SOMALILAND/ viaggio in un paese pacificato, ma non riconosciuto

UN POSTO SUL MAPPAMONDO

È uno dei
paesi che Bush definisce «stati canaglia», perché sospettato di proteggere
terroristi. In realtà, la Somalia è un paese in completa anarchia, in
balia dei «signori della guerra». Dal 1992, la parte nord si è separata
costituendo uno stato autonomo di nome «Somaliland», che ha deposto le
armi, ma che il mondo non riconosce. Questi sono gli appunti di viaggio di
un regista televisivo torinese, che su Somalia e Somaliland ha girato un
documentario.

 Il
piccolo Tupolev della Dallo Airlines atterra all’aeroporto di Berbera,
Somalia del nord, in pieno pomeriggio. Fa un caldo terribile: 50 gradi
Celsius, grado più, grado meno. Una voce amica cerca di confortarci: «La
depressione della Dancalia è una delle zone più calde della terra, ma non
vi preoccupate, domani vi sembrerà di essere nati qui». Ma dopo due giorni
di viaggio via Torino, Parigi, Gibuti, Berbera, nulla ha la capacità di
confortarci.

Sono in
compagnia dei tecnici Liborio L’abbate operatore e Antonio Venere fonico.
Ad accoglierci c’è Stefano Errico, cornoperante italiano in servizio
permanente effettivo. Quando si atterra su una striscia di asfalto
bollente in mezzo al deserto, carichi di bagagli, con la prospettiva di un
controllo doganale africano, sporchi, sudati e stanchi, ci si affida alla
«voce amica» come un neonato alla mamma.

Riesco a
guardarmi attorno, a rendermi conto che cavalletto, telecamera, cassa luci
e affini rispondono tutti all’appello. Davanti al Tupolev noto due
signori: bianchi, piuttosto in carne, biondi, con la pelle color aragosta,
pantaloni corti, ciabatte infradito e maglietta bianca sdrucita della
Dallo Airlines.

Stefano
incrocia il mio sguardo. «Chi sono?» chiedo. «I piloti» risponde. Poi
aggiunge: «Avete fatto bene a viaggiare di mattina. Il pomeriggio, in
genere, sono ubriachi». Ho voglia di andare a dormire.

Ci
troviamo in Somalia per girare un documentario sulla guerra in corso.
Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, e Davide Demichelis,
regista freelance, sono già stati un paio di volte a Mogadiscio. A me
tocca raccogliere materiali di contorno, un compito certamente più
agevole: la guerra è lontana da Berbera.

Abbiamo
preso alloggio in questa città, nel compound di Coopi (**), l’Ong italiana
che ci aiuterà nella nostra impresa. Esausto sul letto, condizionatore a
manetta, sfoglio il mio passaporto. L’ultimo timbro è ancora fresco e
recita: «Republic of Somaliland Visa Entry».

E qui vale
la pena spendere qualche parola di spiegazione. La Somalia è un paese che
da alcuni anni vive in una condizione di anarchia totale. Senza governo e
senza pace. Il nord del paese, già colonia britannica, nel maggio 1992 ha
unilateralmente dichiarato la propria indipendenza. Ed è nato il
Somaliland. Con tanto di capitale (Hargheisa), un presidente (Egal), un
parlamento, un esercito, una motorizzazione civile, una bandiera (rossa,
bianca e nera), una moneta (lo scellino).

Insomma,
ci troviamo nell’isola che non c’è; in una nazione che l’Onu non riconosce
e che sull’atlante non esiste. Il Somaliland, però, a differenza del resto
del paese è pacificato. Qui la guerra è un ricordo.

Anche
questa «stranezza africana» è da documentare. Insieme ai cooperanti
costruiamo un piano di lavorazione. Rimarremo in Somaliland due settimane
e ci muoveremo  tra Berbera, Hargheisa e Boroma, la terza città del paese.
Sempre scortati da Coopi. Quanto basta per portare a casa materiale
sufficiente a completare il nostro documentario.

Tutti sono
disponibili. Avremmo così visitato i progetti di Coopi. Giriamo in lungo e
in largo per il Somaliland, raccogliendo materiale sulla guerra ormai
conclusa.

