«Sembra che in Terra Santa sia stata dichiarata guerra
alla pace! Ma la guerra nulla risolve, né servono
ritorsioni o rappresaglie…
Cristo impegna noi, suoi discepoli
a rimuovere ogni causa di odio e vendetta»
(Giovanni Paolo II, Pasqua 2002).
«Un tempo i cardinali si chiudevano in conclave e
non uscivano finché non avevano eletto il papa.
Facciamo la stesso con Arafat, Sharon e Bush:
che non escano senza aver sottoscritto prima
la pace» (Susan George, Missioni Consolata,
dicembre 2001).
«No, non siamo perfetti»
Gerusalemme, 28 settembre 2000:
Ariel Sharon sale sulla «spianata delle moschee» (per i palestinesi)
o sul «monte del tempio» (per gli israeliani).
È la goccia che fa traboccare il vaso, per l’ennesima volta.
Però «questa volta» non scatena solo l’«intifada» delle pietre,
ma attacchi terroristici a pioggia, con autobombe e «kamikaze»,
ai quali l’esercito israeliano risponde con carri armati, assedi alle città, stragi.
Da ambo le parti le vittime sono troppe.
È dal 1948 che il «nodo israelo-palestinese» attende di essere sciolto…
Nell’ultima «tragedia annunciata» alcuni scrittori israeliani
ci sorprendono, positivamente, per la loro lucidità intellettuale.
a cura di Silvana Bottignole
Alcune voci rappresentative di
scrittori d’Israele hanno fatto
conoscere all’Italia una
letteratura rigogliosa e sorprendente.
Infatti, negli ultimi 10 anni, sono
state tradotte nella nostra lingua oltre
100 opere di una quarantina di
scrittori israeliani.
Come spiegare questa esplosione
creativa in Israele, un paese poco più
grande del Piemonte? E che cosa
raccontano gli scrittori? Come vivono
i drammi del passato e del presente,
pesanti macigni per il popolo
della «terra santa» e per tutta l’umanità?
A Torino gli autori Batya Gur, Etgar
Keret e Dorit Rabinyan, presentati
da Elena Loewenthal (esperta di
letteratura israeliana e editorialista di
«Tutto Libri» per La Stampa), ci
hanno resi partecipi degli ideali, dei
drammi e delle speranze del popolo
d’Israele, ispiratore dei loro racconti.
Loewenthal ha inquadrato il fenomeno
letterario d’Israele con alcune
magistrali pennellate, capaci di introdurci
in un paesaggio «dai toni
cangianti».
«La letteratura israeliana – ha affermato
Loewenthal – è una letteratura
militante accanto alla storia, che
critica anche la storia stessa. Da tanti
anni lavoro per amore di questa
letteratura. Nei primi tempi, allorché
proponevo agli editori italiani
opere israeliane, mi accorgevo che
per loro si trattava di un corpo alieno
che non destava nessun interesse,
se non uno sguardo sbigottito.
Adesso la letteratura israeliana è entrata
nel circuito dei lettori italiani in
tutta la sua varietà e i suoi colori cangianti».
«Vorrei evocare la strana nostalgia
che si prova quando si ascolta o si
legge di Israele: una nostalgia che
prende anche chi non c’è mai stato,
come pure chi è già lì. Rapporto strano,
che forse deve qualcosa a questa
lingua, dalla storia e dal cammino
lunghissimo, che provoca una sensazione
intraducibile, una nostalgia
allegra, vivace».
Perché Israele, così piccolo, abbia
una produzione letteraria così varia
e significativa è, per alcuni versi, un
mistero; e, come tutti i misteri, è utile
per porsi delle domande.
«Nella bibbia sta scritto: “Non ti
farai alcuna immagine – dice Dio all’uomo -”.
Questo comandamento
ha implicato moltissimo sul piano
della storia, della coscienza di sè e
del rapporto della cultura e lingua
ebraica con il mondo che ci circonda.
Come è noto, l’arte figurativa ha
avuto scarsa eco e produzione nel
mondo ebraico. Ritengo che la sua
comunicazione sia fatta esclusivamente
di parole. Come con il cielo si
comunica attraverso la parola (e non
con la contemplazione e il silenzio),
così l’ebraismo comunica da sempre
con il mondo attraverso le parole».
