo una «cultura nuova»: gli ideali tradizionali,
che hanno sostenuto la vita africana per secoli, in
pochi anni vengono spazzati via dal cuore dei giovani.
Cresce anche il popolo di Dio. La comunità cattolica
è la più numerosa. Viviamo fra metodisti, avventisti,
musulmani e altri credenti di varie sètte nella
più chiara amicizia e armonia.
La chiesa cattolica non detiene, come in passato, il
primato della promozione umana o degli aiuti. Però i
«grandi» del paese (politici, docenti, dottori, ecc.) ricordano
volentieri: «Noi siamo figli della chiesa; essa
ci ha educato e formato; ci ha dato la possibilità di un
futuro». Oggi però, a Vilanculos, è l’Unione Europea
o la Banca Mondiale ad appoggiare il governo nazionale
e le Organizzazioni non governative per creare e
sostenere le strutture sociali.
Ma noi, missionari, non ce ne stiamo con le mani in
mano. Il vangelo è la nostra priorità: esso è annuncio e
celebrazione di Gesù vivo e presente; ma è pure visita
ai villaggi, accompagnamento dei leaders delle comunità,
formazione dei catechisti e delle famiglie, promozione
della donna, ecc. In missione i corsi di formazione
occupano molto del nostro tempo: dalla giustizia-
e-pace ai problemi giovanili, alla salute, al
cucito, all’economia domestica.
I giovani sono quelli che più soffrono per il mutamento
culturale che stanno vivendo. Ed è questa la nostra
grande sfida e preoccupazione. Le iniziative di avvicinamento,
catechesi, incontro, gioco, scuola… ci sembrano
inadeguate per raggiungere la gioventù, che è
una moltitudine.
Ma non trascuriamo i prediletti del Signore, cioè i
bambini. La presenza di un giovane laico venezuelano
nella nostra équipe missionaria è una benedizione, soprattutto
per seguire i tre asili infantili nella periferia
del paese. Sono 180 i bimbi che ogni giorno corrono
alla loro escolinha per cantare, giocare, imparare,
mangiare… Poi i poveri. Fino a qualche tempo fa, erano
una ventina: ogni settimana si avvicinavano alla
missione. Altri venivano a dirci che le alluvioni avevano
portato via le loro case; con l’aiuto di benefattori
ne abbiamo ricostruite molte.
E tutto questo ha aperto la strada verso la missione.
Così oggi sono circa 300 coloro che, ogni martedì,
vengono per ricevere qualcosa. La maggior parte sopravvive,
perché la misericordia di Dio è infinita.
Infine ci sono i vecchi e gli ammalati, che raccontano
le storie di sempre: male alle gambe, al petto, agli occhi…
freddo, febbre, malaria. Tutti i mali. La loro
gioia è grande nel ricevere un sorriso, un po’ di cibo,
un’aspirina; mentre solo la creolina è efficace contro
le pulci penetranti. E tanti, con gratitudine, tornano
poi alla missione per mostrare la pelle nuova dei piedi,
finalmente guariti.

A Gloriana
« com carinho
e amizade»

Torino, 10 maggio. La signora
Gloriana Babbini è partita per il
Mozambico. Ha raggiunto i missionari
della Consolata a Vilanculos,
dove è già alle prese con
i bambini d’asilo. «I miei bimbi»
dichiara con affetto la nuova
maestra.
Prima della partenza, Gloriana
è stata salutata da numerose
persone: parenti, missionari, amici,
giovani. «Mentre accogliamo
con gioia la decisione della
signora Gloriana di andare in
missione – ha detto padre Gottardo
Pasqualetti -, la ringraziamo
per i tanti servizi prestati
con intelligenza e generosità al
Centro di animazione missionaria
di Torino e per lo svolgimento
delle celebrazioni del centenario
dei missionari della Consolata.
Ora il suo servizio raggiunge il culmine
con l’impegno diretto in missione».
La missione è nel DNA di Gloriana Babbini,
essendo anche sorella di padre Francesco
(defunto) e zia di suor Cristiana (missionaria in
Argentina), entrambi della Consolata.

Gloriana (con gli occhiali)
in Mozambico con alcuni bambini
e l’amica Maria Pia.

padre Sandro Faedi




COMMOZIONE DI POPOLO

A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.
A Brasilia, la capitale del futuro,
la gente semplice vive la sua fede
con profondo sentimento
e partecipazione.
Come in occasione della festa
della Consolata
e la processione in suo onore.

Brasilia è una delle poche città al
mondo (insieme con Washington)
ad essere stata totalmente
decisa e pianificata da un gruppo di
architetti e urbanisti. In effetti, a metà
degli anni Cinquanta, essendo diventata
insufficiente Rio de Janeiro, il governo
brasiliano decretava che una
nuovissima capitale doveva essere costruita
al centro del paese; una città,
simbolo del futuro del Brasile e dell’umanità.
La sua costruzione diventò
una sfida, dal momento che la più vicina
strada asfaltata si trovava a 600
chilometri e la più vicina ferrovia a
125 chilometri.
Dopo una serie di lavori titanici,
Brasilia fu inaugurata il 21 aprile 1960
alla presenza di 150 mila invitati.
Fin dal 1964 i missionari della
Consolata avevano voluto partecipare
all’avventura di Brasilia con la
costruzione della parrocchia «Nostra
Signora della Consolata», una
delle prime aperte nella nuova città.
Attualmente vi lavorano tre missionari:
Giuseppe Galantino, Oreste
Ghibaudo e Serafino Marques; gli
ultimi, due sono «giovanotti» di 84
e 77 anni. Con loro vi è un diacono
permanente, José Luiz de Oliveira
Jesus, uno dei pilastri della pastorale,
che interessa ben 20 mila fedeli.
Ed è proprio nella modeissima
e avveniristica Brasilia che, il 20 giugno
scorso, ho celebrato la festa della
Consolata. Ma ero ben lontano dall’immaginare
ciò che avrei vissuto.

LA «VISITA» DI MARIA
La festa della Consolata, a Brasilia,
si comincia a preparare un mese prima,
grazie a un centinaio di volontari
che lavorano insieme agli agenti pastorali.
Catechesi speciali vengono
proposte soprattutto ai ragazzi, perché
possano meglio comprendere il
ruolo di Maria nella storia della salvezza.
Durante la novena, poi, ai parrocchiani
è data la possibilità di approfondire
la loro vita cristiana.
La chiesa (ma anche i quartieri della
parrocchia) viene addobbata con
bandierine, fiori e nastri. Io stesso ho
visto sul muro di un palazzo di 12 piani
un’immensa corona del rosario,
fatta di palloncini bianchi e blu. La vigilia
della festa, i catechisti vanno in
ogni quartiere a incontrare i giovani
e parlare loro della Madonna.
Ma la cosa più straordinaria (o più
curiosa) deve ancora arrivare: è «la visita
» che la Consolata compie in tutti
i quartieri della parrocchia.
Sono le ore 15, e padre Galantino
incomincia ad inquietarsi: «Dov’è il
diacono?». È lui, infatti, che ha organizzato
l’insieme delle celebrazioni
con altri volontari. Mi confida il parroco:
«Non ho mai visto una parrocchia
simile; qui davvero non sono i
preti a tirare la carretta, ma i laici! Ve
ne sono centinaia che portano avanti
la maggior parte del lavoro pastorale.
E che organizzazione!».
La polizia (due vetture e otto moto)
arriva alle 15,20. La radio è pronta,
dal momento che tutte le celebrazioni
saranno trasmesse in diretta dall’emittente
Nova Aliança de Brasilia.
Puntualmente, alle 15,25, le tre macchine
della scorta sono nel cortile.
Arriva anche mons. Geraldo de Espirito
Santo Avila, vescovo dell’esercito
brasiliano. A questo punto il carro
della Madonna «esce» solennemente
dal cortile delle missionarie
della Consolata, dove è stato preparato
e ornato: su una vettura, coperta
di paramenti bianchi e blu e di fiori,
troneggia la statua della patrona.
Oggi Maria va a visitare i suoi fedeli!
Mi avevano detto che i brasiliani
non brillano per la puntualità. Ebbene:
o gli abitanti di Brasilia non sono
brasiliani o io devo rivedere i miei
pregiudizi… La visita doveva cominciare
alle 15,45; dopo essere passati
negli otto quartieri della parrocchia,
si ritornava nella chiesa centrale per
la messa solenne delle 19. «Ma questo
– mi dicevo – non succederà prima
delle 20. Invece alle 19,05 la messa iniziava!
La processione si mette in marcia
e ci fermiamo nel primo quartiere.
Vedendo arrivare la statua, la gente
canta e grida: «Viva la Madonna! Viva
la Consolata!». In ogni quartiere
c’è un’orchestra, formata da giovani,
che suona e intona il primo canto alla
Vergine. La gente risponde in coro.
Il vescovo, assistito dal parroco,
scende dalla vettura, mentre fuochi
artificiali e petardi scoppiano nel parco
vicino. Si avvicina al carro della
Madonna ed inizia una preghiera:
con lui la gente pregherà per i bambini
e genitori, per gli ammalati e sofferenti
e sempre chiederanno a colei
che è «la stella dell’evangelizzazione»
di inviare ancora missionari per annunciare
la Buona Novella ai quattro
angoli del mondo.
Dopo le invocazioni, il vescovo benedice
gli oggetti religiosi e chiede a
Maria di proteggere le persone e i loro
beni, coloro che sono in viaggio…
Si sa che violenza, criminalità e incidenti
stradali sono frequenti in Brasile!
Poi termina con una benedizione,
aspergendo tutti con acqua santa.
Uno degli animatori, allora, prende
il microfono e la celebrazione viene
nuovamente «riscaldata» da preghiere,
cori e canti. Scoppiano ancora
petardi e fuochi d’artificio, mentre
tutti seguono il carro della Madonna.
E così verso il prossimo quartiere.
Anche qui centinaia di persone aspettano
la loro madre e patrona; anche
qui canti e applausi, petardi e benedizioni…
Poi, sempre in marcia, si
raggiunge un altro quartiere.
Maria li ha visitati tutti, in questa
grande parrocchia di Brasilia, la città
costruita come un’«anticipazione»
del futuro. Maria, salita al cielo, gloriosa
presso Dio, non è forse il simbolo
più vero di ciò che Egli desidera
per l’umanità tutta?…
Non siamo lontani dall’Equatore.
Pertanto, verso le 18, la notte scende
quasi di colpo. È all’imbrunire che si
visitano gli ultimi due quartieri. Ma
c’è ancora più confusione: la statua
della Madonna è illuminata e, mentre
arriva nella semioscurità del quartiere,
sembra proprio un’apparizione…
Tutto ad un tratto si accendono
centinaia di candele. Anche per l’arrivo
nell’ultimo quartiere decine di
giovani agitano stelline luminose, come
fosse una grande festa di compleanno.

LACRIME DI COMMOZIONE
Quando la processione arriva nella
chiesa parrocchiale centrale, questa
è già stracolma. Sotto la direzione
animata ed entusiasta di padre Oreste,
la gente canta e accoglie la statua
con un bornato di applausi. Non ho mai
visto niente di simile nella mia vita
missionaria! L’esaltazione è al culmine.
Il parroco fatica a calmare l’assemblea
ed iniziare la messa.
Dopo la comunione, entrano in
processione un centinaio di bambini
e bambine, rivestiti di bianco e con alucce
che li trasformano quasi in angeli
del cielo: circondano la statua,
posta su di un piedistallo, alla sinistra
del presbiterio. Mentre si canta un inno
mariano, decine di lampade illuminano
il viso della Madonna; poi un
ragazzo depone sulle sue spalle un
manto blu e una ragazza una bianca
corona sulla sua testa. Scoppia un applauso
fragoroso, e non si sa bene se
gli adulti applaudono i loro figli o la
Vergine. Molti hanno le lacrime agli
occhi e anch’io…
Tutto questo mi rimanda alle processioni
del Corpus Domini della mia
infanzia, nel Québec (Canada), quando
la fede era ancora forte… In Brasile
la gioia, l’esaltazione e l’entusiasmo
mi ricordano numerose celebrazioni
vissute in Africa. Ma, a Brasilia, ho avvertito
una qualità di fede tutta speciale.
Non so perché: ma gli occhi che
fissavano la statua della Madonna,
trasportata da un quartiere all’altro
della capitale brasiliana, i corpi che
danzavano e agitavano ogni sorta di
bandiere e drappi, mentre la Consolata
attraversava le strade della città
del futuro… tutto questo mi ha dato
un’impressione di freschezza e verità,
che non riuscirò a dimenticare.
Al momento del mio arrivo nella
capitale non sapevo cosa mi aspettava.
Però, nel giorno della Consolata,
credo proprio che il cielo si sia aperto
su Brasilia… Ora sono un po’ invidioso
di padre Galantino, parroco di
una porzione davvero eccezionale del
popolo di Dio. Non so se quello che
ho visto sia un raggio di cristianesimo
futuro; però so che quella sera, stanco,
non riuscivo a prendere sonno, a
causa delle immagini di fede che facevano
ressa nel mio cuore.
L’indomani ho chiesto al diacono
se tale festa della Consolata
facesse parte del cristianesimo
passato o futuro. Mi ha risposto che
era quello del passato. Lasciamo,
dunque, a Maria il compito
di preparare il futuro
del Brasile!

RIMANETE CON NOI!!
Maria merita il nome di Consolata con due significati: infatti
fu dapprima consolata per diventare la consolatrice
di tutto il genere umano.
Ragazza di 14-15 anni, Maria riceve un annuncio che la
riempie di spavento. Ma non deve temere perché, secondo
le parole dell’angelo, «il Signore è con lei». E per la «consolazione
» che riceve, potrà pronunciare una parola che
sarà principio di salvezza per noi tutti. Se non comprendiamo
il motivo di quel suo sgomento, non capiamo neppure
l’importanza della sua risposta: «Io sono la serva del
Signore».
Maria era figlia di ebrei, e una ragazza che rimaneva incinta
fuori del matrimonio metteva a repentaglio la propria vita.
Ai giorni nostri sentiamo dire che nei paesi musulmani
c’è gente, scoperta in adulterio, che viene lapidata: una prassi
normale, in passato, nel Medio Oriente e in Israele. Ma
poiché la Madonna era di grande fede, le bastarono poche
parole per ricevere consolazione, tanto da dare principio a
una nuova era nella storia dell’umanità; poiché questa è l’era
della grande «consolazione», il tempo di Gesù, salvatore
di tutti.
Carissimi missionari della Consolata, è per noi una grande
gioia avervi qui. Leggevo tempo fa un libro, scritto
da un vostro confratello, uno dei pionieri che raggiunsero il
Kenya. Raccontava della vita dura, specialmente nei primissimi
tempi, sperimentata dai missionari: stanchi, anneriti
dal fumo del treno, ma sempre avanti, fino alla meta. Erano
scesi in un posto sconosciuto e da lì avevano ripreso,
a piedi, il viaggio verso la meta; salirono montagne, ebbero
tanti malanni; qualcuno tra i portatori, durante la carovana,
morì anche per strada. Fino
a quando arrivarono…
Quello che vorrei dirvi è questo:
l’audacia di quei pionieri nasceva
da una fede enorme! E mi
vengono in mente quei benedettini
che furono i primi a venire
dalle nostre parti, in Tanzania;
non avevano neppure emessa la
prima professione religiosa e ricevettero
l’ordine di andare in
missione. Lasciarono il loro paese,
senza più tornare (non conobbero
neppure la loro casa
madre). Anche i missionari della
Consolata seguirono lo stesso
modo di evangelizzare: partirono
senza sapere dove andavano,
in paesi stranieri, poveri,
diversissimi dall’Italia; sapevano
della malaria, dei serpenti,
dei leoni… ma andarono.
E dove hanno trovato il tempo
per costruire dentro di sé la fede,
per essere missionari? Il motivo
è che avevano già la fede «succhiata
» dalla Consolata, la quale
ebbe il dono di trovare la consolazione
di Dio.
Tra i primi missionari, alcuni lasciarono poi il Kenya per venire
qui in Tanzania. Vennero per «kuziba pengo» («riempire
un vuoto lasciato da un dente estratto»; ma Pengo è
pure il cognome del cardinale che sta parlando; ndr): a
riempire il vuoto lasciato dai benedettini. Ereditarono parrocchie
non in una situazione normale, ma post-bellica, in
una ex colonia tedesca. «Io sono la serva del Signore, sia
fatto a me come l’Onnipotente vuole». Vennero qui da noi.
La loro opera la conosciamo e apprezziamo: un lavoro
grandioso e che ci riempie di meraviglia. Come hanno fatto
tutto questo, superando difficoltà e ristrettezze?
I nostri missionari, all’inizio del secolo scorso, erano pronti
a mettere la vita nelle mani dell’Onnipotente per eseguire
il mandato: far sì che anche per i tanzaniani (come prima
per i kenyani) sorgesse «l’ora di Dio», avessero la consolazione
di conoscere il Signore Gesù… Ma anche il nostro
mandato non è diverso dal loro. Poiché la presenza di Dio
tra gli uomini è necessaria, questo è il lavoro che riceviamo
da Maria Consolata, tramite i suoi missionari.
Figli della Consolata, vi faccio le mie felicitazioni: per la
festa di oggi e per il vostro grande lavoro fatto qui, nella
nostra chiesa. Vi siete dati senza risparmiarvi, come la
Madonna Consolata che disse: «Se c’è da rischiare la vita
non importa; se Dio vuole invece che viva, così sia, come
vuole l’Onnipotente!».
Grazie di cuore per averci dato la possibilità di avere Dio
con noi! Anche noi ora possiamo dire: «Emanuele! Dio è
con la sua gente!».
Dopo avervi ringraziati, vi preghiamo di continuare a inco-
raggiare noi, che siamo i vostri figlioli
e nipoti, perché lo spirito che ci avete
portato non venga mai meno. Siate con
noi, state con noi! Io penso che, umanamente
parlando, il periodo più duro
della missione sia passato, poiché se
qualcuno oggi desidera i maccheroni,
anche qui a Dar es Salaam li può trovare…
e anche le medicine!
Rimanete qui, restate qui! E, se qualcuno
è sfinito e non riesce più a lavorare,
non abbia paura, non pensi di essere
inutile e di tornare in Italia; ma vada
davanti all’eucaristia a pregare per
noi l’Onnipotente. Stia qui e preghi; preghi
insieme a noi, perché possiamo vedervi
e imparare. Vi promettiamo che
faremo tutto il possibile per portare avanti
lo spirito messo in noi, affinché il
nostro popolo possa sempre dire: «Emanuele!
Dio è con il suo popolo!».
Polikarp Pengo
(traduzione dallo swahili
di padre Giovanni Medri)

LA LUCE È RIMASTA NEI MIEI OCCHI
Caro direttore, le presento una testimonianza
sulla Madonna Consolata
di Agnese Capello, mia cugina.
Essa gradirebbe che fosse pubblicata
su una rivista con il nome
«Consolata». Agnese mi ha chiesto
di ritoccare lo scritto. Ma ho pensato
che non sarà, certo, la forma a togliere
interesse ad un testo già bello,
così come è nato da chi ha vissuto
la vicenda che racconta.
M.P. QUIRICO – TORINO

È con gioia che pubblichiamo la seguente
testimonianza proprio nel mese
della Consolata.