A Berbera
la guerra ha lasciato segni profondi, soprattutto sulle persone. Anche
perché Berbera è il porto più importante del Somaliland, uno dei più
trafficati del Golfo di Aden. E la rivolta contro Siad Barre, all’inizio
degli anni novanta, è cominciata proprio nell’ «isola che non c’è». Il
generale Hersi Morgan ha messo a ferro e fuoco le città principali del
nord, nel tentativo di reprimere la rivolta. Oggi Morgan è un potente
signore della guerra. Vive nel sud. Qui lo ricordano come «il macellaio di
Hargheisa».


CORANO…
TERAPIA

A Berbera
c’è un manicomio. In inglese suona meglio: Mental Hospital. Lo gestisce la
cooperazione italiana, in collaborazione con una piccola, ma
efficientissima Ong locale.

Ma il
Mental Hospital non è solo un manicomio. Rappresenta la parabola di un
paese, racconta la storia di una guerra che ha sconvolto gli equilibri,
anche mentali, di una nazione.

«La
guerra, in fondo, è una follia. E quando la guerra finisce, spesso, rimane
solo la follia», ci spiega uno dei responsabili dell’Ong. I manuali di
psichiatria li definiscono «traumi da guerra». È la paura che cresce ogni
giorno di più. Che prima ti fa nascondere, poi scappare, poi ti gela e ti
rende incapace di reagire. Ti annienta il cervello. Colpa dei kalasnikov,
dei caccia che sfrecciavano sulla testa, delle razzie dei vincitori di
giornata e delle vendette degli sconfitti del giorno prima.

Il Mental
Hospital non è né bello, né accogliente, né adatto ad assolvere il suo
compito. È un luogo fetido, chiuso al mondo. Eppure ai nostri occhi sembra
un posto umano. «Facciamo quello che possiamo – raccontano -; l’emergenza
non è finita. Le priorità del paese sono altre. Noi cerchiamo di garantire
un minimo di assistenza e di pulizia».

Gli
inglesi nel 1944 trasformarono questa, che già era una prigione, in un
campo di concentramento per i soldati italiani.

«Per gli
standard occidentali questo posto può solo essere definito
“inconcepibile”- ci dicono i cooperanti di Coopi -. Invece questo è un
esempio, unico in Africa, di ospedale psichiatrico che si è aperto alla
comunità estea. I problemi sono enormi, ma la gente di Berbera si è
fatta carico, per come può e sa, di questi pazienti. Per quanto possa
sembrare assurdo, questo è un ospedale moderno».

Mentre
Liborio riprende questo carcere trasformato in manicomio, dietro di noi il
medico procede con le visite. Una visita assolutamente fuori del comune,
in perfetta sintonia con il luogo.

Avete mai
assistito ad una seduta di «coranoterapia»? Servono un imam (nella parte
del medico), un megafono (nella parte della siringa), un corano (nella
parte del medicinale) e un paziente (nella parte di sé stesso). La terapia
è semplicissima: trattasi della lettura di versetti del corano, sparati a
tutto volume nelle orecchie del paziente.

«Allah ha
il potere di liberare la mente, di scacciare il “gin”, lo spirito maligno
che, a volte, si impossessa degli uomini», ci spiega il «medico».

Antonio è
il più perplesso della troupe. Tutti e tre rivolgiamo all’unisono la
stessa domanda ai cooperanti: «Funziona?». «Non sarà ortodosso, ma i
risultati sono apprezzabili», è la risposta. L’Africa è, letteralmente,
incredibile.


L’EREDITÀ
DELLE MINE

I dintorni
di Berbera sono cosparsi da vecchie caserme e strutture militari
distrutte. Immagini preziose per il nostro documentario. Un pomeriggio
raggiungiamo una zona collinare, piuttosto distante dalla città. La
temperatura, come sempre, è soffocante. Ad accompagnarci, questa volta,
c’è solo l’autista, che non è per nulla entusiasta della «gita fuori
porta».

Il
pomeriggio somalo (a nord, a sud, a Mogadiscio o a Berbera) è dedicato
alla masticazione del chat, erba dagli effetti dopanti se ingurgitata in
dosi massicce. Al nostro autista tocca masticare chat non all’ombra di un
alberello, ma sul sedile della jeep.