Le suggestioni, i simboli e i significati
dell’ambiente esterno vengono
manifestati e trovano spazio sulla pagina.
La letteratura israeliana rappresenta
un modello forte di rapporto
con il paesaggio; e la sua descrizione
avviene più attraverso le
parole che l’arte figurativa. La pittura
e la scultura stanno arrivando in
Israele; però la scrittura ha una tradizione
millenaria.
«Il gioco dei contrasti è una caratteristica
forte e una grande dote della
letteratura; ambientata in uno spazio
geografico ridotto, offre numerose
immagini geografiche. Si va
dalla vita in kibbutz
(con prati quasi all’inglese, che declinano
verso il Mediterraneo dalle
spiagge selvagge) al deserto lunare
ed impalpabile di Giudea e la depressione
del Mar Morto».
«Gli autori spaziano con le loro
descrizioni: si passa da un ambiente
rurale e quasi atavico, come quello
nei libri di Shalev, al mondo urbano,
suburbano e metropolitano in cui
nuota Etgar Keret; dalla periferia
delle città alla vita di provincia in
tante altre località, come quelle scelte
da Yehoshua per rappresentare
Haifa, che sente i vizi e le virtù della
città provinciale. Ci sono boschi, deserti,
mari. C’è una varietà di orizzonti
che fa sì che le culture diverse,
approdate in terra d’Israele, incontrino
quelle europee e quelle che
stanno emergendo.
Dorit Rabinyan, una delle scrittrici
più rappresentative, ci trasporta in
un Israele che proviene dall’ebraismo
orientale, ma inserito in un contesto
islamico o arabo».
«Questa letteratura – ha detto ancora
Loewenthal – ha la capacità di
dilatare il paesaggio e fae vivere
ogni sfumatura, offrendoci orizzonti
geografici e dell’anima estremamente
ampi».
GUR: «LA MIA PATRIA
NEL BENE E NEL MALE»
Nata a Tel Aviv
nel 1947, Batya
Gur ha pubblicato
il suo primo romanzo
poliziesco
a 39 anni e non
ama che i suoi
scritti siano definiti
«di evasione». Gur abbraccia le teorie del poeta
W.H. Holden, che dichiara: «Le
persone leggono romanzi polizieschi
non tanto per scoprire il “colpevole”,
ma per rafforzare il loro senso di
innocenza». Perciò «sappiamo che
il romanzo poliziesco è tipico delle
società coloniali con una mutua colpevolezza
nazionale».
La scrittrice israeliana con molta
franchezza dichiara: «Ho condotto
un’esistenza parallela a quella dello
stato d’Israele (creato nel 1948). Sono
nata e cresciuta quando fu fondato
e ho creduto nel suo “ben sperare”
per offrire un “giusto focolare”
agli ebrei. Non posso dire di
essere anti-sionista e non posso affermare
che sia stato tutto un grande
sbaglio o qualcosa del genere.
Israele è la mia patria nel bene e nel
male. Nella fase attuale sta più dalla
parte del male.
Quando parlo di colpa nazionale,
penso al fatto che si desiderava creare
un movimento socialista con ideali
di purezza per coltivare il suolo della
“terra santa”, e iniziare una società
giusta ed uguale. Questo è stato fatto
con così tanti peccati e così terribili
eventi che non ha permesso a
questa forma pura di vivere, a causa
della colpa nazionale.
Il mio romanzo poliziesco Omicidio
nel kibbutz, per esempio, è stato
ambientato in questa società chiusa
d’Israele per investigare su un delitto.
Il libro, scritto nel 1990-91, è
emerso inconsciamente dal desiderio di erigere un “monumento” ad
un fenomeno che si stava estinguendo
o distruggendo: il nuovo stato
d’Israele iniziava a diventare colonialista…
Penso che, se avessi scritto
il libro 10 anni prima, sarei stata
crocifissa nello stato d’Israele, perché
la società del kibbutz rappresentava
il 10% del paese ed era considerata
la parte migliore dell’ideologia:
rappresentava i grandi ideali
di uguaglianza, di parità tra i generi,
di giustizia. Tutto questo si è realizzato
nei kibbutz dagli anni ’50 sino
all’inizio degli anni ’90.