Quando una persona si ferma un
tantino a meditare sul senso della
vita, è facile che le vengano in
mente alcuni particolari molto significativi.
Un episodio che, iniziando dai nostri
vecchi, si è tramandato di padre
in figlio riguarda un affresco, che si
trova sulla facciata della nostra casa
in un paese della collina torinese.
L’affresco rappresenta la Consolata
e risale al 1856.
Venne eseguito per un «voto»,
fatto alla Consolata in un momento
penoso per la gente, quando serpeggiava un’epidemia che colpiva i
bambini dai 13 anni in giù. Ne erano
già morti parecchi, e i genitori
che vivevano nella casa avevano promesso
alla Consolata che, se salvava
i loro numerosi bambini, s’impegnavano
a far dipingere la sua effigie
sul fronte della loro abitazione.
Bisogna pure ricordare che, in tante
case, la fede consisteva anche nel recitare
ogni sera il santo rosario.
I genitori intensificarono le preghiere
finché, cessato il pericolo che
durò parecchi mesi, esaudirono il loro
voto, perché tutti i bambini erano
salvi. Fecero eseguire l’affresco, e
continuarono a pregare e ringraziare
la Madre Consolata mettendosi
sotto la sua protezione, poiché quell’avvenimento
fu considerato un miracolo.
Il pittore che eseguì l’affresco
fu un certo Nicolao Doria. Si presume
che fosse un ligure. In quella casa
nacque pure Demetrio Casola
(1851-1895), ricordato nelle enciclopedie
come pittore.
Tutti i genitori, che si sono succeduti
nella casa nel corso degli anni,
hanno sempre avuto una particolare
attenzione e il massimo riguardo
verso la Madre di Dio, che era considerata
una componente della famiglia.
La pittura è rimasta inalterata
nei colori, pur essendo esposta alle
intemperie.
Anche i miei genitori abitarono
nella casa. Nel 1956 (anno del centenario
dell’affresco) si prodigarono
per festeggiare l’anniversario. Era
prima del Concilio ecumenico Vaticano
II, e non si poteva celebrare la
santa messa. Però ci fu una grande
partecipazione di parenti e alcuni
sacerdoti, con preghiere, canti mariani
e il santo rosario.
Terminate le funzioni, ci fu un bel
rinfresco per tutti.
Nel 2006 saranno 150 anni di
«presenza matea» nella nostra
casa. Per l’occasione, se Dio vorrà, ci
sarà ancora un ricordo, perché è
sempre bene lodare la nostra Madre
Santissima Consolata.
AGNESE CAPELLO – TORINO

Alla Consolata sono riconoscente
fino dall’infanzia. Nel maggio
1945 (era da poco finita la guerra)
i miei genitori mi accompagnarono
in treno da Bra (CN) a Torino al santuario
della Consolata, per ringraziare
la Madonna. Il viaggio fu avventuroso,
perché eravamo in un carro-
bestiame, alla mercé del vento.
Ricordo Torino con tanti cumuli di
macerie, a causa dei bombardamenti
subiti.
Dunque la guerra era finita, ed io
ne ero uscita miracolata. Lo scoppio
di una granata mi aveva ferito il naso,
un orecchio e una gamba. Ma la
pioggia di schegge non mi colpì gli
occhi. Subito i miei genitori esclamarono:
«Questo è un miracolo della
Consolata!».
Fede semplice e viva quella dei
miei genitori, fede dettata da sofferenza,
senza perdere mai la fiducia
in Maria, Madre nostra in tutte le ore
della vita.
Così la luce è rimasta nei miei occhi.
CATERINA VIRANO – BRA (CN)

È un’altra testimonianza che calza
a pennello con il mese di giugno. Anche
la signora Giovanna Castellano
(di Torino) ringrazia pubblicamente la
Consolata «per grazia ricevuta in favore
del figlio».

Cari missionari, ho 17 anni e fin
da bambina conosco la Vergine
Consolata. Nella contrada in cui mia
madre è nata e cresciuta si venera la
Consolata da molto tempo. La sua figura
mi è rimasta impressa per il
racconto di un «miracolo».
Mia madre era una bambina di
quarta elementare e in quell’anno
si abbatté un terribile nubifragio
con una violenta tromba d’aria. Allora
a scuola si andava a piedi, e il
mattino seguente la tempesta ella,
in mano del nonno, si avviò tra
massi scivolosi, ciottoli fangosi e
grandi pozzanghere.
All’approssimarsi della scuola, vicino
alla chiesetta della Consolata,
mia madre non vide più l’edificio
sacro, ma un cumulo di macerie.
Un’ombra scese sul suo cuore e su
quello del nonno.
Erano ormai giunti e… sul mucchio
di rovine essi videro la statua
della Madonna, di fragile gesso,
dolcemente adagiata, illesa, eccetto
che in una mano. E illesi erano
tutti gli abitanti della contrada,
nonché le case, le stalle, gli animali.
In quella chiesa, ricostruita più
grande, ho frequentato il catechismo
e ho coltivato il mio spirito alla
luce del vangelo e nell’ascolto di
esperienze missionarie. Crescendo,
la scuola (frequento il liceo classico)
e gli amici mi hanno forse impoverito
il bagaglio religioso; ma
mi sono ripresa, per un incastro di
cose difficili da capire o spiegare.
Da tre anni, cioè da quando è
morto il nonno Nicola Gironimo, vostro
abbonato e devoto della Consolata,
seguo con particolare interesse
la vostra rivista, che vorrei
continuasse ad essere recapitata a
nome del nonno. Apprezzo il modo
limpido con cui voi, missionari, raccontate
la vita e, soprattutto, il vostro
impegno nell’alleviare la sofferenza
dei fratelli. L’offerta inviata
è a favore dell’ospedale di Neisu
(Congo), affinché l’opera di padre
Oscar Goapper non si arresti.
Infine questa lettera vuole essere
un grazie alla Vergine, madre di
ogni consolazione. Maria sostenga
tutti e mantenga viva nella mia e
in tutte le famiglie la luce della verità
fatta carne.
MARA CERVELLERA
MARTINA FRANCA (TA)

Carissima Mara, anche la tua testimonianza
è splendida, come lo sono
i tuoi 17 anni…
A tutti gli amici e sostenitori delle
missioni assicuriamo la preghiera
alla Vergine Consolata dei suoi missionari
sparsi nel mondo.

Jean Paré




Sognare: un altro modo di comunicare?

«Chi sogna pensa a qualcuno;
se prende la medicina, si sveglia guarito»
(proverbio cambogiano)

Già nei templi di Esculapio
Il sogno (esperienza impalpabile che ci accompagna
durante il sonno) è definito dagli esperti un insieme di
immagini o emozioni, affascinanti o tenebrose, sperimentate
durante il sonno e sepolte per lo più a livello inconscio.
I sogni sono il prodotto della psiche nel sonno,
ma molti sfuggono alla rete della memoria. Chi sogna è
conscio del suo sogno, ma inconscio del mondo che lo
circonda; spesso, al risveglio, ne ha un ricordo più o meno
deformato.
Fin dai tempi più antichi le esperienze oniriche, cioè
del sogno, hanno fornito materiale interessante sia alla
superstizione che alla letteratura, attribuendo ai sogni
un significato premonitore o profetico. Le esperienze
furono studiate anche dalla psicoanalisi, secondo la quale
la loro interpretazione è di aiuto per la comprensione
di alcuni fenomeni che si formano a livello inconscio.
In tutte le medicine tradizionali sognare rappresentava
(e lo è ancora) un avvenimento importante sia dal
punto di vista diagnostico sia terapeutico. Incubatio era
definita, nell’antichità, la pratica medica che si realizzava
nei templi di Esculapio (dio greco-romano della medicina).
Dopo riti propiziatori di purificazione, gli ammalati
si addormentavano sotto il portico del tempio e
si attendeva che l’apparizione del dio nel sonno indicasse
la diagnosi della malattia e i trattamenti terapeutici necessari.
Anche nella medicina araba si parla di «incubatio»,
cioè un sonno indotto, soprattutto psicologicamente,
dal luogo in cui ci si addormenta: nel caso specifico una
moschea o la tomba di un marabutto (santone). Qui, appoggiando
il capo su una parete, si attendeva l’apparizione
in sogno di Allah come taumaturgo. Spesso si sottoponevano
a questa pratica anche gli stessi medici, per
ottenere chiarimenti sulla diagnosi e sui trattamenti terapeutici.
Noti etnologi hanno osservato qualcosa di simile
in Africa (Burkina Faso e Costa d’Avorio).
Nel Camerun i guaritori asseriscono di aver appreso
in sogno l’uso di certe piante medicinali da essi utilizzate.
In Nuova Guinea, dormendo accanto al teschio di
un parente si fanno sogni che vengono interpretati come
consigli, anche terapeutici, da seguire fedelmente.
Il totem (ossia un animale, una pianta, un astro, un oggetto
o indumento ai quali si attribuisca una funzione
«vitale») rappresenta, per molte popolazioni primitive,
l’antenato mitico da cui si sentono protette. Il totem è
spesso una raffigurazione scolpita o dipinta, alla quale
si dedicano riti e offerte. È quindi un rapporto di «parentela
» che le popolazioni ritengono di avere con il loro
totem; con esso ogni membro del gruppo individua
se stesso, la sua stirpe, la posizione sociale nell’ambito
di una popolazione formata da clan totemici. Nelle isole
Figi gli stregoni traggono oroscopi quando nel sogno
compare il loro totem. Oroscopi che sono attesi da tutto
il clan.
Non sempre un sogno si realizza durante un sonno
naturale. In Mozambico un sonno provocato da droghe
suscita uno stato di trance, durante il quale il guaritore,
perfettamente incosciente, riceve suggerimenti su piante
«buone per le cure», suggerite dallo spirito con il quale
è in contatto.

L’olimpo religioso dei «maya»
Anche nella medicina degli attuali maya (Messico e
Guatemala) il sogno rappresenta, fra le medicine tradizionali
ancora in uso, un elemento di grande valore.
L’arte medica di queste popolazioni non è legata a no-
zioni tramandate oralmente o per iscritto o di padre in
figlio, ma solo attraverso il sogno e viene affidata ad un
personaggio un po’ medico e un po’ stregone, chiamato
curandero, il quale è tanto più apprezzato quanto più
ha sognato, utilizzando in modo del tutto personale, il
frutto dei propri sogni.
Le credenze, soprattutto quelle religiose, condizionano
le pratiche mediche tradizionali. Nell’olimpo religioso
dei maya dell’altopiano del Chiapas si osserva una
contemporanea presenza di santi cattolici e divinità indigene
preispaniche, un tentativo di conciliare cristianesimo
e pensiero pagano. In primo luogo vi sono le divinità
benefiche, ossia gli «dei del cielo» (Gesù Cristo,
la Vergine Maria e alcuni santi); seguono gli «dei che sostengono
i quattro punti cardinali», divinità che vengono
associate ai colori: il dio bianco d’oriente per la pioggia,
quello bianco del nord per il mais, il dio colorato del
sud per il vento e quello nero dell’occidente delegato alla
morte.
Vi sono infine le «divinità della terra», che hanno la
massima importanza per la salute dell’uomo, agevolandola
od ostacolandola. Sono rappresentate da spiriti soprannaturali,
anch’essi associati ai colori: rosso, bianco
e verde. Malattia e stregoneria sono legate a queste divinità
e a come vengono «contattate» sia dai medici praticanti
che dagli stregoni.
L’ultima categoria, la più nefasta, è quella che comprende
gli «dei del mondo inferiore», esseri malvagi che
presiedono alle forze del male e alla morte.

L’animale compagno
Nella vita di un maya ha una grande importanza «l’animale
compagno» ossia un essere animale che rappresenta
la proiezione immateriale dell’individuo. Quando
una madre partorisce, il curandero pone sul tetto della
capanna diversi simboli di animali: quello che sarà posto
nel momento del primo vagito sarà il simbolo dell’animale
compagno.
Presso gli indigeni maya le malattie possono essere di
provenienza naturale o soprannaturale: sono naturali le
infermità passeggere (raffreddore, diarrea, angina, ecc.);
soprannaturali invece (e sono la maggioranza) quelle
mandate dagli dei del cielo, della terra o del mondo inferiore.
Paralisi, idiozia, strabismo, schizofrenia, rappresentano
castighi divini. Inoltre ci si ammala anche
ogni volta che si nuoce all’animale compagno.
Anche i medici sono divisi in categorie: il ts’ak (aggiusta
ossi) cura le infermità muscolari e ossee; l’ilol cura
gli stessi mali, ma con tecniche esoteriche che agiscono
sullo spirito del malato; il me’ santo utilizza soprattutto
rituali magici e la ventriloquia, intesa
come divinità parlante racchiusa in un tabeacolo.
Il sogno non è un avvenimento
piacevole per i maya: sono timorosi
dei sogni, perché possono portare più danno che
vantaggio. Infatti essi credono che, quando una persona
sogna, il suo spirito si separa dal corpo e vaga libero;
nello stesso momento «l’animale compagno» esce dal
suo rifugio sulla montagna sacra e vaga per luoghi sconosciuti.
La vita dell’uomo e quella dell’animale sono legate
allo stesso destino e sono facile preda di spiriti maligni
e di stregoni.
I sogni più temuti sono quelli in cui l’indigeno crede
di sedurre una donna, o si vede offrire succulenti cibi di
carne di mucca, gallina, tacchino, maiale, oppure bevande
come la chica (acquavite). Ma il più temuto è il sogno
che porta alla «perdita dell’anima» e che procura
una morte lenta, una lunga agonia senza alcun rimedio.
Come si diventa curandero? La volontà di diventarlo
non conta: se gli dei lo vorranno, in qualsiasi momento,
anche nella vecchiaia, il predestinato avrà un sogno particolare,
durante il quale gli dei lo porteranno nelle loro
dimore celesti e gli insegneranno rimedi e riti curativi.
Fare il curandero non è cosa desiderabile: se l’ammalato
è dichiarato incurabile, lo è per volontà degli dei e
il curandero non può intervenire in alcun modo; spesso
si rifiuta di tentare interventi terapeutici, sapendo che
la volontà degli dei impedirà la guarigione. Non altrettanto
rassegnati sono i parenti del malato, che talvolta
accusano di stregoneria il guaritore e lo minacciano di
morte.
Per questo, quando un curandero si trova presso un
infermo, stabilisce subito se è curabile o no; in caso negativo,
si rifiuterà nella maniera più decisa di intervenire.
E… non gli si può dare torto!

Liliana Pizzoi




MISSIONARIO «GUERRIERO»

L’autografo in margine al calendario
personale riporta le date fondamentali
della sua vita: arrivo in Frisia (690),
ordinazione episcopale a Roma (695),
78 anni a servizio del regno.
È quasi un testamento, in cui Villibrordo
rivela i suoi tre grandi amori:
Cristo, il suo vicario in terra e i frisoni,
a cui portò la luce del vangelo.

MISSIONE A RISCHIO
Stanziati lungo le terre bagnate dal
Mare del Nord, tra gli stati attuali di
Belgio e Danimarca, i frisoni appartenevano
a una delle più fiere tribù
germaniche. Gelosi della propria libertà,
si opposero tenacemente prima
ai romani, poi all’espansione dei
franchi. Pagani fino al midollo, rifiutavano
ogni tentativo di civilizzazione
e cristianizzazione.
Cominciarono i missionari franchi
a evangelizzarli, alla fine del secolo
VI, lasciando a Utrecht una chiesetta
in onore di s. Martino. Pochi decenni
dopo, riprovarono i santi Eligio e
Amando, ma con scarsi risultati: i frisoni
non erano disposti ad accettare
la croce da chi li voleva soggiogare
con la lama della spada.
I missionari anglosassoni, affini
per stirpe, lingua e cultura, lontani
da ambizioni politiche, ebbero migliore
accoglienza. Nel 678 il benedettino
Vilfrido, vescovo di York,
spinto dai venti sulla costa della Frisia
mentre era in viaggio verso Roma,
fu benvenuto dal re Aldgiso e, durante
l’inverno, predicò la fede cristiana,
convertendo migliaia di frisoni,
a detta del venerabile Beda.
Poco dopo, l’abate Egberto, irlandese
di Ratmelsigi (oggi Mellifont),
con alcuni compagni progettò l’evangelizzazione
sistematica della Frisia;
ma una violenta tempesta li ributtò
in Irlanda. Ritentò Vigberto
con una impresa solitaria: per due anni
percorse la regione sotto lo sguardo
sospettoso del pagano re Radbodo,
finché dovette tornare a casa.
Nel 689 Pipino II di Heristal, maggiordomo
del regno franco, sottomise
la parte occidentale della Frisia:
l’abate Egberto colse l’occasione per
attuare il suo progetto e organizzò
una nuova spedizione missionaria,
composta da 12 monaci e guidata da
Villibrordo: per quasi 50 anni egli
percorse la Frisia, dando un aspetto
cristiano alla regione, e passò alla storia
come «apostolo dei Paesi Bassi».

MISSIONARIO PELLEGRINO
Era nato nel 658 in Nortumbria,
regno degli Angli, a nord del fiume
Humber, da nobile famiglia sassone,
convertita al cristianesimo nel 627
(vedi riquadro accanto). Il padre, san
Vilgiso, rimasto vedovo quando Villibrordo
era ancora in fasce, vegliò
sui primi passi del rampollo, finché,
a sette anni, lo affidò ai benedettini
di Ripon, perché avesse una buona educazione;
quindi si ritirò in solitudine
su un promontorio del fiume
Humber, dove, ben presto circondato
da numerosi discepoli, edificò un
monastero dedicato a sant’Andrea.
Abate di Ripon era san Vilfrido, tenace
difensore dell’universalità romana
contro il particolarismo scotornirlandese.
Lo stesso anno in cui il piccolo
Villibrordo entrò a Ripon (664),
ebbe luogo la famosa conferenza di
Whitby, in cui l’abate convinse il re
Osvy ad adottare le tradizioni liturgiche
di Roma (vedi riquadro di pagina
58).
Per 14 anni Villibrordo rimase alla
scuola di Vilfrido, ricevendone l’abito
benedettino e respirando l’atmosfera
della cattolicità romana. Ma
quando il maestro, eletto vescovo di
York e consacrato in Francia, fu allontanato
dalla diocesi (678), il giovane
monaco andò a perfezionare gli
studi in Irlanda, nel monastero di
Ratmelgisi, attratto dalla fama dell’abate
Egberto, rinomato maestro
di vita spirituale di quei tempi.
Villibrordo fu presto contagiato
dal fervore missionario che regnava
nel monastero, da dove partivano i
«pellegrini per Cristo» per predicare
il vangelo ai popoli pagani del continente.
Si faceva un gran parlare della
Frisia, soprattutto, come terra promessa
di apostolato e di martirio. Egli
ammirava le imprese di Egberto e
Vigberto, ma ne vedeva pure i limiti,
alla luce della concretezza benedettina
succhiata alla scuola di Vilfrido.
A 30 anni Villibrordo venne ordinato
prete; a 33 fu scelto da Egberto
per guidare una nuova spedizione tra
i frisoni. Gli 11 compagni, di cui conosciamo
pochi nomi, non erano meno
focosi di lui: Evaldo il bianco ed
Evaldo il nero (dal colore dei capelli)
finirono presto martiri per mano
dei sassoni in Westfalia; nella stessa
regione Suitberto fu trucidato dai boructavi;
Adalberto e Verenfrido evangelizzarono
varie regioni della
Frisia e morirono di morte naturale.

