Porto Alegre (Brasile). «Vorrei ricordare l’insegnamento
di un grande pensatore dell’antichità: se
vuoi la pace nel mondo, devi prima metterla nelle
tue idee; perché la pace sia nelle tue idee, deve esserci
pace nella tua famiglia; perché la pace sia nella tua famiglia,
ci deve essere pace nel tuo cuore».
Adolfo Perez Esquivel, argentino, premio Nobel per la
pace nel 1980, parla in una sala affollatissima al Forum
mondiale di Porto Alegre. Al termine, il professore, nato
a Buenos Aires nel 1931, si intrattiene sul palco sottoponendosi sorridente a flash, taccuini e registratori.
Come descriverebbe la situazione dell’Argentina?
«Siamo un paese potenzialmente ricco che ha dilapidato
un patrimonio. Abbiamo un debito estero enorme, che
non possiamo pagare, e la relazione matematica che ne
viene fuori è: “più paghiamo, più dobbiamo pagare, meno
abbiamo”. Non siamo poveri, ma impoveriti.
Non è possibile che in un paese grande produttore di alimenti ci siano persone che muoiono di fame. Avevamo
raggiunto un alto livello di educazione, invece ora abbiamo
molti analfabeti. Il 25% della popolazione è disoccupata.
È stata distrutta l’industria nazionale, la nostra
capacità produttiva.
Questa è una violazione dei diritti umani, economici, sociali e culturali di tutto un popolo. Ma quello che succede ora in Argentina potrebbe succedere ovunque».
Questa crisi mette a rischio la democrazia?
«Il fatto è che in queste condizioni la democrazia non esiste.
Cosa significa democrazia? Votare? Dovrebbe significare
diritti e uguaglianza per tutti e partecipazione
sociale. Ma cosa può fare la gente quando c’è una fuga
di capitali che io definisco terroristica e un governo che
vuole sequestrare i risparmi del popolo?».
Qual è l’origine della crisi?
«L’origine di tutto è il modello neoliberista imposto dal
Fondo monetario internazionale (Fmi) e dalla Banca mondiale
(Bm)».
D’accordo. Ma come si spiega che il nuovo governo
argentino sia subito corso a Washington, per chiedere
aiuti a quegli stessi soggetti?
«È vero. Il governo da una parte ha imposto a noi argentini
il “corralito”, congelando i soldi del popolo, e dall’altra
è corso a chiedere prestiti a Washington.
E non sapete a quali condizioni! La condizione del governo
degli Stati Uniti e del Fmi per consegnare i fondi
(che speriamo non consegni) è che l’Argentina voti contro
Cuba nella Commissione Onu dei diritti umani a Ginevra
(aprile 2002) (1). Questo fatto è di una immoralità
totale, assoluta, inaccettabile. Ma c’è anche un’altra condizione,
perché questi signori non si accontentano: sono
molto esigenti.
La seconda condizione è che l’Argentina entri nell’“Accordo
di libero commercio delle Americhe” (Alca)».
Cosa comporterebbe questo passo?
«Entrare nell’Alca significa che verranno distrutti gli apparati
produttivi (o quello che ne resta) dei nostri paesi;
salteranno tutti gli accordi regionali, come il Mercosur,
il Patto Andino e quello dei Caraibi; e gli Stati Uniti avranno l’egemonia sull’America Latina.
Tutto questo spiega anche l’attuale rimilitarizzazione
del continente. Intanto,
truppe di Washington sono già presenti
in Colombia nel quadro del “Plan Colombia”,
con il concreto rischio di creare
un altro Vietnam».
Lei parla di cause estee al paese; ma
non ci sono anche responsabilità argentine?
«Certamente: nessuno può imporre alcunché
se non glielo si permette. Nel
paese c’è una corruzione assoluta. Per
questo gli argentini non credono più alla
classe politica.
I politici sono le persone che diedero i superpoteri
al ministro dell’economia Cavallo, quelli che
permisero le privatizzazioni, sia con il governo di Menem
sia con il governo di De La Rua. Ci sono lettere che io ho
mandato a De La Rua dove tutto questo è scritto in modo
molto chiaro; in particolare, nell’ultima gli dissi: “Lei
sta cospargendo il pavimento di benzina, alla prima occasione
s’incendia il paese”. Dopo un mese, avvenne proprio
questo».