Non ho mai vissuto in un kibbutz,
ma non si può vivere in Israele senza
visitare e conoscere un kibbutz,
perché ha veramente riassunto tutti
i desideri e i grandi ideali che hanno
ispirato quella società chiusa. I nuovi
sviluppi nello stato d’Israele hanno
trasformato i kibbutz in una coice
senza contenuti.
Da quando il libro è stato scritto
ad oggi il kibbutz è in bancarotta. Da
un punto di vista ideologico si è trasformato
in un ente privato: si pagano
salari ai dipendenti, la gente nel
kibbutz può acquistare i propri appartamenti
e deve pagare il cibo nel
refettorio. Quando scrissi il libro si
era solo all’inizio di questo processo.
Ho, perciò, raccontato come i bambini
dormivano insieme, accuditi da
una governante, e come erano cresciuti
insieme, lontani dalle famiglie.
Ho cercato di raccontare come si
sentivano. Il libro è un confronto tra
la vecchia e la nuova generazione
della società dei kibbutz».
KERET: «LA PACE È BUONA,
LA GUERRA È…»
Anche Etgar Keret
è nato a Tel
Aviv nel 1967 (generazione
successiva
a Batya Gur).
Scrive per la televisione
israeliana
e lavora per la Tel
Aviv University
School of Film. Ci ha raccontato come
nascono i suoi racconti, a detta
dei critici, pervasi da «ironia corrosiva
». «Il tempo tra il risveglio
(quando ancora ci si deve lavare la
faccia) e la tazza di caffè è il periodo
in cui molte delle mie storie hanno
luogo. Momenti in cui uno si ritrova
tra l’essere una persona normale,
pronta ad andare al lavoro, ed un
pezzo di argilla che il Signore volle
trasformare senza molto successo in
un essere umano.
Le ragioni si trovano nel fatto che
il Dio degli ebrei non ha una forma
corporea, al contrario di Gesù che si
può vedere. Da questo discende tutta
una cultura astratta. Anche il sionismo
(2), conosciuto da bambino,
è stato per me un’ideologia astratta,
difficile da sentire: mi è sempre sembrata
piena di contraddizioni e di
grande ansietà per gli scampati dall’olocausto.
Tutti i nostri libri per ragazzi erano
pieni dei grandi eroi d’Israele; ce
n’era uno in particolare, Danet
Dean (parlo del 1950-60), che era
speciale. Era un personaggio eroico
che lottava sempre per la sopravvivenza
di Israele ed aiutava il suo paese,
spiando le nazioni arabe o salvando
bambini dall’essere rapiti. Ma
aveva una particolarità: era invisibile.
Credo non per caso. Per tantissimi
bambini israeliani come me, la figura
letteraria ideale è stato appunto
un personaggio invisibile:
nessuno sapeva com’era fatto.
Tanti della mia generazione si trovano
a far parte di una società che è
stata plasmata da un’ideologia; ma
tale ideologia ci è diventata invisibile,
come il personaggio a cui accennavo
prima. Per lo più la società
sembra fare riferimento al grosso
buco di una ciambella. A partire da
tale buco, noi cerchiamo di ricostruirci
un’identità e un futuro per
mezzo di strumenti di alta spiritualità
(come lo studio della bibbia) o
cose pratiche e pragmatiche (come
risolvere i problemi del Medio
Oriente).
Alcuni scrittori, come Dorit ed io,
cercano di ricostruire qualcosa del
nostro passato. Infatti siamo nati e
vissuti in una nazione che ha preso
la sua gente da paesi diversi e, ciò facendo,
ha sradicato le persone. I
nonni di Dorit sono immigrati dalla
Persia; i miei nonni sono immigrati
in Israele dalla Polonia dopo la seconda
guerra mondiale. Ciò ha comportato
uno sradicamento, oltre che
un trasferimento, un’immigrazione.
Dorit Rabynian in Spose persiane
racconta, con successo, una storia
che si svolge in un paese straniero,
ricollegandola attraverso le generazioni
femminili alla sua storia personale.
Io non ho altrettanto successo
nel tentare di ricostruire il mio passato,
ma penso di riuscire a raccontare
il presente. Nella Poetica di Aristotele
si legge che l’arte dovrebbe
imitare la vita così com’è. La vita è,
però, assai più complessa di qualsiasi
manifesto politico.