MISSIONARIO… PAPALINO
Lasciata l’Irlanda nel 690, la spedizione
attraversò a piedi l’Inghilterra,
navigò verso il continente e approdò
alle foci del Reno. Villibrordo
si premurò di raggiungere la corte di
Pipino, per ossequiare il monarca e
chiedee la protezione. Il giovane
missionario si guadagnò senza fatica
l’ammirazione del sovrano e l’appoggio
della nobiltà franca.
Per prudenza, i missionari si stabilirono
ad Anversa, dentro il regno
franco, accettando in dono la chiesa
dei ss. Pietro e Paolo, fondata da s.
Amando, e altri benefici ecclesiastici;
di qui cominciarono a estendere la
loro azione nella regione di Utrecht.
Villibrordo capì subito che non poteva
presentarsi ai frisoni nel nome
dell’odiato dominatore, ma con le
credenziali pontificie. Nel 692 si recò
a Roma; papa Sergio I gli conferì di
cuore il mandato di predicare il van-
gelo in Frisia e nelle regioni circostanti,
lo benedisse e lo rifoì di reliquie
e libri sacri.
Tornato in sede, si rallegrò dei successi
ottenuti dai compagni: numerosi
battesimi di nobili, liberi contadini
e servi. Si sentì il bisogno di un
vescovo che amministrasse anche le
cresime: fu scelto Suitberto, il più anziano
del gruppo. Ma per mantenere
le distanze dalla politica, Villibrordo
non scomodò l’episcopato
franco, ma inviò il candidato in Inghilterra,
perché fosse consacrato da
Vilfrido di York. Pipino ci restò male;
soprattutto non poteva immaginare
un vescovo senza diocesi, fatto
solo per distribuire cresime e consacrare
altari e chiese.
Il vescovo fu bandito dal regno
merovingio e, per non perdere la
protezione del maggiordomo, Villibrordo
dovette cedere. Suitberto se
ne andò a evangelizzare la minuscola
etnia dei boructavi, in Westfalia,
dove lavorò 24 anni, fino a quando i
sassoni annientarono i suoi sforzi: gli
sopravvisse il monastero di Kaiserswerth,
in un’isola del Reno di fronte
a Düsseldorf.
Intanto il matrimonio tra Grimoaldo,
figlio di Pipino, e Teodolinda,
figlia di Radbodo, re dei frisoni,
scongiurava ogni rischio di guerra,
almeno per il momento, e apriva la
strada per evangelizzare anche la
parte settentrionale della Frisia. Il
principe merovingio lanciò l’idea di
erigere non una diocesi, ma una circoscrizione
ecclesiastica che abbracciasse
tutta la Frisia e propose lo stesso
Villibrordo come arcivescovo.
Villibrordo si recò di nuovo a Roma
e sottopose il progetto a papa Sergio,
che il 21 novembre 695 lo consacrò
vescovo e gli impose il pallium,
simbolo dell’autorità metropolitana
e di totale comunione con Roma. Inoltre,
al bellicoso nome celtico (Villibrordo
significa: guerriero) il pontefice
prepose quello più mite e pronunciabile
di Clemente; dopo quel
giorno, però, tale nome non fu quasi
mai più menzionato.
L’evento segnava il culmine della
cattolicità: un papa di origine siriaca,
nel cuore della cristianità, conferiva
la pienezza del sacerdozio a un
monaco anglo-sassone, mandato da
un principe franco.

TENTANDO IL COLPO GROSSO
Nuovamente rifornito di reliquie,
libri liturgici e paramenti sacri, Villibrordo
lasciò Roma in pieno inverno,
raggiunse Utrecht (696), sede
della nuova arcidiocesi, e cominciò
a organizzare materialmente la sede
episcopale: costruì la cattedrale dedicata
a san Salvatore e l’episcopio;
risollevò dalle macerie il santuarietto
di s. Martino; fondò la scuola per
l’educazione dei giovani e la formazione
del clero locale; organizzò in
comunità i suoi collaboratori, mescolando
la regola benedettina con
le tradizioni irlandesi; avviò la vita liturgica
con splendide celebrazioni
religiose, alle quali i frisoni accorrevano
meravigliati.
Uguale solennità veniva usata anche
fuori dei riti sacri. Sapeva che,
con gente sensibile al prestigio della
forza, il primo impatto era decisivo.
Per questo cercava di impressionare
i frisoni: si presentava loro come
gran signore su una cavalcatura, con
una croce d’oro in mano e circondato
da scorta ugualmente a cavallo. In
tal modo pensava di dimostrare l’inanità
e impotenza degli idoli e l’onnipotenza
del Dio dei cristiani.
Se tale bardatura aveva sulla gente
semplice un certo effetto, i re pagani
non facevano una grinza, come
Radbodo, re dei frisoni rimasti indipendenti.
Villibrordo sperava di fare
il colpo grosso: convertire il capo,
perché i sudditi lo seguissero in massa
alla fonte del battesimo. Era la
strategia del tempo e aveva funzionato
a meraviglia con i franchi, anglosassoni
e altri popoli barbari. Il re
accolse il missionario, lo ascoltò, gli
promise di non ostacolare il lavoro
missionario tra i suoi sudditi, ma di
abbracciare la religione dei franchi
neppure parlarne. In pratica egli rimase
ostile al cristianesimo fino alla
sua morte (719).
Con la stessa tattica Villibrordo
tentò, inutilmente, di convertire le
popolazioni dello Schleswig e Danimarca:
Ongendo, il re dei danesi, era
«più crudele di ogni fiera e più duro
di ogni pietra» racconta Alcuino.
Tuttavia il vescovo fu accolto con rispetto
e ottenne che 30 giovani lo seguissero
a Utrecht, per ricevere la
formazione cristiana e tornare poi in
patria ad annunciare il vangelo ai
connazionali.

LOTTA ALL’IDOLATRIA
Contro l’idolatria Villibrordo non
si accontentava delle parole, ma passava
spesso alla sfida aperta. Ritornando
dalla Danimarca, approdò
nell’isola di Helgoland, allora sotto
il dominio di Radbodo. In attesa di
venti propizi per riprendere il viaggio,
il vescovo cominciò a predicare
il vangelo agli abitanti. C’era nell’isola
una fonte dedicata al dio Fosite.
Si diceva che, chiunque avesse rotto
il silenzio mentre ne attingeva l’acqua
o avesse osato toccare il bestiame
sacro alla divinità, sarebbe stato
fulminato dal dio irritato.
Per dimostrare che Fosite era
niente, dinanzi ai pagani sbigottiti,
Villibrordo battezzò tre giovani danesi
nella sorgente sacra, pronunciando
ad alta voce la formula battesimale;
poi ordinò di preparare un
bel festino con le cai arrostite di alcune
bestie sacre. Invece dei fulmini
di Fosite, arrivarono quelli di Radbodo.
Villibrordo fu portato al cospetto
del re. Il vescovo ne approfittò
per fare una vibrata catechesi sull’unicità
di Dio e sulla vita eterna; ma
non riuscì a evitare che uno dei battezzati,
tirato a sorte, fosse sacrificato
all’idolo crudele: fu il primo martire
della sua missione tra i frisoni; un
martirio che gli spezzò il cuore.
Seguendo le istruzioni date un secolo
prima da Gregorio Magno a s.
Agostino, apostolo degli anglosassoni,
Villibrordo era implacabile contro
gli idoli, ma risparmiava i luoghi
sacri, trasformandoli in edifici di culto
cristiano. È quanto fece nell’isola
di Walacria: scoperto un tempietto
con la statua di Nehalennia, dea protettrice
dei marinai, il vescovo frantumò
l’idolo, sfidando le ire del custode,
che gli assestò un colpo di spada
in testa. Rimasto miracolosamente
illeso, Villibrordo usò il tempio per
celebrarvi la messa.
Uguale trattamento fu riservato alle
sorgenti, che i frisoni, come altre
popolazioni germaniche, circondavano
di particolare venerazione, come
simboli di vita e fecondità: le credevano
inabitate da spiriti vitali che
assumevano forma umana al momento
della nascita. Partendo da tale
credenza, Villibrordo spiegava ai
pagani che le fonti da essi venerate
potevano dare loro la vita vera, nel
tempo e nell’eternità, mediante la rigenerazione
battesimale: e usava
quelle stesse sorgenti per amministrare
il battesimo.

MISSIONE SENZA FRONTIERE
Fallita la conversione in massa, i
missionari continuarono di nascosto
a seminare il vangelo nel regno di
Radbodo, con la speranza di tempi
migliori per fondarvi nuove diocesi.
Da parte sua, data l’impossibilità di
estendere a nord la sua azione missionaria,
Villibrordo percorse senza
un attimo di sosta le regioni orientali
del regno franco: Fiandra, Campine,
Lussemburgo, Turingia, Zelandia,
nord della Francia.
Nel 698 egli si recò a Treviri, dove
Irmina, suocera di Pipino, gli aveva
fatto dono di una chiesa e un piccolo
convento da lei fondato e diretto a
Echteach (Lussemburgo). Il vescovo
vi passò l’inverno e ricevette in
dono dai nipoti della badessa ville,
campi e vigne per future fondazioni
ecclesiastiche. Nel 703-704, accompagnando
l’amico Vilfrido in viaggio
verso Roma, raggiunse la Turingia,
dove il duca Heden lo accolse con onore.
Al ritorno, passò a trovare Irmina
e la mise al corrente di un suo
disegno: la costruzione a Echteach
di un monastero maschile sotto la regola
di s. Benedetto. Il progetto andò
in porto: il monastero fu inaugurato
nel 706 e divenne un centro di irradiazione
cristiana, procurando cornoperatori
e risorse, e di accoglienza per
i missionari stanchi e costretti ad abbandonare
temporaneamente il campo
dalle epidemiche rivolte.
Dovunque passasse, Villibrordo
predicava, istruiva, convertiva, battezzava
e costruiva cappelle, chiese e
monasteri. E faceva anche miracoli.
A Treviri liberò dalla peste una comunità
di monache. In un’altra città
spense il fuoco, appiccato dagli spiriti
maligni alla casa di un amico, con
abbondanti aspersioni di acqua benedetta.
Numerose furono le sorgenti
scaturite al suo comando per
dissetare i compagni o reperire l’acqua
per il battesimo. Si narra pure di
fiaschi di vino quasi a secco che, dopo
una sua benedizione, si riempivano
per dissetare mendicanti infreddoliti
o rallegrare amici e monaci,
rimanendo ancora pieni.

COLLABORAZIONE INDIGENA
Saranno leggende, ma mettono in
luce un aspetto della sua personalità.
Piccolo di statura, come lo descrivono
i suoi contemporanei, capelli neri,
delicata costituzione, occhi vivi e
profondi, Villibrordo aveva una volontà
incrollabile, mai soggetto a scoramenti;
tempra non comune di rude
pioniere, prudente e leale, metodico
organizzatore e austero con se
stesso, possedeva il senso del comando
e l’equilibrio della regola benedettina:
grande attenzione alle necessità
degli altri, anche a quelle a prima
vista irrilevanti.
Uomo di preghiera e divorato dallo
zelo, egli possedeva una brillante
intelligenza che gli accattivò simpatia
e collaborazione di principi e nobili
dell’epoca. A nessun altro missionario
di quei tempi furono fatte
con tanta abbondanza donazioni di
ville, tenute, boschi, prati, acque, mulini,
case, cappelle e monasteri come
a Villibrordo. Nel solo Brabante, 17
benefattori gli lasciarono vasti terreni
e relative dipendenze, dislocati in
25 zone diverse.
Tali donazioni assicurarono l’avvenire
della missione in Frisia e delle
numerose opere erette da Villibrordo
nelle province vicine, le chiese rurali
soprattutto. Infatti, appena aveva
raccolto attorno a sé un modesto
gruppo di neofiti, Villibrordo costruiva
una cappella di legno, che egli
stesso consacrava e vi riponeva le
reliquie ricevute a Roma, poi affidava
la comunità a un sacerdote, provvedendo
a tutte le sue necessità con i
proventi di tali donazioni.
Senza sottovalutare l’aiuto ricevuto
dai suoi connazionali, che seguivano
la sua attività con la preghiera
e gesti di solidarietà, è soprattutto tra
i frisoni che Villibrordo trovò collaboratori
devoti, laici e chierici. La
formazione del clero locale fu una
delle priorità missionarie, scegliendo
i candidati con prudenza. A lui si
deve l’introduzione in occidente dei
vescovi ausiliari, di cui si serviva in
modo regolare e costante.

TUTTO DA RIFARE
Alla morte di Pipino Heristal, preceduta
dal figlio Grimoaldo (714),
Radbodo si ribellò ai franchi e scorrazzò
nel loro regno, innescando un
violento rigurgito di paganesimo che
distrusse chiese e cappelle, costringendo
monaci e preti a cercare scampo
nel monastero di Echteach,
compreso l’arcivescovo.
Continuando a guidare da lontano
la ripresa del suo arcivescovado, Villibrordo
concentrò il suo apostolato
lungo le rive della Sûre e preparò l’invio
di alcuni monaci in Turingia per
aprirvi un altro fronte missionario;
ma il progetto andò in fumo per la
morte del duca Heden II.
Finalmente, con la vittoria di Carlo
Martello (718), figlio naturale di
Pipino, e la morte di Radbodo (719),
Villibrordo poté rientrare a Utrecht,
ma dovette praticamente rievangelizzare
frisoni e danesi, con la collaborazione
di molti frisoni rimastigli
fedeli. Così, a 60 anni suonati, riprese
a viaggiare, predicare, firmare l’accettazione
di donazioni e organizzare
nuove fondazioni di chiese e monasteri.
Per tre anni (719-721) ebbe come
collaboratore un altro grande anglosassone,
Bonifacio, anche lui innamorato
dei frisoni. Egli aveva ricevuto
da Gregorio II il mandato di evangelizzare
la Germania, ma prima
volle addestrarsi all’azione missionaria
alla scuola di Villibrordo, che lo
avrebbe visto volentieri come suo
successore.

FINE DEL PELLEGRINAGGIO
Nel 731, testimonia un contemporaneo,
il venerabile Beda, tutti i compagni
di Villibrordo erano passati a
miglior vita. L’arcivescovo continuava
il suo «pellegrinaggio per Cristo»,
ma cominciava a tirare i remi in barca:
malattia e vecchiaia ne rallentavano
l’attività, tanto da doversi ritirare
sempre più spesso a Echteach, dove
morì nel 739. Aveva 81 anni.
Alla sua morte la sognata circoscrizione
della Frisia contava ancora
la sola diocesi di Utrecht. Il testimone
passava ai suoi discepoli, che potevano
contare sulle solide basi gettate
dal grande missionario, la cui vita
è sintetizzata egregiamente dal suo
antico compagno di missione, Bonifacio,
nella lettera scritta a papa Stefano
II nel 753: «Prima dell’arrivo di
Villibrordo, i frisoni erano pagani.
Con 50 anni di predicazione, egli ne
ha convertito la maggior parte alla
fede di Cristo e li ha evangelizzati
fino all’estrema
vecchiaia»..

CONVERSIONE
DEI NORTUMBRI

Èprobabile che la famiglia di Villibrordo
fu convertita al cristianesimo
nel 627, nella memorabile assemblea
dei notabili, convocata da Edvino,
re di Nortumbria, in cui fu dipinta
con tanta emozione l’angosciosa situazione
causata dall’ignoranza sull’origine
e destino della vita umana. Così
parlò uno dei consiglieri:
«Quanto è grande, o re, l’incertezza
nostra sul destino umano. Ascoltate!
Nel cuor dell’inverno, siete seduti a cena
in una sala ben riscaldata, attorniati
dai vostri guerrieri e ministri, e i
paggi vi servono i piatti fumanti, mentre
fuori imperversa la tempesta: ed
ecco un passero, intirizzito dal freddo,
vola attraverso la sala, entrando da
una porta per uscire dall’altra. Durante
il breve momento che sta qui dentro,
l’uccellino si ripara dall’uragano
invernale. Ma questo momento di serenità,
luce e calore dura appena un
secondo. Ben presto il povero passero
tutto smarrito, scompare ai vostri occhi
e si sprofonda nelle gelide tenebre
nottue dalle quali era venuto.
Così ci appare la vita degli uomini
quaggiù: un breve momento di luce e
calore, nella piena ignoranza di ciò
che la precede e di ciò che la segue.
Per questo, se la dottrina cristiana ci
apporta la certezza della nostra origine
e del nostro fine eterno, conviene
abbracciarla senza esitare».
Così fu deciso. Il giorno di pasqua del
627, il re Edvino, la corte e gran parte
del popolo furono battezzati da san
Paolino, vescovo di York, in una chiesa
di legno fabbricata in fretta.