Lei parla spesso di «terrorismo economico»…
«Quando la Fao segnala che oltre 35.600 persone muoiono
di fame nel mondo ogni giorno, questo è “terrorismo
economico”. L’11 settembre dell’anno scorso eravamo
con il governatore, qui a Porto Alegre, per lanciare il Forum.
Quel giorno si verificò l’attacco terrorista contro
New York e Washington. Quindi, il dato della Fao passò
completamente sotto silenzio sui mezzi di comunicazione
internazionale, perché tutti si concentrarono sugli attentati
negli Stati Uniti.
Io credo che la guerra abbia molti campi di battaglia e uno
di questi sono i popoli: cercano di neutralizzarci. Per
arrivare a questo ci sono molti modi: limitare o togliere
il diritto alla salute e all’educazione; utilizzare il ricatto
della disoccupazione. Questo capitalismo non riesce a
riformarsi per una semplice ragione: è nato senza cuore.
E senza cuore non si ha la capacità di amare».
Ha ancora un senso l’organizzazione delle Nazioni Unite?
«Credo che le Nazioni Unite siano state destituite dal potere
egemonico degli Stati Uniti, che hanno imposto le
loro condizioni. Si pensi che gli Usa non vogliono ratificare
il “Tribunale penale internazionale” (2); in compenso
hanno istituito tribunali militari per quelli che loro considerano
terroristi».
Allora, professore, un mondo in pace è un’utopia o una
possibilità reale?
«Io dico: sì, è possibile, nonostante tutte le difficoltà di
questi anni, nonostante la corsa agli armamenti, nonostante
la povertà. È possibile costruire un mondo in pace
se noi siamo disposti a renderlo possibile… Io cito
spesso gli studenti del ’68 in Francia. Essi dissero una
cosa che dobbiamo tenere presente: “Siamo realisti, vogliamo
l’impossibile”».
Ci dia qualche suggerimento più concreto…
«Dobbiamo sviluppare la creatività, il senso della vita, la
solidarietà e per questo dobbiamo unire le volontà: i popoli
vogliono la pace non la guerra, non vogliono le armi
ma costruire una vita più giusta per tutti.
Perché crediamo che non sia possibile? Siamo paralizzati
dalla paura e se abbiamo paura non possiamo conquistare
la pace. Perché crediamo che non sia possibile
affrontare la dittatura economica e finanziaria del Fondo
monetario e della Banca mondiale? Perché siamo paralizzati?
Voglio fare un esempio concreto: nella seduta del Tribunale
dei popoli abbiamo parlato del debito estero (un problema
che sembra destinato a perpetuarsi per l’eternità),
per cercare di comprendere il meccanismo di dominio internazionale.
Ebbene, sarebbe possibile superare il problema del debito
estero-eterno, ma noi ci sentiamo prigionieri, senza
volontà: ci hanno fatto credere che sia impossibile venie
fuori.
Invece, sarebbe possibile se i popoli di America Latina,
Africa e Asia avessero il coraggio di unirsi e di dire basta.
Se diciamo basta, non ci dobbiamo preoccupare noi;
si deve preoccupare la Banca mondiale e tutti i centri della
finanza internazionale».
Quella stessa finanza internazionale che in questo
momento sembra voglia lasciare l’Argentina al proprio
destino. Lei non teme un intervento militare, un
colpo di stato?
«No, non credo accadrà. Ma certamente noi dobbiamo
vigilare e lavorare per favorire una soluzione democratica
».
NOTE:
(1) Il riferimento è alla sessione annuale della Commissione Onu
per i diritti umani, riunita a Ginevra dal 18 marzo al 16 aprile.
(2) Il «Tribunale penale internazionale» delle Nazioni Unite è nato
a Roma il 17 luglio 1998. A 4 anni di distanza dall’approvazione
dello statuto, il trattato istitutivo è stato ratificato da 66
paesi. Sono assenti paesi importanti, tra cui Cina, Russia, Israele
e, appunto, gli Stati Uniti.
Paolo Moiola