LA MALEDIZIONE DEL DOLLARO


«Adesso non si capisce più niente: non c’è lavoro,
non ci sono medicine, non c’è cibo nel paese
che era il granaio del mondo».
Dal colloquio con la gente in fila davanti
alle odiate banche emerge la drammaticità
della situazione argentina. In tanti avevano
i loro risparmi nella valuta statunitense.
Ora si ritrovano (forse) dei «pesos».
A parte coloro che sono riusciti ad esportare
i capitali all’estero, per una somma complessiva
pari a 130 miliardi di dollari, quasi quanto
l’intero debito estero del paese.
C’è da stupirsi che gli argentini siano furiosi?

Buenos Aires. Avenida Rivadavia
sembra la via di una grande
metropoli occidentale:
marciapiedi affollati, insegne luminose,
boutiques, librerie e bar eleganti.
Eppure, a ben guardare, le
differenze ci sono e non sono poche.
Ad esempio, i cartelli «se alquila»
e «se vende» esposti sui balconi delle
case: non sono tanti, sono troppi.
La gente, strangolata dalla crisi, tenta
di vendere i propri appartamenti,
ma nessuno ha i soldi per comprare.
Le banche sono tantissime. Alcune
sono argentine, ma la gran parte
sono straniere: Banco de la Nacion
Argentina, Banco Galicia, Banco
Sudameris, Banco Francés, Banco
Rio, Boston Bank, Citibank, Banca
Hsbc, Banca Nazionale del Lavoro
e molte altre. Qualche anno fa arrivarono
qui in massa, attratte dai mirabolanti
guadagni promessi dal sistema
ultra-liberista messo in piedi
dal presidente Carlos Menem. Oggi
tutte le banche vorrebbero chiudere
i battenti e scappare dal paese.
Gli istituti di Avenida Rivadavia
sono stati più fortunati di quelli localizzati
in centro, non lontano da
Plaza de Mayo. Là le banche si sono
trasformate in fortini assediati, qui
la gente si è limitata ad imbrattare
qualche vetrata: «bancos ladrones»,
«maldidos bancos».
A poca distanza dalla Banca Nazionale
del Lavoro, si dipana una
lunga fila di persone. Copre largamente
l’angolo della via che sbocca
su Rivadavia e si allunga per molti
metri fino all’entrata del Banco Piano.
Stretto tra un negozio di scarpe
e uno di elettrodomestici, a due passi
da un McDonald’s, il Banco Piano
non è un vero istituto di credito,
ma una «casa di cambio». E, in
quanto tale, ha meno restrizioni di
una banca normale.

ITALIANI
Mi avvicino per fare qualche domanda.
«Cosa vuole che le racconti?
– mi dice una coppia di signori
immigrati da Genova -. Lo può vedere
con i suoi occhi quello che sta
succedendo. Qui ci sarà la coda per
tutto il giorno, fino alla chiusura. La
gente ha lavorato tutta la vita, ha
messo i risparmi in banca ed ora che
succede? Le banche non ti restituiscono
il denaro. Il tuo denaro!
A Genova abbiamo fratelli e sorelle,
ma non toeremo in Italia,
perché, grazie a Dio, nostro figlio ha
un lavoro e così la sua famiglia».
Nel giro di pochi minuti si avvicinano
altre persone; quasi tutte parlano
o intendono l’italiano e vogliono
dire la loro.
«Tutta l’Argentina ormai è un manicomio.
Non si capisce più niente:
non c’è lavoro, non ci sono medicine,
non c’è cibo nel paese che era il
granaio del mondo. E i poveri sono
sempre più poveri, oltre che in costante
crescita…».
Un signore di una certa età mi tira
per la maglietta e mi mette sotto
gli occhi la sua carta d’identità. Leg-
go: Francesco Costanzo, nato a Reggio
Calabria.
«Arrivai in Argentina nel 1948.
Ma ho ancora molti familiari in Italia;
in Calabria, ma anche a Volpiano,
in provincia di Torino, dove vivono
i miei due nipoti». Pensa di
tornare in Italia, signor Francesco?
«Non ha visto quanti anni ho? Ne
ho 80. Comunque vada, ormai starò
qui».
La voce di Francesco è ferma, ma
gli occhi tradiscono l’emozione.