CHIESA A DUE FACCE
L’Irlanda divenne cristiana per opera del monaco bretone
san Patrizio (385-461), che per 30 anni seminò l’isola di
monasteri. Tra le pratiche ascetiche dei monaci c’era la «peregrinazione
» a Roma, Terrasanta e, soprattutto, nelle terre
dove il vangelo non era ancora stato annunciato. Si chiamavano
«pellegrini per Cristo». In questo modo, da evangelizzati,
gli irlandesi diventarono evangelizzatori, prima nella
Scozia, poi nel continente europeo. Il più famoso di essi fu
Colombano, che predicò il vangelo e fondò monasteri in Francia
(Luxeuil), Svizzera (San Gallo) e Italia (Bobbio).
Non sfiorate dalla colonizzazione romana né da invasioni
barbariche, Irlanda e Scozia ebbero chiese fieramente cattoliche,
ma con tratti originali: giurisdizione totalmente in
mano agli abati; vescovi non nominati dal papa e col solo
potere sacramentale; differente data della pasqua e altre peculiarità
liturgiche e disciplinari.
La Britannia, invece, in buona parte già romanizzata e cristianizzata,
fu invasa da angli, juti e sassoni, che cancellarono
ogni traccia di cristianesimo.
Nel 596 Gregorio Magno inviò 40 monaci, guidati dall’abate
Agostino, a evangelizzare gli angli. L’anno seguente fu
battezzato Etelberto, re di Kent, insieme alla sua corte; poi
10 mila sudditi. Alla morte di Agostino (605) gran parte dell’isola
era cristiana; 50 anni dopo, con l’arrivo da Roma di
altri missionari, la riunificazione religiosa e politica della
Gran Bretagna poteva dirsi completa, saldandosi con quella
operata dai monaci irlandesi.
In Inghilterra, prima nazione evangelizzata
per iniziativa papale, la chiesa anglosassone
nacque meglio strutturata e più legata alle
tradizioni romane in fatto di culto e disciplina.
Le differenze tra le due chiese, intrecciate
a interessi politici, causarono vari attriti,
fino a diffidare della validità delle ordinazioni
dei vescovi scoto-irlandesi: problemi
temporaneamente risolti nel sinodo di
Whitby (664).
Dagli irlandesi, gli anglosassoni impararono
l’ardente desiderio della «peregrinazione per
Cristo» e, pure loro, da evangelizzati passarono
a evangelizzare l’Europa. Ma mentre i
missionari irlandesi operavano per iniziativa
privata, senza programmi specifici, in modo
un po’ anarchico e a cose fatte si premuravano
d’avere l’approvazione pontificia, quelli
anglosassoni chiedevano prima il mandato
del papa e rimanevano in costante contatto
con la gerarchia romana.

CONCILIO DI WHITBY
Quando il benedettino Vilfrido (634-709) si recò a Roma
per completare la sua formazione intellettuale, rimase
sorpreso nel constatare le numerose divergenze liturgiche
tra la chiesa madre e quella in Nortumbria. Tornato in patria,
si adoperò per convincere la chiesa della Gran Bretagna
a uniformarsi alle tradizioni romane. Ma trovò un’accanita
resistenza in Colmano, vescovo di Lindisfae, che si
appellava all’autorità di san Colombano.
Per portare la pace, re Osvy, convocò un’assemblea a Whitby
nel 624. Così il venerabile Beda racconta la difesa dell’universalità
romana fatta da Vilfrido:
«Può essere preferito il vostro Colombano al principe degli
apostoli, a cui il Signore ha detto: tu sei Pietro e su questa
pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non
prevarranno contro di lei?».
«Davvero, Colmano, nostro Signore disse queste parole a Pietro?
» domandò il re, impressionato dalla citazione.
«Certamente» rispose Colmano.
«Potete voi provarmi che una simile potestà sia stata conferita
a Colombano?» riprese subito re Osvy. Colmano dovette
confessare di no.
«Allora – concluse il re – io vi dichiaro che, siccome Pietro
tiene le chiavi del cielo, non voglio mettermi in contraddizione
con lui, per non trovare la porta chiusa, quando mi
presenterò all’ingresso del soggiorno celeste».

Benedetto Bellesi




QUANDO LO SVILUPPO NON È PROGRESSO

Secondo la cultura oggi dominante una società è tanto più sviluppata quanto
più consuma. Il benessere degli individui è misurato in termini di consumo
e di accumulo di merci. Gli stili di vita dei paesi industrializzati sono
incompatibili sia con i limiti fisici del pianeta (risorse e capacità
di assorbimento dei rifiuti limitate) sia con gli ideali di equità. L’attuale
modello di sviluppo non solo produce ingiustizia per l’80% della popolazione
mondiale, ma mette a rischio il benessere delle generazioni future.
«Il mondo – diceva il Mahatma Gandhi – è abbastanza ricco per soddisfare
i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno».

Nelle puntate precedenti (1) si è accennato in
termini qualitativi al legame esistente tra ambiente
e società, tra emergenze ambientali ed
emergenze sociali, tra sistema economico e risorse
naturali, tra crescita economica e limiti fisici alla crescita
stessa. Ci si è avvalsi di principi fisici, di nozioni
storico-filosofico-etiche, ma anche di semplici analisi
del funzionamento del sistema economico, nonché
di considerazioni di buon senso.
Esistono tuttavia ulteriori strumenti, basati su leggi
della fisica, della matematica e della statistica, in
grado di evidenziare perché sia necessario ridurre
considerevolmente le quantità di materiali e di energia
prelevate dall’ambiente e destinate all’attuale
sistema economico. Esistono cioè degli strumenti
utili per capire se ci stiamo orientando verso uno
«sviluppo sostenibile».

I DOGMI DEL MODELLO
Sviluppo è certamente un concetto ambiguo e
soggetto ad interpretazioni anche molto diverse tra
loro.
In biologia, il termine descrive il processo attraverso
il quale un organismo raggiunge la sua forma
completa: nel linguaggio comune esso indica la crescita
degli animali o delle piante. Nella seconda metà
del Settecento, con la rivoluzione industriale e l’emergere
del capitalismo, il termine viene trasferito
anche alle scienze sociali, identificandosi sempre
più con il concetto di progresso. Mentre nelle civiltà
greche e romane la crescita era considerata come un
processo ciclico e in quelle medievali come degenerazione
e decadenza, nel pensiero occidentale moderno
«il progresso implica che una civiltà sia progredita, stia progredendo e progredisca
nella direzione desiderata».
L’influenza darwiniana fa sì che sviluppo
e progresso diventino sinonimo
di evoluzione, ossia processo
verso forme sempre più perfette. Lo
sviluppo, quindi, da processo nascita-
morte, viene ora concepito come
qualcosa di «direzionale, cumulativo,
irreversibile e volto ad uno scopo».
La cultura dominante, che
confonde tra loro i termini sviluppo,
crescita, progresso ed evoluzione,
impone che «i diversi paesi si sviluppino
secondo stadi successivi,
dalla società tradizionale a quella dei
consumi di massa, lungo una direzione
lineare verso la modeizzazione».
Tre sono i dogmi su cui si basa tale
pensiero:
1) esiste un unico modello di sviluppo,
che ha come fine la società
capitalista avanzata dei consumi;
2) l’unico fine è quello della crescita
economica;
3) il benessere deve essere inteso come
consumo e accumulo di merci
(Cuhna, 1988).
Secondo questo approccio, quindi,
lo sviluppo economico, inteso
come sviluppo industriale e tecnologico,
assicura da solo il progresso
sociale e il benessere dell’uomo.

ECONOMIA
CONTRO ECOLOGIA?

Nei primi anni Sessanta iniziano
ad emergere, in molteplici ambiti,
danni ecologici irreversibili dovuti
alla grande crescita economica ed
industriale. La percezione dei problemi
ambientali è limitata ai fenomeni
di inquinamento locale e le soluzioni
proposte consistono nella
definizione di livelli di emissione relativi
a determinate sostanze, nella
dispersione degli inquinanti, nella
protezione di spazi circoscritti. È
l’approccio della «protezione e riparazione
ambientale».
Nel corso degli anni Settanta, grazie
al miglioramento delle conoscenze
scientifiche e alla crescente
sensibilizzazione dell’opinione pubblica,
le preoccupazioni ambientali
iniziano ad estendersi su scala internazionale.
Si passa ad un approccio diverso,
quello della «gestione delle risorse»:
nel 1972, infatti, il rapporto del Club
di Roma «I limiti dello sviluppo»,
pubblicato dal Mit (Massachusetts
Institute of Technology), affianca al
problema dell’inquinamento quello
del depauperamento delle risorse
del pianeta, la cui gravità viene amplificata
dalla crisi petrolifera del
1973. È anche l’approccio della «gestione
del rischio»: dopo alcuni eventi
catastrofici di origine industriale
(Seveso, Bhopal…), nasce l’esigenza
di saper affrontare situazioni
nelle quali il rischio non è completamente
eliminabile a priori e le conseguenze
sono spesso irreparabili.
Nonostante numerose critiche, il
rapporto del Club di Roma ha avuto
il merito di sollevare il dibattito
internazionale sulle questioni ambientali
e di avanzare il concetto di
limiti fisici alla crescita. Le due posizioni
estreme, all’interno delle
quali si è sviluppata la discussione,
sono l’economia di frontiera e l’ecologia
profonda, analoghe rispettivamente
all’approccio tecnocentrico
ed ecocentrico:
1) l’economia di frontiera assegna
alla natura un valore strumentale, in
virtù dei numerosi servizi che essa
offre all’uomo; la considera, inoltre,
come fonte inesauribile di risorse
(materie prime, energia, acqua, suolo,
aria) e come deposito illimitato
dei sottoprodotti derivanti dall’attività
di produzione e consumo (rifiuti,
inquinamento e degrado ecologico);
ritiene quindi l’economia
completamente separata dall’ambiente
e conserva un’assoluta fiducia
nella tecnologia e nel mercato; lo
sviluppo è inteso esclusivamente in
termini quantitativi, ossia come crescita
economica;
2) l’ecologia profonda riconosce alla
natura un valore intrinseco, al di
là dei suoi servizi, per il quale va tutelata
e rispettata; evidenzia aspetti,
completamente ignorati dalla precedente
posizione, quali elementi etici,
sociali, culturali, basati sul concetto
di sviluppo in armonia con la
natura.
A questa corrente di pensiero appartiene
l’ipotesi Gaia, formulata
da J. Lovelock, secondo la quale il
pianeta costituisce un grande organismo
vivente in grado di autorganizzarsi
ed autorinnovarsi, non però
necessariamente in materia ottimale
per la specie umana…

LO SVILUPPO SOSTENIBILE
Nel 1987, con il rapporto Brundtland
(3) inizia ad imporsi il concetto
di sviluppo sostenibile, affermatosi
a livello internazionale con la
«Conferenza mondiale su ambiente
e sviluppo», svoltasi a Rio de Janeiro
nel giugno 1992.
Secondo la definizione originale,
è sostenibile uno «sviluppo che soddisfi
i bisogni del presente senza
compromettere la capacità delle generazioni
future di soddisfare i propri
». Nonostante il proliferare di interpretazioni
anche molto lontane
tra loro, vi sono alcuni concetti peculiari
alla base di questo nuovo approccio.
1) Il capitale naturale. Si possono
distinguere tre forme di capitale:
quello prodotto dall’uomo (infrastrutture,
macchinari…), quello umano
e quello naturale (atmosfera,
ecosistemi, flora…). Ogni tipologia
di capitale, da sola o insieme alle altre,
genera dei servizi, necessari all’uomo
per aumentare il proprio livello
di benessere: il capitale umano
rappresenta la forza lavoro; i macchinari
permettono, ad esempio, le
trasformazioni delle materie prime
in beni di consumo.
L’uomo utilizza i materiali, l’energia
e l’informazione contenuti nel
capitale naturale combinandoli con
le altre due forme. Ne consegue che
il capitale naturale è essenziale per il
benessere umano, nonché per la sussistenza
stessa del capitale prodotto
dall’uomo (i macchinari e le infrastrutture
sono costituiti da risorse
prelevate dalla natura…) e del capitale
umano (alcuni servizi offerti
gratuitamente dalla natura e indispensabili
alla sopravvivenza sono,
ad esempio, la purificazione naturale
di aria e acque, la protezione dai
raggi ultravioletti, la stabilizzazione
del clima, la rigenerazione del suolo,
la preservazione della fertilità, il
mantenimento della biodiversità, la
decomposizione dei rifiuti, ecc.).
Di conseguenza, non è più sufficiente
diminuire o rimuovere l’inquinamento
diretto verso l’ambiente
naturale, ma è necessario soprattutto
impedire trasformazioni
irreversibili degli ecosistemi a causa
dell’azione dell’uomo, cioè è necessario
conservare il capitale naturale.
2) L’equità sociale. Uno sviluppo sostenibile
richiede sia l’equità intragenerazionale,
cioè all’interno di una
stessa generazione, sia l’equità intergenerazionale,
cioè rispetto alle
generazioni future.
3) Distinguere tra sviluppo e crescita.
Mentre la «crescita» è un concetto
di tipo quantitativo, il termine
«sviluppo» vuole indicare una trasformazione
soprattutto qualitativa:
non solo economica, quindi, ma
comprendente tutti gli aspetti della
sfera sociale.
4) La sostenibilità. È un concetto
che comprende contemporaneamente
e allo stesso modo tre dimensioni:
economica, ambientale e sociale.
Lo sviluppo economico non è ritenuto
prioritario rispetto a quello
sociale, ma il raggiungimento dell’uno
non può prescindere dall’altro.
Lo sviluppo sostenibile ha quindi
il merito di aver contribuito al
passaggio da una visione settoriale
dei problemi (sviluppo economico
visto indipendentemente dall’aspet-
to sociale ed ambientale) ad una visione
integrata, multidisciplinare e
complessa. In questo contesto l’ambiente
non è più considerato un vincolo
o un aspetto marginale, ma diventa
parte integrante e strategica
dello sviluppo.
In un intreccio così complesso di
componenti (economiche, ambientali
e sociali), uno sviluppo sostenibile
dovrebbe riconoscere l’importanza
di concetti come l’incertezza,
il limite, e quindi la prudenza nel valutare
le conseguenze sull’ambiente
delle azioni umane, specialmente se
numerose e concomitanti; dovrebbe
ottimizzare l’uso delle risorse
scarse del pianeta e ridurre inquinamento
e rifiuti prodotti, per garantire
l’esistenza di tutti gli esseri viventi;
dovrebbe mirare non solo al
benessere economico ma anche e
soprattutto al miglioramento della
qualità della vita.
Dato che ogni paese possiede peculiari
caratteri sociali, ambientali
ed economici, si dovrebbe abbandonare
la «psicosi spaziale», ossia la
presunzione, propria delle culture
dominanti, di poter applicare ovunque
lo stesso modello di sviluppo.
A livello pratico, però, lo «sviluppo
sostenibile» rischia di essere solo una
formula pubblicitaria; nel momento
in cui la definizione teorica
deve essere tradotta a livello operativo,
interpretazioni molto diverse
tra loro ne ostacolano la concreta
realizzazione.

L’IMPRONTA ECOLOGICA
Come si accennava all’inizio, esistono
strumenti, detti «indicatori»,
basati su principi fisici, biologici,
matematici, statistici ecc…, in grado
di misurare il livello di sostenibilità
dello sviluppo. Gli indicatori rivelano
se stiamo migliorando le condizioni
ambientali, sociali ed economiche
del pianeta (o di una nazione,
di una comunità…) o, al contrario,
se le stiamo peggiorando. Uno strumento
di calcolo potente dal punto
di vista didattico (perché relativamente
semplice e molto intuitivo) è
quello dell’«impronta ecologica».
L’impronta ecologica stima, in ettari,
la superficie terrestre ed acquatica
necessaria, da un lato, alla produzione
delle risorse naturali richieste
dall’economia per la produzione
di beni e, dall’altro, all’assorbimento
dei rifiuti prodotti.
È quindi possibile calcolare l’impronta
ecologica di qualsiasi nazione
(popolazione, comunità o individuo):
essa rappresenterà l’area di
terra produttiva e di acqua richiesta
per produrre le risorse consumate
da quella stessa nazione e per assorbire
i rifiuti generati. Tale superficie
viene stimata attraverso varie
metodologie.
Il metodo dell’impronta ecologica
si basa sulle seguenti considerazioni:
1) ogni prodotto o servizio ha bisogno
di materiali ed energia provenienti
dalla natura;
2) ogni bene genera scarti (nella produzione,
nell’uso, nello smaltimento
finale), e sono necessari
sistemi ecologici che li
assorbano;
3) tutti gli insediamenti abitativi
e le infrastrutture
occupano spazio, sottraendo
suolo agli ecosistemi
naturali e alle loro
funzioni.
Per calcolare l’impronta
ecologica, si valutano le risorse
naturali consumate
per l’alimentazione,
l’abitazione,
i trasporti, i
beni di consumo
e i servizi. I sistemi
ecologici produttivi,
dai quali
provengono le risorse,
sono il suolo coltivabile, le zone
di pascolo, le foreste gestite, le foreste
naturali, il suolo necessario alla
produzione di energia, gli ambienti
marini. L’impronta ecologica
individuale, locale o nazionale dipende
da fattori come il reddito, i
valori e i comportamenti personali,
i modelli di consumo, le tecnologie
usate.
Dividendo le terre emerse e il mare
biologicamente produttivo (12,6
miliardi di ettari, al 1996) per il numero
degli esseri umani (5,7 miliardi,
al 1996), si ottiene che ogni individuo
ha a disposizione circa 2,2 ettari
di territorio produttivo all’anno.
Considerando che il 10-12% di spazio
naturale dovrebbe rimanere intatto
per conservare la biodiversità
e i processi ecologici (i biologi
suggeriscono il 25%!),
l’impronta ecologica pro capite
diventa di 2 ettari (4). Ogni
individuo, quindi, ha a disposizione
circa 0,2 ettari di
terreno agricolo, 0,8 ettari
di terreno da pascolo, 0,6
ettari di foreste, 0,5 et-
tari di aree oceaniche.
Le stime relative al 1996, invece,
dimostrano che l’impronta media
mondiale effettiva era pari a 2,85 ettari
di superficie pro capite. Dal
punto di vista ambientale ciò significa
che stiamo sfruttando un’area
superiore di almeno il 30% rispetto
all’area disponibile. Tale eccedenza
provoca l’impoverimento del capitale
naturale del pianeta. Per fare
un’analogia con il capitale monetario,
è come se, anziché utilizzare solamente
gli interessi maturati, noi
spendessimo anche parte del capitale
investito, cosa che porterebbe
ad un’inesorabile progressiva diminuzione
dello stesso e, di conseguenza,
alla sempre minor disponibilità
di interessi.
La crescita dei consumi e la crescita
della popolazione (7 miliardi di
persone nel 2012, 8 miliardi nel
2026 e 9 miliardi nel 2043) porteranno
inevitabilmente ad una sempre
maggior erosione del capitale
naturale, con conseguenze non facilmente
prevedibili sugli equilibri
naturali e, di conseguenza, sulla nostra
stessa sopravvivenza. Già oggi
si parla di cambiamenti climatici, di
aumento della frequenza dei fenomeni
estremi (siccità, alluvioni), di
desertificazione, emergenza acqua,
piogge acide, diminuzione della biodiversità…