Più
sconsolato che seccato (gli leggi in fronte «Ma perché i bianchi non
imparano una volta per tutte a godersi la vita?»), ci porta davanti a un
gruppo di caserme distrutte.

Con
Liborio e Antonio ci inoltriamo tra camerate scoperchiate, autoblindo
carbonizzate, elmetti forati da proiettili, ecc. Lavoriamo un’oretta sotto
il sole bollente. Esausto, chiamo l’autista. Un cenno con la mano, poi un
urlo, poi un altro urlo. Infine un cenno di risposta: «Non posso venire».
«Perché?» chiedo con un tono un po’ deciso. «Perché siete su un campo
minato». Anche se lontano, credo abbia notato il nostro repentino pallore.

«Non vi
preoccupate, credo ci siano solo mine anticarro». Non vi preoccupate?
Bombe anticarro? E se avessero, per errore, seminato anche qualche bella
italica mina antiuomo? In punta di piedi, tipo gatto Silvestro mentre si
avvicina furtivo a Titti, torniamo sui nostri passi fino alla jeep.

Rivolgendo
poi un sentito pensiero di ringraziamento all’Altissimo, sentenziamo:
«Domani pomeriggio si esce solo dopo che l’autista avrà serenamente finito
di masticare il suo cespuglio di chat. Ne avrà ben diritto no?». E
soprattutto impariamo anche noi bianchi a goderci un po’ la vita! L’Africa
è terra di uomini saggi.


SENZA GUERRA
C’È UN FUTURO

Durante
gli spostamenti (da Berbera ad Hargheisa e da Berbera a Boroma)
incontriamo paesaggi dall’asprezza incantevole. Cammelli, rovi, sabbia,
roccia, facoceri, capre, arbusti rattrappiti dal vento e dalla siccità. Un
habitat da brivido, all’apparenza ostile. Fermiamo la macchina, piazziamo
il cavalletto e iniziamo a girare. Tutto sembra immobile. Poi, una volta
che l’occhio si abitua alla luce quasi bianca e ai riflessi del calore,
scopri che quel deserto ostile brulica di vita: capanne, pastori, piccoli
villaggi. Scesi dalla macchina ci sentiamo soli, ma non lo siamo. Però il
silenzio è assoluto. Interrotto solo dalle folate di vento caldo.

Ad
Hargheisa cerchiamo di intervistare il presidente Egal o, in sub- ordine,
qualche suo ministro.

Tutto
inutile. Dopo varie telefonate, lettere e messaggi, ci dirottano su un
sottosegretario ai progetti di sviluppo. 

È un
incontro cordiale, breve, tra un regista curioso e un funzionario di
governo orgoglioso del suo paese. Un ufficio piccolo e disadorno. Un
computer impolverato e spento. Una scrivania di fòrmica trovata in chissà
quale cantina. Tende gialle bisognose di una rinfrescata. Il solito caldo
insopportabile. Il funzionario, alto e magro, vestito in completo cachi.
Si tratta di un cinquantenne con un sorriso cordiale e sdentato.

Sembra
stupito del mio stupore. «Il Somaliland non esiste» è la mia obiezione.
«Io, invece, mi aspetto che i fratelli somali seguano il nostro esempio» è
la sua risposta. «Ma l’Onu non vi riconosce», incalzo. «Ma Coopi sì:
questo è ciò che conta». Come dargli torto?


Ricapitoliamo. La Somalia occupa buona parte del Coo d’Africa, una delle
«pentole a pressione» del pianeta. La Somalia non ha un governo
riconosciuto da tutte le fazioni in lotta dalla fine di Restore Hope. La
Somalia ha un seggio all’Onu. Il Somaliland ha dichiarato la propria
indipendenza. Lo ha fatto anche il Puntland. Lo faranno anche altri. C’è
da scommetterci.

Il
Somaliland, che non esiste «de jure», ha i suoi porti pieni di navi
container che arrivano dal Golfo, ma anche dall’Europa. Le Ong occidentali
riescono a promuovere progetti di cooperazione solo in questa fetta di
Somalia. Che, vale la pena di ricordarlo, è l’unica davvero pacificata.
Voci sempre più insistenti dicono che la British Airways, la compagnia di
bandiera inglese, presto inaugurerà un volo Londra-Hargheisa. A Mogadiscio
non volano nemmeno i colombi.