Anni fa scrissi un racconto (pubblicato
da un giornale), ambientato
nei territori occupati, che descriveva
lo scontro violentissimo tra un
soldato israeliano ed un palestinese.
Ricevetti moltissime lettere, in cui i
lettori mi accusavano delle cose più
varie ed estreme: uno mi ha accusato
di essere un estremista di sinistra,
affetto da una sindrome di odio verso
se stesso; un altro mi ha accusato
di essere un estremista di destra, un
fascista.
Ora il fatto che ci fosse questa diversità
di interpretazioni, per me, è
stato un complimento. Si può, perciò,
scrivere un racconto provando
empatia per un personaggio o per
un altro. Se in Israele facessimo così
nella vita di ogni giorno (cioè simpatizzare
e fare propria in parte la
causa dell’uno, ma anche dell’altro),
non saremmo arrivati al punto in cui
siamo. È stato scritto che l’arte ha
due ruoli: estraniare ciò che ci è familiare
e renderci familiari a ciò che
ci è estraneo.
Frasi ovvie come “la pace è buona,
la guerra è brutta e non bisogna
farla” sono slogan da scrivere sugli
adesivi che si appiccicano sui paraurti
delle auto. La verità è che ci
sono tante storie che si possono raccontare,
inviando al lettore un messaggio
altamente morale, sovente assai
più pragmatico di quello che è
contenuto in qualsiasi manifesto politico».
ETGAR KERET: Mi manca Kissinger
(Theoria 1997); il racconto La triste
storia della famiglia Nemalim in
«Nuovi narratori israeliani» (Theoria
1998); il racconto Paride e Venere,
in «Amori, raccontati dai più
grandi narratori israeliani» (Stampa
Alteativa 1999)
RABINYAN: «NOI
ISRAELIANI IMMIGRATI…»
Dorit Rabinyan,
nata nel 1972 a
Kfar Saba da una
famiglia emigrata
dall’Iran, vive a
Tel Aviv. Ha
scritto due romanzi,
un libro
di poesie e la sceneggiatura
di un
film per la televisione. Con il romanzo
Spose persiane, in cui rievoca
le sue radici iraniane, rivela una
forte empatia con il mondo arabo.
«Noi israeliani non abbiamo solo
un passato glorioso, ma anche un
presente terribile; lo dobbiamo affrontare
ogni volta che ci sediamo al
computer per scrivere le storie che
vengono dal nostro cuore. Le brutte
notizie, trasmesse ogni giorno dalla
radio e televisione israeliana, non
sono una gabbia, ma solo un momento
di quel male che viene fatto
da anni contro un altro popolo in cui
tutti quanti noi viviamo immersi.
Noi non siamo in una gabbia; ma il
senso di colpa continua a ferire chi,
come noi, non ha muscoli irrigiditi
della coscienza.
La nostra scrittura è veramente in
contrasto con quella della generazione
di Batya Gur e il messaggio inculcato
a quella generazione: il messaggio
sulla creazione dello stato di
Israele, che voleva essere il centro
verso cui far convergere gli immigrati
provenienti da tutto il mondo,
pretendendo però che si adeguassero
per essere degni di essere chiamati
israeliani.
Per me (e credo di interpretare il
pensiero di Keret) scrivere è cercare
di rifiutare la pretesa del sionismo
di creare una figura ideale di ebreo,
per restare invece noi stessi
per quanto possibile:
senza dover
per forza convergere e sentire di doverci
uniformare, ma restare la voce
di una minoranza che si esprime.
Non tutti devono per forza essere
israeliani perfetti per appartenere a
questo paese. Voglio anche pensare
che sia possibile per noi appartenere
ad Israele, pur restando noi stessi.
Siamo israeliani fatti in un modo
diverso, forse alternativo».
DORIT RABINYAN: Spose persiane
(Neri Pozza 2000)
Elena Loewenthal ha terminato
la presentazione degli
scrittori commentando:
«Tutti gli israeliani fanno parte di
uno sradicamento, eccetto Yehoshua,
che si sente una pianta e non
uno sradicato, perché appartiene alla
generazione del paese.