SE TUTTI
CONSUMASSERO COME…

I più recenti calcoli informano che
uno statunitense medio ha un’impronta
ecologica di 12,22 ettari pro
capite, un canadese 7,66, un tedesco
6,31, un italiano 5,51, un colombiano
1,90, un indiano 1,06, un cambogiano
0,83, un afghano 0,58, un
abitante della Namibia 0,66, un eritreo
0,35. Gli individui non hanno
quindi lo stesso «peso» sulla Terra.
Ci sono popolazioni che superano
di gran lunga la loro legittima «fetta
» di terra a disposizione (i 2 ettari
di superficie), altri che ne utilizzano
una piccolissima parte.
Due considerazioni: innanzitutto,
se tutti gli abitanti del pianeta consumassero
come uno statunitense
medio, avremmo bisogno di almeno
3 pianeti come la terra! Lo stile di
vita dei paesi industrializzati non
può quindi essere esteso a tutti gli abitanti
del mondo, semplicemente
perché le risorse del pianeta e la capacità
di assorbimento dei rifiuti sono
limitate e non infinite come si
pensava in passato. Secondo aspetto:
il 20% della popolazione mondiale
sfrutta l’80% delle risorse del
pianeta. Questi dati mostrano quindi
una forte ingiustizia sociale, non
solo rispetto alle generazioni future,
ma anche nei confronti delle generazioni
presenti.
Prendiamo l’Italia come esempio:
in base al territorio produttivo, noi
avremmo a disposizione solo 1,92
ettari per i nostri consumi; tuttavia
la nostra impronta pro capite risulta
essere di 5,51 ettari. È evidente che
i restanti 3,59 ettari vengono compensati
dal commercio internazionale:
si parla di deficit ecologico locale
(o debito ecologico, per analogia
con il debito sociale). Questo
però significa che gli stessi 3,59 ettari
sono sottratti a qualche altra popolazione.
Essendo l’economia basata
sulle risorse naturali, è quindi evidente
che la ricchezza materiale
dei paesi del Nord del mondo dipende
dalle ricchezze naturali prelevate
dal Sud del mondo.
È noto che una parte dei problemi
dei paesi poveri siano di origine intea
(corruzione, nepotismo, cattiva
gestione dell’economia, violazione
dei diritti umani…); altrettanto evidente
dev’essere però il fatto che i
paesi industrializzati devono diminuire
in modo considerevole il loro
consumo di materie prime, energia e
natura, non solo tramite l’innovazione
tecnica, ma anche e soprattutto
tramite una rivoluzione culturale basata
su nuovi stili di vita.
Uscendo dalla logica della solidarietà
intesa come beneficenza, è necessario
entrare in una logica di
«giustizia»: non «dare» in misura
maggiore, ma piuttosto «prendere»
in misura minore (5).
Queste considerazioni ci obbligano
quindi a rivedere l’attuale concetto
di «benessere»: un benessere
oggi esclusivamente materiale, basato
su un consumo di risorse che
danneggia gli ecosistemi, la giustizia
mondiale e le generazioni future.
(Fine 3.a puntata – continua)

BIBLIOGRAFIA
NOTE:
(1) Vedi Missioni Consolata di gennaio
2002 e marzo 2002.
(2) Anna Segre-Egidio Dansero, Politiche
per l’ambiente, Utet, 1996.
(3) Il rapporto Our Common Future,
presentato nel 1987 dalla «World Commission
on Environment and Development
» (Wced), commissione promossa
nel 1983 dalle Nazioni Unite, è noto come
«rapporto Brundtland», dal nome
del premier norvegese che al tempo
presiedeva la commissione stessa.
(4) Centre for Sustainable Studies,
Rapporto Living Planet 2000, Redefining
Progress.
(5) Wuppertal Institut, Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999.
Anna Segre – Egidio Dansero,
Politiche per l’ambiente,
Utet, Torino 1996
Wolfgang Sachs (a cura di),
Dizionario dello sviluppo,
Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998
Gruppo di Ricerca
in Didattica delle Scienze Naturali,
I volti della sostenibilità,
Università di Torino, 2002
Mathis Wackeagel
e William E. Rees,
L’impronta ecologica.
Come ridurre l’impatto dell’uomo
sulla terra,
Ed. Ambiente, Milano 2000
WWF Inteational,
Rapporto Living Planet 2000,
Gland, Svizzera, ottobre 2000
Wuppertal Institut,
Futuro Sostenibile,
EMI, Bologna 1999
Gianfranco Bologna (a cura di),
Italia capace di futuro,
EMI, Bologna 2000
Centro Nuovo Modello di Sviluppo,
Ai figli del pianeta,
EMI, Bologna 1998
Giovanni Salio,
Elementi di economia
nonviolenta. Relazioni
tra economia, ecologia ed etica,
Edizioni del Movimento nonviolento,
Verona 2001
Christoph Baker,
Ozio, lentezza e nostalgia,
EMI, Bologna 2001
E. U. von Weizsäcker, A. B. Lovins,
L. H. Lovins,
Fattore 4,
Edizioni Ambiente, Milano 1998.
Enea,
Atti della Conferenza
nazionale energia e ambiente
(Roma, novembre 1998),
Fabiano Editore,
Canelli (Asti) 1999

Sviluppo
Nel linguaggio comune, accettato da economisti, decisori pubblici ed opinione
pubblica, per «sviluppo» si intende la crescita quantitativa dell’economia,
misurata attraverso vari indicatori economici, primi fra tutti il Pil (prodotto
interno lordo). Lo sviluppo sostenibile, invece, distingue tra «crescita»
quantitativa e «sviluppo», inteso come miglioramento qualitativo, che integri
fra loro gli aspetti economici, sociali ed ambientali.

Indicatori di sostenibilità
Sono strumenti che monitorano il progresso verso uno sviluppo sostenibile.
Tentando di ricomprendere tutte le dimensioni della sostenibilità, essi mirano
a sostituire gli attuali strumenti di misura della crescita economica, in particolare
il Pil. Questo non solo considera esclusivamente le attività valutabili in
termini monetari, ma omette aspetti rilevanti e ne comprende altri di paradossali.
Dal punto di vista sociale, infatti, non considera la produzione di beni
e servizi derivanti dal lavoro domestico o dal volontariato, mentre calcola
le spese sanitarie necessarie per affrontare gli effetti negativi della produzione
e del consumo; dal punto di vista ambientale, il Pil aumenta anche grazie
alle spese per la protezione ambientale (alluvioni, terremoti…!) e per il disinquinamento.

Impronta ecologica
Rappresenta la superficie di territorio ecologicamente produttivo (terra ed acqua)
necessaria per fornire le risorse di energia e materia consumate da una
certa popolazione e per assorbire i rifiuti prodotti dalla popolazione stessa.
Mentre il classico concetto di «capacità di carico» indica quante persone può
sopportare la terra, l’impronta ecologica indica quanta terra ogni persona richiede
per condurre il proprio stile di vita.

Zaino ecologico
Detto anche «flusso nascosto», o «fardello ecologico», rappresenta la quantità
di materiali prelevati dalla natura durante le fasi di produzione, utilizzo e smaltimento
relative ad un prodotto (o servizio). Si tratta di materiali abiotici (sabbia,
ghiaia, minerali, combustibili fossili), materiali biotici (biomassa vegetale
ed animale), terreno fertile, acqua, aria.

L’IMBROGLIO DEI… PANNOLINI SINTETICI
L’abitudine di acquistare pannolini «usa e getta» per i propri bimbi è ormai
consolidata, ma è una tendenza dispendiosa e altamente inquinante che
andrebbe corretta.
Le nostre mamme utilizzavano i ciripà o triangolini, che richiedevano un lavoro
notevole di «manutenzione». Oggi il mercato mette a disposizione del consumatore
consapevole pannolini in tessuti modei, che si mettono e tolgono
come un «usa e getta», ma che non sono destinati alla discarica, in quanto lavabili.
Le motivazioni per una scelta di questo tipo sono di natura ambientale, ma
anche legate a convenienza economica.
Analizzando il ciclo di vita di un pannolino sintetico, vediamo che i pannolini
«usa e getta» sono costituiti in gran parte da plastica ed inquinano pesantemente
l’ambiente già dalla loro produzione: in un anno si utilizzano svariati
galloni di olio, tonnellate di plastica e milioni di tonnellate di polpa di legno,
alla fine del ciclo di uso il pannolino finisce nelle discariche con un periodo di
decomposizione pari a 500 anni.
Se pensiamo all’aspetto economico, vediamo che ogni confezione di pannolini
«usa e getta» ne contiene mediamente 40, per una spesa di circa 10 Euro.
Considerando di consumae almeno un pacco a settimana (in realtà se ne utilizzano
molti di più), si spendono circa 40 euro mensili, il che vuol dire quasi
480 Euro l’anno; una spesa alquanto incisiva per il bilancio familiare. I pannolini
in tessuto esistono per tutte le tasche e anche con i più costosi è possibile
risparmiare quasi 240 Euro l’anno.
Il comune di TORRE BOLDONE nel bergamasco, nella figura dell’assessore
Ronzoni, ha attivato nel ’98 un’attività di sensibilizzazione all’uso dei pannolini
in tessuto, inviando ai neogenitori un pannolino di tessuto. Negli anni successivi
l’attività d’informazione è continuata, inviando una brochure informativa.
Attualmente le famiglie con bimbi che hanno optato per questa soluzione
sono il 20%, con una riduzione notevole alla fonte dei rifiuti.
CINZIA VACCANEO
PER MAGGIORI INFORMAZIONI:
– pannolini «Lotties»:
Berg Eveline Maria, via Lanciano 15 – 47838 Riccione RN,
tel. 054-1691087
– pannolini «Belli come il sole»: Ilaria Proverbio via Solferino 2/c – 37132
Verona, tel 045-8920213 bellicomeilsole@tin.it
– pannolini Disana (Germania) www.disana.com
Possono essere acquistati tramite il catalogo «I PICCOLISSIMI»
via di Eschignano 39 54100 Massa
tel. 0585-488.209; fax 0585-488.378
www.ipiccolissimi.it

UN DECALOGO DI COMPORTAMENTO PER CIASCUNO DI NOI
CONSIGLI PER CONSUMI… SOSTENIBILI
1) COMPRA DI MENO. Non esistono prodotti ecologici, ma solo meno dannosi di
altri. Ogni prodotto (anche un bicchier d’acqua) comporta un invisibile «zaino
ecologico» fatto di consumo di natura, energia e tempo di lavoro.
2) COMPRA LEGGERO. Spesso conviene scegliere i prodotti a minore intensità di
materiali e con meno imballaggi, tenendo conto del loro peso diretto, ma
anche di quello indiretto, cioè dello «zaino ecologico».
3) COMPRA DUREVOLE. Buona parte dei cosiddetti beni durevoli si cambia troppo
spesso. Cambiando auto ogni 15 anni, invece che ogni 7, ad esempio, si
dimezza il suo zaino ecologico (25 tonnellate di natura consumate per ogni
tonnellata di auto). Lo stesso vale per mobili e vestiti.
4) COMPRA SEMPLICE. Evita l’eccesso di complicazione, le pile e l’elettricità
quando non siano indispensabili. In genere oggetti più sofisticati sono più fragili,
meno riparabili, meno duraturi. Sobrietà e semplicità sono qualità di bellezza.
5) COMPRA VICINO. Spesso l’ingrediente più nocivo di un prodotto sono i chilometri
che contiene. Comprare prodotti della propria regione riduce i danni
ambientali dovuti ai trasporti e rafforza l’economia locale.
6) COMPRA SANO. Compra alimenti freschi, di stagione, nostrani, prodotti con
metodi biologici, senza conservanti né coloranti. In Italia non è sempre facile
trovarli e spesso costano di più. Ricorda però che è difficile dare un prezzo
alla salute delle persone e dell’ambiente.
7) COMPRA PIÙ GIUSTO. Molte merci di altri continenti vengono prodotte in condizioni
sociali, sindacali, sanitarie e ambientali inaccettabili. In Europa sta
però crescendo la quota di mercato del commercio equo e solidale
(TRANSFAIR). Preferire questi prodotti vuol dire per noi pagare poco di più, ma
per i piccoli produttori dei paesi poveri significa spesso raddoppiare il reddito.
8) COMPRA PRUDENTE. In certi casi conviene evitare alcuni tipi di prodotti o
materiali sintetici fabbricati da grandi complessi industriali. Diversi casi
hanno dimostrato che spesso la legislazione è stata modellata sui desideri
delle lobby economiche, nascondendo i danni alla salute e all’ambiente.
9) COMPRA SINCERO. Evita i prodotti troppo reclamizzati. La pubblicità la paghi
tu: quasi mezzo milione all’anno per famiglia. La pubblicità potrebbe dare un
contributo a consumi più responsabili, invece spinge spesso nella direzione
opposta.
10) INVESTI IN GIUSTIZIA. Ecco due esempi: finanza etica e impianti che consumano
meno energia. In Italia puoi investire nelle MAG (MUTUA AUTO GESTIONE)
e nella Banca Etica. Investendo poi nell’efficienza energetica puoi dimezzare
i consumi e i danni delle energie fossili come carbone e petrolio.
PER ULTERIORI INFORMAZIONI:
«CAMPAGNA BILANCI DI GIUSTIZIA», Segreteria Nazionale Venezia
Tel. 041.538.14.79
www.unimondo.org/bilancidigiustizia, bilanci@libero.it

LO ZAINO ECOLOGICO E SOCIALE
Quando acquistiamo un prodotto è come se ci portassimo
a casa solo la punta di un iceberg. In realtà,
per produrre quel bene è stata movimentata una
massa di materiali, accumulatisi nelle varie fasi della produzione
del bene stesso e depositati come rifiuto in qualche
luogo (in tanti luoghi diversi…). Questi materiali
(ghiaia, sabbia, minerali, petrolio, carbone, gas naturale,
biomassa vegetale ed animale, terreno fertile, acqua,
aria…), che non entrano nel ciclo produttivo e che noi consumatori
non vediamo, costituiscono lo «zaino ecologico»
del prodotto. Siamo abituati a considerare i «nanogrammi»
di inquinanti emessi dai camini, dalle auto…, ma non le
«megatonnellate» di materiali utilizzati a monte del prodotto
consumato e causa di un fortissimo impatto sull’ambiente.
L’indicatore «zaino ecologico» rappresenta, quindi, il carico
di natura che ogni prodotto o servizio si porta sulle spalle
in un invisibile zaino.
Questo argomento sta diventando un importante oggetto
di ricerca. In particolare, si sta studiando per inserire nell’etichetta
di ogni prodotto anche il relativo zaino ecologico,
per dare la possibilità al consumatore di rendersi
responsabile verso le proprie scelte.

Esempio 1
DALLA CIOTOLA ALL’AUTOMOBILE
Una ciotola di legno di tiglio del peso di circa 500 g ha uno
zaino ecologico di 2 kg, mentre una ciotola di rame dello
stesso tipo ha uno zaino di 500 kg. Lo zaino ecologico di
una marmitta catalitica (se il platino in essa presente non
è riciclato) pesa più di 2,5 tonnellate; 1 litro di aranciata,
in base al paese da cui proviene, può avere fino a 100 kg
di materiali nascosti; un giornale quotidiano, del peso di
soli 500 g, ha uno zaino di 10 kg; la costruzione di un’automobile
produce 15 tonnellate di detriti solidi, senza contare
l’acqua utilizzata.
Generalmente, più un prodotto è prezioso o elaborato,
maggiore è il suo zaino ecologico. Ad esempio, il «simbolo
dell’amore», un anello d’oro di circa 10 grammi, necessita
di 3,5 tonnellate di materiale minerale che vengono estratte
dalla miniera e raffinate.
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Esempio 2
DIETRO UNA LATTINA
Una lattina di alluminio pesa solo 15 grammi, un peso
apparentemente insignificante. Moltiplicato per il numero
di lattine consumate in un giorno nel mondo (circa 1 milione)
si ottiene una massa di 15 tonnellate di alluminio.
Poiché l’Al si ricava dalla bauxite, per ottenere alluminio
puro bisogna estrarre una massa di materiale che pesa 4
volte tanto, ossia 60 tonnellate. La bauxite si trova ad
esempio nella foresta amazzonica, e per arrivare ai giacimenti
è necessario deforestare una zona per la costruzione
di strade ed infrastrutture. Probabilmente migliaia di abitanti
della foresta sono stati costretti a lasciare le loro terre
e a spostarsi. Intoo alle fonderie si accumulano montagne
di detriti e di altri rifiuti industriali. Inoltre, per la trasformazione
della bauxite in alluminio, è necessaria una
grande quantità di energia elettrica, che ad esempio richiede
gasolio. Anche il gasolio, però, ha la sua storia…
(rielaborato da «Ai figli del pianeta», EMI, Bologna 1998)

Esempio 3
DIETRO L’ESTRAZIONE DELL’ORO
Per la gente di Wasse Fiase, nel Ghana occidentale, non c’è
avvenire. Il loro futuro è stato avvelenato, violentato e
annientato dalle società minerarie. Già oggi la povertà si
legge sulle facce dei senza terra e si palpa nella natura violentata.
«Siamo stati spogliati di tutto, perfino della nostra
vita – si lamenta un giovanotto sulla trentina. – Si sono
presi tutte le nostre terre per far posto alle miniere. Noi le
possedevamo dai tempi dei nostri nonni». Poi, nel 1990, il
governo cominciò ad ordinare l’estrazione di oro, giunsero
le prime società minerarie e la gente venne costretta a
sgomberare. Cominciarono così le deportazioni di massa.
Sia chi è partito, sia chi è rimasto è ridotto alla carità. «La
terra non ci appartiene più e, se ti provi a coltivare qualcosa
su un pezzo di terra abbandonato, c’è sempre il
rischio che arrivi una ruspa e ti distrugga tutto. Siamo
costretti a chiedere il permesso per qualsiasi cosa. Ma perché
dobbiamo chiedere il permesso alle imprese minerarie
per vivere nella nostra terra?» (The New Inteationalist,
marzo 1998).
(tratto da «Ai figli del pianeta», EMI, 1998, pag.33)

Silvia Battaglia




Non sono terrorista. Ma…

Ramallah, Nablus e soprattutto Jenin. Morte, distruzione e, purtroppo,sentimenti d’odio che crescono e si radicano negli animi.
Il racconto del nostro inviato nei territori occupati dalle truppe di Ariel Sharon non lascia spazio alla fantasia.