Annusando l’aria, i nostri commenti sono due: o siamo finiti in un covo di
pazzi, che prima o poi qualcuno da Mogadiscio spazzerà via, oppure qui
hanno scoperto la «via africana alla pacificazione». Certo è che il
Somaliland, giorno dopo giorno, ci appare da un lato più strano e
dall’altro più credibile.

A
Boroma, che rispetto a Berbera è a sud e beneficia di un clima
godibilissimo, incrociamo un ingegnere italiano, con un curriculum vitae
invidiabile. Ama il suo lavoro e l’Africa. Quindi ha deciso di fare per
qualche tempo il cornoperante.

«Sono
qui da qualche anno – dice -. Ogni giorno vedo aprire nuovi piccoli negozi
e ogni giorno aumentano i prodotti che in quei negozi vengono venduti. Ci
sono sempre più auto in circolazione. La gente si veste meglio, mangia
meglio. Sanno approfittare delle opportunità che arrivano dalla
cooperazione internazionale. E sai cosa significa tutto ciò?».

«No»,
rispondo. «Che il Somaliland è un paese che cresce rapidamente, che
migliora il livello di vita e di istruzione e che, un domani, se la
Somalia dovesse diventare una repubblica federale la classe dirigente
arriverà da qui, dal Somaliland».

In
effetti, mentre a Hargheisa i giovani studiano, a  Mogadiscio si arruolano
nelle milizie armate. E mentre gli ex miliziani del nord sono tornati a
lavorare la terra, quelli del sud non sanno nemmeno più come si tiene una
zappa.



TRA «CHAT» E «CLAN»

In
tutta questa storia, un piccolo capitolo a sé meritano il chat e il clan.

Il chat
è quell’erba tanto cara al nostro autista. È un prodotto eccitante di cui
gli uomini sono accaniti consumatori. Si consuma nell’arco di tutto il
pomeriggio, fino alla chiamata del muezzin, che arriva verso le cinque. Il
chat, se serve, fa passare la fame e fa combattere. Ti tiene sveglio e può
mandare l’adrenalina alle stelle. Il nostro autista, per fortuna, si
accontenta di sognare beatamente all’ombra di un albero.


Controllare il mercato del consumo del chat significa poter contare su una
quantità enorme di denaro. Denaro indispensabile, a sud, per mantenere le
milizie armate; a nord, più prosaicamente, per arricchirsi.

Il chat
arriva clandestinamente dal Kenya e dall’Etiopia. Dall’alba fino alle 11
tutti i mercati della Somalia vengono raggiunti dal chat.

Tutti
lo masticano, quasi tutti ne abusano. Costa caro: una mazzetta di erba
(per poco più di un giorno) vale alcuni dollari.

Il
bello è che il chat è formalmente illegale. Per riprendee la vendita al
mercato ci appelliamo ai buoni uffici di Coopi. Alla fine ce lo offrono
anche. Ovviamente il dovere dell’ospitalità ci impone di assaggiarlo. Non
è male…

Il clan
è la cellula su cui si fonda la società somala. Sia essa il Somaliland
indipendente o quel che resta della Somalia unita. Il clan è,
sostanzialmente, una grande famiglia allargata, ma che ha potere assoluto
nella zona in cui vive. Senza l’assenso del clan, nessuna decisione
governativa può sperare di essere attuata.

Il
parlamento del Somaliland, che in tutto conta meno di 2 milioni di
abitanti, è formato da 600 persone. Al di là del fatto che l’elezione dei
parlamentari avviene per cornoptazione da parte dei clan, ciò rende l’idea
di quanto sia diverso il concetto di «rappresentanza politica».

Gli
«elders», gli anziani, rappresentano all’interno del parlamento, l’intero
scacchiere dei clan presenti sul territorio. Poi nascono alleanze,
convergenze, programmi comuni, ma l’instabilità è sempre in agguato. A
tenere insieme il puzzle c’è Egal, il presidente, «il padre della patria»,
colui che ha dato fuoco alle polveri nella seconda metà degli anni
Ottanta, iniziando a incalzare Siad Barre fino a farlo cadere.



