La mia «terza età», provata a volte da tante fatiche,
mi obbliga a fermarmi. Avendo però conosciuto
voi, cari amici, sono spinto a continuare a lavorare insieme:
Dio, voi, io e i poveri, che ci sono affidati per
constatare che è sempre possibile crescere, liberare, amare.
Crescere nei valori cristiani portandoli in ogni
angolo della terra; liberare gli oppressi dall’odio, dalle
ingiustizie, dall’egoismo dilagante di oggi; amare col
cuore di Dio, che predilige gli ultimi della terra dando
a noi il privilegio di essere le sue mani.
Se viviamo nell’incertezza del futuro e nella paura, abbandoniamoci
a Dio che ci ha pensati fin dall’eternità.
È vero che viviamo in un tempo molto duro; ma è «il
nostro tempo». Abbiamo solo questo da vivere. Il segreto
consiste nell’agire per il bene comune.
Ieri sera sono andato a letto tardi (come al solito),
per finire il lavoro d’ufficio e la corrispondenza.
Pensavo alle vacanze che passerò tra voi. Pensavo alla
messa che celebrerò sulla tomba di mio fratello Piero
nell’anniversario della morte. Riflettevo sulle sue ultime
parole: «Il Signore continua a chiedere: “Chi manderò?”.
“Eccomi, Signore, manda me!”».
Ripensavo a mia madre Palmina: dagli occhi azzurri,
meravigliosa, quasi analfabeta. Durante la guerra faceva
le notti al telaio per preparare lenzuola ai suoi nove
figli. L’ho rivista in sogno. Era nell’orto della vecchia
casa, dove siamo nati tutti.
– Che fai, mamma?
– Sto innaffiando un seme molto raro. Nella nostra parentela
è da molti anni che porta frutto.
– E che cos’è?
– È il seme della vocazione. Non vorrei che finisse con
don Guido, don Mario, don Stefano, don Mariano e con
te, padre Renato, l’ultimo missionario dei Saudelli.
Se vogliamo vedere una nuova fioritura di vocazioni
nell’orto della chiesa, dobbiamo rimettere in uso il
vecchio concime della… povertà, castità e obbedienza.
Funziona ancora. Basta guardare il «campo» di Madre
Teresa come continua a fruttificare.
In Etiopia mi consola che, fra i tanti chierichetti (alcuni
musulmani), uno mi abbia dichiarato in segreto:
«Abba, voglio farmi missionario della Consolata come
te». Ogni sera, prima di andare a letto, viene a pregare
con me.
Sono in Etiopia da 19 anni, durante i quali sono venuti
ad aiutarmi tanti giovani; ma solo uno è in seminario
a Roma, per rispondere alla vocazione missionaria. Mi
incoraggia, tuttavia, il fatto che tutti gli altri siano stati
«scossi» e intendano dare un nuovo senso alla loro vita.
Me lo confermano le loro lettere.
Un giovane, andato pure in India e Cina, mi scrive:
«Ho capito che la povertà materiale è nulla a confronto
di quella umana, interiore. Ho visto gente vivere
sotto un ombrello, ed era felice, con una dignità commovente.
Ora vedo persone che possiedono castelli e
si impiccano, perché non riescono più a dormire».
Una ragazza da Londra mi dice: «La mia vita ha senso
solo se faccio qualcosa per gli altri, meno fortunati di
me. Ogni momento che vivo è prezioso e lo porto nel
cuore con tutti i suoi insegnamenti».
Un’altra dalla Svizzera: «È notte e sto per andare a
dormire; ma la nostalgia per l’Etiopia, le emozioni
provate in quei giorni indescrivibili sono così forti che
devo scriverle. Cerco di trasmettere ad altri tutto
quello che mi avete insegnato. Ogni giorno che passa
è un granellino di fede in più; la scintilla di tutto, dopo
un periodo buio, è stata la missione in Etiopia»…
Dalla «città dei ragazzi» (tutti bisognosi) di Asella dove
lavoro, a tutti un saluto riconoscente ed affettuoso.
padre Renato Saudelli