Mai mi sarei aspettato di trovarmi
di fronte ad una devastazione
del genere: Ramallah
è distrutta parzialmente,
Nablus e il campo profughi di Jenin
lo sono quasi completamente.
Lavorare è difficile. Non abbiamo
il permesso di entrare da nessuna
parte: i soldati sembrano quasi
divertirsi ad inseguire i giornalisti.
«It’s like a play: sometime you
win, sometime you lose», spiega
l’anziano riservista che ci ferma su
una stradina di campagna, mentre
per l’ennesima volta cerchiamo di
raggiungere il campo di Jenin. Da
sempre i signori della guerra non
amano fotografi e
giornalisti. E la
guerra di Sharon
non fa
eccezione, come subito possiamo
rendercene conto.
Al quarto tentativo, dopo aver attraversato
quasi tutto il territorio
palestinese occupato dalle truppe
israeliane, riusciamo a raggiungere
la periferia del campo profughi di
Jenin.
Qui si sta ancora sparando.
Torkam, un palestinese di
50 anni, ci offre rifugio nella
sua casa. Pur avendo perduto
quasi tutto, ci prepara una tazza di
caffè.
«Ho lavorato 20 anni in Arabia e
sono tornato in Palestina per vivere
una vecchiaia tranquilla» ci dice.
E prosegue: «Il 3 aprile i soldati sono
entrati con la forza nella mia casa.
Ci hanno legato le mani con il
nastro adesivo, hanno separato
gli uomini dalle donne e i bambini;
questi ultimi sono stati fatti
sdraiare nel prato dove sono
rimasti fino alla sera del giorno
dopo. A noi è toccata la sorte
peggiore: ci hanno bendati e fatti
uscire. Pur non vedendo, mi
sono reso conto di trovarmi
di fronte ad
un plotone d’esecuzione.
Quando ho
sentito che venivano
caricati
gli M16, ho
pensato che
fosse arrivata
la mia
ora». Fortunatamente i soldati al
momento decisivo hanno sparato
in aria. Ma Torkam ci assicura che
lo spavento è stato grande. Non
stentiamo a crederlo…
Poco più in là troviamo riparo in
un’altra casa, mentre i soldati continuano
i pattugliamenti antigiornalista.
Abdala, il più anziano della
famiglia, inizia a parlare: «La mia
casa è stata occupata per due giorni
da più di cento soldati». Entriamo.
L’abitazione è stata ripulita,
ma sono ancora bene evidenti le
scritte in ebraico sui muri e sulle
porte. Le finestre dell’ala sud sono
distrutte. «La mia casa è in una posizione
ideale per sparare sul campo
», ci spiega Abdala, mostrandoci
un bidone pieno di bossoli.
«Siamo senza acqua, cibo, luce,
elettricità e telefono. Solo una volta
le Nazioni Unite sono riuscite a
portarci un po’ di latte in polvere
per i bambini. Io voglio vivere in
pace, non sono un terrorista; ma la
verità è che adesso li odio». Fissa lo
sguardo nel vuoto e trova ancora
la lucidità di ripetere: «Odio Sharon
e i suoi soldati».
Pare che i tanks si siano spostati.
Con altri tre colleghi decidiamo
di tentare la sorte e correre
per i pochi metri che ci separano
dal campo. Appena dentro,
quello che si presenta ai nostri occhi
è indescrivibile: centinaia di case
completamente distrutte, l’acqua
scorre senza sosta dai tubi spezzati,
il fetore è insopportabile. Mi vedo
costretto a strappare un pezzo della
mia maglia per coprirmi naso e bocca.
Il centro del campo e la zona di
Haret Hawashin non esistono più.
È come se tutta la zona fosse stata
colpita da un terremoto al massimo
grado della scala Mercalli.
Dove sorgeva il quartiere di Harat
Sbedi ci sono solo ruderi. In
quello che resta di una casa vediamo
i primi cinque morti. La puzza
è sempre più insopportabile e perdiamo
la lucidità. Quello che notiamo
ci sembra strano: sul muro i
buchi delle pallottole sono concentrati
ad altezza uomo, quasi tutti
in un angolo della stanza. Un
dubbio atroce ci assale: che sia stata
un’esecuzione?
La moschea ci pare, a prima vista,
in buone condizioni, ma quando
entriamo ci dobbiamo ricredere.
È tutto completamente devastato:
sono stati sparati centinaia e
centinaia di colpi. All’uscita incontriamo
Sonia, che appena ci vede
inizia a piangere e, singhiozzando,
ci domanda: «Dove sono gli arabi,
i musulmani, gli stranieri?».
«Hai ragione Sonia, ma non ho
una risposta!». È in questi momenti
che chi fa questo mestiere si
sente completamente impotente:
personalmente, provo che siamo
tutti colpevoli!
La presenza di alcuni sparuti
giornalisti e fotografi che circolano
per il campo danno il coraggio alle
poche persone rimaste di uscire allo
scoperto e a quelli che sono scappati
nei villaggi vicini di tentare di
rientrare nel campo.

IMMIGRATI, RISfidando
tanks e cecchini israeliani,
appostati chissà dove, iniziano
ad arrivare le prime donne. Pare
che ci sia stata una sospensione
del coprifuoco per alcune ore; ma
cercare di entrare è ancora difficile
e bisogna affidarsi alla sorte.
Reada piange disperata su ciò
che resta della sua casa: «Ci ho
messo quasi vent’anni a costruirla
e in un giorno gli israeliani l’hanno
distrutta. Non ho più nulla. Non so
dove sia mio marito; mio figlio è
stato colpito da un cecchino e nessuno
ha potuto soccorrerlo. Credo
che sia qui sotto da qualche parte.
Io sono scappata con i miei due figli
più piccoli, ma adesso sono tornata
e, anche se dovrò ricominciare
da capo, ricostruirò tutto. I miei
genitori sono dovuti scappare da
Haifa nel 1948. Io, che sono nata
qui da due profughi, dovrei forse
andarmene per essere profuga una
seconda volta? Quando me ne andrò
da Jenin è solo ed esclusivamente
per tornare ad Haifa».
Sembrano naufraghi. Si aggirano
in lacrime cercando di ricordare
dove fosse la loro casa; scavano a
mani nude fra le macerie. «Qui c’era
la mia casa», dice una donna. Le
macerie ricoprono, per quasi 3 metri,
quello che una volta era il manto
stradale.
«I soldati hanno sfondato la porta
dei miei vicini. Questi, non avendo
via di uscita, si sono riparati in
una stanza. Poco dopo i bulldozer
l’hanno tirata giù; è lì che dovete
cercare quelle cinque persone», ci
racconta un’altra donna che si ritiene
fortunata, perché è riuscita ad
uscire in tempo dalla sua di casa.
Seduto su un cumulo di macerie,
Amhed sostiene che lì sotto ci siano
due suoi amici: «Non cercate
troppe fosse comuni. Il vero cimitero
è Jenin». Un’altra donna:
«Qui è passato il diavolo e, quando
parlo di diavolo, parlo di Israele,
dell’America e di tutto il mondo».
Può anche essere vero che, come
dice Sharon, il 50 per cento
dei kamikaze palestinesi
arrivasse da questa zona, ma da
quello che vediamo non si è fatto
assolutamente nulla per ridurre i
morti civili.
Non dovevano essere quelle che,
con enfasi, si chiamano «operazioni
chirurgiche»? Nelle strade e all’interno
delle case rimaste in piedi
tutto è stato demolito. Ovunque ci
sono abiti, pentole, frigoriferi, giocattoli…
Qui, con la morte, è arrivato anche
il disprezzo.

Davide Casali




Simmetria fatale

Lei opera nell’ebraismo italiano dall’età di 15 anni; si riconosce nel movimento
«Shalom Achshav» (Pace adesso); è segretaria di redazione di «Ha-Keilà»
(La comunità), giornale ebraico, edito a Torino.
Lui, consulente aziendale, è agnostico in seguito alle tragedie
che hanno colpito la sua famiglia durante le «leggi razziali» (fascismo);
è impegnato nel dialogo interculturale.
L’opinione di Alda Segre e Franco Debenedetti, ebrei di Torino.

Signora Alda e signor Franco, voi
contate numerosi parenti in
Israele. Come vivono e come vivete
l’attuale dramma del paese?

Alda: con il terrore che succeda
la tragedia. Quando avviene un attentato,
non telefono più, perché è
inutile… I parenti in Israele divergono
dalle mie idee politiche; quelle
poche volte che ci telefoniamo,
discutiamo. In Israele alcuni conoscenti
(che credevano nella strategia
di «Pace adesso») oggi concordano
con la politica di Ariel Sharon,
perché esasperati dal terrore
quotidiano.
Franco: c’è forte preoccupazione
per i giovani che hanno già fatto il
servizio militare e che, tuttavia, possono
essere richiamati nell’esercito.
Però ammiro le loro famiglie, perché
vivono la precarietà quasi con
normalità, continuando a lavorare.
Gli ebrei hanno patito la «shoa»
(olocausto), che ha coinvolto anche
le vostre famiglie. Esiste oggi
un serio pericolo di un ritorno all’antisemitismo?</b<
Alda: il pericolo esiste, anche se
non nelle dimensioni della «shoa»;
questo perché c’è lo stato di Israele
e le comunità ebraiche nel mondo si
sono rafforzate. È da temere l’antisemitismo
politico-religioso: gli attacchi
contro gli ebrei in Francia
(circa 400 in 20 giorni) sono eloquenti.
Vi sono pericoli anche in
Russia, Polonia, Germania. In Italia
noi ebrei ci sentiamo tutelati dallo
stato; però non siamo tranquilli.
Franco: con la globalizzazione si
possono diffondere, ad enorme velocità,
delle informazioni fittizie sugli
ebrei: informazioni che influenzano
negativamente i comportamenti
di molti «che non sanno».
Esiste anche il pericolo di un antisemitismo
verso persone che non
hanno niente a che fare con lo stato
di Israele. Il privilegiare immagini
virtuali (non fatti) genera sentimenti
ostili con conseguenze imprevedibili.
Ciò serve politicamente a qualsiasi
estremista (nazisti, integralisti
musulmani o di altro credo), per acquisire
un forte ascendente su masse
insoddisfatte, per gestie le frustrazioni
al fine di ottenere potenza
e ricchezza. Servono capri espiatori,
colpiti e criminalizzati indiscriminatamente
senza alcun presupposto
razionale.
Ecco un esempio: «Un signore
cammina nella civilissima Parigi dei
Champs Elisées tra fiumi di turisti;
porta una borsa di plastica con il disegno
del candelabro rituale, presa
in una boutique del Marais. Tre magrebini
sui 15 anni, i capelli rasi, lo
affiancano, sputano per terra e gridano
“sporco ebreo!”, guardando-
lo dritto negli occhi. Poi il più giovane
gli torce la guancia sinistra ridendo
come un matto. I passanti distolgono
lo sguardo. Un plotone di
giapponesi non si accorge di nulla.
La polizia non c’è. Potrebbe ora arrivare
uno che ha votato per Le Pen
e godere dello spettacolo…».
In altri casi e momenti si sono colpiti
i curdi, gli armeni e gli stessi palestinesi…
Il 15 aprile a Roma si è celebrato
l’«Israel day». È stata una marcia
che ha rivendicato il diritto di esistere
per Israele. E che dire della
Palestina?

Franco: la Palestina ha ogni diritto
di essere uno stato.
Quanto all’«Israel day», non sono
stato affatto d’accordo con la marcia.
Marce del genere alimentano l’antisemitismo
e vengono manipolate:
così si confonde, ad esempio, «israeliano
» con «ebreo»; il che è grave.
Gli ebrei che hanno preso parte
all’«Israel day» l’hanno fatto sotto
l’impulso di emozioni; dovrebbero
ragionare di più. Però non sono
estremisti, come è apparso in tivù.
Alda: il diritto dei palestinesi di
avere uno stato è fuori discussione.
Ma sono manovrati dai paesi arabi
vicini e sono vittime dei loro stessi
musulmani.
La risoluzione dell’Onu 181 del
29 novembre 1947 prevedeva la divisione
della Palestina in uno stato
ebraico e uno stato palestinese. Gli
ebrei l’hanno accettata, mentre gli
stati arabi l’hanno rifiutata, convinti
di «poterli buttare in mare» in pochissimo
tempo. Da qui è cominciato
il dramma dei profughi palestinesi.
Poi si sono compiuti errori da par-
te sia degli israeliani che dei palestinesi.
L’«Israel day» è stata una risposta
sbagliata (manipolata da Giuliano
Ferrara) alla manifestazione per la
pace che si era svolta a Roma, aperta
da palestinesi vestiti da «kamikaze
», e con mons. Capucci sul palco;
tanto che i sindacati, DS e Margherita
si sono allontanati dal corteo.
Abbiamo bisogno dell’apporto di
persone, non coinvolte emotivamente,
in grado di dire a ragion veduta
«questo è giusto» e «questo è
sbagliato»: persone che non sfruttino
né Israele né Palestina a loro uso
e consumo.
Pertanto ne consegue un dialogo
fra sordi.

Spesso sì.
In tale contesto come valutate i
«kamikaze» palestinesi e le rappresaglie
di Sharon?

Franco: il binomio kamikaze-rappresaglia
in psicologia si chiamerebbe
«simmetria»: tutti vogliono avere
ragione. Allora c’è una sovrapposizione
continua, che non finisce mai.
Purtroppo in Israele manca un
anti-Sharon, come Yitzhak Rabin.
Egli fu il generale che vinse tutte le
guerre e stava per vincere pure quella
della pace; fu ucciso da un cretino
su commissione di estremisti
israeliani o arabi. Data la «simmetria
», Rabin era scomodo a tutti.
Quanto ai «kamikaze» suicidi che
uccidono innocenti, essi sono manipolati;
la colpa non è loro, ma di chi
li manda al macello. Siamo di fronte
ad un completo lavaggio del cervello
per fini religiosi.
Alda: i «kamikaze» riguardano
un problema politico-religioso. Sono
dei «disgraziati» manovrati: mi
spaventano per la mancanza di rispetto
verso la vita umana, da parte
loro e delle loro famiglie.
Se non c’è rispetto per la vita, dove
si va a finire?
Signora Alda e signor Franco, è
possibile uscire, una volta per sempre,
dal conflitto Israele-Palestina,
che perdura da oltre 50 anni?

Alla domanda, scontatissima, gli
intervistati ammutoliscono abbassando
lo sguardo con un triste sorriso.
Poi…
Franco: secondo la mia formazione
ingegneristica (quindi limitata),
penso che bisogna uscire dalla simmetria.
Ciò dipende dagli Stati Uniti
e dai grandi stati arabi. Però dubito
che ne escano facilmente.
Ma che intende, signor Franco,
per simmetria in questo caso?

Rispondo mostrandole
un disegno: sono
due biciclette unite,
che pedalano
in direzione opposta;
rappresentano
Israele-Palestina
e Stati Uniti-
Stati Arabi.
Tuttavia mi auguro
che sorga un nuovo Rabin,
oppure che entri in scena un
nuovo e forte stato catalizzatore…
Nella simmetria giocano le grandi
forze di potere. Israele e Palestina,
da soli, non possono sciogliere il nodo
che li strangola.
Signora Alda, il nodo israelo-palestinese
non si può proprio sciogliere?

Ne abbiamo parlato anche nella
nostra comunità ebraica di Torino.
E un oratore diceva: «È difficilissimo
uscire dal conflitto, perché si è
di fronte a due individui… che hanno
entrambi ragione».
E si ricade nella simmetria.
Purtroppo!… Ma il ritiro di Israele
dai territori occupati non giova
molto ai palestinesi, perché si trovano
senza lavoro, senza infrastrutture
e con pochissime possibilità di
sviluppo. Questa è stata già una grave
colpa di Yasser Arafat e del suo
entourage: nei loro territori bisognava
per prima cosa creare scuole,
ospedali, posti di lavoro. Si parla dei
profughi di Jenin: da circa 30 anni
sono tali! A Gerico l’autorità palestinese
ha costruito un casinò, frequentato
anche da israeliani danarosi.
Francamente, troppo poco!
I leaders palestinesi non incarnano
l’idea di uno stato democratico,
dove tutti i cittadini possono e devono
esprimersi. I palestinesi hanno
ogni diritto e possibilità di farlo,
senza essere in balia di qualche potente
stato arabo.
D’altro canto, Israele stesso è a sovranità
limitata… E anch’io, come
Franco, sogno un nuovo Rabin per
vincere la battaglia della pace.

La tattica del «souk»
«Mi sia consentito – ha detto ALDA SEGRE al termine dell’incontro rivolgendosi
all’intervistatore – aggiungere tre osservazioni. La prima: mi ha stupito,
positivamente, che lei abbia parlato di Israele e non di “terra santa”. Per
noi, ebrei, questo è l’approccio giusto. Parlare di “terra santa” può portare a speculazioni.
Seconda: non so fino a che punto le nostre idee su Israele possano interessare
gli italiani: stando ai mass media, essi sono più interessati alla chiesa
di Betlemme, alla Madonna che è stata colpita, ai frati che fanno la fame, ecc. E
si dimentica il dramma dei palestinesi che stanno intorno.
Ultima considerazione: dobbiamo guardarci dal voler risolvere il “problema palestinese”
con la mentalità europea, mentre in loco predomina quella araba. L’arabo
si comporta diversamente; usa la tattica del souk (mercato): si annuncia il
prezzo, che poi viene scontato una, due, tre volte… A mio parere, la mentalità
del mercato ha danneggiato anche Arafat nelle sue scelte politiche».

Integralismi alleati
«Anch’io aggiungo qualcosa – ha affermato FRANCO DEBENEDETTI -. Quale
migliore alleato potevano trovare i potenti integralisti islamici se non il piccolo
e miope Sharon?».

Francesco Beardi




I CUMULI DELL’ODIO

«Sembra che in Terra Santa sia stata dichiarata guerra
alla pace! Ma la guerra nulla risolve, né servono
ritorsioni o rappresaglie…
Cristo impegna noi, suoi discepoli
a rimuovere ogni causa di odio e vendetta
»
(Giovanni Paolo II, Pasqua 2002).
«Un tempo i cardinali si chiudevano in conclave e
non uscivano finché non avevano eletto il papa.
Facciamo la stesso con Arafat, Sharon e Bush:
che non escano senza aver sottoscritto prima
la pace
» (Susan George, Missioni Consolata,
dicembre 2001).