LABORATORIO

Il
Somaliland è uno spicchio di mondo sospeso tra realtà e finzione.
Sicuramente degno di essere «scoperto» dalle telecamere. Credo si possa
affermare che siamo in presenza di un «laboratorio», tanto più
significativo in quanto sorto in un contesto di caos politico-militare
assoluto.

La
scommessa in atto è di quelle da far tremare i polsi. Di fronte
all’anarchia, il Somaliland ha scelto di dotarsi di un governo, di
strutture e di darsi una prospettiva economica. A noi, visitatori
occasionali, questo coraggio è piaciuto. Il continente africano attraversa
una crisi che sembra senza fine. In quella fetta di Coo d’Africa si sono
cercate e, forse trovate, risposte a quella crisi.

 


(*) Sante Altizio, nato a Torino nel 1966, lavora come programmista e
regista presso la «Nova-T», società di produzioni televisive di Torino. È
specializzato in reportage su temi sociali, con particolare attenzione per
le realtà dei paesi del Terzo mondo.


Ha firmato lavori su Capo Verde, Etiopia, Guinea Bissau, Brasile,
Argentina, El Salvador, India, Russia.


Tra l’autunno 2000 e la fine del 2001 è stato insignito di vari
riconoscimenti: documentari da lui firmati sono stati premiati ad
«Anteprima Spazio» di Torino, al «Festival Internazionale del Cinema» di
Saleo, al «XXX Premio Guidarello» di Ravenna.

***

(**) Il
Coopi, «Cooperazione internazionale», è un’associazione italiana di
volontariato internazionale che opera dal 1965. Attualmente interviene in
36 paesi del Sud del mondo con 106 progetti. La sede centrale è a Milano.

 

 


Scheda
geo
politica

 SOMALIA,
SOMALILAND E PUNTLAND


 Situata nel Coo d’Africa, estremità orientale del continente nero, la
Somalia conta su una popolazione di circa 9 milioni di abitanti, di
religione islamica al 95%. Ex colonia italiana indipendente dal 1960. Un
colpo di stato, nel 1969, guidato dal generale Siad Barre, conduce il
paese in un vortice di guerre (contro l’Etiopia) e violenze (contro gli
oppositori) senza fine. Anche negli anni più bui del governo di Siad
Barre, l’appoggio politico, economico e militare italiano (in particolare
di Bettino Craxi) non viene mai meno.

Mentre
la popolazione soffre le conseguenze di siccità e carestia, nel 1991 Siad
Barre viene deposto. È l’anarchia che dilania il paese costringendo le
Nazioni Unite all’intervento (1992, operazione Restore Hope). L’emergenza
umanitaria viene superata, quella politica no. L’intervento Onu è un
fallimento militare, raccontato dal recente film di Ridley Scott «Black
Hawk Down».

Dal
1992 la Somalia è abbandonata a se stessa. Dilaniata dalla guerra civile,
lo stato non esiste più. La Somalia, di fatto, è una nazione fantasma,
dove il potere è in mano ai «signori della guerra», finanziati per lo più
da capitali arabi.

Negli
ultimi anni, nel nord del paese, due regioni (Somaliland e Puntland) hanno
dichiarato unilateralmente la propria indipendenza. Nel 2001 un consiglio
di anziani ha eletto, a Gibuti, un presidente della repubblica, Moahamed
Abdim Kassim. La sua autorità non è stata riconosciuta dai clan più
importanti. Mogadiscio, la capitale, è una città isolata dal resto del
mondo.

 

Una
serie di documentari della NOVA-T


Quelle guerre dimenticate


Democrazia in salsa somala


Produzione: NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti

Regia
di Sante Altizio (con la collaborazione

di
Davide Demichelis e Raffaele Masto)

Prezzo:
12,90 Euro

 

Le
radici degli scontri si perdono negli anni Sessanta e si allungano fino
alla crisi di metà degli anni Novanta.