IL GRANDE FURTO
«Sono qui – racconta l’anziano immigrato
– per vendere i pochi dollari
che mi sono rimasti. Debbo vendere
per pagare i debiti, ma anche
per mangiare. Nessuno ha fiducia
nella nostra moneta, ma dopo la
“pesificazione” dell’economia non
c’è altra soluzione per vivere».
Quanto ha influito la parità tra peso
e dollaro in vigore dal 1991 fino
all’inizio di quest’anno? «La convertibilità
doveva essere una misura
temporanea per salvarci dall’iperinflazione.
Una volta raggiunto lo scopo,
avrebbe dovuto sparire e il cambio
essere flessibile, con il dollaro libero
di fluttuare».
Pare che in poco tempo siano usciti
dal paese qualcosa come 130
miliardi di dollari, una somma quasi
pari al debito estero argentino. È
così?, chiedo a Francesco.
«Già un anno fa, fiutando il crollo
del sistema, le imprese locali, le
multinazionali, i politici hanno iniziato
a portare all’estero i loro depositi
bancari. Altre somme rilevantissime
sono state prestate dalle banche
ad uno stato che si sapeva a rischio
insolvenza. A questo punto,
per evitare il crollo del sistema bancario,
il ministro Cavallo ha dovuto
instaurare il corralito, in base al quale
ogni correntista non può prelevare
il proprio denaro, se non in misura
minima».
E poi tutti i depositi in dollari sono
stati trasformati in pesos… «Ovvio,
i dollari sono oramai tutti fuori
dal paese. Tutta questa vicenda è un
grande furto ai danni del popolo argentino,
prima da parte del governo
e poi delle banche». Senza dimenticare
il Fondo monetario internazionale…
«Sì, ovviamente. Ma l’Fmi fa il suo
lavoro. Lui dice: io ti do i soldi a
queste condizioni. Chi è il Fondo
monetario? Gli stati più industrializzati,
che non ti danno mai nulla
per nulla».

ALLA RICERCA DI «UN» FUTURO
In Italia si fa un gran parlare
dei movimenti popolari dell’Argentina:
prima i piqueteros,
poi i cacerolazos.
Insomma, sembra che la
sventura abbia molto unito
la gente. Francesco, è d’accordo?
«No, non lo sono. Fino a poco
tempo fa, ognuno pensava soltanto
a se stesso e non si preoccupava degli
altri. Adesso inizia la solidarietà,
perché la crisi sta colpendo tutti i ceti
e non soltanto quelli più bassi.
Se il popolo fosse stato intelligente, i governi non avrebbero potuto
approfittae. E invece, finché c’era
da mangiare, nessuno si è interessato
della situazione. E i signori deputati,
senatori, presidenti hanno potuto
governare per i loro interessi».
La chiesa argentina che cosa fa?
«La chiesa sta cercando delle soluzioni
attraverso la cosiddetta “mesa
di dialogo”. Ma non si conclude nulla,
perché tutti si limitano a chiedere
sussidi. Come si fa a dare sussidi
se nel paese non c’è più niente! L’unica
soluzione per uscire dalla crisi
sarebbe di ridare agli argentini il lavoro
». Altrimenti la gente cerca di
abbandonare il paese…
«Se potessero – conferma Francesco
-, in tanti scapperebbero. Io sono
tornato due volte in Italia, nel
1986 e nel 1994. L’ho trovata molto
cambiata rispetto al 1948, anche se
il paese non ha le risorse naturali
dell’Argentina. Qui siamo appena in
36 milioni, ma per l’estensione potremmo
essere in 150. Eppure siamo
ridotti in miseria. Il perché si dovrebbe
chiedere ai nostri politici,
che sono… Ma lasciamo perdere; è
inutile dire cose che tutti sanno».
Ottant’anni, ma quanta grinta ha
ancora in serbo quest’uomo! Ancora
una domanda, Francesco: come
vede il futuro dell’Argentina?
«Ma quale futuro? Adesso non c’è
futuro in questo paese. Con il 25%
di disoccupazione e le fabbriche che
non ci sono più, che futuro può esistere?
Un paese che non produce e
non ha commercio, che cosa può fare?
Prova a domandare a questo ragazzo
che futuro ha…».
«È vero – risponde subito il giovane
interpellato -: qui nessuno può avere
un futuro e la gioventù meno
ancora. Hanno venduto tutto».
Sei uno studente?, chiedo. «No, in
questo momento lavoro, ma non so
per quanto tempo. Sono venuto a
sostituire mia nonna nella fila». Il
tuo nome? «Adrian».
Grazie Francesco, buona fortuna
Adrian.