«No, non siamo perfetti»

Gerusalemme, 28 settembre 2000:
Ariel Sharon sale sulla «spianata delle moschee» (per i palestinesi)
o sul «monte del tempio» (per gli israeliani).
È la goccia che fa traboccare il vaso, per l’ennesima volta.
Però «questa volta» non scatena solo l’«intifada» delle pietre,
ma attacchi terroristici a pioggia, con autobombe e «kamikaze»,
ai quali l’esercito israeliano risponde con carri armati, assedi alle città, stragi.
Da ambo le parti le vittime sono troppe.
È dal 1948 che il «nodo israelo-palestinese» attende di essere sciolto…
Nell’ultima «tragedia annunciata» alcuni scrittori israeliani
ci sorprendono, positivamente, per la loro lucidità intellettuale.

a cura di Silvana Bottignole

Alcune voci rappresentative di
scrittori d’Israele hanno fatto
conoscere all’Italia una
letteratura rigogliosa e sorprendente.
Infatti, negli ultimi 10 anni, sono
state tradotte nella nostra lingua oltre
100 opere di una quarantina di
scrittori israeliani.
Come spiegare questa esplosione
creativa in Israele, un paese poco più
grande del Piemonte? E che cosa
raccontano gli scrittori? Come vivono
i drammi del passato e del presente,
pesanti macigni per il popolo
della «terra santa» e per tutta l’umanità?
A Torino gli autori Batya Gur, Etgar
Keret e Dorit Rabinyan, presentati
da Elena Loewenthal (esperta di
letteratura israeliana e editorialista di
«Tutto Libri» per La Stampa), ci
hanno resi partecipi degli ideali, dei
drammi e delle speranze del popolo
d’Israele, ispiratore dei loro racconti.
Loewenthal ha inquadrato il fenomeno
letterario d’Israele con alcune
magistrali pennellate, capaci di introdurci
in un paesaggio «dai toni
cangianti».
«La letteratura israeliana – ha affermato
Loewenthal – è una letteratura
militante accanto alla storia, che
critica anche la storia stessa. Da tanti
anni lavoro per amore di questa
letteratura. Nei primi tempi, allorché
proponevo agli editori italiani
opere israeliane, mi accorgevo che
per loro si trattava di un corpo alieno
che non destava nessun interesse,
se non uno sguardo sbigottito.
Adesso la letteratura israeliana è entrata
nel circuito dei lettori italiani in
tutta la sua varietà e i suoi colori cangianti».
«Vorrei evocare la strana nostalgia
che si prova quando si ascolta o si
legge di Israele: una nostalgia che
prende anche chi non c’è mai stato,
come pure chi è già lì. Rapporto strano,
che forse deve qualcosa a questa
lingua, dalla storia e dal cammino
lunghissimo, che provoca una sensazione
intraducibile, una nostalgia
allegra, vivace».
Perché Israele, così piccolo, abbia
una produzione letteraria così varia
e significativa è, per alcuni versi, un
mistero; e, come tutti i misteri, è utile
per porsi delle domande.
«Nella bibbia sta scritto: “Non ti
farai alcuna immagine – dice Dio all’uomo -”.
Questo comandamento
ha implicato moltissimo sul piano
della storia, della coscienza di sè e
del rapporto della cultura e lingua
ebraica con il mondo che ci circonda.
Come è noto, l’arte figurativa ha
avuto scarsa eco e produzione nel
mondo ebraico. Ritengo che la sua
comunicazione sia fatta esclusivamente
di parole. Come con il cielo si
comunica attraverso la parola (e non
con la contemplazione e il silenzio),
così l’ebraismo comunica da sempre
con il mondo attraverso le parole».
Le suggestioni, i simboli e i significati
dell’ambiente esterno vengono
manifestati e trovano spazio sulla pagina.
La letteratura israeliana rappresenta
un modello forte di rapporto
con il paesaggio; e la sua descrizione
avviene più attraverso le
parole che l’arte figurativa. La pittura
e la scultura stanno arrivando in
Israele; però la scrittura ha una tradizione
millenaria.
«Il gioco dei contrasti è una caratteristica
forte e una grande dote della
letteratura; ambientata in uno spazio
geografico ridotto, offre numerose
immagini geografiche. Si va
dalla vita in kibbutz
(con prati quasi all’inglese, che declinano
verso il Mediterraneo dalle
spiagge selvagge) al deserto lunare
ed impalpabile di Giudea e la depressione
del Mar Morto».
«Gli autori spaziano con le loro
descrizioni: si passa da un ambiente
rurale e quasi atavico, come quello
nei libri di Shalev, al mondo urbano,
suburbano e metropolitano in cui
nuota Etgar Keret; dalla periferia
delle città alla vita di provincia in
tante altre località, come quelle scelte
da Yehoshua per rappresentare
Haifa, che sente i vizi e le virtù della
città provinciale. Ci sono boschi, deserti,
mari. C’è una varietà di orizzonti
che fa sì che le culture diverse,
approdate in terra d’Israele, incontrino
quelle europee e quelle che
stanno emergendo.
Dorit Rabinyan, una delle scrittrici
più rappresentative, ci trasporta in
un Israele che proviene dall’ebraismo
orientale, ma inserito in un contesto
islamico o arabo».
«Questa letteratura – ha detto ancora
Loewenthal – ha la capacità di
dilatare il paesaggio e fae vivere
ogni sfumatura, offrendoci orizzonti
geografici e dell’anima estremamente
ampi».

GUR: «LA MIA PATRIA
NEL BENE E NEL MALE»

Nata a Tel Aviv
nel 1947, Batya
Gur ha pubblicato
il suo primo romanzo
poliziesco
a 39 anni e non
ama che i suoi
scritti siano definiti
«di evasione». Gur abbraccia le teorie del poeta
W.H. Holden, che dichiara: «Le
persone leggono romanzi polizieschi
non tanto per scoprire il “colpevole”,
ma per rafforzare il loro senso di
innocenza». Perciò «sappiamo che
il romanzo poliziesco è tipico delle
società coloniali con una mutua colpevolezza
nazionale».
La scrittrice israeliana con molta
franchezza dichiara: «Ho condotto
un’esistenza parallela a quella dello
stato d’Israele (creato nel 1948). Sono
nata e cresciuta quando fu fondato
e ho creduto nel suo “ben sperare”
per offrire un “giusto focolare”
agli ebrei. Non posso dire di
essere anti-sionista e non posso affermare
che sia stato tutto un grande
sbaglio o qualcosa del genere.
Israele è la mia patria nel bene e nel
male. Nella fase attuale sta più dalla
parte del male.
Quando parlo di colpa nazionale,
penso al fatto che si desiderava creare
un movimento socialista con ideali
di purezza per coltivare il suolo della
“terra santa”, e iniziare una società
giusta ed uguale. Questo è stato fatto
con così tanti peccati e così terribili
eventi che non ha permesso a
questa forma pura di vivere, a causa
della colpa nazionale.
Il mio romanzo poliziesco Omicidio
nel kibbutz, per esempio, è stato
ambientato in questa società chiusa
d’Israele per investigare su un delitto.
Il libro, scritto nel 1990-91, è
emerso inconsciamente dal desiderio di erigere un “monumento” ad
un fenomeno che si stava estinguendo
o distruggendo: il nuovo stato
d’Israele iniziava a diventare colonialista…
Penso che, se avessi scritto
il libro 10 anni prima, sarei stata
crocifissa nello stato d’Israele, perché
la società del kibbutz rappresentava
il 10% del paese ed era considerata
la parte migliore dell’ideologia:
rappresentava i grandi ideali
di uguaglianza, di parità tra i generi,
di giustizia. Tutto questo si è realizzato
nei kibbutz dagli anni ’50 sino
all’inizio degli anni ’90.
Non ho mai vissuto in un kibbutz,
ma non si può vivere in Israele senza
visitare e conoscere un kibbutz,
perché ha veramente riassunto tutti
i desideri e i grandi ideali che hanno
ispirato quella società chiusa. I nuovi
sviluppi nello stato d’Israele hanno
trasformato i kibbutz in una coice
senza contenuti.
Da quando il libro è stato scritto
ad oggi il kibbutz è in bancarotta. Da
un punto di vista ideologico si è trasformato
in un ente privato: si pagano
salari ai dipendenti, la gente nel
kibbutz può acquistare i propri appartamenti
e deve pagare il cibo nel
refettorio. Quando scrissi il libro si
era solo all’inizio di questo processo.
Ho, perciò, raccontato come i bambini
dormivano insieme, accuditi da
una governante, e come erano cresciuti
insieme, lontani dalle famiglie.
Ho cercato di raccontare come si
sentivano. Il libro è un confronto tra
la vecchia e la nuova generazione
della società dei kibbutz».

KERET: «LA PACE È BUONA,
LA GUERRA È…»

Anche Etgar Keret
è nato a Tel
Aviv nel 1967 (generazione
successiva
a Batya Gur).
Scrive per la televisione
israeliana
e lavora per la Tel
Aviv University
School of Film. Ci ha raccontato come
nascono i suoi racconti, a detta
dei critici, pervasi da «ironia corrosiva
». «Il tempo tra il risveglio
(quando ancora ci si deve lavare la
faccia) e la tazza di caffè è il periodo
in cui molte delle mie storie hanno
luogo. Momenti in cui uno si ritrova
tra l’essere una persona normale,
pronta ad andare al lavoro, ed un
pezzo di argilla che il Signore volle
trasformare senza molto successo in
un essere umano.
Le ragioni si trovano nel fatto che
il Dio degli ebrei non ha una forma
corporea, al contrario di Gesù che si
può vedere. Da questo discende tutta
una cultura astratta. Anche il sionismo
(2), conosciuto da bambino,
è stato per me un’ideologia astratta,
difficile da sentire: mi è sempre sembrata
piena di contraddizioni e di
grande ansietà per gli scampati dall’olocausto.
Tutti i nostri libri per ragazzi erano
pieni dei grandi eroi d’Israele; ce
n’era uno in particolare, Danet
Dean (parlo del 1950-60), che era
speciale. Era un personaggio eroico
che lottava sempre per la sopravvivenza
di Israele ed aiutava il suo paese,
spiando le nazioni arabe o salvando
bambini dall’essere rapiti. Ma
aveva una particolarità: era invisibile.
Credo non per caso. Per tantissimi
bambini israeliani come me, la figura
letteraria ideale è stato appunto
un personaggio invisibile:
nessuno sapeva com’era fatto.
Tanti della mia generazione si trovano
a far parte di una società che è
stata plasmata da un’ideologia; ma
tale ideologia ci è diventata invisibile,
come il personaggio a cui accennavo
prima. Per lo più la società
sembra fare riferimento al grosso
buco di una ciambella. A partire da
tale buco, noi cerchiamo di ricostruirci
un’identità e un futuro per
mezzo di strumenti di alta spiritualità
(come lo studio della bibbia) o
cose pratiche e pragmatiche (come
risolvere i problemi del Medio
Oriente).
Alcuni scrittori, come Dorit ed io,
cercano di ricostruire qualcosa del
nostro passato. Infatti siamo nati e
vissuti in una nazione che ha preso
la sua gente da paesi diversi e, ciò facendo,
ha sradicato le persone. I
nonni di Dorit sono immigrati dalla
Persia; i miei nonni sono immigrati
in Israele dalla Polonia dopo la seconda
guerra mondiale. Ciò ha comportato
uno sradicamento, oltre che
un trasferimento, un’immigrazione.
Dorit Rabynian in Spose persiane
racconta, con successo, una storia
che si svolge in un paese straniero,
ricollegandola attraverso le generazioni
femminili alla sua storia personale.
Io non ho altrettanto successo
nel tentare di ricostruire il mio passato,
ma penso di riuscire a raccontare
il presente. Nella Poetica di Aristotele
si legge che l’arte dovrebbe
imitare la vita così com’è. La vita è,
però, assai più complessa di qualsiasi
manifesto politico.
Anni fa scrissi un racconto (pubblicato
da un giornale), ambientato
nei territori occupati, che descriveva
lo scontro violentissimo tra un
soldato israeliano ed un palestinese.
Ricevetti moltissime lettere, in cui i
lettori mi accusavano delle cose più
varie ed estreme: uno mi ha accusato
di essere un estremista di sinistra,
affetto da una sindrome di odio verso
se stesso; un altro mi ha accusato
di essere un estremista di destra, un
fascista.
Ora il fatto che ci fosse questa diversità
di interpretazioni, per me, è
stato un complimento. Si può, perciò,
scrivere un racconto provando
empatia per un personaggio o per
un altro. Se in Israele facessimo così
nella vita di ogni giorno (cioè simpatizzare
e fare propria in parte la
causa dell’uno, ma anche dell’altro),
non saremmo arrivati al punto in cui
siamo. È stato scritto che l’arte ha
due ruoli: estraniare ciò che ci è familiare
e renderci familiari a ciò che
ci è estraneo.
Frasi ovvie come “la pace è buona,
la guerra è brutta e non bisogna
farla” sono slogan da scrivere sugli
adesivi che si appiccicano sui paraurti
delle auto. La verità è che ci
sono tante storie che si possono raccontare,
inviando al lettore un messaggio
altamente morale, sovente assai
più pragmatico di quello che è
contenuto in qualsiasi manifesto politico».
ETGAR KERET: Mi manca Kissinger
(Theoria 1997); il racconto La triste
storia della famiglia Nemalim in
«Nuovi narratori israeliani» (Theoria
1998); il racconto Paride e Venere,
in «Amori, raccontati dai più
grandi narratori israeliani» (Stampa
Alteativa 1999)

RABINYAN: «NOI
ISRAELIANI IMMIGRATI…»

Dorit Rabinyan,
nata nel 1972 a
Kfar Saba da una
famiglia emigrata
dall’Iran, vive a
Tel Aviv. Ha
scritto due romanzi,
un libro
di poesie e la sceneggiatura
di un
film per la televisione. Con il romanzo
Spose persiane, in cui rievoca
le sue radici iraniane, rivela una
forte empatia con il mondo arabo.
«Noi israeliani non abbiamo solo
un passato glorioso, ma anche un
presente terribile; lo dobbiamo affrontare
ogni volta che ci sediamo al
computer per scrivere le storie che
vengono dal nostro cuore. Le brutte
notizie, trasmesse ogni giorno dalla
radio e televisione israeliana, non
sono una gabbia, ma solo un momento
di quel male che viene fatto
da anni contro un altro popolo in cui
tutti quanti noi viviamo immersi.
Noi non siamo in una gabbia; ma il
senso di colpa continua a ferire chi,
come noi, non ha muscoli irrigiditi
della coscienza.
La nostra scrittura è veramente in
contrasto con quella della generazione
di Batya Gur e il messaggio inculcato
a quella generazione: il messaggio
sulla creazione dello stato di
Israele, che voleva essere il centro
verso cui far convergere gli immigrati
provenienti da tutto il mondo,
pretendendo però che si adeguassero
per essere degni di essere chiamati
israeliani.
Per me (e credo di interpretare il
pensiero di Keret) scrivere è cercare
di rifiutare la pretesa del sionismo
di creare una figura ideale di ebreo,
per restare invece noi stessi
per quanto possibile:
senza dover
per forza convergere e sentire di doverci
uniformare, ma restare la voce
di una minoranza che si esprime.
Non tutti devono per forza essere
israeliani perfetti per appartenere a
questo paese. Voglio anche pensare
che sia possibile per noi appartenere
ad Israele, pur restando noi stessi.
Siamo israeliani fatti in un modo
diverso, forse alternativo».
DORIT RABINYAN: Spose persiane
(Neri Pozza 2000)

Elena Loewenthal ha terminato
la presentazione degli
scrittori commentando:
«Tutti gli israeliani fanno parte di
uno sradicamento, eccetto Yehoshua,
che si sente una pianta e non
uno sradicato, perché appartiene alla
generazione del paese.
C’è pure la coscienza, più o
meno vasta, che lo sradicamento
è la condizione della
sopravvivenza. Ogni
israeliano sa che, se il
padre o il nonno o egli
stesso non fosse stato
sradicato (vuoi dalla Persia,
vuoi dalla Polonia, vuoi
dal resto del mondo), non esisterebbe
più. Questo senso di
essere dei sopravvissuti, anche
a due o tre generazioni di distanza
dagli eventi storici più diversi
(non mi riferisco soltanto
alla shoa/olocausto), è parte di un
comune destino ebraico, che è quello
di essere comunque tutti dei sopravvissuti.
Primo Levi ci ha raccontato quale
groviglio emerge, nella coscienza
di ciascuno di noi, quando si tenta
di esplorare il senso di essere dei
“sopravvissuti”. Tutto questo si riflette
nella letteratura israeliana, anche
a distanza, in forme e rifrazioni
estremamente varie con i risultati
che vediamo.
Non vorrei, però, che si creasse
nel lettore che si avvicina per la prima
volta alla letteratura israeliana un
equivoco: pensare che qualunque libro
proveniente da Israele non contenga
altro che la profonda lacerazione
della coscienza, dovuta al fatto
di vivere in un paese come questo.
Questa letteratura è grande, anche
a prescindere da quello che si è costretti
a vivere ogni giorno: entrare
magari in un supermercato e… non
uscie vivi, perché un kamikaze si
butta dentro ed ammazza numerose
persone.
La letteratura israeliana è (forse
anche per questo e a prescindere da
questo) una grande letteratura, ricca
di diversità e pluralismo. Non a
caso ho parlato di “paesaggi cangianti”,
di varietà di toni, di colori e
orizzonti che regalano alla letteratura
una varietà ed un impegno piuttosto
unici. Ci troviamo di fronte a
scrittori capaci di riflettere criticamente
sulla realtà che li circonda».

(1) Kibbutz: insediamento di un gruppo
israeliano con i beni in comune.
(2) Sionismo (da Sion): movimento politico-
culturale all’origine della nascita
del moderno stato di Israele. Antisionismo
e antisemitismo non coincidono.

NON COMBATEREMO PIÙ
QUESTA GUERRA

Noi, ufficiali e soldati di riserva della Forza di difesa di Israele,
siamo cresciuti con i principi del sionismo, del sacrificio e del
dono per il popolo di Israele; abbiamo sempre servito in prima linea
e siamo stati i primi a terminare qualsiasi missione, leggera o
pesante, per proteggere e rinforzare lo stato di Israele.
Noi, ufficiali e soldati di combattimento, abbiamo servito Israele
per tante settimane. Ogni anno, a scapito delle nostre vite, abbiamo
operato da riserve in tutti i territori palestinesi occupati e abbiamo
ricevuto ordini
che non hanno niente
a che vedere con la sicurezza
della nostra
nazione, ma mirano
solo a mantenere il
controllo sul popolo
palestinese.
Noi abbiamo visto
con i nostri occhi il
prezzo di sangue che
questa occupazione
esige da entrambe le
parti.
Noi sentiamo che gli
ordini ricevuti nei territori
palestinesi distruggano
ogni valore
assorbito crescendo
in questa nazione.
Ora noi sappiamo che
il prezzo, pagato all’occupazione,
è la
perdita di umanità da
parte della Forza di
difesa di Israele e la
corruzione dell’intera
società locale.
Noi sappiamo che i
territori occupati non
sono Israele e che gli
insediamenti sono destinati
ad essere evacuati.
Pertanto dichiariamo
che non combatteremo
più la
guerra degli insediamenti. Non dobbiamo continuare a combattere
al di là dei confini di Israele del 1967, con lo scopo di dominare,
espellere, affamare e umiliare un popolo intero.
Continueremo il servizio nella Forza di difesa di Israele in ogni
missione utile alla sua salvaguardia. Ma le occupazioni e oppressioni
non servono a questo scopo e noi non avremo più parte alcuna
in esse.
Dichiarazione del 16 marzo ’02, sottoscritta da 451 soldati (6-05-’02)
Testo (in ebraico e inglese) apparso sul sito
www.seruv.org.il

S. Bottignole Francesco Beardi D. Casali




SANTONI, DEE BAMBINE E CIOTOLE DI RISO

L’India del Gange, il Nepal della dea «Kumari»,
il Vietnam delle tribù. Istantanee da tre paesi asiatici,
osservati e fotografati con grande interesse. Rispettando e apprezzando le diversità religiose e culturali.