Le
testimonianze di Giancarlo Marocchino (forse l’italiano più famoso di
Mogadiscio) e di Hersi Morgan, il «macellaio», rendono bene l’idea di cosa
significhi vivere nella più completa anarchia. Il chat, il clan, gli
eserciti privati. E poi ancora Restore Hope, le organizzazioni umanitarie.

Abbiamo
provato a ricostruire il puzzle somalo. E di aiutare lo spettatore (grazie
anche alla presenza in video del prof. Angelo Del Boca) a cogliere
l’unicità di un paese che esiste solo sulla carta geografica.


«Democrazia in salsa somala» racconta anche il Somaliland, regione
settentrionale della Somalia. Nel 1993 ha dichiarato unilateralmente la
propria indipendenza. Hanno eletto un presidente, commerciano, battono
moneta. Non fanno più la guerra. Nel silenzio della comunità
internazionale, che riconosce la Somalia (che non c’è), ma non il
Somaliland (che c’è).

 È
questo l’ultimo episodio della serie intitolata «Guerre dimenticate»,
dedicata a conflitti di cui nessuno parla. Paesi in cui da anni si
combattono alcune tra le guerre più assurde del pianeta: lotte tra poveri
per il predominio di una striscia di arido deserto o per la supremazia di
una etnia sull’altra. 


Democrazia in salsa somala

Produzione:
NOVA-T Torino

Durata:
25 minuti


Regia di Sante Altizio (con la collaborazione di Davide Demichelis e
Raffaele Masto)


Prezzo: 12,90 Euro


 


Saharawi, un muro nel deserto
– Per oltre 20 anni, il Sahara
occidentale è stato testimone della guerra tra l’esercito del Marocco e il
Fronte Polisario, organizzazione armata del popolo saharawi. Un muro di
2.000 chilometri è stato costruito dal Marocco, quale argine agli attacchi
del nemico.

 


Etiopia & Eritrea: vite di frontiera
– Erano paesi fratelli,
accomunati da usi e costumi simili. La guerra scoppia, improvvisamente,
nel 1998. Decine di migliaia di morti, profughi, feriti. Due economie, già
gracilissime, in

ginocchio.
Le ostilità dilagano per una contesa di territori che ha radici nella
storia coloniale: per brulle pietraie e deserti infuocati, senza valore
economico, senza una linea certa di confine.

 


Hutu-Tutsi. La guerra infinita
– Il Ruanda è un paese consumato da
lotte tribali. Quasi 1 milione di morti lasciati sul campo da hutu e
tutsi, le due etnie più rilevanti del paese. E la riconciliazione, a
distanza di anni, resta un traguardo lontano.

 

I
Nuba del Sudan
– Nel cuore del Sudan, nella regione dei monti Nuba, si
vive ancora secondo usi e costumi dell’Africa Nera. Dal 1983 la chiusura è
totale, a causa della violenta guerra che spacca il paese e oppone i
ribelli dell’«Esercito di liberazione» (Spla) al regime islamico, per
affermare l’autonomia del sud e dei monti Nuba.

 


Angola. La guerra invisibile
– Il conflitto, che da oltre 25 anni
insanguina questo grande e travagliato paese, di solito non appare. È una
guerra senza testimoni, combattuta in un territorio vastissimo, in
villaggi dispersi e isolati nella grande foresta pluviale che copre gran
parte del territorio. A scontrarsi sono i soldati governativi e i
guerriglieri dell’Unita, formazione nata dalla lotta per l’indipendenza,
che non ha mai accettato di integrarsi nel governo. Il conflitto non si
vede, ma se ne vedono gli effetti: fame, distruzione, fuga.

  


Per
informazioni su tutti i documentari, contattare:  «Libreria Missioni
Consolata», corso Ferrucci 12 ter,


Torino
– Tel. 011.44.76.695 – E-mail: libmisco@tin.it

 



I 20 anni della Nova-T

Due
decenni di reportage dal pianeta, sui problemi della globalizzazione, i
drammi del Terzo mondo, i temi dello spirito.