«PATACONES»
Lascio la fila davanti al Banco Piano
e, a piedi, mi incammino lungo
Avenida Rivadavia.
C’è molta gente e si muove in fretta,
proprio come avviene nella maggior
parte delle città occidentali. Ma
poi le difficoltà del presente tornano
a manifestarsi. Come in quegli
avvisi appiccicati sulle vetrate dei
negozi: «Confianza en el pais: aceptamos
patacones».
Che sono i patacones? Il nome è
quasi onomatopeico ed evoca le patacche,
ovvero cose di nessun valore.
I patacones tecnicamente sono
dei «pagherò» emessi dalle tesorerie
delle province argentine; in pratica,
rappresentano la dimostrazione tangibile
del fallimento dello stato.
Come faceva quella famosa canzone?
«Non piangere Argentina…».

CACEROLA: è «la pentola da cucina»;
da cui il nome di «cacerolazo», manifestazione
di protesta popolare
durante la quale la gente si fa sentire
picchiando sulle pentole; ha avuto
un’eco internazionale con le
proteste del dicembre 2001
CORRALITO: letteralmente è «il recinto
»; il corralito bancario, introdotto
dal ministro Cavallo, limita
fortemente i prelievi bancari
da parte dei clienti, stimati in più
di 3 milioni; la misura, confermata
dal governo
Duhalde, mira ad evitare
il tracollo del sistema
finanziario
ESCHRACE: significa mettere
in piazza la storia di una persona
compromessa con la dittatura
militare, ma rimasta a
piede libero; sono varie le modalità
dell’eschrace: manifesti affissi
per le strade, assembramenti rumorosi
sotto la casa della persona,
ecc.
GATILLIO FÁCIL: letteralmente il «grilletto
facile» della polizia argentina,
mostrato anche durante le proteste
dello scorso dicembre (con
30 morti); nel 2001 hanno perso
la vita per spari «facili» delle forze
dell’ordine 220 persone
PATACONES: sono buoni cartacei emessi
dalle province argentine al
posto del denaro reale; attualmente
ci sono in circolazione 20
tipi di buoni (ciascuno con un proprio
nome), quasi uno per provincia
(sono 23 le province argentine)
PIQUETEROS: indica i disoccupati
che protestano con picchetti
che bloccano le
strade principali; il
movimento è
nato nel
1996, all’epoca delle privatizzazioni
del presidente Menem (*)
TRUEQUE: è una forma evoluta
di baratto; i «club di trueque
» (nodi) sono luoghi dove le
persone (produttrici e consumatrici
al medesimo tempo) si
scambiano beni e servizi senza utilizzare
il denaro (**)
VILLAS MISERIAS: così sono chiamate,
in Argentina, le baraccopoli alle
periferie delle città

(*) Dei «piqueteros» parleremo nella
puntata di luglio-agosto di questo reportage
dall’Argentina.

(**) Al «trueque» dedicheremo l’articolo
di settembre.

Paolo Moiola

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