S ono partita con l’amico
RENZO MILANESIO,
scrittore ed esploratore.
Destinazione: Varanasi, città
santa dell’India. Abbiamo
proseguito verso Katmandu,
capitale del Nepal. Siamo stati
anche in Vietnam, con un
itinerario da Hanoi ai villaggi
nord-occidentali abitati da
minoranze etniche.
Renzo ed io viaggiamo sempre
alla scoperta di nuove realtà. I
nostri ultimi viaggi ci hanno
fatto percorrere la grande steppa
della Mongolia.
Ed è ancora l’oriente la nostra
meta, con l’obiettivo di ritrarre la
vita infantile. L’esperienza
rientra in un progetto, ideato da
Renzo, che ha come protagonisti
i bambini nel mondo: la loro
condizione e quotidianità,
nonché il futuro che loro si
prospetta.
Abbiamo ammirato bambini
dagli occhi grandi camminare
sicuri e liberi per i sentirneri della
loro terra, abbiamo assistito ai
loro giochi fantasiosi. Abbiamo
constatato il loro ruolo sociale
nel lavoro dei campi, nella cura
degli animali, nelle faccende
domestiche. Abbiamo lasciato
una parte del nostro cuore a chi
ha bisogno di tenerezza e amore.
L’oriente, respirando i profumi
e l’atmosfera densa dell’India o
percorrendo le strade tortuose
del Vietnam, ci ha fatto
conoscere altri stili di vita,
rivelandoci l’essenza di culture
diverse. La cultura, che è
l’insieme delle manifestazioni
della vita materiale, sociale e
spirituale di un popolo, può
essere studiata in libri, ascoltata
in racconti o osservata nelle
scelte delle persone di fronte alla
loro esistenza.
Conoscere le culture di altri
popoli è un’esperienza che
arricchisce mente e spirito e
permette di comprendere le tante
possibilità di realizzazione di
ogni essere umano.

IL FIUME DELLA PURIFICAZIONE

Varanasi, nella regione dell’Uttar
Pradesh, sorge sulla riva del fiume
Gange ed è uno dei luoghi sacri
dell’India. È una città santa sia per
l’induismo sia per il buddismo: infatti
nella mitologia induista si ritiene
che la terra dove sorge la città sia
stata generata, nella notte dei tempi,
dagli dèi Shiva e Parvati; mentre a
10 chilometri da Varanasi, nel villaggio
di Saath, si recò il Budda,
dopo aver raggiunto l’«illuminazione
», per diffondere il suo messaggio.
Importante centro culturale da 2
mila anni, Varanasi è antichissima;
alcune sue descrizioni compaiono in
testimonianze buddiste e nel poema
epico induista Mahabharata, composto
tra il IV secolo a.C. e il IV secolo
d.C.
Varanasi era conosciuta in passato
con il nome di «Kashi», città della
luce spirituale (da kas, splendere).
In seguito fu chiamata Benares. Il
nome indù, Varanasi, si riferisce alla
posizione della città tra i fiumi Varana
e Assi. È dedicata a Shiva, dio
dalle infinite manifestazioni che, all’interno
della «trimurti» (Brahma,
Visnu e Shiva), crea e distrugge. Per
questo Shiva è considerato il dio della
morte.
Per gli induisti morire a Varanasi
è di enorme importanza, perché significa
congiungersi a Shiva e mettere
così fine al ciclo delle rinascite
o samsara. La morte è il passaggio ad
un’altra vita o la cessazione dell’esistenza
nel mondo; pertanto è «vissuta
» come un nuovo inizio e una
possibilità di evoluzione.
Ogni giorno a Varanasi giungono
centinaia di pellegrini per bagnarsi
nelle acque del Gange e purificarsi
dai loro peccati: bambini, donne e
uomini siedono sulle scalinate che
conducono al fiume, portando vestiti
da lavare, fiori da offrire; lasciano
che l’acqua invada ogni parte del
corpo e pregano in silenzio; stanno
insieme senza parlare, ognuno compreso
della sua pace interiore. Sui
volti si scorge un’espressione di serenità
e di consapevolezza dell’importanza
del momento.
Percorrendo il fiume con una barca
a remi, è possibile avvicinarsi alle
gradinate o ghat (ce ne sono 840).
Di solito si parte da Dasaswamedh
Ghat, il ghat principale. Qui, sotto
ombrelloni, i bramini siedono su un
tappetino con il necessario per celebrare
i rituali: fiori, riso, lumini e una
polvere rossa con cui tracciano
un segno di benedizione sulla fronte.
I sadhu (santoni) stanno accovacciati
in disparte: hanno una veste
colore zafferano, una lunga barba e,
spesso, il corpo è cosparso di cenere;
sono girovaghi e conducono una
vita austera; ma, per farsi fotografare,
allungano la mano e con lo sguardo
lasciano capire che l’offerta è doverosa.
Allorché, dalla riva opposta del
Gange, il sole inizia a sorgere e una
scia luminosa attraversa l’acqua, chi
è di spalle si volta e saluta l’astro nascente.
Il gesto commuove.
Lasciato il ghat principale e spostandosi
a destra si giunge ai buing
ghat, cioè i luoghi dove avvengono
le cremazioni dei cadaveri. Non è rispettoso
avvicinarsi troppo, ma si riconoscono
immediatamente per il
fumo e le cataste di legna. Ogni pira
ammassa 550 chili di legno, il cui
costo è abbastanza elevato.
La cremazione è il rito funebre induista
attraverso il quale il corpo ritorna
agli elementi di cui è composto.
Vengono in mente le parole di
una liturgia cattolica: «Ricordati che
sei polvere e polvere ritoerai».
Il rito è in parte sconcertante, perché
avviene a poche decine di metri
da un gruppo di ragazzini che giocano
tra una fila di panni stesi ad asciugare
e centinaia di persone che
compiono abluzioni: proprio come
se non ci fosse un confine tra vita e
morte, ma tutto appartenesse ad un
ciclo che continua a scorrere.
È altresì importante ricordare che
la composizione batteriologica dell’acqua
del Gange è stata studiata da
numerosi scienziati. È infatti difficile
accettare la «purezza» di un fiume
che ospita brandelli di cadaveri,
schiume di saponi ed escrementi di
vacche e bufali (anch’essi si lavano).
Ebbene, prelevando un campione
d’acqua per lasciarlo in un barattolo
chiuso, si è accertato che solo dopo
due anni nascono dei microrganismi
e il liquido incomincia a marcire.
La mattinata è trascorsa. Nel pomeriggio
la vita continua sulle
sponde del Gange. Dopo alcune ore
trascorse in questo luogo magico,
anche i venditori ambulanti sembrano
essersi stancati di offrire la loro
merce. «Bei colori con timbrini…
Ah, italiano! Bene, compra: colori
bellissimi…».
Mi domando come avrà fatto questo
ragazzo ad acquisire un accento
così spiccatamente romano. Ma il
turismo fa miracoli… Sono simpatici
questi venditori: sembrano più
appagati dall’intrattenere lo straniero
che dal fare affari.
Per il visitatore occidentale assistere
a scene di povertà crea un forte
senso di colpa. Si è abituati a pensare
che chi non possiede un paio di
scarpe o chi ha una maglietta logora
sia infelice. Personalmente ritengo
che chi sa vivere senza possedere
troppo conosce sicuramente la felicità.
Per noi, provenienti da una società
in cui l’economia detta legge, il
denaro è diventato indispensabile:
sarebbe impossibile immaginare una
vita senza soldi. Certamente il
denaro è una risorsa importante:
senza di esso non avrei potuto, per
esempio, compiere l’esperienza che
sto descrivendo. Ma la ricchezza interiore,
in occidente, non sembra essere
cresciuta in modo proporzionato
a quella esteriore.
Culture diverse, mi dico. Da un
lato, la cultura occidentale, che
ha rivolto attenzione ed energia, studio
e ricerca all’esterno e ha ottenuto
progresso, scienza, tecnologia, dimenticando
però i valori propri dell’umanesimo;
dall’altro, la cultura
orientale, che ha coltivato il sé interiore,
raggiungendo una profondità
spirituale… a scapito di impianti fognari,
tubature idrauliche, cure mediche
e alfabetizzazione.
Riconoscere le contraddizioni e
superarle in una visione d’insieme è
crescere. E sapere che ogni esistenza
ha un senso e un fine, perché appartiene
alla Vita ed è mossa dall’Energia
che tutto permea, significa diventare
consapevoli…
Varanasi mi ha accolta, chiedendomi
di restare in ascolto. Qualcosa
è accaduto dentro di me ed io continuo
ad ascoltare, in silenzio.

UNA BAMBINA DIVENTTA DEA

I monti innevati e l’aria pungente
ricordano che il Nepal è, soprattutto,
l’Himalaya. I volti delle persone
hanno segni indiani, ma gli occhi
allungati guardano ad… oriente.
AKatmandu, capitale del paese,
arriviamo con cinque ore di ritardo
e il dubbio che un importante appuntamento
sia stato annullato. Ma
la guida contattata che ci aspetta all’aeroporto
ci rassicura: «Sì, visiteremo
anche la Kumari, sebbene l’incontro
fosse stato fissato per la mattina».
La Kumari è una bambina dea. È
ritenuta la reincarnazione della
dea Durga, una delle manifestazioni
di Devi o Parvati, così come di
Kali. Durga e Kali impersonano
la forza distruttrice della divinità;
Durga viene spesso raffigurata
a cavallo di una tigre o un
leone che sconfigge i demoni;
rappresenta la potenza dell’energia
femminile.
Esistono delle leggende sulla
nascita della Kumari e sul perché
una bimba sia onorata quale
dea durante la sua infanzia.
La tradizione risale, con probabilità,
all’epoca di Jaya Prakash
Malla, l’ultimo sovrano della
stirpe Malla, il cui regno finì nel
1768. Però non ci sono certezze.
Ciò rende ancora più inspiegabile
e misteriosa la presenza
della dea bambina.
«Kumari si diventa», se una
bambina (anche di soli quattro
anni), candidata dalla famiglia,
ha un quadro astrale in armonia
con l’oroscopo del re del Nepal,
possiede 32 requisiti fisici (dal
colore degli occhi alla perfezione
della pelle, senza nei e cicatrici)
e se supera una prova. Ovvero:
si porta la bimba in una stanza
buia, dove sono stati sgozzati
degli animali e alcuni uomini, camuffati
con teste di animali e ossa,
cercano di spaventarla; se nella
bambina è presente Durga, essa
chiaramente non si spaventa.
La Kumari ha un ruolo religioso:
consacra il re durante una
cerimonia nel mese di settembre
e benedice chi si rivolge a lei
(ormai è diventata un importante
simbolo); per il resto delle giornate
vive in casa con la famiglia, lontana
dai giochi degli altri bambini.
Quando la bambina diventa donna
(con la comparsa delle mestruazioni),
se per un incidente perde del
sangue o se, mentre è portata sulla
portantina ad incontrare il re, cade
e tocca il suolo con i piedi, cessa di
essere Kumari… La vita di un’ex Kumari
è simile a quella di una ragazza
coetanea, ma con maggiori possibilità,
perché l’offerta a lei elargita è una
dote sostanziosa, da investire per
studiare o intraprendere un’attività
commerciale.
Una (dea vivente) indica che siamo
arrivati. La porta è stretta e il soffitto
dell’anticamera basso; tutto è
buio. Dopo esserci tolti scarpe e cinture
di cuoio, saliamo una scaletta a
pioli di legno e ci troviamo al secondo
piano in una stanza dipinta di azzurro,
dalle pareti tappezzate di foto
di ex Kumari e nuove Kumari.
In questo frangente vengo a sapere
che di Kumari ne esistono attualmente
tre: una a Katmandu (la
Kumari Royal, la più importante,
impossibile da incontrare se non si
è induisti o buddisti), una a Bhaktapur
e una a Patan.
Noi siamo a Patan, in presenza di
una bambina di sette anni, vestita da
principessa e dallo sguardo immobile.
Seduta su una specie di trono,
la Kumari non parla; la madre e la
nostra guida rispondono e traducono
eventuali domande.
Chiedo se, tra le mura domestiche,
la bambina viene chiamata
con il suo nome o Kumari; mi rispondono:
«Kumari!». Chiedo
quale consapevolezza ha la
bambina di essere una dea, e la
risposta è che la consapevolezza
nasce da ciò che gli altri vedono
in lei.
Non c’è niente da fare, penso. È
proprio una dea, e la osservo.
Poi mi guardo intorno meravigliata
di questo strano e unico
posto in cui sono capitata. Evidentemente
lei mi trova buffa,
perché, dopo istanti di silenzio,
un sorriso un po’ malizioso
compare sul suo viso imperturbabile.
«Ce l’ho fatta!» mi dico!
Almeno è dimostrato che è viva!
Prima di andarcene, la Kumari
accetta di benedirci: uno alla volta
ci inginocchiamo; con un gesto
veloce e sicuro applica sulla
nostra fronte una tintura grumosa
di colore rosso e depone
sulle nostre mani fiori e riso
spruzzati d’acqua, che poi riprende
e pone in un piattino di
ferro.
Facciamo l’offerta, grati per la
benedizione, oltre che per l’esperienza:
infatti pare che la Kumari
possa rifiutarsi di benedire
e che ciò comporti gravi disgrazie.
Per questo motivo l’ultimo
discendente della stirpe dei Malla
perse il trono e la vita.

TRIBÙ DI MONTAGNA
Una canna di bambù che sorregge
una ciotola di riso: così i vietnamiti
descrivono la forma del perimetro
della loro terra… Siamo, dunque,
in Vietnam.
Da Katmandu ad Hanoi, capitale
del paese, ci sono poche ore di volo.
Durante il viaggio cerco di immaginare
la prossima destinazione. Per
me pensare al Vietnam è ricordare
film di guerra, villaggi incendiati da
bombe al napalm e il coraggio di un
popolo. La guerra contro il dominio
della Francia a Dien Bien Phu
(1946-1954) e quella contro gli Stati
Uniti negli anni 1960-70 sono difficili
da dimenticare. Di tale passato
sono visibili gli elmetti verdi e le divise
militari che gli uomini ancora
indossano.
Della colonizzazione francese, allorché
il Vietnam si chiamava Indocina,
si trova traccia nell’architettura
delle case e nei caratteri dell’alfabeto.
Poiché la scrittura con ideogrammi
è stata sostituita dall’alfabeto latino,
è possibile leggere i cartelli lungo
le strade… e capisco che com pho
significa ristorante. Quando si leggono
queste due parole, è assicurata
una ciotola di riso o di noodle
(spaghetti orientali). I com pho sono
tanti: un’insegna ben visibile, qualche
tavolino e sempre qualcuno che
mangia.
Insieme agli involtini vegetariani,
e all’immancabile riso, ordino patatine
fritte (unica pietanza di provenienza
occidentale), ma senza maionese
o ketchup: ogni cibo si intinge
nel chili o in una salsa di soia utilizzando
bastoncini di legno… anche se
per gli stranieri più imbranati arriva
in soccorso una forchetta.
Da Hanoi imbocchiamo la statale
numero 6. Il primo tratto è
asfaltato, ad una corsia e a doppio
senso di circolazione. Mentre il paesaggio,
dalle dolci sfumature di verde
e i grandi specchi d’acqua delle
risaie in cui si riflette il cielo, è rilassante,
la strada è alquanto ingrata.
Dopo circa otto ore, siamo a Bac
Ha, con la sensazione di essere stati
velocemente «centrifugati» ad acqua
fredda! Infatti la temperatura è scesa
notevolmente e fa freddo; ma le
stelle sono così tante e splendenti
che ci riscaldano occhi e cuore.
Abbiamo deciso di invertire l’itinerario
abituale: siamo partiti per il
nord per scendere verso ovest, perché
a Bac Ha, prima tappa, si tiene
alla domenica un mercato che riunisce
numerosi abitanti della zona.
Non vogliamo perderlo.
Dalle montagne scende la gente,
chiamata montagnard dai francesi;
ha vestiti coloratissimi e porta in gerle
di bambù cibo, oggetti e animali
domestici da vendere.
Il mercato prende vita al mattino
presto. Ognuno dispone la sua mercanzia;
gli animali vengono radunati
in un’area a parte; al centro, sotto
un porticato, si imbandisce un banchetto
a base di carne, sanguinaccio,
da fumare collettivamente e da aspirare
poco, per non tossire troppo!
Nessuno parla inglese o francese,
ma con gesti è possibile comunicare
e contrattare il prezzo di ogni merce.
Le tribù del Vietnam nordoccidentale
sono in maggioranza di
origine cinese; hanno subìto diverse
persecuzioni e, durante il dominio
francese, furono espropriate del loro
territorio.
Un tempo gli abitanti erano seminomadi,
con un’agricoltura che si
avvaleva di terreni montagnosi disboscati,
bruciati e coltivati per un
breve periodo; poi lo stato ha cercato
di convincerli a scendere verso le
pianure e a praticare un’attività sedentaria.
Oggi la popolazione vive isolata
e coltiva la terra, tenendo per
sé la parte del raccolto necessaria al
sostentamento; il resto è proprietà
dello stato; alleva animali, costruisce
case, fabbrica utensili e confeziona i
capi di abbigliamento che indossa.
I vietnamiti considerano «selvaggi
» i tribali, perché alle città preferiscono
le montagne, lontani dalla civilizzazione…
I tribali sono semplici,
schivi, riservati, avvolti in abiti
sapientemente intessuti e decorati;
custodiscono e si tramandano le tradizioni.
Nei loro villaggi sembra che
il tempo si sia fermato. Ma ecco il ritratto
di Ho Chi Minh (l’anima della
lotta contro gli Stati Uniti) o la foto
sbiadita di un parente scomparso
in guerra: ricordano che anche le
tribù hanno partecipato alla storia
del Vietnam.
Il vietnamita è laborioso, pragmatico,
guarda al futuro con speranza;
è ricco di sole e acqua, di foreste
e montagne coltivate come mosaici
dalle morbide geometrie. È un contadino
nascosto da un cono d’ombra…
Il Vietnam è pure il cimitero di
Dien Bien Phu, con 2 mila lapidi
senza nome. È un popolo che, nei
grandi conflitti che agitano
il mondo, rimane al
centro della vita.

La reincarnazione, sebbene esistano varie interpretazioni, è il ciclo di esistenze
attraverso il quale si manifesta l’energia cosmica cui ogni essere è
sottoposto per poter tornare alla fonte originaria.
Il karma (legge di causa ed effetto) è il principio che guida il ciclo delle
reincarnazioni; in base a come un essere si è comportato nella sua esistenza,
si reincarnerà in una forma o in un’altra nella vita successiva. Strettamente
connesso al karma, perché da questa legge è determinato, è il sistema
castale. Quattro le caste in cui si divide la società indiana. Ancora
oggi alcuni divieti che il sistema in caste impone, come il matrimonio tra
uomo e donna di caste diverse, sono ritenuti immodificabili, come una legge
di natura.
Il dharma è la legge del dovere, il dovere di ogni essere di accettare, agire
e compiere il proprio destino per poter evolvere spiritualmente.
Questi concetti non appartengono ad un sapere filosofico speculativo,
ma sono linee guida per la condotta quotidiana.

Alessandra Bocchi