 di
Luca Rolandi


 Torino. Chilometri di nastro magnetico attraversano le frontiere sociali,
etniche, religiose e culturali per raccontare il mondo arabo, l’America
Latina, l’Africa, attraverso le parole e le esperienze di chi, in questi
paesi, vive e opera. Oltre 5.000 ore di girato in più di 80 paesi del
mondo. È questa la prima eredità di un progetto nato, quasi per caso, nel
1982, dall’intuizione di un cappuccino, padre Ottavio Fasano. NOVA-T
(Nuove Terre) da quell’anno fatidico di strada ne ha fatta moltissima. Nei
primi anni di vita ha lavorato molto nel mondo delle missioni per
raccontare quella parte dell’umanità dimenticata e afflitta da carestie,
guerre, povertà. NOVA-T ha realizzato documentari «senza frontiere», atti
a testimoniare l’attività di promozione sociale e umana svolta da
Organizzazioni non governative e da istituti religiosi impegnati nella
missione ad gentes.

La
società dei frati cappuccini della provincia di Torino all’inizio ha
lavorato molto nel Terzo mondo, poi negli anni ha spostato il suo raggio
d’azione anche nel settore educativo, catechistico, di promozione della
fede alla luce delle storie di santità, note e meno note. Le telecamere
della NOVA-T hanno filmato le vie della fede, della cultura, della guerra
e della pace, documentato le bellezze e le miserie del mondo, con un
occhio sempre attento all’uomo (i suoi bisogni, le sue pene, le sue
speranze).

Un
percorso che racconta grandi figure religiose: da San Francesco a papa
Giovanni Paolo II, dai santi sociali torinesi ai missionari martiri nelle
terre di frontiera. Tante finestre aperte sul mondo e realizzate con i più
modei strumenti tecnologici, audiovisivi e multimediali.

In
vent’anni di lavoro, faticoso e senza onori, vissuto con passione dai suoi
dipendenti, collaboratori, registi, amici, missionari, molte sono state le
collaborazioni di prestigio, realizzate con istituzioni civili e religiose
e con grandi protagonisti del mondo del cinema e del teatro.

Negli
anni Novanta, con il trasferimento nella suggestiva sede di Via Ferdinando
Bocca, in un ex convento e chiesa parrocchiale, all’inizio della salita
che porta alla basilica di Superga, la ricerca di nuovi stimoli e la
volontà di crescere professionalmente hanno portato NOVA-T a partecipare
alle principali rassegne del settore e a creare sinergie con distributori
e produttori di profilo internazionale. Prende il via la stagione
d’importanti collaborazioni.

Con la
serie «Popoli e Luoghi dell’Africa», nel 1996 NOVA-T trova in Superquark
della RAI il primo importante cliente nazionale televisivo: è l’inizio di
un interesse verso la società torinese, che culminerà con la co-produzione
NOVA-T e RAIGIUBILEO di «Padre Pio. Uomo di Dio», video ufficiale per la
beatificazione del frate di Pietrelcina.

Nel
1998, l’ostensione della Sindone a Torino, offre l’occasione di
realizzare, con l’Euphon, «L’Uomo dei dolori. La Sindone di Torino», video
ufficiale dell’evento. Nel 2000 escono due importanti co-produzioni:
«Conoscere la Sindone» (NOVA-T, Arcidiocesi di Torino ed Euphon) e
«Giovanni Paolo II. Quasi un’autobiografia» (NOVA-T, Centro Televisivo
Vaticano, Euphon).

Nel
2001 è la volta de «Una giornata al Concilio», rilettura critica e
divulgativa dell’evento che ha cambiato la chiesa, il Vaticano II,
realizzato in collaborazione con il Centro televisivo Vaticano e
l’Istituto Luce di Roma, del documentario «I fioretti di San Francesco».
Ed infine gli episodi della serie per la Tv «Guerre dimenticate», dedicata
a sei conflitti africani semisconosciuti ma, comunque, terribili.

E la
sfida di NOVA-T prosegue con l’arrivo di molti lavori tra i quali spiccano
i documentari sul beato Ignazio da Santhià (il cappuccino piemontese che
Giovanni Paolo II canonizzerà domenica 19 maggio 2002) e il film sul beato
Giuseppe Allamano, dove si racconta l’affascinante storia del fondatore
dei missionari/e della Consolata. Un uomo che non si mosse mai da Torino,
eppure abbracciò il mondo.

Sante Altizio

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