C’è pure la coscienza, più o
meno vasta, che lo sradicamento
è la condizione della
sopravvivenza. Ogni
israeliano sa che, se il
padre o il nonno o egli
stesso non fosse stato
sradicato (vuoi dalla Persia,
vuoi dalla Polonia, vuoi
dal resto del mondo), non esisterebbe
più. Questo senso di
essere dei sopravvissuti, anche
a due o tre generazioni di distanza
dagli eventi storici più diversi
(non mi riferisco soltanto
alla shoa/olocausto), è parte di un
comune destino ebraico, che è quello
di essere comunque tutti dei sopravvissuti.
Primo Levi ci ha raccontato quale
groviglio emerge, nella coscienza
di ciascuno di noi, quando si tenta
di esplorare il senso di essere dei
“sopravvissuti”. Tutto questo si riflette
nella letteratura israeliana, anche
a distanza, in forme e rifrazioni
estremamente varie con i risultati
che vediamo.
Non vorrei, però, che si creasse
nel lettore che si avvicina per la prima
volta alla letteratura israeliana un
equivoco: pensare che qualunque libro
proveniente da Israele non contenga
altro che la profonda lacerazione
della coscienza, dovuta al fatto
di vivere in un paese come questo.
Questa letteratura è grande, anche
a prescindere da quello che si è costretti
a vivere ogni giorno: entrare
magari in un supermercato e… non
uscie vivi, perché un kamikaze si
butta dentro ed ammazza numerose
persone.
La letteratura israeliana è (forse
anche per questo e a prescindere da
questo) una grande letteratura, ricca
di diversità e pluralismo. Non a
caso ho parlato di “paesaggi cangianti”,
di varietà di toni, di colori e
orizzonti che regalano alla letteratura
una varietà ed un impegno piuttosto
unici. Ci troviamo di fronte a
scrittori capaci di riflettere criticamente
sulla realtà che li circonda».
(1) Kibbutz: insediamento di un gruppo
israeliano con i beni in comune.
(2) Sionismo (da Sion): movimento politico-
culturale all’origine della nascita
del moderno stato di Israele. Antisionismo
e antisemitismo non coincidono.
NON COMBATEREMO PIÙ
QUESTA GUERRA
Noi, ufficiali e soldati di riserva della Forza di difesa di Israele,
siamo cresciuti con i principi del sionismo, del sacrificio e del
dono per il popolo di Israele; abbiamo sempre servito in prima linea
e siamo stati i primi a terminare qualsiasi missione, leggera o
pesante, per proteggere e rinforzare lo stato di Israele.
Noi, ufficiali e soldati di combattimento, abbiamo servito Israele
per tante settimane. Ogni anno, a scapito delle nostre vite, abbiamo
operato da riserve in tutti i territori palestinesi occupati e abbiamo
ricevuto ordini
che non hanno niente
a che vedere con la sicurezza
della nostra
nazione, ma mirano
solo a mantenere il
controllo sul popolo
palestinese.
Noi abbiamo visto
con i nostri occhi il
prezzo di sangue che
questa occupazione
esige da entrambe le
parti.
Noi sentiamo che gli
ordini ricevuti nei territori
palestinesi distruggano
ogni valore
assorbito crescendo
in questa nazione.
Ora noi sappiamo che
il prezzo, pagato all’occupazione,
è la
perdita di umanità da
parte della Forza di
difesa di Israele e la
corruzione dell’intera
società locale.
Noi sappiamo che i
territori occupati non
sono Israele e che gli
insediamenti sono destinati
ad essere evacuati.
Pertanto dichiariamo
che non combatteremo
più la
guerra degli insediamenti. Non dobbiamo continuare a combattere
al di là dei confini di Israele del 1967, con lo scopo di dominare,
espellere, affamare e umiliare un popolo intero.
Continueremo il servizio nella Forza di difesa di Israele in ogni
missione utile alla sua salvaguardia. Ma le occupazioni e oppressioni
non servono a questo scopo e noi non avremo più parte alcuna
in esse.
Dichiarazione del 16 marzo ’02, sottoscritta da 451 soldati (6-05-’02)
Testo (in ebraico e inglese) apparso sul sito
www.seruv.org.il
S. Bottignole Francesco Beardi D. Casali